I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
16 Novembre 2000
Partendo dal presupposto che il diritto sia di fatto ATTIVITA’, PROCESSO GIURIDICO, e che per questo necessita di una valida giustificazione razionale, possiamo affermare che la filosofia del diritto è il diritto stesso.
Questa affermazione, agli occhi dei più, potrebbe apparire un po’ azzardata, per questo occorre spiegarla.
Se il diritto è fatto di atti giuridici, questi necessitano di una spiegazione razionale; è qui che subentra l’opera della filosofia, che appunto va a chiarire razionalmente le valutazioni e quindi gli atti giuridici.
Per essere più espliciti, possiamo servirci un sillogismo.
1)Il diritto è processo giuridico che implica una giustificazione razionale dei suoi atti;
2)La filosofia è giustificazione razionale delle valutazioni giuridiche;
3)La filosofia del diritto è il diritto stesso.
Quest’ultima affermazione è un po’ il punto focale di tutto il discorso filosofico che ci accingiamo ad affrontare in questo corso; per raggiungere il nostro obiettivo potremo servirci di due mezzi fondamentali:
1)LA LOGICA DEONTICA;
2)L’ONTOFENOMENOLOGIA GIURIDICA.
La logica deontica altro non è che la logica del linguaggio giuridico.
L’ontofenomenologia studia invece il rapporto il soggetto del diritto e il diritto medesimo. Infatti non esisterebbe diritto, se non vi fosse il suo soggetto.
E’ possibile pensare il diritto senza la giustizia? No, poiché la giustizia è trascendentale ( per usare un termine di paternità kantiana) alla regola giuridica ; dunque non si parlerebbe di regola giuridica se essa non fosse conforme all’idea di giustizia.
22 Novembre 2000
Possiamo dividere il corso di filosofia del diritto in due parti fondamentali:
Nell’ambito della metateoria tratteremo tutte le teorie che sono state sviluppate nel 1900, e che hanno come oggetto del loro filosofare il diritto.
Tutte queste teorie hanno in comune un’idea: ritengono che il diritto puro non possa essere accompagnato dalla giustizia .
Questa idea un po’ strana non è certo nata nel ‘900, ma ha le sue radici già ai tempi di Platone, il quale, nel libro 1^ della “Repubblica” , fa dire a Trasimaco, (esponente della Sofistica antica), che se si osservano gli organi della Repubblica, si può notare come il potere prevalga sulla giustizia.
Infatti Platone fa dire a Trasimaco: “ Giustizia non v’è..però non è che giustizia non v’è, la giustizia vi è solo come l’utile del più forte.”
Ora, il potere come espressione della sola forza ha una sua logica, logica che però non può essere giustificata in alcun modo.(come esempio, usa la favola di Fedro “Il lupo e l’agnello”).
Le dottrine del ‘900, nel momento in cui hanno escluso la giustizia dal diritto, lo hanno fatto con lo stesso criterio usato da Trasimaco.
Da una parte, infatti, sostengono che la giustizia non sia elemento connotativo del diritto, dall’altra ritengono che, posto che si possa parlare di giustizia, questa va considerata solo come frutto del potere. Dunque si può concludere che la giustizia in sé abbia solo un valore legale( concezione legalistica della giustizia).
Iniziamo il nostro viaggio attraverso la metateoria del diritto, partendo dal filosofo GERONIMO FRANK, esponente del realismo americano degli anni 30, la cui opera di maggior spicco è “Sul diritto e pensiero moderno”.
Frank sostiene che il solo motivo per cui si desidera sapere cosa è il diritto sta nel fatto che si desidera più che altro conoscere come vanno a finire le norme in seno ad un processo.
Egli stesso dice che la sorte che una norma conosce in un processo può essere parafrasata nella STORIA DEL PILORO. Il realismo di Frank si rivela qui in tutta la sua ironia: se il processo “sta sul piloro” (si tratta naturalmemente di un modus dicendi per indicare lo stato psicologico del giudice) al giudice, la norma sarà interpretata in un determinato modo.
E’ errato infatti, sempre per Frank (ma, come vedremo, questo pensiero si svilupperà anche in altri filosofi), ritenere che ciò che accade nei tribunali sia diritto; il diritto, infatti, è ben altro.
Restiamo ancora nell’ambito del realismo e citiamo un realista scandinavo, ALF ROSS , a cui sono attribuite opere come “Sul diritto e giustizia” del 1958, e “Direttive e norme” del 1968.
Ross sostiene che una norma è valida non tanto quando viene prodotta e introdotta nel codice, ma quando entra in azione, e cioè, quando diviene EFFETTIVA (non a caso la teoria di Ross viene chiamata TEORIA DELLA VALIDITA’ GIURIDICA E DELLA EFFETTIVITA’ DELLA NORMA).
Possiamo avere due ambiti di effettività:
Secondo le dottrine di Frank e Ross, è vero che prima c’è la norma e poi il fatto della sua applicazione (secondo il PRIUS, in senso cronologico), ma in realtà condizione necessaria dell’esistenza di una norma è il fatto, ossia il suo fondamento (questo secondo il PRIMUM, sempre in senso cronologico).
23 Novembre 2000
Un’altra teoria fondamentale per delineare la nozione di giuridicità è stata formulata da HANS KELSEN (DOTTRINA DELLA VALIDITA’ FORMALE).
L’opera più importante di Kelsen è “Dottrina pura del diritto” (la cui 1^edizione, con sottotitolo “Introduzione alle scienze politiche”, è uscita nel 1934; mentre la 2^ edizione conobbe la luce nel 1960. Quest’ultima ripete l’idea e la struttura della 1^ ediz., con l’unica differenza che è stata resa più consistente e sistematica.)
L’idea fondamentale della dottrina kelseniana è che LA VALIDITA’ DI UNA NORMA SIA L’ESISTENZA SPECIFICA DELLA STESSA.
Per essere più chiari, spieghiamo alla lettera ciò che abbiamo appena detto.
Una norma, per essere valida, innanzitutto deve ESISTERE; tuttavia, questo non basta, perché non si potrebbe parlare di norma giuridica se essa esistesse solo nelle nostre idee. La specificità dell’esistenza di una norma sta nel suo topos, e il topos di una norma è l’ordinamento giuridico.
Una norma esiste in un ordinamento giuridico in ragione di una atto di produzione giuridico, che deve necessariamente essere giustificato da una cosiddetta NORMA DI COMPETENZA, che, come è facile comprendere, dà competenza all’atto di produzione.
LA NORMA DI CONDOTTA (il cui atto di produzione la norma di competenza deve giustificare) non potrebbe esistere senza la norma di competenza; il che però non vale al contrario: infatti la norma di competenza è la condizione necessaria per l’esistenza della norma di condotta, ma non viceversa.
Questo implica una struttura a gradi dell’ordinamento giuridico.
Secondo la dottrina di Kelsen, una norma è valida in e per un ordinamento giuridico.
Ora, ad un’analisi superficiale, potrebbe sembrare che, per Kelsen, l’ordinamento giuridico sia un sistema aperto, infinito. In realtà, riflettendo bene, si può capire che è vero il contrario, ossia che l’ordinamento giuridico è un sistema finito.
Torniamo un attimo indietro; abbiamo detto che la norma a (di condotta) per essere valida presuppone l’esistenza della norma b (di competenza); a sua volta però la norma b (che si trasforma ora in n. di condotta) per essere valida necessita di una norma c (di competenza) e così via.
Questo porterebbe a un sistema gerarchico senza fine, se Kelsen non avesse pensato a porre, come punto di chiusura di questa gerarchia, una NORMA APICALE, valida non perché posta, ma perché PRESUPPOSTA (infatti, se la ponessimo, anche lei necessiterebbe di una norma di competenza).
Questa norma apicale ha una sua precisa denominazione: GRUND NORM.
La grund norm di Kelsen dice: “ Si deve obbedire alla Costituzione effettivamente statuita ed efficace” (cioè, si deve obbedire alle norma vigenti).
Come possiamo notare, la Grund Norm non dice nulla di concreto; se così non fosse, anche essa sarebbe posta e non presupposta.
L’ordinamento giuridico di Kelsen è caratterizzato dal dinamismo, dinamismo che nasce dal rapporto esistente fra norma fondamentale e norme subordinate.
Dal momento che ogni norma dice sempre qualcosa di nuovo rispetto alla rispettiva norma di competenza e alla Grund Norm, il sistema giuridico kelseniano è una concatenazione continua di atti di produzione giuridica.
A differenza di quelli giuridici, gli ordinamenti morali, sempre per Kelsen, sono statici, perché la norma fondamentale racchiude in sé i valori scritti in tutte le norme successive; vale a dire che dalla norme fondamentale alle altre norme non vi sono atti di produzione, ma solo esplicativi.
Un’altra teoria sulla validità di una norma è stata elaborata , nell’ambito della sociologia moderna, da LUHMANN e TEUBNER.
Due sono le opere più importanti di Luhmann: “Illuminismo sociologico” (1975) e “La differenziazione del diritto” (1981). In riferimento alla TEORIA SISTEMICA, Teubner scrive “Il diritto come sistema autopoietico ” (alla lettera “Del diritto come sistema autopoietico”).
L’indagine di Luhmann mira a conoscere i meccanismi che intervengono nei sistemi sociali (per Luhmann, il diritto è un sistema sociale) perché essi possano evitare la crisi di identità.
6 Dicembre 2000
In questa teoria giuridica, il primato è dato ai fatti più che alla norma.
Possiamo dividere, ai fini di un migliore chiarimento, il diritto in apparente e vero.
Il realismo giuridico, in quanto esprime il diritto vero, riconosce il primum al fatto; mentre il formalismo giuridico, che invece esprime il diritto apparente, così come ha detto Kelsen, riconosce il primato alla norma.
Tuttavia, va detto che la norma che detiene il primum, sempre per Kelsen, è la norma di competenza, la quale dice tutto su come le norme devono essere prodotte, ma nulla circa il contenuto delle stesse.
Da un concetto di validità formale, quale è quello kelseniano, passiamo alla teoria sistemica di Luhmann e Teibner.
