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I diritti umani dal Medioevo alla prima metà del Novecento
La tormentata storia dei diritti umani ha radici risalenti nel tempo, ma ciononostante fragili, vista la facilità con la quale è agevole sradicarli nella pratica, ma soprattutto nelle coscienze.
In passato, ma assai spesso ancor oggi, sono stati e sono chiamati “diritti dell’uomo”, con buone ragioni, poiché fino a pochi decenni fa sono stati effettivamente soltanto diritti degli uomini e non anche delle donne.
La lunga storia dei diritti umani comincia con l’idea di libertà e si afferma con l’idea di uguaglianza.
La rivendicazione della libertà trova antecedenti in un passato lontano, da un lato nella lotta per la libertà religiosa degli eretici medioevali e dei riformatori protestanti contro l’integralismo repressivo della Chiesa cattolica, dall’altro nella difesa delle autonomie di gruppi sociali, corporazioni, città contro l’autoritarismo dei sovrani. Il riferimento più tradizionale lo si trova nella storia inglese, nella Magna Charta Libertatum del 1215, che enuncia il principio dell’ habeas corpus, e che troverà nel ‘600 il suo sviluppo con l’Habeas Corpus Act e con il Bill of Rights, frutto di lotte civili, che tuttavia non avevano pretese rivoluzionarie né universalistiche, ma al contrario, sostenevano rivendicazioni fondate nella storia e nella tradizione inglese.
E’ con il moderno giusnaturalismo che si afferma l’idea dei diritti umani, fondati sul presupposto dell’eguaglianza naturale di tutti gli uomini, secondo una dottrina che svincola il diritto naturale dalla sua origine religiosa, legandolo a presupposti individualisti e razionalisti. Si può ricostruire lo sviluppo di questa nuova dottrina a partire da Francisco de Vitoria e Ugo Grozio, passando per Pufendorf e Hobbes, fino al teorico liberale John Locke, per il quale il sovrano, il potere politico si legittima in quanto garantisca il rispetto dei diritti che l’uomo ha per sua natura: il diritto alla vita, alla libertà, alla proprietà privata. E’ poi con l’illuminismo che l’idea dei diritti umani non solo si approfondisce dal punto di vista filosofico – basti pensare a Immanuel Kant, a Jean-Jacques Rousseau, a Voltaire, a Montesquieu, a Beccaria - ma cerca anche di realizzarsi attraverso riforme concrete.
Alla fine del Settecento i diritti umani vengono affermati come universali, cioè spettanti ad ogni uomo, nelle due grandi Dichiarazioni: la Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 4 luglio 1776 (preceduta e accompagnata da altre dichiarazioni e soprattutto dalle Costituzioni dei singoli Stati) e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino approvata dall’Assemblea nazionale francese il 26 agosto 1789. Esse sanciscono l’affermazione della nuova cultura borghese.
E cominciano ad apparire, con Olympe de Gouges (1748-1793) e Mary Wollstonecraft (1759-1797), le prime rivendicazioni dei diritti delle donne.
Le Dichiarazioni dei diritti dell’uomo resteranno lettera morta nelle loro pretese universalistiche e si tradurranno solo parzialmente in diritto vigente, limitato ai diritti civili e politici dei cittadini di sesso maschile (adulti e abbienti) nelle Costituzioni e nelle codificazioni dell’Ottocento. E’ il periodo in cui si afferma la sovranità esclusiva dello Stato-nazione, legislatore onnipotente e unica fonte di produzione del diritto, che garantisce, autolimitandosi, alcune prerogative ai suoi cittadini.
A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, soprattutto nel mondo anglosassone, e in particolare per opera di John Stuart Mill, riprende vigore la battaglia per l’eguaglianza uomo/donna, non solo intesa come eguaglianza giuridica ma anche come diritto all’indipendenza economica e culturale.
Il pensiero liberale richiede tutele specifiche per la libertà degli individui, minacciata dal potere dello Stato ma anche dai poteri privati della famiglia, della comunità, del datore di lavoro.
