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Il nuovo ruolo del prefetto tra diritti e sicurezza.
Sommario – 1. Il prefetto e la Repubblica delle Autonomie 2. Ruolo della prefettura tra ordine pubblico e sicurezza 3. Il prefetto e le ordinanze sindacali dopo il nuovo art. 54 T.u.e.l.
1. Il prefetto e la Repubblica delle Autonomie
I centocinquanta anni di storia del prefetto, nell’ambito dell’ordinamento italiano, sono stati contraddistinti dal fatto che, in ogni fase istituzionale di transizione o di profonda trasformazione, il ruolo dell’istituto prefettizio e, a volte, gli stessi presupposti della sua permanenza nell’ordinamento, sono stati oggetto di discussione.
Così dopo la fine della guerra e della dittatura fascista, vivace fu il confronto in merito a tale istituzione, che rappresentando la proiezione periferica del potere centrale dello Stato, ne incarnava i profili autoritari considerati incompatibili con il pluralismo socio-politico costituente l’instaurato regime democratico.
Da questo sentimento nasceva il più noto e autorevole attacco all’istituto prefettizio, espresso da Luigi Einaudi, che si nutriva di suggestioni - per certi aspetti - ancor oggi attualissime:
«Proporre in Italia e in qualche altro paese di Europa di abolire il prefetto sembra stravaganza degna di manicomio. Istituzione veneranda, venuta a noi dalla notte dei tempi, il prefetto è quasi sinonimo di governo e, lui scomparso, sembra non esistere più nulla. Chi comanda e chi esegue fuor dalla capitale ? Come opera l’amministrazione pubblica ? […Ma ] Democrazia e prefetto ripugnano profondamente l’una all’altro. Né in Italia, né in Francia, né in Spagna, né in Prussica si ebbe mai e si avrà mai democrazia, finchè esisterà il tipo di governo accentrato, del quale è simbolo il prefetto. […] Finchè esisterà in Italia il prefetto, la deliberazione e l’attuazione non spetteranno al consiglio municipale ed al sindaco, al consiglio provinciale ed al presidente; ma sempre e soltanto al governo centrale, a Roma; […infatti] attraverso i suoi organi distaccati, le prefetture, il governo centrale approva o non approva i bilanci comunali o provinciali, ordina l’iscrizione di spese di cui i cittadini farebbero a meno, cancella altre spese, ritarda l’approvazione ed intralcia il funzionamento dei corpi locali. […] L’unità del paese non è data dai prefetti e dai provveditori agli studi e dagli intendenti di finanza e dai segretari comunali […] L’unità del paese è fatta dagli italiani. Dagli italiani, i quali imparino, a proprie spese, commettendo spropositi, a governarsi da sè»
Depurate dagli accenni inerenti la natura autoritaria della figura del prefetto, queste considerazioni riflettono in realtà quell’aspirazione all’autonomia degli enti locali, in quanto rappresentativi della volontà diretta dei cittadini ed espressione immediata del cd. «Stato-comunità», che si è successivamente manifestata nella costituzione repubblicana.
Oggetto degli strali polemici non era infatti l’istituto prefettizio in sè considerato, quanto il fatto che esso riflettesse la struttura accentrata e centripeta dello Stato, divenendo quindi un ostacolo all’attuazione della politica regionalistica.
In Assemblea costituente, tuttavia, le insistite richieste di abolizione della figura prefettizia, prive di chiare soluzioni alternative o di apprezzabile contenuto costruttivo, si stemperarono ben presto in soluzioni compromissorie tese a riplasmare tale istituto nell’ambito del disegno organizzatorio e funzionale del nuovo Stato delle autonomie.
Sicchè fu proprio nell’ambito della ridefinizione complessiva – operata dalla Costituzione – del rapporto tra centro e periferia, che riemerse l’importanza del ruolo del prefetto, in grado di assicurare la presenza unitaria e coordinatrice dello Stato in un tessuto istituzionale articolato ed ormai a vocazione autonomistica.
Veniva quindi superata la contrapposizione tra l’istituto prefettizio e lo sviluppo decentramentale e autonomistico del paese nell’ottica di una «sintesi di poteri» che si venivano ad integrare, e a condizionare a vicenda, esprimendo l’uno la continuità, l’unità e l’autorità dello Stato e gli altri la parcellizzazione di un potere temporalmente definito e localmente rilevante.
Tale armonizzazione, che non è certo stata indolore, è tuttavia stata favorita dal fatto che il prefetto è da sempre inserito nel rapporto tra centro e periferia, in conformità con la propria natura istituzionale, ossia quella di «rappresentante del potere esecutivo nella provincia».
In questo quadro, l’attuazione delle regioni, all’inizio degli anni ’70, ha tuttavia rappresentato un’altro passaggio critico, in quanto, accelerando il processo di trasformazione dello Stato, sia a livello centrale attraverso un ridimensionamento delle funzioni di alcuni ministeri, che a livello periferico con il passaggio ad un sistema graduale di governo locale, ha contribuito a creare i presupposti per l’affermazione di enti locali depositari di una sorta di contropotere in grado di bilanciare quello centrale.
Tale evoluzione ha avuto riflessi anche sull’istituto prefettizio che, con il trasferimento di competenze dallo Stato alle regioni, ha subito un notevole ridimensionamento di funzioni e di ruolo nei confronti degli enti locali, nondimeno, dimostrando la sua capacità di adattamento, esso ha assunto una nuova fisionomia, fondata sul suo carattere originario di rappresentanza del Governo nella realtà locale.
Il prefetto è divenuto quindi il centro di riferimento nelle situazioni di emergenza (terrorismo e lotta alla mafia) , mediatore dei conflitti sociali e consigliere tecnico, specialmente dei comuni minori, svolgendo attivamente la funzione di tramite per la segnalazione alle amministrazioni centrali dello Stato dei problemi emergenti nella provincia.
Con la metà degli anni ’90, il processo di decentramento amministrativo «a Costituzione invariata» introdotto con le «riforme Bassanini» ha aperto, per l’istituto prefettizio, prospettive evolutive di notevole interesse.