Abbiamo già detto che, nelle loro teorie, L. e T. hanno cercato di analizzare quei meccanismi interni che i sistemi sociali (a loro volta ramificati in sottosistemi) sviluppano per evitare di incorrere in crisi di identità.
I meccanismi in questione sono 2:
Come fanno a convivere questi due meccanismi?
I sistemi giuridici mutano a seconda dell’ambiente in cui vivono; al loro interno vi sono poi dei meccanismi equifunzionali che ne permettono la differenziazione, dovuta al fatto che ogni sistema opera nel suo ambiente (PRINCIPIO DEI MECCANISMI EQUIFUNZIONALI).
Il risultato del 1^ meccanismo si avvicina molto alla teoria formalistica kelseniana, con la differenza che, mentre Kelsen nella formulazione della sua teoria è sempre rimasto sul piano puramente teorico, L. e T. ci sono giunti sperimentalmente, vale a dire analizzando concretamente la realtà.
Per Kelsen, la norma nel suo schema è sempre sanzionatoria. Pare però che non gli fosse ben chiaro il fatto che in un ordinamento vi sono anche norme cosiddette costitutive, che per natura non sono sanzionabili, in quanto non attendono alcun adempimento (vedi articolo 1 della Costituzione), e norme cosiddette permissive, per cui come è ovvio non si prevedono sanzioni.
Ignorando tutto ciò, Kelsen dice che una norma di condotta diventa di competenza nei confronti della sua norma sanzionatoria.
Se il diritto non si basa sulla giustizia, dove sarà possibile trovare il suo fondamento, se non nell’eticità?
Poniamo il caso di prendere come giustificazione delle norme il principio dell’adattabilità all’ambiente: la giustificazione che ne otterremo alfine sarà meramente sociologica, transeunte e certamente non universale.
Bisognerebbe, in realtà, ritenere esemplare il lavoro che Kant svolge nella “Metafisica dei costumi” alla ricerca di una giustificazione universale del diritto.
A conclusione della metateoria del diritto, tratteremo la TEORIA DECISIONISTICA DEL DIRITTO di C. Schmitt..
Secondo Schmitt, una norma è valida solo se viene emanata da chi detiene il potere. La sua teoria è riassumibile nella massima latina AUCTORITAS, NON VERITAS FACET LEGEM (alla lettera “L’autorità, non la verità, fa la legge”).
Schmitt si ricongiunge idealmente alla teoria di Trasimaco, cui facemmo cenno nella lezione del 22.11, per cui la giustizia è solo da intendersi come l’utile del più forte.
7 Dicembre 2000
Esaurito il discorso sulla metateoria del diritto, possiamo accingerci ad affrontare la vera e propria teoria del diritto.
Usando un’espressione di Husserl, opportunamente modificata, per teoria del diritto intendiamo l’andare verso il diritto stesso.
Gli ordinamenti normativi sono incompleti, in quanto presentano delle lacune che lasciano imprevisti molti casi della vita.
Ma, poiché di un ordinamento lacunoso non si saprebbe cosa fare, l’esigenza di completamento nasce dall’ordinamento stesso.
Per risolvere il problema della incompletezza, sono state fornite ben 2 soluzioni: da una parte, infatti, vi sono studiosi (come il Conte) che sostengono che gli ordinamenti sono incompleti solo apparentemente; dall’altro vi sono coloro che pensano che, posto anche che gli ordinamenti siano incompleti, offrono, al loro interno, dei metodi rigorosamente logici per ottenere dalle norme già esistenti un nuovo diritto per i casi non previsti.
Discutiamo la prima posizione, suffragata da 2 teorie cosiddette della negazione logica delle lacune.
Queste teorie prevedono nell’ordinamento una NORMA GENERALE DI CHIUSURA, con 2 varianti:
Analizziamo prima la norma generale di irrilevanza, secondo cui tutto ciò che non è previsto nell’ordinamento è irrilevante giuridicamente.
Bisogna dire, però, che quando noi pensiamo che un ordinamento sia incompleto, stiamo tenendo presenti dei casi rilevanti giuridicamente; non tutti i casi non previsti possono essere ritenuti irrilevanti giuridicamente.
Ne deduciamo che la prima variante non può essere presa in seria considerazione.
Mentre la 2^ variante, vale a dire la norma generale di libertà, dice che, se qualcosa non è previsto dall’ordinamento, vuol dire che è permesso. Questa è la tesi che sostiene Conte, autore dell’opera “Saggio sulla completezza degli ordinamenti normativi” del 1962. Ritenendo veritiera questa 2^ variante, potremmo affermare la completezza degli ordinamenti normativi, proprio come fa il Conte.
Tuttavia, muoveremo a questa tesi ben 5 critiche, che ce ne dimostreranno la incongruenza.
(1)- Consideriamo il nostro ordinamento italiano; noteremo che la norma generale di libertà è presente ed è rappresentata dall’articolo 1 del c.p. (NULLUM CRIMEN SINE LEGEM, ossia se un fatto non è previsto da una norma non è perseguibile); tuttavia, se facciamo riferimento al codice civile, sappiamo che in presenza di una lacuna normativa in riferimento ad un dato caso, esso sarà risolto facendo uso dell’analogia.
Per cui, visto che la norma generale di libertà è vigente esclusivamente in uno degli ordinamenti italiani e non in tutti, non è possibile che essa sia adottata come soluzione delle lacune normative.
(2)- Per quanto la norma generale di libertà possa valere in qualche modo sulla carta, nella prassi perde di valore; non è mai accaduto che un giudice considerasse lecito qualcosa solo perché esso non era previsto nella normativa vigente.
(3)- Se per lacuna intendessimo l’assenza di una norma che univocamente non prevede un preciso caso della vita, non si andrebbe mai in processo, perché le norme vengono costruite facendo riferimento ad una fattispecie e mai ad un particolare caso in maniera univoca.
Se il caso NON E’ CHIARAMENTE PREVISTO, non si va in processo, perché l’imputato potrebbe usare a sua difesa la mancanza di specificità della norma.
Se il caso, al contrario, E’ CHIARAMENTE PREVISTO, è evidente chi ha torto e chi ragione e non occorrerebbe andare in processo.
Se un caso E’ CHIARAMENTE NON PREVISTO, non si va in processo, perché, mancando la norma, si tratterebbe di un caso permesso.
(4)- La 4^ critica è di carattere culturale. Poniamo il caso che realmente tutto ciò che non è previsto è permesso, come si fa a stabilirlo se non si è a conoscenza di quanto si sta parlando? Razionalmente parlando, chiunque ha bisogno di sapere di cosa si parla per affermare se è permesso o meno.
(5)- Prendiamo in considerazione la teoria di Gemy. Se noi ritenessimo la norma generale di libertà vigente come ordinamento, secondo Gemy, avverrebbe un salto di status deontico, perché passeremmo dalla qualifica di un permesso, dovuto a una non previsione, ad un permesso forte, per il quale tutti gli atteggiamenti che ostacolano un caso non previsto (e quindi permesso) dovrebbero essere puniti.
Per essere più chiari: se è permesso A, in quanto caso non previsto, tutti i comportamenti che lo ostacolano devono essere impediti.
Con la norma generale di libertà si salterebbe da un mero permesso (A è permesso) ad un permesso forte (devono essere impediti tutti gli atteggiamenti che ostacolano A).
Supponiamo che il fatto che impedisce A sia a sua volta un caso non previsto e quindi, in quanto tale, permesso, cosa accadrebbe?
13 Dicembre 2000
Ci sono dei teorici del diritto che, pur ammettendo l’esistenza di lacune negli ordinamenti giuridici, sostengono che vi sono, all’interno degli stessi, dei metodi rigorosamente logici per colmarle.
Questa idea è alla base del LOGICISMO GIURIDICO.
Ora, oggettivamente parlando, è vero che esistono dei metodi, anche fecondi, per colmare queste lacune, ma non sono rigorosamente logici, come i sostenitori di tale teoria vorrebbero far credere. E’ proprio questo che cercheremo di dimostrare.
I metodi di cui parlano i logicisti sono fondamentalmente 3:
Innanzitutto, occupiamoci del primo dei tre metodi: L’INTERPRETAZIONE GIURIDICA.
E’ evidente che una norma può avere diverse applicazioni, a seconda del modo in cui essa viene interpretata.
A riguardo, esistono due tipi di interpretazione:
Tutti i risultati che si ottengono dalle diverse interpretazioni sono fondamentali ai fini del colmatura delle lacune.
LA COSTRUZIONE DOGMATICA è, invece, rappresentata da quella serie di concetti giuridici gerarchizzati esistente all’interno dell’ordinamento giuridico, di cui abbiamo parlato in relazione alla interpretazione fondamentale concettuale.
Infine, LA LOGICA GIURIDICA vanta dei procedimenti, come il procedimento per analogia e l’argomento acontrario, che utilizza per colmare le lacune dell’ordinamento. Su quest’ultimo metodo ci soffermeremo maggiormente per poterne dimostrare l’illogicità.
14 dicembre 2000
Abbiamo detto che, nonostante questi metodi siano effettivamente fecondi per colmare le lacune dell’ordinamento, non sono affatto logici.
Per rendere la comprensione più facile, serviamoci di un esempio: all’ingresso di un locale spesso si trovano cartelli che vietano l’ingresso ai cani; se, anziché un cane, al guinzaglio avessimo un orso, come dovremmo comportarci?
Si tratta di un caso rilevante giuridicamente, ma non previsto.
Intuitivamente, diremmo che, se l’ingresso è vietato ad un cane, sarà vietato anche all’orso.
In questo caso abbiamo utilizzato il procedimento per analogia: abbiamo la norma N (“è vietato l’ingresso ai cani”), e abbiamo il caso non previsto (anziché un cane, abbiamo un orso). Utilizzando l’interpretazione fondamentale teleologica, sappiamo che lo scopo della norma N è quello di no arrecare danno a terzi; poichè un orso è ancora più pericoloso di un cane, da N otterremo la norma N1, che amplia il contenuto di N, dicendo implicitamente che l’ingresso è vietato a tutti gli animali che potrebbero provocare danni a terzi. Mediante il processo per analogia abbiamo dunque trovato la norma da applicare al nostro caso non previsto.
Spontaneamente, verrebbe da chiedersi: dove sta il problema per cui dovremmo affermare l’illogicità della logica giuridica?