Per contro, la nascente dottrina marxista critica l’ideologia dei diritti dell’uomo, individualista e borghese, ma contribuirà alla costruzione dei diritti sociali, che saranno affermati per la prima volta nella Costituzione di Weimar del 1919, anche come sviluppo delle misure di assistenza pubblica già previste nella Germania di Bismarck a tutela dei lavoratori. L’avvento della società industriale aveva portato infatti grandi rivolgimenti: la questione sociale suscitava grandi preoccupazioni e aveva favorito la formazione di molteplici movimenti associativi per la difesa delle condizioni di vita dei gruppi sociali oppressi o emarginati. Nello stesso periodo erano sorti, ancora una volta soprattutto nel mondo anglosassone, associazioni e movimenti femminili, alcuni dei quali si battono per il riconoscimento del diritto di voto alle donne.
Ma le dittature che si instaurano in Europa dopo la prima guerra mondiale travolgono la cultura dei diritti.
La seconda guerra mondiale scatenata dal nazismo, sostenuto dal fascismo, travolge l’intera Europa e sconvolge il mondo.
I diritti umani dalla seconda metà del Novecento
E’ nel secondo dopoguerra che ha luogo una silenziosa ma profonda rivoluzione dei diritti umani. Il peso degli orrori della guerra, la scoperta delle dimensioni dell’olocausto e insieme la speranza di poter costruire un diverso futuro producono un grande cambiamento nella concezione del diritto, che trasforma progressivamente la cultura giuridica e le stesse istituzioni internazionali.
Questa nuova cultura dei diritti è fondata sull’idea che gli esseri umani debbano dotati di alcune prerogative essenziali inviolabili e universali, che uno stato non possa avere il diritto di sterminare una parte dei suoi cittadini, che dunque la sovranità statale non possa più essere assoluta: i diritti inalienabili degli individui vengono affrancati dal monopolio dell’ordine giuridico da parte dello Stato-nazione.
Due concetti sono alla base di quella che Antonio Cassese ha definito una silenziosa ma profonda rivoluzione dei diritti umani che, a partire dal secondo dopoguerra, ha segnato una svolta nella comunità internazionale:
1. l’eguaglianza di tutti gli esseri umani dal punto di vista di ciò che essi hanno diritto di esigere dalla società e dagli altri, nel senso che non si può distinguere, in tema di diritti fondamentali, tra cittadino e straniero, tra uomo e donna, tra bianco e nero, tra cristiano ed ebreo, tra musulmano e non musulmano, tra credente e non credente;
2. la dignità della persona umana, che significa, come già scriveva Kant, che l’uomo non può essere trattato dall’uomo come semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine, fosse pure il più malvagio degli uomini, perché il rispetto che gli è dovuto in quanto uomo non gli può essere tolto neanche se con i suoi atti se ne rende indegno.
Nel clima del secondo dopoguerra, questa visione riuscì a imporsi. Sulla base di questa concezione si riuscì allora a rifondare il diritto internazionale, imperniato sull’Organizzazione delle Nazioni Unite, che è stata istituita il 26 giugno 1945 e la cui Assemblea ha approvato la Dichiarazione Universale dei diritti umani, firmata a Parigi il 10 dicembre 1948.
Si è parlato a questo proposito di nuovo “giusnaturalismo”, quasi si trattasse di tornare a credere che l’essere umano nello “stato di natura” fosse originariamente dotato di alcuni diritti. Ma i diritti sono viceversa un prodotto artificiale della nostra cultura. In realtà si è trattato di una scelta razionale, nata dalla consapevolezza che solo in questo modo si potessero evitare gli orrori del passato. La Dichiarazione universale, sebbene rappresenti un punto di incontro di concezioni diverse, è soprattutto il prodotto della cultura politica americana della prima metà del novecento, che, a partire dall’internazionalismo wilsoniano, si sviluppa nella concezione democratica roosveltiana delle quattro libertà: di espressione, di religione, dal bisogno e dalla paura. Che spettano ad ogni essere umano. E così nella “Carta Atlantica” sottoscritta il 14 agosto 1941 dal presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosvelt e dal primo ministro britannico Winston S. Churchill - con la quale essi concordano sul futuro assetto del mondo, basato sulla fine delle dittature e delle conquiste territoriali, sull’autodeterminazione dei popoli e sulla rinuncia all’uso della forza nelle controversie internazionali, sul disarmo degli aggressori e sulla cooperazione di tutte le nazioni per un generale benessere sociale ed economico – si esprime la speranza che “tutti gli uomini, in tutti i paesi, possano vivere la loro vita liberi dal timore e dal bisogno”.