Il nuovo equilibrio istituzionale imponeva, infatti, di superare il consolidato assetto degli uffici statali periferici nella provincia per attribuire ad un’unica figura di rappresentante dello Stato le funzioni di organo di riequilibrio tra il centro ed il sistema locale, in attuazione del principio di cooperazione e nel rispetto di quello della omogeneità delle prestazioni.
In un ordinamento che intende garantire forti spazi di autonomia e, nel contempo, combattere le spinte centrifughe per salvaguardare l’unità nazionale e i diritti fondamentali dei cittadini, si rendeva quindi indispensabile prevedere nuove forme di collaborazione tra lo Stato unitario e le autonome articolazioni territoriali, in modo da verificare con continuità e profondità la qualità dei servizi resi al cittadino, prevenendo le tensioni sociali collegate alle disparità e alle disfunzioni delle varie aree del Paese, che avrebbero potuto compromettere l’esistenza delle precondizioni per un armonico e uniforme sviluppo socioeconomico della comunità nazionale.
Sinteticamente, le riforme, succedutesi nel corso degli anni ’90, hanno teso alla «ricomposizione della Repubblica», contemperando e coordinando gli interessi della componente periferica (riassumibili nell’anelito alla limitazione del potere centrale e, quindi, nella separazione territoriale delle competenze) e quelli del centro, insiti nella necessità di assicurare giustizia ed uguaglianza sull’intero territorio nazionale.
Nello stesso tempo, il rafforzamento inevitabile delle autonomie locali, in materia decisionale e gestionale, preludendo ad uno svuotamento progressivo di funzioni statuali, di pertinenza degli Uffici periferici delle amministrazioni centrali (ad es., nel campo della fiscalità, sanitario e del lavoro), richiedeva un rafforzamento del coordinamento territoriale, al fine di evitare una dispersione «sistematica» nella gestione delle materie residuali, riservate allo Stato.
Si deve rammentare come al problema del coordinamento dell’amministrazione periferica statale, che si era già imposto all’inizio del secolo scorso, a seguito del moltiplicarsi degli Uffici periferici statali e degli organi locali degli enti pubblici nazionali, si fosse tentato di dare soluzione prima con la legge 3 aprile 1926, n. 660 (che attribuì al prefetto il potere di convocare «in riunione collegiale» i capi degli uffici statali con sede nella provincia), quindi, all’inizio degli anni ‘90, con il d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, istitutivo del «Comitato provinciale della pubblica amministrazione», presieduto dal prefetto e composto dei dirigenti degli uffici locali statali, con il compito di coordinare l'azione amministrativa. Tuttavia tali soluzioni si sono rivelate poco soddisfacenti e scarsamente efficaci.
Con il decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300 si è imboccata la strada della ricomposizione, attorno al prefetto, dell’organizzazione periferica dello Stato, attraverso la trasformazione delle prefetture in «uffici territoriali del Governo» (U.T.G.) nei quali dovevano essere concentrate «tutte le attribuzioni dell'amministrazione periferica dello Stato», riaffermandosi così la sua originaria vocazione di ufficio generalista a competenza diffusa e orizzontale tra più amministrazioni.
L’U.T.G. non doveva essere quindi semplicemente il luogo dove coesistevano assieme, come in una sommatoria, diversi uffici, ma un nuovo ufficio dello Stato con una sua propria fisionomia ed una propria autonomia funzionale.
Coerentemente con l’impostazione generale della riforma (all’insegna della razionalizzazione e della concentrazione), all’U.T.G. spettava l’esercizio di tutte le attribuzioni dell’amministrazione periferica dello Stato non espressamente conferite ad altri uffici, caratterizzandosi quindi non solo quale strumento per l’esercizio delle specifiche competenze affidate al Ministero dell’Interno, bensì come snodo nevralgico, connotato da «uno spiccato carattere di interministerialità, funzionale all’attività dell’intero Governo».
Nell’esercizio della delega di cui all’art. 11 del d.lgs 30 luglio 1999 n. 300, il d.PR 17 maggio 2001, n. 287 ha provveduto a definire l’ordinamento degli uffici territoriali del governo.
Quanto ai compiti ad esso rimessi, il provvedimento ne ha dato una elencazione sistematizzata (art. 1, 2 co., d.PR n. 287/2001): così sono espressamente richiamati in primis quelli di supporto alle potestà proprie del prefetto in materia di rappresentanza generale del governo, di coordinamento delle pubbliche amministrazioni statali sul territorio, di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica, di protezione civile, di difesa civile e di collaborazione con le regioni e gli enti locali, nonché quelli connessi alle funzioni di commissario del governo esercitate dal prefetto del capoluogo regionale.
Sostanziale novità è costituita dalla configurazione dell’ufficio come struttura di esercizio a livello periferico di compiti del Ministero dell’Interno a un duplice livello di competenza territoriale, regionale e provinciale.
Sono state mantenute in capo all’ufficio territoriale tutte le funzioni che tradizionalmente erano di competenza delle prefetture, alle quali vanno ad aggiungersi quelle di livello periferico delle amministrazioni, le cui strutture sono destinate a confluire nell’ufficio, nonché quelle delle altre amministrazioni dello Stato che intendono avvalersene.
Il ruolo di rappresentanza generale del governo riconosciuto al prefetto ha trovato ulteriore conferma e supporto nell’istituzione della «Conferenza permanente», da lui presieduta e composta dai responsabili delle strutture periferiche dello Stato (art. 4 d.PR n. 287/2001): in sostanza si veniva a configurare un organismo di collaborazione del titolare dell’ufficio di governo nell’esercizio del coordinamento delle pubbliche amministrazioni statali sul territorio, destinato a sostituire i comitati provinciali e metropolitani della pubblica amministrazione, di cui si disponeva la parallela soppressione (art. 16 d.PR n. 287/2001).