In primo luogo, se fra il caso previsto e quello non previsto vi sono delle somiglianze, vi saranno pure delle differenze; e allora con quale criterio abbiamo affermato il primato delle prime sulle seconde, secondo quale logica abbiamo utilizzato il procedimento per analogia e non l’argomento acontrario?
Se tale problema può sussistere per un solo caso, potrà sussistere per tutti.
E poiché non è assolutamente logico il motivo per cui si sceglie un procedimento e non l’altro, risulterà illogico anche l’intero metodo della logica giuridica.
In secondo luogo, abbiamo già detto che è vitale per entrambi i procedimenti che la norma di partenza venga interpretata secondo l’interpretazione fondamentale, sia essa concettuale o teleologica.
Però, nessun criteri logico impone a un giudice o a chi per lui di utilizzare l’interpretazione fondamentale al posto di quella letterale. Anzi, pare addirittura che quella letterale sia, per prassi, l’interpretazione maggiormente usata.
Per dimostrarlo, possiamo servirci del PARADOSSO DELLA INEVITABILITA’ IMPOSSIBILITA’ DELLA INTERPRETAZIONE FONDAMENTALE TELEOLOGICA.
Se una norma viene introdotta nell’ordinamento per un determinato scopo, essa sarà utilizzata per quello scopo. Fin qui, l’ interpretazione fondamentale teleologica è INEVITABILE.
Però, tutti sanno che una norma è parte integrante di un ordinamento, il quale ha anch’esso il suo scopo; allora quale dei due scopi, quello della norma e quello dell’ordinamento, dovrò ritenere più importante?
E poi, qual è lo scopo dell’ordinamento? Qualunque risposta sarebbe vana, poiché lo scopo dell’ordinamento è tanto profondo quanto è profondo il suo logos, come Eraclito direbbe dell’animo umano.
In più, se lo scopo dell’ordinamento influenza quello della norma, come dovrò comportarmi?
Queste osservazioni sono emblematiche per il problema logico di tutti i metodi del logicismo giuridico; infatti, la logica giuridica coinvolge anche gli altri metodi.
Conclusa la parte riguardante i problemi sistematici, possiamo accennare ai problemi extra sistematici.
Se il diritto si presenta già come un processo politico quando ci poniamo il problema di come dal diritto si possa ottenere il diritto, figuriamoci quando pensiamo il diritto in relazione ai momenti della legislazione.
Il problema della legislazione ci appare politico perché il legislatore crea le norme a partire dalla sua volontà e dalla sua posizione ideologica.
Questo momento potremo analizzarlo meglio, occupandoci del suo aspetto linguistico; infatti, come il diritto ha il suo linguaggio, anche il legislatore comunica grazie al suo, che è chiamato LINGUAGGIO PERFORMATIVO.
LE ENUNCIAZIONI PERFORMATIVE sono enunciazioni che pongono in essere ciò che dicono nel momento in cui lo dicono. Una promessa è una enunciazione performativa.
GLI ENUNCIATI CONSTATIVI (o DESCRITTIVI), invece, non pongono necessariamente in essere quello che dicono; infatti, se io dico che fuori c’è il sole, non necessariamente sarà vero.
GLI ENUNCIATI CONTRO-PERFORMATIVI, nel momento in cui vengono pronunciati, eliminano ciò che dicono, cioè, si comportano in maniera opposta alle enunciazioni performative.
Queste ultime sono nate in seno alla scuola fondata da J. AUSTIN, detta ostoiense. Un’opera di Austin in particolare esprime al meglio le enunciazioni performative, il cui titolo è “Come fare cose con parole”.
20 Dicembre 2000
Abbiamo detto nella lezione precedente che le enunciazioni performative sono un dire che implica il fare della cosa detta.
Perché esse siamo rese possibili, sono necessarie delle condizioni, rappresentate da alcune costruzioni sintattiche. Per esempio, è necessario che il soggetto della suddetta enunciazione sia alla 1^ persona singolare, così come è necessario che il verbo sia coniugato al presente. Mancando questi, verrebbero a mancare i presupposti per l’esistenza di un enunciato performativo.
In primo luogo, analizzeremo i performativi AB ESTRINSECO, ossia in relazione a tutti quegli enunciati che performativi non sono; poi, li analizzeremo AB INTRINSECO, ossia faremo un’analisi degli enunciati performativi stessi.
Innanzitutto, è necessario dire che la promessa, in quanto esempio di enunciazione performativa, costitutivamente implica sia l’obbligo del mantenimento della stessa, sia la fiducia che il destinatario della stessa vi ripone.
Noi sappiamo fare promesse menzognere per via della duplicità fra ciò che vediamo (KORPER – corpo visibile) e ciò che non vediamo (LEIB – corpo invisibile).
Un esempio di linguaggio performativo in senso forte è il linguaggio di Dio, il quale con la sua parola pone in essere le cose e crea le condizioni perché le sue parole continuino a creare.
PERFORMATIVITA’ E PRESCRITTIVITA’
Il linguaggio giuridico è linguaggio prescrittivo.
GAETANO CALCATERRA, autore di opere come “Le norme costitutive” (1974) e “La forza costitutiva delle norme” (1979), pone in evidenza il fatto che vi sono norme costitutive e norme prescrittive: le prime realizzano ciò che dicono quando sono prodotte, motivo questo per cui non necessitano di adempimento (per esempio, si consideri l’articolo 1 della Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro.”; esso non attende un adempimento, in quanto realizza già da sé quanto dice).
11 Gennaio 2001
Come abbiamo già accennato, oltre ai concetti performativi, esistono concetti prescrittivi e c. costitutivi , come Gaetano Calcaterra mette in evidenza nelle sue due opere (già citate nella lezione del 20 Dic. 2000).
Calcaterra sostiene che le norme costitutive facciano riferimento alle norme performative, che acquistano la loro efficacia automaticamente con la produzione.
Il diritto è norma; le norme giuridiche sono tali in quanto prescrittivo- sanzionatorie; il loro carattere prescrittivo è tale per il loro carattere sanzionatorio (vedi Kelsen: se è A, deve essere B).
Stando alle teorie di Calcaterra, ciò non corrisponde a verità; secondo lui, infatti, le norme costitutive non devono assolutamente essere prescrittive: costitutività e prescrittività non devono necessariamente essere co-implicate, ma possono, anzi devono, coesistere.
Verso la fine degli anni ’70, ovvero in corrispondenza della redazione della sua seconda opere (1979), Calcaterra modificò il suo pensiero a favore della teoria che ritiene il linguaggio legislativo costitutivo e non prescrittivi. Il linguaggio del legislatore, infatti, si rivolge direttamente al sistema, ecco il perché dalla sua costitutività.
Per quanti riguarda gli enunciati constativi, io posso sostenerne la falsità o la veridicità, a seconda dei casi; ma posso fare lo stesso con gli enunciati performativi?
Amedeo Conte distingue le enunciazioni performative in due categorie:
17 Gennaio 2001
Abbiamo detto qualche lezione fa che avremmo studiato i performativi da due punti di vista: ab estrinseco e ab intrinseco.
Oggi ci occuperemo dei performativi ab estrinseco, ossia dei performativi in relazione ai non performativi.
Analizziamo, innanzitutto, i performativi SECONDO L’INTENSITA’.
In questo ambito sono inseriti i performativi espliciti e i performativi impliciti; i primi mostrano il verbo performativo (es. “Decreto che è vietato fumare”), mentre i secondi lo esprimono in maniera implicita (es. “Vietato fumare”).
Le enunciazioni performative esplicite hanno un limite: se non si conosce il contesto, non si può capire di che tipo di enunciazione si tratti (dice il giurista: “Affermo che è vietato fumare”; dice il legislatore: “Decreto che è vietato fumare”).
Poi distinguiamo, sempre secondo l’intensità, i performativi in forti (o formali) e deboli (o informali).
Prendiamo ad esempio la promessa: se è giuridica richiede necessariamente una enunciazione performativa forte, se è d’amore si accontenta di una debole.
Performativi SECONDO LA SPECIE.
Esistono varie specie di performativi; a tal proposito, la Filipponio si serve della distinzione in 5 tipi di verbi performativi, elaborata da Austin, a cui corrispondono altrettanti atteggiamenti intenzionali del soggetto:
Ai VERBI DI ESECUZIONE (sopraccitati) vanno affiancati i VERBI DI STATO, di cui ci parla Z. Vendeler, nell’opera “Dì ciò che pensi”.
I verbi di stato descrivono l’atteggiamento intenzionale del soggetto.
Facciamo un esempio: i verbi espositivi sono affiancati dai verbi putativi; i verbi commissivi sono affiancati dai verbi conativi, ecc.
La teoria vendleriana presenta però un limite: secondo Vendler, infatti, i verbi esercitivi presuppongono i verbi conativi, perché un legislatore prima di dar vita e forma ad una legge, ne conosce le fattispecie.
In realtà, però, un legislatore non deve conoscere prima di decretare, ma deve solo volere. Per cui, ne deduciamo che i verbi esercitivi vanno affiancati dai verbi putativi.
18 Gennaio 2001
La performatività è un fenomeno che coinvolge 3 aspetti: LOCUTIVITA’, ILLOCUTIVITA’ e PERLOCUTIVITA’.
La locutività è il significato delle parole che ricorrono nei performativi.
La illocutività è l’atto che si compie mediante il dire. Proprio per questo i performativi potrebbero essere anche chiamati atti allocutivi.
La perlocutività è ciò che si compie madiante l’atto.
Il linguaggio del legislatore è performativo thetico, dunque veritiero.
Teniamo a mente che la logica del linguaggio performativo è isomorfa alla logica del linguaggio matematico.
Se del linguaggio (performativo) del legislatore si può predicarne la veridicità (come sostengono studiosi come Ross), potremo conseguentemente ritenere che esso abbia la medesima logica del linguaggio matematico.
1) Tutti i ladroni devono essere puniti;
2) Tizio è un ladrone;
3) Tizio deve essere punito.
Se quanto detto prima corrispondesse a verità, non avremmo nulla da obbiettare alla conclusione di questo sillogismo.