Purtroppo, le vicende storiche successive, dapprima la divisione del mondo in due blocchi contrapposti, quindi il mutamento della politica statunitense, indeboliranno l’Organizzazione delle Nazioni Unite e il valore della sua Dichiarazione dei diritti umani.
Tuttavia, se la Dichiarazione del ’48 non è riuscita a diventare l’embrione di una costituzione universale, quale ambiva ad essere, essa segna tuttavia l’affermazione di principi tendenzialmente universali, che troveranno radicamento sotto diversi aspetti e in diversi ambiti.
A partire dai Tribunali militari internazionali di Norimberga e di Tokyo, contro i criminali di guerra tedeschi e giapponesi, si è fatta strada l’idea che la sovranità statale non potesse estendersi fino a garantire a dittatori sanguinari l’impunità anche nei confronti di crimini contro l’umanità: di qui la faticosa costruzione di un diritto penale internazionale, che ha consentito l’istituzione – con lo Statuto di Roma del 17 luglio 1998 - della Corte Penale Internazionale. Questo è entrato in vigore il 1° luglio 2002 a seguito della ratifica da parte di sessanta stati: oggi sono 121 gli stati che hanno ratificato lo Statuto della Corte. Russia e Cina non hanno mai aderito allo Statuto di Roma, mentre Stati Uniti e Israele hanno dichiarato di non volerlo ratificare. La competenza della Corte è limitata ai cosiddetti crimina iuris gentium, il genocidio, i crimini contro l'umanità, i crimini di guerra.
Più in generale, il superamento della concezione dell’onnipotenza del legislatore fonda il moderno costituzionalismo: si afferma la rigidità delle costituzioni, che sono sovraordinate alle leggi ordinarie, e dunque costituiscono limiti e vincoli ai poteri delle maggioranze, e vengono dotate di apposite garanzie giurisdizionali, le corti costituzionali. Queste garanzie dei diritti fondamentali sono caratteristiche delle costituzioni adottate dai paesi che in Europa hanno raggiunto la democrazia dopo la caduta di regimi totalitari o autoritari (dall’Italia alla Germania, dalla Spagna al Portogallo, alla Grecia, ma anche ai paesi dell’Est europeo dopo la caduta del muro di Berlino).
Ma soprattutto i principi del costituzionalismo si affermano progressivamente a livello sopranazionale. Oggi nell’intera Europa e, in parte, nell’America Latina.
Sovente vengono usate in modo indifferenziato le locuzioni “diritti umani” e “diritti fondamentali”. Qui cercherò di tenerle distinte: chiamerò “diritti umani” quelli che, sulla base di dichiarazioni pattizie (come la Dichiarazione universale del ’48), spettano indistintamente a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro effettività; chiamerò “diritti fondamentali” quelli definiti come tali da ordinamenti giuridici vigenti e dotati di effettività (cioè previsti come vincolanti), come le costituzioni degli stati democratici occidentali.
I diritti umani sono per definizione inviolabili e universali (come il diritto alla vita o alla libertà personale).
La pretesa universalità dei diritti umani è stata contestata dai sostenitori del multiculturalismo, che l’hanno accusata di “imperialismo culturale”. Ma è bene intendersi. Va precisato, in primo luogo, che universalità non significa condivisione da parte di tutti, ma eguale rispetto per tutti ; in secondo luogo, che il patrimonio universale costituito dall’insieme dei diritti umani è pur sempre un prodotto della storia ed è difficile oggi ammettere che le diversità culturali possano giustificare pratiche come la schiavitù, la segregazione razziale, la tortura o magari i sacrifici umani; in terzo luogo che, di fatto, allorché fu redatta e sottoscritta la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, essa fu il frutto dell’incontro di culture fra loro lontane e anche avversarie. Personalmente sono sempre stata convinta che la diffusione dei diritti umani, nonostante l’uso strumentale che se ne è fatto, addirittura per legittimare le terribili “guerre umanitarie”, non costituisce l’effetto di una pretesa colonialistica dell’Occidente, come qualcuno pretende, ma piuttosto l’effetto di quello che Stefano Rodotà ha chiamato un “universalismo dal basso”: “Donne africane, giovani iraniani, monaci birmani, dissidenti cinesi, operai coreani…narrano la loro lotta per i diritti violati, creando così un tessuto comune che fa cadere barriere giudicate insuperabili”. In altri termini, si sta di fatto svolgendo un processo che dimostra la possibile condivisione di principi universali. Il numero crescente di Stati che abbandonano la pena di morte, fino a pochi decenni fa diffusa anche in Europa, ne è un’ ulteriore conferma.