La norma veniva completata con la previsione della possibilità di invitare a partecipare alle singole sedute della conferenza anche rappresentanti delle categorie economico-sociali e professionali, delle istituzioni universitarie, degli enti erogatori di servizi pubblici, nonché esperti, al fine di assicurare all’attività deliberativa supporti di elevata qualificazione.
È stata altresì prevista la possibilità che alle conferenze venissero invitati a partecipare anche i rappresentanti regionali, provinciali, comunali e degli altri enti locali interessati, garantendo così la possibilità di uno scambio di valutazioni e di una visualizzazione integrale e congiunta dei problemi della pubblica amministrazione.
Si è in tal modo, attraverso il d.lgs n. 300/1999 e il d.PR n. 287/2001, proposta sul territorio una drastica semplificazione degli apparati ministeriali, con la previsione di servizi comuni ed una gestione comune delle funzioni strumentali, ma, nello stesso tempo, veniva incrementata anche l’autorevolezza del rappresentante del Governo il quale non era più soltanto il funzionario preposto alla direzione della prefettura ma era il prefetto posto alla direzione ed al coordinamento di tutti gli uffici periferici dello Stato.
Tuttavia nelle more dell’attuazione di tale disciplina è intervenuta dapprima la legge n. 317/2001 che, istituendo il Ministero delle Comunicazioni, ha in pratica sottratto da detta confluenza gli Uffici periferici del Ministero delle Comunicazioni e, successivamente, il d.lgs 12 giugno 2003, n. 152, recante la «riforma dell'organizzazione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti» che istituendo nuove strutture periferiche di tale dicastero di livello sovraregionale (S.I.I.T.), ne ha escluso implicitamente la confluenza negli UTG.
Se si considera poi che gli unici uffici destinati a confluire negli UTG erano rimasti quelli del Ministero della Sanità (uffici sanitari di frontiera) e quelli del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che peraltro non perdeva occasione per ribadire la sua contrarietà alla confluenza nell'UTG, si comprende come l’impianto stesso della riforma del ‘99 fosse stato irrimediabilmente compromesso.
Sicchè il nuovo quadro istituzionale derivante da tali modifiche normative ha innovato sostanzialmente l’originario modello organizzativo delineato dall’art. 11 del d.lgs n. 300/99, che prefigurava negli U.T.G. un centro di raccordo e di rappresentanza unitaria dello Stato sul territorio, riducendone la capacità di incidere e coordinale le funzioni periferiche dello Stato.
Nel 2001 è intervenuta la revisione del titolo V della Costituzione che, come è noto, ha notevolmente ampliato il processo di riforma delle Amministrazioni pubbliche introdotto dalle cd. «leggi Bassanini», che, prevedendo il conferimento di funzioni e risorse alle Regioni e agli enti locali e la contestuale ridefinizione delle strutture e delle funzioni della Presidenza del Consiglio e dei Ministeri, ha impresso una forte accelerazione al processo di trasformazione in senso federale dell’ordinamento.
La riforma si è articolata, in sintesi, attraverso la proclamazione nel novellato art. 114 Cost. della pari dignità, pur nella diversità delle funzioni, delle istituzioni territoriali componenti la Repubblica; il riconoscimento alle regioni di una potestà legislativa esclusiva secondo formule proprie degli Stati ad ordinamento federale e con la previsione di una riserva in via residuale; l’attribuzione generalizzata ai comuni delle funzioni amministrative in applicazione del principio di sussidiarietà, coniugato con i principi di proporzionalità ed adeguatezza; la costituzionalizzazione del principio di leale collaborazione tra Stato e regioni.
Non si può non rammentare come l’attuazione della riforma abbia presentato problemi di non facile soluzione che hanno interessato anche l’universo delle amministrazioni statali e siano state segnate dai ripetuti interventi della Corte costituzionale, la quale ha posto in evidenza l’esigenza di organicità e razionalizzazione necessaria per sbloccare, completare e chiarire l’attuazione del nuovo disegno delle autonomie.
Per quanto concerne l’oggetto di questa analisi, si può rammentare come la legge costituzionale n. 3/2001 abbia eliminato la figura del Commissario del Governo, con l’abrogazione dell’art. 124 Cost., e ridefinito su di un piano di perfetta parità tra lo Stato e le Regioni la disciplina prevista ai sensi dell’art. 127 Cost. in merito al controllo preventivo dello Stato sulle leggi regionali.
Tali riforme hanno avuto dirette ricadute sul ruolo dei prefetti titolari dell’U.T.G. regionale che si sono trovati nell’imbarazzante situazione di dover osservare norme, segnatamente l’art. 13 della legge n. 400/1988, che si fondavano su disposizioni costituzionali abrogate: in particolare la nuova ripartizione della competenza legislativa tra Stato e regioni, con l’attribuzione alla competenza concorrente di queste ultime di alcune della materie prima statali, come la tutela e la sicurezza del lavoro, la tutela della salute, le grandi infrastrutture, l’ordinamento della comunicazione, è venuta a ridefinire completamente anche la strutturazione della Prefettura-U.T.G.
Nel difficile contesto che ha contrassegnato l’attuazione della riforma del Titolo V, è intervenuta quindi la legge 5 giugno 2003, n. 131 (cd. legge «La Loggia»), che si è proposta come disciplina per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale n. 3/2001, sembrando prefigurare una svolta di fondo tesa a superare la divaricazione che si era realizzata tra la nuova disciplina costituzionale e il sistema delle regole, delle procedure, degli istituti e delle prassi riconosciute dalla legislazione vigente.
Sotto il profilo del coordinamento dell’azione amministrativa, va ricordato che l’art. 10 della legge n. 131 del 2003 ha introdotto, quasi in vece dell’abolito Commissario del Governo, la figura del Rappresentante dello Stato per i rapporti con il sistema delle autonomie le cui funzioni sono state affidate al prefetto preposto all’ufficio territoriale di Governo del capoluogo di regione.