In realtà, però, nei processi giuridici le cose vanno diversamente, giacchè è il giudice a stabilire la conclusione del sillogismo.
Nel linguaggio giuridico non vale la logica razionale; Kelsen infatti la credeva sostituita dalla logica del potere.
Per quanto sia vero che per il linguaggio giuridico non si possa dire che valga la medesima logica dei principia matematica (logica aletica), non possiamo ad ogni modo né ritenere valido il discorso kelseniano, né sostenere l’assenza assoluta di una qualche forma di logica.
La logica del linguaggio giuridico, infatti, esiste ed è la logica deontica.
Ritorniamo ora alla verità rispetto ai performativi.
Vi sono due correnti di pensiero, di cui una va a favore, l’altra contro.
Coloro che sostengono la verità dei performativi, hanno presupposto il loro carattere sui - referenziale, in base al quale i performativi si riferiscono a sé stessi.
Uno di questi è Amedeo CONTE, la cui teoria è esposta nell’opera “Aspetti della semantica del linguaggio deontico”.
Conte chiama la verità delle enunciazioni performative VALIDITA’ SEMANTICA, in quanto si riferisce al linguaggio deontico.
Egli distingue due tipi di validità semantica:
La validità semantica thetica è la corrispondenza tra l’enunciato deontico (vietato fumare) e lo status deontico (divieto di fumare) theticamente costituito (cioè costituito in virtù di una performatività) mediante l’enunciazione thetica dell’enunciato deontico stesso.
Secondo questo primo tipo di validità semantica, non solo è possibile predicare la veridicità degli enunciati performativi, ma essi sono da ritenersi sempre veri, poiché, essendo performativi, costituiscono da sé ciò che dicono.
La validità semantica atletica è la corrispondenza tra un enunciati deontico e lo status deontico precostituito dell’enunciazione dell’enunciato deontico stesso.
In altri termini, o il linguaggio legislativo è performativo e si ha la validità semantica thetica, oppure è descrittivo.
In questo caso, è possibile predicale la veridicità se esso è corrispondente agli status dentici precostituiti all’enunciazione dell’enunciato stesso.
Per esempio, S Tommaso ritiene che una norma, per essere vera, deve rispecchiare l’ordine naturale delle cose.
Possiamo dunque dedurne due conclusioni: o non si parla di un linguaggio performativo, ma descrittivo, e dunque non ci riguarda, oppure ci poniamo un quesito: ma è proprio vero che il linguaggio utilizzato da un legislatore che, per esempio, ordina di uccidere fa riferimento ad uno status precostituito? Oppure è lui che costituisce lo status con la sua enunciazione, in questo caso, performativa?
24 Gennaio 2001
Conte sostiene che sia possibile predicare la veridicità del linguaggio legislativo, tanto che a tale verità dà un nome: VERITA’ SEMANTICA THETICA.
Gli enunciati performativi sono sempre veri, dunque la verità semantica è la corrispondenza tra l’enunciato e lo stato semantico.
Dunque, un enunciato è vero o falso a seconda se corrisponda o meno allo stato che descrive. E gli enunciati performativi sono sempre veri, giacchè pongono in essere ciò che dicono.
Tuttavia, secondo noi, non si può predicare la verità degli enunciati performativi, come fa Conte.
Per suffragare la nostra teoria ci serviremo di 3 critiche mosse alla tesi di Conte.
3)Poniamo pure che degli enunciati performativi si possa predicare la verità, questa verità è vera ed universale, o particolare? Una verità universale è che la somma di 2 più 2 è 4: è innegabile, è vero SEMPRE; ma “è vietato fumare” non può essere considerato sempre vero, dunque diremo che, posto che sia vero, si tratta di una verità particolare, valida solo in determinate circostanze. Kant direbbe, a proposito, che la verità degli enunciati performativi è una verità a-posteriori, e non a-priori.
25 Gennaio 2001
Nella scorsa lezione, abbiamo dimostrato che il linguaggio del legislatore non è necessariamente veritiero.
Questo perché la logica del linguaggio performativo non è verità come lo è la logica del linguaggio matematico.
Dunque, attenendoci sempre alla terminologia utilizzata dal Conte, potremmo modificarla parlando di VALIDITA’ PRAGMATICA, anziché semantica.
La logica della validità degli atti è lo studio delle condizioni di esistenza degli atti stessi.
Quali sono le condizioni che un atto deve rispettare per esistere?
Vi sono condizioni thetiche, ossia condizioni che dipendono dalla volontà del legislatore, e condizioni athetiche, condizioni cioè non dipendenti dal legislatore (si prenda, ad esempio, la compravendita, le cui condizioni, non dipendenti dalla volontà del legislatore, sono intrinseche all’atto stesso della compravendita).
Sotto quest’ottica, dunque, potremo senz’ombra di dubbio affermare che non esiste potere assoluto, neppure se a detenerlo è un sovrano, in quanto anch’egli è tenuto a rispettare le condizioni athetiche degli atti che pone in essere.
La logica della validità degli atti è anche chiamata LOGICA DEONTICA, ossia logica del linguaggio giuridico.
Le origini della logica deontica vanno fatte risalire ad un saggio dello svedese G. H. VON WRIGHT (si legge come si scrive!!!), intitolato “DEONTIC LOGIC”.
La logica deontica è tripartita in :
Non ci occuperemo solo della logica deontica, ma anche di un’altra logica giuridica: la FENOMENOLOGIA.
Analizzando il suddetto rapporto, giungeremo alla conclusione che per lo studio dell’attività giuridica sarà necessaria anche la logica della ONTOFENOMENOLOGIA.
Calcaterra, nei suoi scritti, afferma solo la costitutività del linguaggio del legislatore, escludendo a priori la prescrittività.
Ma dire che il linguaggio legislativo è solo costitutivo e non anche prescrittivo, significa escludere dall’idea del diritto l’idea del soggetto. Significherebbe intendere il diritto privo di destinazione.
Un atteggiamento del genere lo abbiamo trovato nella teoria della dottrina pura del diritto di Kelsen.
Il diritto, in sé, è un insieme di norme che PRESCRIVONO qualcosa. Per di più, il carattere prescrittivi fa in modo che il diritto abbia dei destinatari.
COSTITUTIVITA’ E PRESCRITTIVITA’ SONO LE 2 CONDIZIONI CONGIUNTE E NECESSARIE DEL DIRITTO.
Invece, il 1^ Calcaterra sostiene che nell’ordinamento vi sono norme prescrittive e norme costitutive; il 2^ C., rivista la sua tesi iniziale, sostiene che nell’ordinamento vi siano solo norme costitutive.
Il carattere costitutivo predicato da Calcaterra si risolve in una formula: Il legislatore dice: “Si dispone che il sistema S contiene la dosposizione D.”
E questa formula vale per tutte le norme.
Sotto certi aspetti, siamo d’accordo con C., perché un diritto senza un potere costitutivo sarebbe inconcepibile.
Però, è proprio perché riteniamo possibile che un legislatore possa disporre, con un atto costitutivo, che nel sistema S è contenuta la disposizione D, che predichiamo anche la prescrittività del linguaggio legislativo.
Infatti, stando a quanto dice Calcaterra, disposto che nel sistema x vi è una nuova disposizione y, automaticamente se ne prescrive l’esistenza.
Ecco perché siamo convinti sostenitori della tesi che tutte le norme giuridiche, qualsiasi sia la loro appartenenza ordinamentale, sono espressione bipolare de costitutività e prescrittività.
La Filipponio sostiene che la performatività non verifica né falsifica il problema della prescrittività, tanto più che l’una e l’altra non presentano nessi logoci fra loro.
31 Gennaio 2001
Da quanto detto nelle lezioni precedenti, si è stabilito che le enunciazioni del legislatore sono costitutive, ma allo stesso tempo prescrittive, in quanto la loro forza costitutive porta a produrre qualcosa.
Dunque, si può affermare che costitutività e presrittività proseguano di pari passo.
La Filipponio sostiene che nelle enunciazioni performative sono ravvisabili 2 momenti: uno meta-discorsivo (verbo esercitivo, performativo: ordino, decreto), e l’altro discorsivo/prescrittivi (oggetto del verbo performativo: se io prescrivo qualcosa, quel “qualcosa” sarà il momento discorsivo della enunciazione performativa).
Rilevare il momento discorsivo/prescrittivi è importanti ai fini della logica del diritto, perché è quel momento del linguaggio performativo che ci permette di dire che il diritto ha senso solo se ha un soggetto a cui essere prescritto.
N.B.:La lettura de “Il processo” di Kafka ci può dimostrare quanto il diritto sia inquietante per il soggetto.
Come abbiamo più e più volte detto, Calcaterra sostiene che nell’ordinamento vi siano norme costitutive e norme prescrittive. Per esempio, le norme abrogative di una o più norme esistenti sono costitutive.
Per poter rafforzare la nostra teoria costitutivo-prescrittiva della norma, muoveremo a Calcaterra 3 critiche:
Siamo così giunti ad affermare che il diritto abbia sempre a che vedere con un soggetto, ed, essendo questa l’idea stessa del diritto, nonché della prescrittività, concluderemo che il diritto è prescrittivi.
1 Febbraio 2001
Dire che è necessario giustificare le enunciazioni legislative implica la necessità di una logica del linguaggio giuridico, ossia della logica deontica.
Cercheremo la giustificazione del diritto nella definizione della regola giuridica.
Aristotele dice che, per poter individuare la definizione di qualcosa, bisogna individuare il genere prossimo della differenza specifica .
Oggi ci preoccuperemo di veder qual è la differenza specifica della regola giuridica rispetto a tutte le altre regole.
1) CONFRONTO FRA REGOLE GIURIDICHE E REGOLE LUDICHE. Per Cotta, le regole sono un elemento costitutivo sia del diritto che del gioco; per tanto, in ambo i casi sono da ritenersi indispensabili. Posto che vi sia una identità fra regole giuridiche e ludiche (si parla in entrambi i casi di regole), per Cotta esistono ben 2 differenze. La prima differenza sta nella funzione: le regole giuridiche hanno una funzione congiuntiva, mentre quelle ludiche hanno una funzione disgiuntiva. In fatti, coloro che partecipano ad un gioco, da una posizione di parità, alla fine si troveranno in una posizione dispari: ci sarà, insomma, un vincitore. Invece, la regola giuridica è ritenuta congiuntiva in quanto il suo scopo è quello di risolvere una disparità; questo, tuttavia, accade solo sul piano ontologico, in quanto in realtà sono piuttosto rari i casi in cui una norma riesce a riportare in parità la situazione impari creatasi fra due soggetti.