I diritti fondamentali riconosciuti negli ordinamenti costituzionali delle moderne democrazie inglobano generalmente i diritti umani, ne ampliano il catalogo e prevedono ulteriori diritti inviolabili, che spettano soltanto a coloro che sono soggetti a quell’ ordinamento, i cittadini.
La individuazione di diritti di cui si ritiene necessaria la protezione è inevitabilmente connessa ai mutamenti storici e all’evoluzione delle civiltà.
Tutte le costituzioni democratiche dei paesi occidentali prevedono come diritti fondamentali i diritti civili e politici, cioè i diritti dei cittadini alla libertà e alla sicurezza personale e alla partecipazione alla vita pubblica, frutto della rivoluzione borghese. Ad essi si è aggiunto in gran parte dell’Europa il riconoscimento di diritti sociali, frutto dell’emergere di un nuovo soggetto storico, la classe operaia.
Ma nelle costituzioni più recenti, per esempio quelle dei paesi dell’Est europeo e dell’America Latina, si trovano iscritti diritti nuovi, dovuti all’emergere di nuovi rischi . Fra i nuovi diritti più frequentemente codificati si trovano il diritto all’ambiente e il diritto alla privacy.
I diritti umani in Europa
In Europa la Dichiarazione universale dei diritti umani ha avuto un seguito concreto. Il 5 maggio 1949 veniva istituito il Consiglio d’Europa, con sede a Strasburgo, con lo scopo di tutelare i diritti dell’uomo e la democrazia pluralista e garantire il primato del diritto in Europa. Sotto la sua egida veniva firmata a Roma il 4 novembre 1950 la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). Ad oggi sono 47 gli stati europei che hanno aderito alla CEDU e fanno parte del Consiglio d’Europa, sottoponendosi così ai controlli, ai rapporti, alle raccomandazioni del Comitato dei Ministri e dell’Assemblea parlamentare, ma soprattutto alle decisioni e alle sanzioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale possono far ricorso gli individui che ritengano lesi i diritti loro riconosciuti dalla CEDU, dopo averne inutilmente invocato il rispetto da parte dei giudici dei singoli stati. Si supera così per la prima volta il tradizionale sistema del diritto internazionale, i cui soggetti sono soltanto gli stati, non le persone.
Gli stati europei accettano “l’ingerenza umanitaria”, pacifica e legale, di una Corte che - chiamata da un singolo, che sia oppure no un cittadino di quegli stati - entra nei loro affari interni, giudica l’applicazione delle loro leggi da parte dei giudici nazionali.
In questo modo i diritti umani in Europa non sono più soltanto affermazioni apparentemente condivise in solenni dichiarazioni, ma diritti esigibili davanti a un giudice: sono divenuti diritti fondamentali di un ordinamento internazionale che copre ormai l’intero continente europeo.
Una strada per certi versi simile è quella che sta percorrendo l’America latina: nel 1969 è stata infatti adottata la Convenzione americana sui diritti umani, che è in vigore dal 1978, ed è stata creata la Corte interamericana sui diritti umani, con sede in San José di Costa Rica, la cui giurisdizione è accettata da 21 Stati.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea
Nell’Unione europea il progressivo riconoscimento dei diritti fondamentali – oggi sancito in una Carta che contiene il catalogo più ampio e completo che si conosca a livello internazionale – ha seguito un percorso originale, che non è partito da una affermazione di principi generali da cui sono stati ricavati singoli diritti, ma all’opposto, dall’affermazione di singoli diritti alla formulazione di principi generali.