Al rappresentante dello Stato, nelle regioni a statuto ordinario, sono state attribuite varie competenze, conformate allo spirito della nuova struttura istituzionale, tra cui:
a) assicurare l’osservanza del principio di leale collaborazione tra lo Stato e la regione, ora previsto dall’art. 120 Cost., anche attraverso lo strumento tecnico delle conferenze permanenti, tenendo conto delle innovazioni introdotte negli anni ’90 che hanno posto il cittadino al centro degli interessi delle pubbliche amministrazioni quale percettore di servizi;
b) curare la tempestività delle informazioni necessarie all’amministrazione centrale dello Stato ai fini della promozione della questione di legittimità costituzionale sulle leggi statutarie e ordinarie delle regioni;
c) assumere l’iniziativa per l’attuazione delle intese e il coordinamento tra lo Stato e la regione, in materia di immigrazione, ordine pubblico e sicurezza ed in sede di conferenza Stato-città;
d) eseguire i provvedimenti di esercizio del potere sostitutivo di cui all’art. 120 Cost.;
e) curare lo scambio di informazioni circa le funzioni statali conferite alle regioni e agli enti locali ai sensi del d.lgs n. 112/1998 in modo da assicurarne la conoscenza e la fruizione su tutto il territorio nazionale.
La scelta operata dal legislatore di affidare al prefetto preposto all’U.T.G. del capoluogo regionale le funzioni di rappresentante per i rapporti con il sistema delle autonomie può essere dunque inquadrata in un processo teso a riconsiderare complessivamente il sistema di governance in un contesto policentrico, facendo della prefettura uno strumento volto a incentivare la leale collaborazione tra istituzioni.
A seguito delle novità introdotte dalla riforma dell’amministrazione dello Stato sul territorio delineata dal d.lgs n. 300/1999 e poi dalla riforma del titolo V della Costituzione, oltre che dalla legge «La Loggia», è emesa la necessità di un forte ruolo di raccordo, di interazione e collaborazione con il sistema delle autonomie locali, finalizzato ad assicurare agli enti locali strumenti di effettiva garanzia delle rispettive sfere di attribuzione non soltanto nei confronti dello Stato, ma soprattutto nei confronti degli stessi enti autonomi di pari o di diverso livello territoriale nei loro reciproci rapporti.
Pertanto, eliminata la figura del Commissario del Governo che assicurava pur sempre un collegamento tra la regione e lo Stato e ridistribuite le competenze tra i diversi livelli di governo, si rendeva necessario procedere ad una revisione dell’originario assetto organizzativo degli U.T.G. che perseguisse l’obiettivo di creare comunque un unico e forte raccordo delle competenze periferiche statali, capace di dialogare, nel rispetto del principio di leale collaborazione, con le autonomie territoriali.
In tale ottica, con la novella introdotta dal d.lgs 21 gennaio 2004, n. 29, si è provveduto a sostituire l’art. 11 del d.lgs. n. 300/99, attribuendo alla Prefettura-U.T.G. il coordinamento dell’attività amministrativa delle strutture periferiche dello Stato, accompagnata dall’eliminazione, nel contempo, dell’accorpamento funzionale ed anche logistico degli Uffici periferici dello Stato nell’ambito degli U.T.G., quale era prefigurato nell'originaria formulazione dell’art. 11 medesimo.
Per effetto di tali disposizioni, la Prefettura-U.T.G. non è più titolare «di tutte le attribuzioni dell’amministrazione periferica dello Stato non espressamente conferite ad altri uffici», venendo tale sottrazione compensata con l’attribuzione dell’«esercizio coordinato dell’attività amministrativa degli uffici periferici dello Stato» al fine di garantire, in un sistema policentrico ed ad ampia autonomia, la leale collaborazione di detti uffici con gli enti locali.
E’ stata confermata inoltre la previsione della conferenza provinciale permanente, coadiuvante il prefetto nell’esercizio delle sue funzioni di coordinamento, composta dai responsabili di tutte le strutture periferiche dello Stato che svolgono la loro attività nella provincia nonchè (ed è stata questa la novità più rilevante) da rappresentanti degli enti locali.
Da ultimo, il regolamento di attuazione del novellato art. 11 d.lgs n. 300/1999, approvato con d.PR 3 aprile 2006, n. 180, ha rivisitato le precedenti norme regolamentari ai sensi del d.PR n. 287/2001, adeguandole alle novità legislative nel frattempo intervenute.
In particolare, nell’art. 1 d.P.R. n. 180/2006 vengono definite in maniera organica ed espressamente elencate le attribuzioni della Prefettura-U.T.G., quale organo periferico del Ministero dell’interno, a cui sono assegnati compiti di rappresentanza generale del governo sul territorio, di amministrazione generale e di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica.
L’intreccio delle funzioni attribuite dal regolamento al prefetto (rappresentanza generale del governo, coordinamento delle pubbliche amministrazioni, collaborazione a favore delle autonomie locali) fa sì che tale organo assurga a momento di aggregazione e centro di imputazione delle responsabilità di promuovere e facilitare il dialogo e la coesione fra i soggetti istituzionali presenti sul territorio.
Tale ruolo è rafforzato dal fatto che il prefetto è coadiuvato, nell’esercizio della sua funzione di coordinamento, dalla Conferenza permanente, organo collegiale che ha una funzione di raccordo interamministrativo tra i diversi livelli di governo, tale da tradursi in verifica e sintesi interistituzionale. Alla Conferenza possono partecipare non solo i responsabili di tutte le strutture amministrative periferiche dello Stato o i loro delegati, ma anche il presidente della provincia, il sindaco del comune capoluogo e dei comuni eventualmente interessati dalle questioni di volta in volta trattate.
Ed è proprio «nella» conferenza e «mediante» la conferenza che il coordinamento, come momento elettivo della funzione di governo del territorio, ha modo di trovare esplicazione naturale, tramutandosi, con l’allargamento dialogico del confronto ai rappresentanti degli enti locali, da raccordo interorganico a legame intersoggettivo.