La 2^ differenza sta nel fatto che ci appare ovvio il fatto che nella vita un individuo possa sottrarsi al gioco e alla sue regole; diverso invece è il discorso se si parla di diritto: paradossalmente, è proprio quando ci si sottrae a una regola giuridica che essa si esprime in tutto il suo essere, applicando la sanzione. Ecco perché appare impossibile sottrarsi alle regole giuridiche. Sotto questo punto di vista, si dice che la regola giuridica è più cogente della regola ludica.
1)CONFRONTO FRA REGOLE GIURIDICHE E REGOLE MORALI. Premettiamo, anzitutto, che regole giuridiche e morali non sono la medesima cosa; non troveremo questo confronto sul Cotta, che sembra non ritenere importante analizzare questa differenza. Kant, invece, la ritiene tanto essenziale, da fare una netta distinzione fra dottrina del diritto e dottrina delle virtù.
La prima differenza fra questi due tipi di regole sta nel fatto che, mentre le regole morali hanno valore CATEGORICO, quelle giuridiche hanno valore IPOTETICO.
Cioè, le norme morali valgono a-priori (sono universali e necessarie), in assoluto, mentre quelle giuridiche hanno valore solo in relazione all’ordinamento cui appartengono, a-posteriori. Inoltre, esse differiscono anche per quanto riguarda una altro aspetto: l’esteriorità. Prendiamo la promessa: se è di fedeltà, cioè inserita nell’ambito della moralità, ad essa corrisponderà una condizione interiore; se è giuridica, ad essa dovrà corrispondere una condizione oggettiva, esteriore e non interiore. Un’altra differenza fra questi due tipi di regole sta nel fatto che, mentre le regole morali sono unilaterali, quelle giuridiche sono bilaterali. Infatti, se uno vuole fare la carità, il dovere sussiste solo dalla sua parte; ecco perché si parla di unilateralità. Se si pensa, invece, al titolare di un diritto, automaticamente, si penserà anche al corrispondente titolare del dovere; qui sta la bilateralità delle regole giuridiche.
3)CONFRONTO FRA REGOLE GIURIDICHE E DELINQUENZIALI. La differenza sostanziale fra queste sta nella necessità di una giustificazione delle prime.
Una norma tipica dell’ordinamento delinquenziale è “o la borsa o la vita”. Tutto l’ordinamento delinquenziale è funzionale a questa norma, che in sostanza corrisponde a una sorta di GRUND WERT (valore fondamentale). Il grund wert ha come fondamento il non bisogno di essere giustificato. Invece, diciamo che norme giuridiche necessitano di una giustificazione in quanto, se così non fosse, esse sarebbero equiparabili alle regole delinquenziali.
La giustificazione delle regole giuridiche è una necessità eidologica.
7 Febbraio 2001
La giustificazione del diritto è necessaria anche perché il diritto esiste solo in relazione al soggetto.
Se il diritto non potesse essere pensato come giustificazione delle norme, sarebbe difficile stabilire cosa in realtà sia.
L’esperienza giuridica necessita di una giustificazione, giustificazione richiamata dalla stessa natura dell’esperienza (se non fosse giustificabile, non si potrebbe parlare di esperienza).
Oltre alla necessità eidologica della giustificazione del diritto, vi sono altri 2 tipi di necessità: politica e pratica.
Nel 1965, Bobbio scrive l’opera intitolata “Giusnaturalismo e positivismo politico”; in essa l’autore si preoccupa delle rispettive nature del guisnaturalismo e del giuspositivismo e della differenza fra loro.
Nella stessa opera, Bobbio parla di una necessità politica della giustificazione del diritto.
Giustificare il diritto, secondo B., significa fare in modo che esso vada a colmare le esigenze di coloro ai quali è destinato. Aggiunge peraltro che, quanto più e giustificato, tanto più un ordinamento è efficace.
Lascia però intendere che nei vari ordinamenti vi sono delle norme non giustificate, da ritenersi ugualmente giuridiche, ma la cui validità ha durata limitata.
Ora, ammettendo pure che in parte Bobbio abbia ragione, va tenuto presente che vi sono delle norme tanto ingiustificate (e dunque assurde!) a cui sarebbe pressochè impossibile obbedire.
Per essere più chiari, serviamoci di un esempio usato da Kant ne “La metafisica dei costumi”: Immaginiamo una norma che prescriva una pena ad un naufrago che, pur di salvare se stesso, ha messo nelle condizioni di perire un suo compagno; è ovvio che quel naufrago preferisca una sanzione incerta, quale è quella prevista dalla sopraccitata norma, ad una sanzione certa, la sua morte, che gli verrebbe applicata se cercasse di rispettare una norma tanto ingiustificata.
Ne deduciamo che una norma ingiustificata non avrà mai né un minimo di efficacia, né un minimo di giuridicità.
Kelsen dice che se c’è la causa CI DEVE ESSERE la sanzione (“dover essere” giuridico); noi diciamo che se c’è la causa CI DEVE ESSERE l’effetto (“dover essere” causalistico).
Ora, se si compie un atto illecito (causa giuridica), non sempre si applica immediatamente la sanzione; mentre, se in ambito causalistico si verifica la causa, si verificherà subito l’effetto.
Alla fine, quindi, la norma giuridica è una possibilità data all’uomo in e per determinate circostanze.
La possibilità, secondo Kierkegaard, è una categoria decisiva, ma è anche una responsabilità, perché l’uomo che ha la possibilità di scegliere non è sempre detto che scelga bene. L’unico modo per fare una scelta oculata e dunque giusta è usare la ratio.
Per cui, se la normazione è prodotto di atti e dunque prodotto di possibilità, chiunque debba scegliere, deve necessariamente giustificare la sua scelta.
Questa è la necessità pratica della giustificazione del diritto, per cui un legislatore che emana una norma invece di un’altra dovrà giustificare la sua scelta.
8 Febbrai 2001
Ora, non basta dire che è necessario eidologicamente, politicamente e praticamente giustificare il diritto, bisogna anche dire come il diritto deve essere giustificato.
Se si considerano le condizioni di validità degli atti, è possibile notare che vi sono atti che non possono dipendere solo dalla volontà del legislatore; ci sono condizioni di validità, infatti, che costituiscono una moralità intorno agli atti, moralità che è intrinseca all’idea stessa dell’atto.
Distingueremo dunque la validità pragmatica in:
La validità praxeologica risale all’idea (praxiq)stessa dell’atto che si predica (es. non si può fare una promessa riguardante il passato, perché la promessa è l’idea di sottomettersi a qualcosa).
La validità praxionomica risale alle regole (nomoi) che pongono le condizioni di validità dell’atto(si prenda l’art. 32 c.p. che impedisce all’ergastolano di fare testamento. Questa condizione dell’atto testamentario non risale all’idea stessa di testamento, ma è piuttosto una regola (nomoq) imposta dal di fuori).
La validità praxeologica si distingue in:
La condizione analitica per cui, per esempio, le promesse non possono riguardare il passato, è diversa dalla condizione sintetica per cui, per esempio, una promessa deve essere mantenuta.
La condizione sintetica potrebbe essere ritenuta una condizione morale, e dunque il dovere di fare promesse non menzognere appartiene alla condizione stessa di validità della promessa. Il fatto che queste condizioni derivino dalle condizioni stesse di validità degli atti fa in modo che, non osservando la moralità intrinseca dell’atto, non si ponga in essere l’atto stesso.
14 Febbraio 2001
Le condizioni della validità praxeologica sono distinguibili in analitiche e sintetiche.
Su quest’ultimo punto possiamo rifarci alla dottrina kantiana dei giudizi analitici e dei giudizi sintetici.
A proposito dei primi, Kant fa un esempio: “ogni corpo è esteso”, evidentemente, i giudizi analitici esprimono qualcosa che è già contenuto analiticamente nel soggetto.
Dunque, le condizioni analitiche esprimono qualcosa che sia già analiticamente compreso nell’atto.
Alcuni giuristi sostengono che nei fenomeni giuridici vi sia la possibilità di una deroga alle condizioni praxeologiche da parte del legislatore.
In particolare, ADOLF RAINACH, allievo del già citato Husserl, nella sua opera del 1913 “Fondamenti a priori del diritto civile”, cita alcuni fenomeni giuridici e sostiene che ci sono delle possibilità di deroga a queste leggi a priori ( che, per il solo fatto di essere derogabili, non dovrebbero essere più considerate a priori).
Rainach cita in particolare la legge del Reich tedesco per cui sia possibile fare promesse solo dopo il 21^ anno di età. Ma noi ci chiediamo: davvero questa norma è una norma in deroga? Cioè, essa abolisce a priori particolari condizioni dell’atto della promessa?
Usando una espressione di SER e GARDI’, la promessa è una sottomissione ad una obbligazione. Se questo è vero, una testa di legno non può fare promesse (condizione analitica).
Sempre chiedendosi se ciò sia vero, la norma del Reich è una deroga o un rafforzamento della condizione di validità? E’ un rafforzamento, perché ci si può sottomettere ad una obbligazione solo se si ha la capacità di agire( secondo il legislatore, dopo aver raggiunto il 21^ anno di età).
15 Febbraio 2001
Per concludere il discorso sulle condizioni analitiche praxeologiche, dobbiamo notare che Reinach sottovaluta il fatto di star parlando di uan promessa formale, quella giuridica, il che vuol dire che sta parlando di una promessa che necessita di atti formali; queste condizioni che rendono formale l’atto, perché comprese in esso analiticamente, specificano le condizioni analitiche di validità prexeologica.
Passiamo ora ad analizzare le condizioni praxionomiche.
Esse pongono a posteriori e ab extra condizioni di validità di un atto.
Non si tratta di necessità, bensì di possibilità, tanto che per determinarle sarà necessario che io prima le esperisca.