Per esempio, il divieto di discriminazione è tradizionalmente un corollario e del principio di uguaglianza - presente sia nella Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 (art.2), sia nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) del 1950 (art.14), sia nella Costituzione italiana (art.3) – che si è andato via via specificando con riferimento all'emergere di fenomeni di discriminazione nuovi o prima non percepiti come riprovevoli nella coscienza comune. Anche nell'Unione europea il principio di non discriminazione è divenuto un pilastro fondante dell'ordinamento (forse il principale e quello più tutelato dalle norme europee e dalla giurisprudenza), ma attraverso un percorso inverso, che non parte dall'affermazione del principio generale di uguaglianza per approdare ad un sempre più ampio elenco di specifici divieti di discriminazione, ma, al contrario, parte da specifici divieti di discriminazione, funzionali alla costruzione di un mercato comune, (come il divieto di discriminazione in ragione della nazionalità o l’obbligo di pari retribuzione per uomini e donne) per approdare all'affermazione di un principio generale di uguaglianza e non discriminazione.
L’integrazione europea è stata infatti costruita – per volontà dei governi e dei parlamenti democratici degli Stati fondatori e degli Stati che vi hanno successivamente aderito – sulla base di un sistema duale, nel quale spettava alla sede sopranazionale di dettare la disciplina uniforme del mercato secondo i principi della libera circolazione e della libera concorrenza, mentre la politica sociale restava appannaggio della discrezionalità politica dei legislatori nazionali: alla Comunità le regole del mercato, agli Stati la protezione dei diritti sociali. Ma proprio l’integrazione europea, attraverso la costruzione del mercato comune, ha portato con sé nuovi diritti e nuove libertà per i cittadini dei paesi della Comunità, innanzitutto il diritto di circolare liberamente nell’intero territorio dell’Europa unita. E, paradossalmente, è stata questa tipica libertà di mercato che ha arricchito di contenuti sociali la cittadinanza europea, perché, per renderne effettivo il diritto di libera circolazione dei lavoratori migranti è stato necessario assicurare loro il mantenimento delle protezioni sociali, garantire cioè che ciascuno potesse “portare con sé i propri diritti” nel passare dall’uno all’altro Paese dell’Unione (art.48 TFUE). All’inizio della costruzione del mercato comune, affermatasi la necessità della preminenza del diritto comunitario sul diritto interno degli Stati nelle materie di competenza della Comunità economica europea per garantire l’uniforme applicazione delle regole comuni si è temuto il rischio di una prevalenza delle regole di concorrenza sulla tutela dei diritti fondamentali garantiti dai singoli stati. Ben presto allora, a partire dal 1969, per far fronte a questo rischio e quindi assicurare la “primazia” del diritto comunitario, la Corte di giustizia ha affermato che “la tutela dei diritti fondamentali costituisce parte integrante dei principi giuridici generali” di cui la stessa Corte era tenuta a garantire l’osservanza.
Con il Trattato di Maastricht del 1992 è stata introdotta la “cittadinanza europea”, che spetta a tutti coloro che sono cittadini degli Stati membri, e, insieme, la disposizione che prevede il rispetto da parte dell’Unione europea dei diritti fondamentali delle persone, quali sono garantiti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri. Una formula ancora generica, che troverà specificazione soltanto con la proclamazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nel dicembre 2000. Da allora può dirsi che l'Unione europea è diventata davvero un’unione di diritto, destinata a promuovere la dignità delle persone e a garantire il rispetto dei diritti fondamentali dei suoi cittadini.
L’originale struttura della Carta - cui ora il Trattato di Lisbona attribuisce valore giuridico vincolante pari a quello dei trattati - raggruppa i cinquanta articoli che sanciscono i diritti fondamentali non più secondo le tradizionali distinzioni tra diritti civili e politici, diritti sociali ed economici, ma intorno a sei valori fondamentali: la dignità, la libertà, l’uguaglianza, la solidarietà, la cittadinanza e la giustizia. In questo modo si sottolinea l’indivisibilità dei diritti fondamentali, la cui necessaria coesistenza consente l’adeguata interpretazione della portata di ciascuno di essi e costituisce un quadro permanente di riferimento per tutte le attività dell’Unione e anche per la futura evoluzione delle sue competenze. Il fatto che alcuni diritti riservati ai cittadini sono raggruppati sotto il titolo “cittadinanza” (per esempio, il diritto di voto alle elezioni del Parlamento europeo) mette in evidenza l’universalità dei diritti fondamentali elencati negli altri capitoli: essi spettato ad ogni essere umano.