La prefettura trova, dunque, nella Conferenza permanente la sede privilegiata di mediazione, una sorta di stanza di compensazione dei conflitti a livello locale. Il prefetto può infatti, in questa sede, promuovere intese, con l’obiettivo di assicurare agli enti una partecipazione fattiva al tavolo di concertazione della Conferenza permanente, che, infatti, viene convocata «ogniqualvolta sia necessario in relazione all’esercizio dei compiti di coordinamento dell’attività amministrativa e del concreto svolgimento dell’intervento sostitutivo».
E’ necessario infine rilevare come, a completamento del sistema, l’art. 1, 3 co., d.P.R. n. 180/2006 operi un adeguamento del principio di «avvalimento» (espressamente previsto dal d.lgs n. 300/1999) al nuovo ruolo istituzionale della prefettura, stabilendo che le amministrazioni dello Stato, per le quali la normativa vigente prevede tale possibilità, possano avvalersi degli uffici di prefettura, che, esplicando il loro ruolo di «neutralità amministrativa», assicurino la collaborazione nel rispetto e nell’ambito delle missioni istituzionali ad essi attribuite.
La creazione degli uffici territoriali del Governo ha, dunque, costituito un passaggio fondamentale che ha consentito di attribuire al prefetto il ruolo di organo terzo, capace, da una parte, di garantire l’unità e l’efficienza e dall’altra di sostenere e rafforzare l’autonomia regionale e locale, fungendo da struttura di raccordo. La normativa attuativa ha, inoltre, ancor meglio dipinto e consolidato la tradizionale figura del prefetto, che travolta dalle riforme che hanno interessato il complessivo sistema amministrativo italiano, ne è emersa rafforzata ed «espansa» nel far fronte a disparati compiti: dalla tutela della sicurezza, alla mediazione sociale dei conflitti tra lavoratori e imprese, sino ad una complessa opera di ricucitura del tessuto amministrativo statale periferico e di questo con il sistema dei poteri e delle autonomie locali.
In definitiva, il ruolo che le recenti riforme sembrano voler attribuire ai prefetti è di facilitare il dialogo e la coesione delle istituzioni repubblicane presenti sul territorio in ragione della triangolazione funzionale della «rappresentanza generale del governo», «coordinamento delle pubbliche amministrazioni statali sul territorio» ed «espletamento dei compiti di collaborazione a favore delle regioni e degli enti locali».
Il prefetto diventa il promotore del perseguimento sul territorio dell’interesse generale, con la conseguenza che, per svolgere al meglio questo compito, diventa fondamentale per tale istituzione l’essere al centro di un sistema di relazioni istituzionali finalizzato alla sinergica realizzazione di ogni intervento in ambito locale e alla costruzione di politiche pubbliche territoriali e nazionali, integrate, coerenti e finalizzate al perseguimento dell’interesse pubblico o di più interessi pubblici che necessariamente richiedono un’attenta ponderazione e/o compensazione che deve realizzarsi all’interno del circuito istituzionale.
Un impegno in tal senso significherebbe contribuire, in maniera decisiva e concreta, alla diffusione di modelli comportamentali improntati ai principi di sussidiarietà e di leale collaborazione tra istituzioni sanciti dalla riforma costituzionale, evitando che spinte centrifughe o dissociative possano mettere a repentaglio i fondamentali valori di coesione e appartenenza civile e sociale nel più ampio quadro di unità nazionale.
Concludendo, si può fondatamente ritenere che la funzione del prefetto sarà sempre più incentrata sul coordinamento e raccordo della presenza statuale con le aspettative delle comunità locali: per far fronte a tale impegno dovrà quindi trasformarsi in organo di alta consulenza, per tutte le questioni d’interesse delle amministrazioni e dei diversi livelli di governo locali, nonché di «raccordo sistemico»tra Governo centrale e poteri locali, con particolare riferimento alle zone grigie della sussidiarietà, in cui potrebbe apparire incerto il livello corrispondente, tenuto a provvedere ad una determinata esigenza delle collettività locali.
In questa veste, al prefetto spetterà il compito di ricercare le possibili forme di mediazione nei casi di «interferenza» tra le varie autonomie territoriali, attraverso «tavoli di trattativa», l’indizione di conferenze di servizi per la tutela di un bene pubblico conteso, ovvero la nomina di commissioni di consulenza o di arbitrato, riconosciute da tutte le parti in causa, per dirimere le questioni in sofferenza.
Ruolo – esercitato in un’ottica di compresenza e di forte interazione tra Stato e autonomie territoriali, che significa anche gestione condivisa della res publica - che è reso ancor più incisivo dall’attribuzione al prefetto del potere di richiedere alle amministrazioni periferiche di adottare provvedimenti intesi ad evitare un grave pregiudizio alla qualità dei servizi resi alla cittadinanza, anche al fine di prevenire, ed eventualmente risolvere, contrasti tra Stato e autonomie a garanzia della loro leale collaborazione.
Sicchè, la funzione di «mediatore territoriale» del nuovo prefetto dovrà, dunque, concentrarsi sulla capacità manageriale di «fare squadra» tra amministrazioni locali e centrali, riqualificando il ruolo delle prefetture come sito privilegiato, di alta amministrazione, per lo sviluppo ed il coordinamento dei servizi pubblici, orientati al mondo dell’impresa e alle esigenze dei semplici cittadini. Occorrerà, a tal fine, dismettere qualsiasi compito o prerogativa di controllo, estranei alla funzione di governo, per attestarsi definitivamente sul ruolo del prefetto come propulsore dei processi di ammodernamento delle attività pubbliche sul territorio.
2. Ruolo della prefettura tra ordine pubblico e sicurezza.
Il compito di provvedere alla tutela dell’ordine pubblico e di sovrintendere alla sicurezza è un’ attribuzione che ha accompagnato il prefetto fin dalla sua istituzione, cioè fin da quando l’istituto prefettizio è stato introdotto per la prima volta nell’ordinamento dello Regno sabaudo, e poi, nell’ordinamento dello Stato italiano, all’indomani dell’unificazione del paese con le guerre risorgimentali.