In sostanza, possiamo concludere che in relazione alla validità di un atto ci sono anche degli elementi accidentali, che non derivano dall’idea dell’atto, ma ab extra dall’atto: sono le condizioni praxionomiche.
Cosa sono struttura e funzione? E come si distinguono fra loro?
In realtà è la funzione che da il significato a qualcosa e non la sua struttura.
Un suono, ad esempio, può comparire identico in diverse melodie, ma in ognuna di esse esso ha una funzione diversa, che è quella di vivere nel corpo di una melodia.
21 Febbraio 2001
Perché possa esserne più semplice la comprensione, esaminiamo questo rapporto nell’ambito della logica del significato in genere.
Il testo “Leggi fondamentali del dover essere” di ERNST MALLY è importante per la logica deontica, in quanto in esso compare per la 1^ volta in termine “deontic”.
Ma per affrontare questo argomento, ci riferiremo ad un altro testo di E.M., “Formalismus” (1^tomo), dove affronta il discorso sul significato di qualcosa.
E. Mally dice che un pezzo nel gioco degli scacchi è essenzialmente funzionale in relazione agli altri pezzi. Di esso non ci importerà la struttura, quanto la sua funzione. In tal senso diremo che la struttura è subordinata alla funzione.
Non a caso, Mally dice che i segni sono determinati dal loro significato funzionale.
La funzione è ciò che connota qualcosa.
Due segni diversi possono avere la stessa funzione.
Uno stesso segno può avere funzioni diverse. Per es., prendiamo due frasi dove sia presente la copula ‘è’ : “La rosa E’ rossa” ; “2+ 2 è 4” ; nel 2^ caso, la copula ‘è’ sta per uguale(=), nel primo caso no; per cui diremo che lo stesso segno può assumere diverse funzioni, pur non mutando la sua struttura
Ora, vogliamo determinare la validità di un atto a priori, a partire dalla sua funzione. Poniamo tre domande:
Risponderemo, rispettivamente:
Ora, per quanto riguarda la terza risposta, è ovvio che è quasi impossibile conoscere in toto qualcosa; ma non occorre ai fini della conoscenza delle sue funzioni essenziali: basterà conoscerla in parte e formarsene un’idea.
Questo discorso è applicabile anche agli atti giuridici.
Tra gli studiosi polacchi di logica deontica, è da menzionare TADEUS KOTARBINSKI.
T.K. e Conte, per quanto siano due grandi studiosi di logica deontica, hanno affrontato il tema della validità degli atti giuridici, senza porsi il problema che, nel processo giuridico, l’elemento essenziale non è la struttura ma l’INTERESSE .
Tra la struttura e la funzione, posto che si tratti di cose diverse, c’è un nesso? Si, perché le funzioni hanno sempre bisogno di una struttura specifica.
Quando una funzione non realizza la sua struttura specifica, si crea un non senso.
22 Febbraio 2001
Ci sono delle condizioni di validità relative ad un atto che risalgono alle condizioni dell’atto stesso.
Si pensi ad una promessa: se, facendola, si pensasse di non mantenerla, non sarebbe più possibile parlare di promessa; quindi, diremo che la condizione di mantenere una promessa risale alla condizione della promessa medesima.
Kant sostiene, nella sua opera “La critica della ragion pratica”, che ci sono dei principi etici che si impongono all’agire dell’uomo, e che per questo sono detti IMPERATIVI CATEGORICI.
Dei tre enunciati da Kant, quello che più ci interessa è il 3^ (“Agisci in modo che la tua volontà possa essere considerata come istituente una legislazione universale”). Da ciò si comprende come per il filosofo la moralità di un dovere sta nella sua universabilità.
Lo stesso Kant fa due esempi di doveri perfetti, il primo dei quali è di non suicidarsi, e il secondo impone di non fare promesse con la consapevolezza di non mantenerle.
Il dovere di mantenerla è INTRINSECO all’atto stesso della promessa.
Facciamo 3 considerazioni in proposito:
Tutte queste condizioni sono universali e necessarie per l’atto, così come i giudizi sintetici a priori .
Kant, in relazione al primo dei doveri perfetti (non suicidarsi), dice che può essere universale solo il pensare di non suicidarsi per amore di sé, e non il contrario; perché l’amore di sé dà la forza di superare gli ostacoli per continuare a vivere.
Abbiamo già visto che un atto è valido solo quando realizzi la sua funzione essenziale.
La teoria della validità prexeologica è importante sia per la costruzione dell’ordinamento sia per la interpretazione giuridica.
Nel 6^ libro de “La Repubblica”, Platone chiama la causa prima di tutte le cose (arxò) BENE.
Platone, per bocca di Socrate, paragona il bene al sole che illumina ogni cosa; e ancora, come il sole, l’idea del bene è principio ontologico. Platone chiama “bene” l’essere, perché in sé l’essere è bene.
In sostanza, quanto vogliamo dire con ciò è che nelle condizioni di validità degli atti ci sono delle condizioni morali, che ci parlano del bene negli atti umani.
7 Marzo 2001
La validità sintattica ci permette di cogliere in modo più specifico la validità giuridica.
Le condizioni di validità sintattica si dividono in:
a)VALIDITA’ SINTASSIOLOGICA.
Essa ha condizioni di validità che dipendono dalla struttura (analitiche) e condizioni di validità che dipendono dalla funzione (sintattiche).
Analizziamo per prime le condizioni analitiche.
Se l’ordinamento è insieme di norme valide, vale il principio per cui non vi sono norme valide che non appartengano all’ordinamento.
Conte, in proposito, dice che sono valide solo quelle regole o validate da regole di formazione dell’ordinamento, o valicabili da regole di trasformazione dell’ordinamento.
Dunque, stando alle condizioni di validità sintassiologiche, diremo che saranno valide solo le norme che appartengono all’ordinamento.
Un’altra regola sintassiologica è espressa dalla norma fondamentale, o Grund Norm, di Kelsen. Essa dice che ci si deve comportare secondo la costituzione effettivamente valida e costituita.
Kelsen arriva ad essa con un ragionamento molto complicato (vedi appunti su Kelsen), noi invece, molto semplicemente, diciamo che la Grund Norm è una norma che dipende dall’idea dell’ordinamento stesso: essa infatti comanda l’adempimento dell’ord. Infatti, l’ordinamento, insieme a comandare una insiema di norme contenute al suo interno, fondamentalmente e implicitamente comanda anche il suo adempimento.
b)VALIDITA’ SINTASSIONOMICA.
Essa presenta condizioni che stabiliscono la validità di atti o enunciati che non appartengono all’idea stessa di ordinamento, ma dalla volontà dell’uomo theta.
Ci sono norme di validità ordinamentale che decidono della validità della norma in base al suo contenuto. Si chiamano norme iterate.
Supponiamo che una norma iterata proibisca qualcosa; la conseguenza sarebbe che una norma, che vada contro ciò che n. iterata proibisce, sarà invalida.
Le norme iterate pongono comunque condizioni di validità, ma sintassionomica e non sintassiologica.
La differenza fra le norme sintassiologiche e quelle sintassionomiche sta nel fatto che, per quanto riguarda le prime, diremo che esse ci sono quando c’è ordinamento, non essendo, per loro natura, prescindibili da esso; mentre, per ciò che concerne le seconde, esse potrebbero essere necessarie, ma non sono necessarie “uti singule”.
8 Marzo 2001
Le condizioni sintattiche che risalgono alla funzione sono più importanti di quelle che risalgono alla struttura. La funzione è essenziale rispetto al senso di una cosa. Non a caso, abbiamo detto che la funzione è subordinata alla struttura.
Ci possono essere funzioni diverse e molteplici per un ordinamento.
La Filipponio dice che una norma fondamentale (la Grund norm kelseniana) è una REGOLA EIDETICO COSTITUTIVA.
Ma cosa sono le regole eidetico costitutive?
Sono quelle condizioni necessarie e di pensabilità e di possibilità di quello a cui si riferiscono.
Ora, in che senso la norma fondamentale di un ordinamento è regola eidetico costitutiva?
Calcaterra è il primo italiano che si pone il problema della regola fondamentale come reg. eidetico cost.; poi, lo stesso concetto è presente in E. Mally, in Antonino Magliaro, e alcuni altri.
Ma rispondiamo alla domanda: se una norma è fondamentale, è necessario che essa sia possibile e pensabile, tanto che, se fosse possibile il suo esatto contrario, non si parlerebbe più di norma fondamentale.
Non esistono soltanto regole eidetico costitutive, ma anche le EIDE COSTITUTIVE DI REGOLE, che svolgono una funzione propedeutica per le prime.
In sostanza, le regole eidetico costituitve sono poste dalle eide costitutive di regole.
Si pensi alle regole del gioco degli scacchi: esse sono regole eidetiche cost., ma a loro volta esse presuppongono l’idea stessa di gioco; l’idea di gioco altro non è che l’eidos costitutivo delle regole del gioco degli scacchi (cioè, le regole eidetico costitutive).
Ne deduciamo che le regole eidetico cost. sono subordinate all’eidos costitutivo di regole.
Ma a proposito della norma fondamentale di un ordinamento ( che è regole eidetico costitutiva), qual è il suo eidos costitutivo? La giuridicità.
15 Marzo 2001
Qual è il fondamento della norma fondamentale?
Questo, a una prima analisi, potrebbe apparire uno pseudo – problema.
Ma, in realtà, è un problema a tutti gli effetti.
Dire che esiste la norma fondamentale, implica necessariamente l’aver affrontato il problema del suo fondamento, quello che fonda la sua validità.
Prendiamo come punto di riferimento la “Teory of types” di Russel e A. N. Whitehead.
Secondo questa teoria, qualsiasi cosa presupponga un insieme di elementi di una collezione di cose, non è a sua volta un elemento dell’insieme stesso.
Traducendo questo principio in relazione alla norma fondamentale, diremo che, poiché essa è presupposto di validità per l’ordinamento (insieme di norme valide), essa non potrà essere elemento dell’ordinamento stesso.
Allora, che senso avrà predicare la validità della n. f.?
Probabilmente, della N. F. non avrà senso predicare né la validità, né la sua non validità.
Allo stesso tempo, però, sarà necessario predicare il fondamento della sua validità.