Nella complessa opera di stesura della Carta si è fatto ricorso a molteplici fonti, non solo alla Convenzione europea dei diritti umani e alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, ma anche alle convenzioni internazionali sottoscritte dai Paesi membri: si sono potuti così iscrivere nella Carta nuovi diritti, come la protezione dei dati personali, i principi relativi alla bioetica, il diritto a una buona amministrazione, il diritto all’ambiente e il diritto dei consumatori.
Cittadinanza significa non solo titolarità di un insieme di diritti, ma, più in generale, appartenenza a una comunità politica. In questo senso la cittadinanza europea indica l’appartenenza a una comunità politica sopranazionale, sia pure in divenire, la cui carta di identità è ora rappresentata essenzialmente dalla sua Carta dei diritti fondamentali. Questa infatti sancisce i valori e i principi comuni, che identificano l’Unione europea e definisce i contenuti e le condizioni che rendono possibile quella “unità nella diversità” che è la caratteristica specifica dell’Unione: diversità di tradizioni culturali, di lingua, di religioni, di etnie, che possono coesistere in una comunità di diritto grazie al rispetto della pari dignità di ciascuno, garantita dalla laicità delle istituzioni comuni. La Carta, infine, disegna il modello sociale europeo, che definisce una specifica identità giuridico-politica, ben diversa da quella meramente mercantile ed economica che si suole attribuire all’Unione europea, ben distinta rispetto al resto del mondo, anche rispetto ad altri modelli propri dell’Occidente democratico. La Carta comprende infatti diritti sociali che con sono riconosciuti come diritti fondamentali in altri paesi occidentali; ma anche nel consolidato terreno della tradizione liberale presenta specificità europee, come l’assoluta proibizione della pena di morte, che non è un dato comune a tutto l’Occidente.
L’ultimo dei trattati sull’Unione europea, il Trattato di Lisbona, è entrato in vigore il 1°dicembre 2009. Nel settore che qui interessa, che riguarda i diritti dei cittadini, si può affermare che, con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona si sono avute delle significative innovazioni “costituzionali”. La vincolatività della Carta, l’estensione della giurisdizione della Corte di giustizia e la prevista adesione dell’Unione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo costituiscono potenti fattori di migliore tutela dei diritti fondamentali dei cittadini europei e di tutti coloro che si trovano entro i confini dell’Unione. I principi e i diritti sanciti dalla Carta vincolano infatti tutte le istituzioni dell’Unione in tutte le loro attività e competenze: la Commissione europea sottopone a uno scrutinio di compatibilità e di coerenza con la Carta dei diritti fondamentali ogni proposta di iniziativa legislativa e di recente ha messo a punto una “Strategia di attuazione della Carta” e redige una relazione annuale per informare meglio i cittadini in merito all'applicazione della Carta e per misurare i progressi compiuti nella sua attuazione. Sia la Strategia d'attuazione della Carta che la prima relazione annuale sull'applicazione della Carta hanno dato luogo a dibattiti in seno al Parlamento europeo, al Consiglio, così come al Comitato delle regioni e al Comitato economico e sociale.
Ma è soprattutto grazie ai giudici che si sta consolidando l’Europa dei diritti. La Carta dei diritti fondamentali è diventata a poco a poco un comune riferimento per l’attività interpretativa dei giudici dei paesi europei. Nelle loro sentenze essi appaiono sempre più consapevoli di operare in un sistema “multilivello”, nel quale la tutela dei diritti impegna tre diversi ordinamenti: quelli nazionali, con le rispettive corti supreme e corti costituzionali; quello comunitario, con la sua Corte di giustizia; quello internazionale, sia pure sui generis, con la sua Corte europea dei diritti dell’uomo. Questa consapevolezza fa evolvere l’interpretazione e in qualche modo muta il ruolo stesso dei giudici, arrivando anche ad avvicinare le culture giuridiche, tradizionalmente incomunicanti, di common law e di civil law. Le stesse due Corti europee, inizialmente ostili, per diversi motivi, alla Carta dei diritti, l’ hanno ben presto non solo accettata ma addirittura, sia pure con grande cautela, utilizzata e valorizzata. Una tutela sempre più urgente e necessaria a fronte del dilagare di tendenze securitarie, repressive e xenofobe che attraversano l’Europa (e anche l’Italia), impaurita dai fenomeni migratori e dalle incertezze della globalizzazione.