Si può asserire che la riserva - tendenzialmente esclusiva - in capo allo Stato della salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza sia uno dei pochi elementi rimasti immutati in un quadro istituzionale, politico e sociale che si è radicalmente modificato.
Tale attribuzione ha qualificato e tracciato marcatamente il profilo e l’immagine del Ministero dell’Interno e delle sue articolazioni periferiche, ossia le prefetture, tanto da suggerire, anche in tempi recenti, nell’opinione pubblica quasi una sorte di simbiosi esclusiva tra istituto prefettizio (quale riflesso del potere governativo sul territorio) e interventi in materia di sicurezza.
Tuttavia tale immagine appare effetto di un errore di prospettiva, in quanto il prefetto, nell’ambito del nostro ordinamento, viene a ricoprire una funzione, più ampia di quella assegnata alle forze di pubblica sicurezza, che si compendia nella rappresentanza dello Stato e nel coordinamento delle istanze del territorio, divenendo quindi in prospettiva strumento attivo di attuazione dei principi volti al raccordo, supporto e collaborazione tra i differenti attori istituzionali e sociali.
L’evoluzione del ruolo dell’istituto prefettizio, in questo campo, ha subito un’accelerazione attorno alla metà degli anni ’90 quando la questione «sicurezza» è divenuta oggetto della competizione istituzionale nell’ambito del processo di allargamento delle competenze e delle responsabilità del sistema delle autonomie locali iniziato con la legge n. 142/90.
La sicurezza, infatti, era ed è tutt’ora uno degli snodi attraverso i quali si è cercato di ridefinire i nuovi equilibri tra gli attori in gioco a partire dalla qualificazione dell’oggetto del contendere: all’ordine e alla sicurezza pubblica, quali nozioni originarie della funzione dello Stato, si è progressivamente sostituito il concetto di sicurezza urbana, il che ha comportato una insistente richiesta di devoluzione di compiti e responsabilità in capo alle amministrazioni locali che a diverso titolo governano il territorio.
In questa prima fase, ad un protagonismo sempre crescente delle città e alla rivendicazione da parte dei sindacidi un ruolo più diretto ed incisivo nel governo della sicurezza (che andava dalla richiesta dell’impiego delle polizie locali nell’attività di contrasto e repressione della microcriminalità, a quella di poter indicare priorità di intervento alle autorità di pubblica sicurezza), i poteri centrali (prefetti e Ministero dell’Interno) hanno risposto riaffermando il monopolio sul governo della sicurezza.
Alla fine degli anni ’90, sull’onda delle pressione proveniente dalla «periferia» , si è dato corso alla conclusione di vari protocolli d’intesa stipulati tra lo Stato e le regioni, nonché le province ed i comuni, con cui sono state regolamentate forme di collaborazione e di gestione negoziata in materia di sicurezza. In questo ambito è indiscutibile il ruolo centrale giocato in numerose realtà dai prefetti, che si sono fatti promotori e intermediari di «contratti d’area» e «patti territoriali», volti a consentire una collaborazione virtuosa tra responsabili della pubblica sicurezza e le autorità locali attraverso lo scambio di dati e informazioni per consentire una comprensione e risoluzione delle problematiche emergenti.
A tali accordi, stipulati in tutto il territorio nazionale, ha fatto seguito la riforma del «Comitato provinciale dell’ordine e della sicurezza pubblica», al quale, in forza del d.lgs 27 luglio 1999, n. 279, sono stati aggregati – quali membri di diritto – il sindaco del comune capoluogo di provincia e il presidente della provincia, prevedendosi inoltre che, «quando debbano trattarsi questioni riferibili ai rispettivi ambiti territoriali, possano parteciparvi anche i sindaci di altri comuni».
La scelta di operare attraverso «politiche integrate di sicurezza» è stata quindi dettata dall’esigenza di far fronte, da un lato, al senso di insicurezza dilagante e, dall’altro, di consentire una fattiva partecipazione delle autorità locali alle scelte operate in materia. In particolare, lo strumento del contratto o protocollo di sicurezza si è rilevato, in generale, un valido mezzo per razionalizzare l’attività delle forze di polizia, attraverso il coordinamento delle sale operative e l’eventuale collegamento con agenzie private di sicurezza; per la realizzazione e gestione di sistemi informativi regionali in cui raccogliere le informazioni sulla criminalità e sul disordine/degrado urbano provenienti dall’attività di controllo del territorio delle forze di polizia ed infine per la promozione e l’attuazione di progetti volti al miglioramento delle condizioni di sicurezza, anche attraverso progetti di educazione alla legalità.
Accanto a questo strumento «contrattuale», l’«ammissione» del sindaco e del presidente della provincia in seno al Comitato per l’ordine e la sicurezza ha di fatto anticipato i principi sanciti, in materia di gestione della sicurezza, con la riforma del Titolo V, la quale, a partire dalle nuove ed esclusive prerogative del governo regionale e dei comuni sulla polizia amministrativa locale, e dal principio della sussidiarietà sia verticale che orizzontale, ha dato avvio ad una nuova fase di integrazione istituzionale con un ruolo sempre più centrale delle autonomie locali e delle parti sociali quali interlocutori diretti per concordare le politiche di sicurezza urbana.