Tuttavia, noi ci chiediamo:
Innanzitutto, abbiamo detto che di ciò che è criterio per riconoscere la validità di qualcosa, non ha senso predicare la validità.
Se la validità è semplicemente l’esistenza secondo un criterio, anche della N. F. diremo che è valida.
Infatti, essa è valida se rapportata al comportamento di conformità rispetto ad essa dei suoi destinatari. Quindi, il criterio di validità non è la norma stessa, bensì il comportamento dei suoi destinatari.
Non è dunque vero in assoluto che della N. F. non si possa predicare la validità, basta infatti spostare il criterio di validità.
Ma ora come risolviamo il problema del fondamento della sua validità?
Bene, il fondamento sarà la sua EFFETTIVITA’, ossia il comportamento dei suoi destinatari, ossia i milioni di atti che si uniformano ad essa.
Abbiamo individuato il fondamento della validità della N. F. in un fatto.
Così abbiamo individuato 2 norme fondamentali:
La prima N. F. è valida solo per l’ordinamento x, è, cioè, fondata su un fatto; la seconda è valida per l’idea stessa di ordinamento e sulla stessa essa si fonda.
La prima norma fondamentale è REGOLA EIDETICO COSTITUTIVA dell’ordinamento x. Essa si fonda sulla seconda N. F., che realizza l’idea stessa di ordinamento ed esprime l’eidos della giuridicità.
La seconda norma fondamentale è EIDE COSTITUTIVA DI REGOLE.
Non potendo esservi, per principio, due N. F., quella vera sarà la seconda.
Questa norma fondamentale alla Kelsen esprime tutta o solo una parte (quella che risale alla struttura e non alla funzione) della giuridicità?
La Grund Norm di Kelsen esprime solo la struttura della giuridicità; ma allora quale sarà la struttura di quest’ultima?
Per Cotta, la funzione del diritto sta nella sua origine, ossia nel bisogno di coesistenza fra gli uomini.
Così, la funzione del diritto sarà realizzare la coesistenza fra gli uomini.
Se ciò è vero, basterà da sola la norma fondamentale a realizzare la funzione del diritto? No, sarebbe troppo riduttivo.
I doveri che realizzano la funzione della giuridicità sono i GRUND WERT, cioè i valori fondamentali .
Se una norma non trova fondamento nella Grund Norm è antigiuridica, se non trova fondamento il Grund Wert, non è una norma giuridica.
La Grund Wert distingue l’ordinamento giuridico (la cui funzione specifica è realizzare la giustizia) da quello delinquenziale.
21 Marzo 2001
Cotta affronta solo la necessità eidologica della giustificazione del diritto.
Le regole giuridiche giustificate OBBLIGANO, le regole delinquenziali COSTRINGONO. In altri termini, dove le r. giuridiche fanno capo all’autorità, quelle delinquenziali fanno capo al potere.
Quando abbiamo dimostrato che una giustificazione del diritto è necessaria, non abbiamo detto molto circa i criteri di giustificazione.
Sarà per questo che insieme a Cotta andremo a identificare il valore fondamentale del diritto.
Noi siamo partiti analizzando la logica del diritto, mentre Cotta parte analizzando la struttura ontologica dell’uomo. Eppure, Cotta giunge alle nostre medesime conclusioni, ossia arriva ad analizzare il valore del diritto.
Egli, sulla base di una fenomenologia della struttura ontologica dell’uomo, introduce il criterio della funzionalità coesistenziale, cioè, lo stesso criterio della funzione usato da noi, seguendo la via della logica deontica.
Cotta si chiede quale sia il criterio della giustificazione del diritto.
La domanda presuppone che ci sia un solo criterio, precludendoci dalla possibilità di venire a conoscenza dell’esistenza di più criteri.
Dunque, sarà meglio chiedersi se ci sia un criterio di giustificazione, e, se esiste, in cosa consista.
Ancora prima di dare una risposta al quesito suddetto, Cotta ricerca ed elenca i requisiti della giustificazione del diritto.
Ne nomina ben 5:
Questi due ultimi requisiti sono fondamentali: un dovere fondamentale deve necessariamente rispettarli.
22 Marzo 2001
Un dovere assoluto potrebbe essere anche detto “reale”, utilizzando un termine di paternità kantiana.
Vi sono alcuni criteri di giustificazione del diritto che rispetto ai 5 requisiti cottiani sono riduttivi e dunque inidonei.
1^ CRITERIO NON IDONEO
Sono doveri validi quelli che derivano da un’autorità.
Questo criterio è riduttivo, in quanto il dovere sarà valido solo per coloro che credono in quella autorità.
E, per di più, lo stesso dovere sarà valido, per coloro che credono nell’autorità da cui è nato, solo fino a che essi continueranno ad avere fiducia in quella autorità.
In realtà, il fatto che un dovere nasca da una fonte di autorità trae in inganno, in quanto fa presumere che esso sia giustificato. La questione è che l’autorità è sì criterio di giustificazione, ma solo per l’obbedienza al dovere e non per il dovere in sé. Dunque diremo che il criterio “autorità” non è conforme agli ultimi 2 requisiti cottiani della giustificazione.
2^ CRITERIO NON IDONEO
Una norma è giustificata per la sua effettività.
Questo criterio, naturalmente non idoneo, non rispetta il 2^ requisito, in base la quale si è stabilito che il principio della effettività, seppur necessario, non è sufficiente come criterio di giustificazione.
Non a caso, un giurista italiano, Pietro Piovani, sostiene che i sistemi giuridici non si auto-legittimino per il solo fatto di essere effettivi.
3^ CRITERIO NON IDONEO
Esso consiste nella promulgazione solo in senso formale della norma.
Non è sufficiente come criterio, perché esso, alla fine, risale alla norma fondamentale alla Kelsen che, in quanto tale, a parere di Cotta, non ha adeguatamente affrontato il tema della giustificazione.
Vittorio Mathiev, in suo saggio del 1970, “Sistemi logici e sistemi giuridici”, afferma che l’ordinamento, pur rispettando i suoi criteri di validità, può modificare parzialmente o totalmente, senza che ciò peraltro incida sulla sua validità, cosa che non accadrebbe se individuassimo dei doveri fondamentali.
La norma fondamentale si giustifica solo quando, insieme all’adempimento, comanda un grund wert.
Ora, esclusi i tre criteri di giustificazione del diritto sopra esaminati, ci chiediamo se ci sia un criterio di giustificazione vero.
Cotta tenta di definirlo, partendo dalla dottrina kantiana dei doveri.
A tale criterio da il nome di CRITERIO DELLA FUNZIONALITA’ COESISTENZIALE.
Kant distingue i doveri in imperativi ipotetici e categorici.
Gli imperativi ipotetici sono doveri necessari relativamente a un dato oggetto della volontà (se vuoi x, devi fare y).
Poi, a seconda che l’oggetto della volontà sia reale o meno, distingueremo due tipi di imperativi ipotetici: l’imperativo “problematico” o “tecnico”, finalizzato a uno scopo che si è liberi di scegliere o no, e quello “assertorio” o “pragmatico”, finalizzato a uno scopo che tutti si prefiggono di raggiungere.
Per ciò che concerne l’imperativo tecnico, esso esprime un dovere che deriva analiticamente dall’oggetto della volontà (es.: se vuoi passare l’esame, devi studiare).
Poiché questo tipo di doveri esprime delle volontà particolari, ci si chiede quale sia il loro grado di moralità.
Si pensi: vi è un dovere specifico, e dunque un imperativo ipotetico tecnico, anche per chi voglia suicidarsi.
La natura particolare di questi imperativi li rende immorali.
E’ per questo che Cotta, nella sua ricerca di un criterio di giustificazione, abbandona gli imp. Ipot. Tec., per riversare la sua attenzione su quelli assertori.
Come si è già detto, questi doveri derivano da un oggetto reale della volontà, dove “reale” sta per valido per tutti gli esseri umani razionali.
La conseguenza è che ora ci troveremo davanti a doveri non solo necessari (come quelli tecnici) ma universali; ed è proprio la loro universalità a renderli morali.
Kant indica 1 oggetto reale della volontà: la felicità. Tutti gli esseri umani vogliono essere felici. Senonchè, per raggiungere la felicità, non vi è un dovere ben preciso.
Ciò dipende esclusivamente dal fatto che la felicità in realtà, presentando diverse sfaccettature, si presenta come il puzzle di tanti oggetti particolari della volontà. Di essa diremo che è indeterminata.
Ma allora esiste o no un oggetto reale della volontà che sia determinato?
Esiste ed è la volontà di esistere, o meglio, la volontà di coesistere.
E il dovere per realizzarle è quello di non commettere violenza nei confronti degli innocenti.
Poiché la volontà di coesistere (oggetto della volontà) è universale, anche il dovere di non commettere violenza sugli innocenti sarà universale.
28 Marzo 2001
Abbiamo visto che, per Kant, non solo la felicità è un oggetto della volontà indeterminato, ma non è neppure il vero fine degli uomini. Ossia, diremo che la volontà di essere felici non è radicata nella natura umana.
Invece, per Aristotele, la felicità è il vero fine degll’umanità.
A proposito, diremo che egli distingue i beni dal Bene.
I beni sono tali perché mezzo per raggiungere altri beni: perché vuoi il bene x? Perché voglio raggiungere il bene y.
Però, c’è un bene, oggetto dell’etica, per cui non ci si pone alcun “perché”: la felicità. Non ci si chiede, infatti, perché si vuol essere felici!
Per Aristotele, il Bene è la felicità.
Kant, invece, non ritenendo la felicità il fine ultimo degli uomini, pone al centro della vita etica, e della vita giuridica che da essa dipende, la libertà.
L’imperativo ipotetico kantiano, come abbiamo visto, ci permette di individuare dei doveri, siano essi particolari o universali, che in ogni caso discendono dalla nostra volontà.
Probabilmente, si possono individuare dei doveri universali, anche senza collegarli alla nostra volontà, bensì all’imperativo categorico.
Il divieto di commettere violenza sugli innocenti è un dovere necessario, perché senza di esso, indipendentemente dalla volontà degli uomini, non ci sarebbe giuridicità ( la giuridicità poggia sul soggetto; per cui, un dovere che vuole che gli uomini si uccidano fra loro, distruggendo il soggetto, automaticamente, eliminerebbe ogni forma di giuridicità.)