Per chi volesse conoscere i più rilevanti documenti dell’Unione europea e del Consiglio d’Europa sui diritti fondamentali, così come le principali sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, della Corte europea dei diritti umani e delle Corti dei Paesi membri dell’Unione europea in materia di rispetto dei diritti fondamentali delle persone quali garantiti dalla Carta dei diritti, può consultare il sito www.europeanrights.eu che è il sito dell’Osservatorio sul rispetto dei diritti fondamentali in Europa redatto in tre lingue, che diffonde una Newsletter bimestrale nella quale dà atto dei costanti aggiornamenti e dei commenti degli esperti sulle novità giurisprudenziali.
Non è ancora chiaro se questo continente, che ha saputo inventare un ordinamento sopranazionale capace di rendere impossibili le guerre che per i secoli passati avevano lacerato le sue nazioni, riuscirà a consolidarlo. E’ davvero profondamente contraddittoria questa Europa, o meglio lo sono le sue classi dirigenti e forse anche i suoi cittadini, desiderosi di istituzioni sopranazionali che sappiano far fronte unitariamente alle sfide del mondo contemporaneo, ma timorosi di ogni innovazione necessaria a tale scopo. Si resta così al bivio fra la possibilità di un futuro più solido, che mantenga il livello di benessere raggiunto, e il rischio di decadimento.
Il consolidamento dell’integrazione europea è certamente auspicabile, anche perché l’unità dell’Europa può salvaguardare la democrazia il futuro di tutti i Paesi dell’Unione, anche i più fragili, soprattutto in questo periodo di crisi dell’economia mondiale, in cui le democrazie sono sottoposte a gravi tensioni e messe a rischio da un eccesso di disuguaglianze.
Non dobbiamo confondere le politiche europee che non condividiamo con il grande disegno politico-istituzionale della costruzione europea (come non potremmo imputare alla Costituzione italiana le cattive politiche dei nostri governi). Dovremmo piuttosto cercare di persuaderci che combattere le disuguaglianze economiche, favorire l’integrazione degli immigrati e garantire pari dignità e uguali diritti fondamentali a tutti (garantire “libertà dalla paura e dal bisogno”) non è un atto di generosità da parte di quanti godono di maggiori beni e di più solide garanzie, ma un dovere e un interesse comune, a salvaguardia di un modello di convivenza che ha garantito la pace e ha fatto dell’Europa la regione del mondo dove sono meglio garantiti i diritti umani.
A.Cassese, Il concetto di dignità:i diritti umani come nuovo codice dell’umanità, in Italianieuropei, 2008, n.3, p.186 ss.
Cfr. M. Salvati, Alle origini della Carta del 1948 e Pietro Costa , I diritti oltre lo Stato. La Dichiarazione del 1948 e la sua retorica “universalistica” in M. Salvati (a cura di), Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo 10 dicembre 1948. Nascita, declino e nuovi sviluppi, Ediesse, Roma, 2006
Su questo punto sono illuminanti le riflessioni contenute nella vasta opera di Luigi Ferrajoli. Cfr, da ultimo, Principia iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Laterza, Bari, 2007, ove fra l’altro si legge (vol.II, pp. 58-59) “l’universalismo dei diritti fondamentali …non soltanto è compatibile con il rispetto delle differenze rivendicato dal multiculturalismo, ma ne rappresenta la principale garanzia. Sono infatti i diritti fondamentali, e specificamente i diritti di libertà, che garantiscono…l’uguale valore di tutte le differenze personali, a cominciare da quelle culturali, che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e di ciascun individuo una persona uguale a tutte le altre”
Comunicazione della Commissione - Strategia per un'attuazione effettiva della Carta dei diritti
fondamentali dell'Unione europea, COM(2010) 573 def., consultabile all'indirizzo: http:// eurlex.
europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM:2010:0573:FIN:IT:PDF
Fonte: http://www.europarl.it/resource/static/files/relazione-elena-paciotti.doc
Sito web da visitare: http://www.europarl.it/
Autore del testo: E.Paciotti
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