Infatti, il riparto delle competenze delineato dalla Costituzione, dopo la revisione operata nel 2001, prevede che:
a) la materia dell’ordine pubblico e sicurezza sia riservata, in via esclusiva, alla competenza legislativa dello Stato (articolo 117, 2 co., lett. h). E’ utile rilevare come solo a seguito della riforma il concetto di «ordine pubblico» sia stato entrato a far parte del tessuto testuale della Costituzione, venendo ad indicare il «settore riservato allo Stato relativo alle misure inerenti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico», riguardante «le funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali, quali l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume primaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento». Dunque, «non qualsiasi interesse pubblico alla cui cura siano preposte le pubbliche amministrazioni, ma soltanto quegli interessi essenziali al mantenimento di una ordinata convivenza civile».
b) tra le competenze concorrenti – riservando, dunque, al legislatore statale in questo caso la determinazione dei soli principi fondamentali – vi siano materie rilevanti, per il contesto in cui si collocano i profili della sicurezza, dal governo del territorio alla tutela della salute (art. 117, 3 co.).
c) ogni materia non riservata allo Stato sia di competenza legislativa delle Regioni (art. 117, 4 co.), tranne la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni che riguardano i diritti civili e sociali, che sono comunque riservati, in maniera uniforme sull’intero territorio nazionale, allo Stato (art. 117, 2 co., lett. m): tra le materie che dunque rientrano nella competenza propria delle Regioni vi è espressamente la polizia amministrativa locale.
Nel testo di riforma viene quindi confermata in capo allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordine e sicurezza pubblica, ma tale consolidata attribuzione è controbilanciata dal conferimento alla sfera esclusiva delle Regioni della materia di polizia locale, prevedendosi inoltre, ai sensi dell’art. 118, 3 co. Cost., l’emanazione di una legge nazionale per disciplinare le forme di coordinamento tra Stato e Regioni nelle materie appena ricordate.
Nonostante la citata disposizione costituzionale si riferisca testualmente solo allo Stato e alle Regioni, nella misura in cui queste ultime rappresentano – nei rispettivi territori – il centro propulsore e di coordinamento dell’intero sistema delle autonomie locali (Corte cost., 15 luglio 1991, n. 343), la sua concreta attuazione ha comportato necessariamente che le forme di coordinamento riguardassero e coinvolgessero anche gli enti locali per tutte le questioni che implicavano o richiedevano una loro presenza nelle azioni per il mantenimento dell’ordine e della sicurezza pubblica.
Non si può, del resto, sottacere come una più marcata enfasi sui poteri locali per la «sicurezza urbana» ed uno sganciamento di tali poteri dai raccordi organizzativi e procedimentali con l’amministrazione statale della pubblica sicurezza, avrebbero avuto il negativo effetto di riversare improvvisamente sulle autonomie locali ogni responsabilità e disagio derivante dai problemi di «sicurezza urbana». Inoltre, una devoluzione di competenze in materia di sicurezza avrebbe avuto la possibile conseguenza di approcci difformi sul territorio nazionale, con effetti e ripercussioni che avrebbero contrastato con i valori unitari sottesi all’ordine pubblico e sicurezza.
Ed è soprattutto per evitare spinte centrifughe che si sono seguite – anche sull’esempio di altri paesi europei – vie diverse, in particolare affinando strumenti integrati e inventando meccanismi istituzionali volti a preservare le esigenze unitarie in una dimensione orizzontale delle relazioni tra i vari livelli istituzionali di governo, che privilegiasse l’aspetto reticolare dei rapporti.
Con tale politica si è inteso mettere in rete le diversità senza comprimerle, scoraggiando il particolarismo esasperato, valorizzando e potenziando le sedi del confronto, della collaborazione, con la finalità di costruire una governance condivisa della sicurezza, ossia un corpo di regole, prassi e comportamenti materiali concordati e accettati da tutti i soggetti che contribuiscono al funzionamento generale del sistema.
Il processo di coinvolgimento degli enti locali nelle scelte in materia di sicurezza che ha preso avvio in Italia con l’inizio degli anni ’90 ha interessato le politiche pubbliche di tutti i paesi europei a partire da un’idea di sicurezza urbana, non più intesa esclusivamente come politica di controllo del territorio e di repressione dei reati, ma come attività positiva di rafforzamento della percezione pubblica della sicurezza stessa attraverso politiche parternariali che hanno visto il coinvolgimento e la collaborazione tra più attori, istituzionali e non.
Gli strumenti individuati per la regolazione dei rapporti tra le istituzioni volti a superare la logica dell’approccio settoriale alle politiche di sicurezza sono stati diversi (dai protocolli di intesa, ai contratti di sicurezza, alle leggi nazionali ecc.), così come diverso è stato il percorso politico che ha condotto alla formulazione di suddetti strumenti: in Italia, in particolare, la spinta verso una riforma delle politiche pubbliche di sicurezza e la gestione partenariale è giunta innanzitutto dal basso ed è stata frutto del protagonismo delle città, al contrario in Francia l’input è arrivato dallo Stato, mentre in Inghilterra una prescrizione normativa ha determinato i rapporti fra i diversi livelli.
Tuttavia, come sottolineato nelle conclusioni di un recente studio comparativo a livello europeo, «pur attraverso percorsi diversi si è innescato, nei diversi paesi europei, un sistema circolare per cui, da una parte, le politiche complessive di governo di un territorio (politiche sociali, urbanistiche, il sistema dei controlli e degli strumenti amministrativi) sono influenzate e incorporano il tema della sicurezza urbana e, dall’altra, le politiche di sicurezza in senso stretto non sono più concepite solo come politiche di controllo». L’avanzare di questo approccio ha necessariamente determinato lo sviluppo di nuovi strumenti di collaborazione capaci di far agire e interagire, simultaneamente e in maniera coordinata, livelli decisionali e livelli operativi.
E’ in questo quadro di dialogo tra amministrazioni che si è registrata l’evoluzione normativa espressa nelle varie, successive modifiche circa la composizione ed il funzionamento del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica di cui all’art. 20 della legge 1 aprile 1981, n. 121 (come modificata da ultimo dal d.lgs 28 dicembre 2001, n. 472). Questo importante organo è presieduto dal prefetto, quale autorità provinciale responsabile della pubblica sicurezza , ed è composto dal questore, dai comandanti provinciali dell’arma dei carabinieri e del corpo della guardia di finanza ma anche – come detto - dal sindaco del comune capoluogo e dal presidente della provincia, nonché – in relazione alle questioni trattate – anche dai sindaci degli altri comuni interessati.