Kant chiama la volontà di essere liberi REALE, non universale, aggettivo, questo, che usa solo per definire quelle volontà su cui poggiano gli imperativi categorici.
Allora, Cotta si domanda se esistano delle volontà davvero universali degli uomini, da cui possano derivare doveri davvero universali. La risposta la trova nella volontà di coesistere, da cui deriva il dovere di non fare violenza sugli innocenti.
29 Marzo 2001
Oggi prenderemo in esame un referto fenomenologico che ci porterà alla volontà di coesistere.
Al di là delle passioni, la struttura ontologica degli uomini è orientata al (usando un’espressione di Heidegger) MIT SEIN , all’ “essere con”.
Sempre secondo Cotta, la struttura ontologica dell’uomo realizza un dualismo di finito e infinito.
In che senso l’uomo è partecipe dell’infinitudine? Egli, a differenza degli altri esseri, ha coscienza della propria finitezza; per avere coscienza di ciò, non si deve essere tutti nella finitezza.
Così l’uomo, essere finito, è partecipe dell’infinito.
Ancora, Cotta dice che l’uomo si mostra finito in 3 tratti:
La incompiutezza dell’uomo si nota perché egli tende a volere essere sempre di più.
Gli esseri umani sono particolari perché, pur avendo un’identità di natura, si distinguono tra loro.
E, ancora, l’uomo è contingente perché nasce e muore. In poche parole, egli è contingente perché non è eterno.
Come conseguenza di questi tre tratti, individueremo ben 2 patologie dello spirito.
Se l’uomo è sintesi duale di finito e infinito, le patologie dello spirito saranno:
L’astrazione dell’infinito consiste nel confondere la propria finitezza con l’infinito.
Il Don Giovanni, ad esempio, vive solo in funzione dei propri desideri. E si comporta come se fosse infinito.
Per questo eroe kierkegaardiano non esiste che il presente; passato e futuro sono annullati dal presente.
Il Don Giovanni va incontro alla disperazione, perché non riesce a conquistare la femminilità (in quanti idea).
Dunque, concluderemo che in questa figura non vi sia nessun mit sein.
Con l’astrazione del finito, l’infinito viene ridotto alla finitezza.
Ne soffrono coloro che si rapportano a qualcosa che, seppur finito, per loro diventa infinito.
Dunque, quale sentimento opprime l’eroe della vita etica? La noia, perchè l’oggetto finito elevato a infinito può dare, sì, ma solo fino a un certo punto.
Se ci si salva da queste patologie, si ritorna a valutare la struttura ontologica dell’uomo come sintesi duale di finito e infinito.
Se ci fermiamo a valutare il lato “finito” dell’uomo, sarà facile comprendere che la coesistenza aiuta ad aprirsi verso l’infinito.
Il soggetto, quando pensa se stesso, difficilmente si pensa come tale; più che altro tende a pensarsi come oggetto.
Ma allora come la coscienza risale all’autocoscienza? Ovvero, come si può scoprire la propria soggettività?
Hegel sostiene che il servo giunge a prendere coscienza di sé quando comprende che il padrone ha bisogno di lui.
La autocoscienza matura dalla riflessione sull’altro.
Il soggetto, che così diventa autocoscienze, però, rischia di dimenticarsi di riconoscere l’altro, da cui la sua autocoscienza è nata.
L’autocoscienza, sfociata intanto in scetticismo, diventa coscienza infelice.
Senza la coesistenza, viene a mancare il senso della durata e l’utilità storica di quello che facciamo.
Se io non considero l’altro, quello che faccio finisce col diventare inutile.
Quanto abbiamo fin’ora detto, porta a una conclusione: la struttura ontologica dell’uomo, per sua natura, necessita della coesistenza.
La coesistenza è una volontà reale, in senso kantiano.
Da essa discende il grund wert di non commettere violenza nei confronti degli innocenti.
Tale dovere, secondo Cotta, è necessario, perché tale è la volontà da cui deriva; ed universale, appuntato nell’idea stessa della giuridicità, perché la volontà da cui nasce è kantianamente reale.
4 Aprile 2001
La volontà di coesistere trova le sue radici nella struttura ontologica dell’uomo.
E’ molto più di una volontà nascente dalle passioni.
Cottianamente, la volontà di coesistere è universale, per Kant è reale.
Poiché Kant non se la sentirebbe di individuare l’oggettività dei doveri negli schemi degli imperativi ipotetici, dal momento che essi seguono sempre una volontà soggettiva, formula gli imperativi categorici.
Questi soli sono doveri universali (kantianamente parlando), in quanto la universalizzazione della loro negazioni porta a una negazione.
Il primo imperativo categorico (sono in tutto 3) afferma:
“Agisci in modo che la massima delle tue volontà possa valere come dovere universale.”
Kant ritiene che, se si osservano i doveri innestati negli imperativi ipotetici, al massimo si può realizzare la felicità (infatti, per Kant, la felicità non è lo scopo ultimo degli uomini – cosa che, invece, teorizza Aristotele- .)
Se invece si realizzano i doveri innestati negli imperativi categorici si realizza il BENE (che, gerarchicamente, si trova più in alto della felicità).
Questi doveri sono assoluti e portano al Bene semplicemente perché non dipendono dalla volontà.
Il 2^ imperativo categorico afferma: “Agisci in modo da trattare l’umanità, così i te come negli altri, sempre come fine e non mai come mezzo.”
Come è facile da capire, il dovere di non commettere violenza sugli innocenti è innestato sul 2^ imperativo categorico.
Kant individua come principio fondativo dei doveri giuridici di ogni diritto la PUBBLICITA’ DELLE MASSIME (GIURIDICHE).
Ogni massima concernente il diritto di altri uomini deve essere compatibile con un principio di pubblicità.
Ma cosa è la pubblicità?
La pubblicizzazione consiste nel sottoporre qualcosa alla universalizzazione.
Sono doveri giuridici solo i doveri pubblicizzati, perché sono pubblicizzati solo i doveri universali.
Per rinfrescare la memoria: Kant nei suoi scritti fa una netta distinzione fra TRASCENDENTE e TRASCENDENTALE; Trascendente di dice in filosofia di tutto ciò che è al di fuori o al di sopra della realtà; Trascendentale invece è, sempre per K., l’ “a priori” , ossia ciò che non deriva dall’esperienza, ma è condizione necessaria del costituirsi di essa.
L’argomento trattato nella “REPUBBLICA” di Platone è l’anzianità ( da cui nasce anche una disquisizione dei personaggi circa il valore della giustizia); il tutto si svolge a casa di Cefalo, anch’egli protagonista del testo platoniano.
AUTOPOIETICO: Che si produce, che si crea da sé.
I CONCETTI PRESCRITTIVI sono quei concetti che prescrivono, che si impongono come legge da osservare tassativamente; i CONCETTI COSTITUTIVI sono quei concetti che servono a creare o a modificare degli atti normativi.
CONSTARE: prendere o avere consistenza.
EPIFENOMENO: manifestazione collaterale, aspetto secondario di un fenomeno e che si ritiene originato da quest’ultimo.
Secondo Aristotele, ogni cosa viene DEFINITA nella sua essenza, in quanto si vede qual’è l’idea più generica nella quale questa rientra, e di cui è determinazione specifica quel carattere, che la differenzia dalle altre specie dello stesso genere. Es.: il genere cui appartiene l’uomo è l’animale. (da “Lamanna”)
L’idea è meglio resa in tedesco dove dover essere giuridico e dover essere causalistico si esprimono con due termini diversi, rispettivamente SOLLEN e MUSSEN.
Nomoq: norma imposta da un re o da un governatore;
Fusiq: norma presupposta, legge di natura.
Inresse = funzione
Kant ne enuncia tre: il primo dice: “Opera in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere in ogni tempo come principio di una legislazione universale”; il secondo: “Agisci in modo da trattare l’umanità, così in te come negli altri, sempre e a un tempo come un fine e non mai solamente come un mezzo”; il terzo, infine, dice: “Agisci in modo che la tua volontà possa essere considerata come istituente una legislazione universale”. (da “Filosofia” vol 2, S. Moravia)
Per rinfrescare la memoria: Kant svolge, nella sua opera, un’analisi accurata dei giudizi cognitivi (per lui la conoscenza intellettuale si concretizza appunto sotto forma di “giudizi”). Innanzitutto, vi sono i GIUDIZI ANALITICI A PRIORI, in essi il predicato è già contenuto nel soggetto analiticamente, il loro limite è di non aggiungere nulla al predicato; I GIUDIZI SINTETICI, invece estendono la conoscenza, in quanto il predicato aggiunge qualcosa di nuovo al soggetto, il loro limite è che sono a posteriori, cioè derivano dalla sola esperienza; non ancora soddisfatto, Kant elabora un 3^ tipo di giudizio, il quale riassume i primi due, e li chiama GIUDIZI SINTETICI A PRIORI, i quali hanno la capacità di ampliare il sapere, ma, allo stesso tempo, hanno anche la prerogativa di essere universali e necessari, e quindi, a priori.
GRUND: fondamento;
WERT: valore;
NORM: parola.
MIT SEIN: essere con; GEGEN SEIN: contro esserci. Per Cotta, il gegen sein è frutto delle passioni.
Fonte: http://lab.artmediastudio.it/www-storage/appunti/39384/8355/FILOSOFIA%20DEL%20DIRITTO.doc
Sito web da visitare: http://lab.artmediastudio.it
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.
I riassunti , gli appunti i testi contenuti nel nostro sito sono messi a disposizione gratuitamente con finalità illustrative didattiche, scientifiche, a carattere sociale, civile e culturale a tutti i possibili interessati secondo il concetto del fair use e con l' obiettivo del rispetto della direttiva europea 2001/29/CE e dell' art. 70 della legge 633/1941 sul diritto d'autore
Le informazioni di medicina e salute contenute nel sito sono di natura generale ed a scopo puramente divulgativo e per questo motivo non possono sostituire in alcun caso il consiglio di un medico (ovvero un soggetto abilitato legalmente alla professione).
"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
www.riassuntini.com dove ritrovare l'informazione quando questa serve