In seno al Comitato, che funge da supporto ai poteri prefettizi e da strumento di consultazione e di coordinamento, maturano le decisioni e si programmano le azioni inerenti il settore della sicurezza ed in particolare con riguardo a:
Alla luce di queste – certo non esaustive – indicazioni sul ruolo e attività del Comitato dell’ordine e sicurezza pubblica, si può certamente dire che tale formula appare in grado di rispondere all’esigenza di prevedere sedi di raccordo a livello periferico, coniugando a tal fine tre profili essenziali: coordinamento delle articolazioni statali presenti sul territorio, collaborazione con le autonomie, relazione costante con l’amministrazione centrale.
A fronte dell’affermazione del pluralismo istituzionale come principio organizzatore della funzione amministrativa, s’impone infatti l’esigenza di una ricomposizione del sistema mediante raccordi amministrativi resi effettivi con l’individuazione di regole unitarie fra livelli di governo tendenzialmente equiordinati sul territorio: in un quadro in fase di assestamento, quindi la centralità del prefetto in materia di gestione della sicurezza dipende in gran parte dalla capacità dello stesso di interagire in modo costruttivo con gli enti locali e di alimentare la fiducia tra i diversi livelli di governo del territorio, in modo che tutti i soggetti integrino le proprie risorse con quelle altrui per la risoluzione dei problemi sul tappeto.
Nell’attuale architettura istituzionale, infatti, tutti i soggetti sono tenuti a prestare il proprio contributo per sostenere e valorizzare, nell’ambito della rispettiva competenza, il doveroso processo di armonizzazione dell’ordinamento giuridico al nuovo dettato costituzionale, che, nel contesto pluralistico determinatosi a seguito della riforma costituzionale, «...riconosce che la separazione delle competenze comporta la valorizzazione del principio della leale collaborazione tra gli elementi che compongono la Repubblica, finalizzata alla ricerca della più ampia convergenza, per addivenire a soluzioni condivise in ordine alle rilevanti questioni interpretative e di attuazione delle riforma costituzionale del Titolo V».
3. Il prefetto e le ordinanze sindacali dopo il nuovo art. 54 T.u.e.l.
Nel contesto dell’evoluzione in senso autonomistico dell’ordinamento, la sicurezzaè sempre più destinata a coinvolgere, al di là della sfera dello Stato, quella di altri soggetti pubblici che concorrono a regolare la vita della comunità: essa è orientata sempre più a divenire «diffusa» e «partecipata», chiamando in causa responsabilità e impegno diretto del sistema autonomistico, non solo per le straordinarie potenzialità di intervento di cui esso dispone in settori contigui al mantenimento delle condizioni di sicurezza, ma soprattutto perchè l’esponenzialità da parte degli enti locali e dei comuni nella rappresentanza generale degli interessi delle rispettive comunità li avvia ad un ruolo attivo nella tutela di quegli interessi sui quali si focalizzano prioritariamente le aspettative dei cittadini.
Le modifiche normative introdotte all’art. 54 d.lgs. n. 267/2000 (Testo Unico degli Enti locali) sono volte a implementare questa prospettiva ordinamentale, attribuendo ai sindaci il potere di prevenire e reprimere una vasta gamma di fenomeni (dallo spaccio di droga allo sfruttamento della prostituzione, dall’accattonaggio molesto al vandalismo) che hanno parte notevole nello scadimento del livello di sicurezza nel contesto urbano.
In questo senso, il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125, nel ridisegnare le attribuzioni del sindaco nelle sue funzioni di rappresentante statale (riscrivendo l’art. 54 del T.u.e.l.), ha conferito a quest’ultimo poteri di ordinanza in nuovi ambiti. In particolare, l’art. 6 ha previsto che:
«a) il sindaco, quale ufficiale di governo, adotta, con atto motivato e nel rispetto dei principi generali dell'ordinamento, provvedimenti anche contingibili e urgenti al fine di prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’ incolumità pubblica e la sicurezza urbana;
b) questi provvedimenti sono preventivamente comunicati al prefetto anche ai fini della predisposizione degli strumenti ritenuti necessari alla loro attuazione;
c) un decreto del Ministro dell’Interno disciplina l’ambito di applicazione delle ordinanze, anche con riferimento alle definizioni relative alla incolumità pubblica e alla sicurezza urbana;
d) nel caso in cui i provvedimenti adottati dai sindaci comportino conseguenze sull'ordinata convivenza delle popolazioni dei comuni contigui o limitrofi, il prefetto indice un'apposita conferenza alla quale prendono parte i sindaci interessati, il presidente della provincia e, qualora ritenuto opportuno, soggetti pubblici e privati dell'ambito territoriale interessato dall'intervento;
[…]
g) nell'ambito delle funzioni esercitate dal sindaco come ufficiale di governo, il prefetto può disporre ispezioni per accertare il regolare svolgimento dei compiti affidati, nonché per l'acquisizione di dati e notizie interessanti altri servizi di carattere generale;
h) l’adozione delle ordinanze spetta a chi sostituisce il sindaco, nonché – su delega del sindaco stesso, previa comunicazione al prefetto - dal presidente del consiglio circoscrizionale; ove non siano costituiti gli organi di decentramento comunale, il sindaco può conferire la delega a un consigliere comunale per l'esercizio delle funzioni nei quartieri e nelle frazioni;
i) in caso di inerzia del sindaco o del suo delegato nell'esercizio delle funzioni di ordinanza, il prefetto può intervenire con proprio provvedimento;
l) il Ministro dell'interno può adottare atti di indirizzo per l'esercizio da parte del sindaco delle funzioni di ufficiale di governo. »
La finalità perseguita - afferma la relazione al decreto legge - è stata quella di potenziare «gli strumenti a disposizione del sindaco per il contrasto della criminalità locale», nel quadro di un nuovo «bilanciamento tra le prerogative statali in tema di sicurezza pubblica e l’esigenza di valorizzare, anche in tale ambito materiale, il ruolo degli enti locali».
Prima di affrontare l’analisi relativa al ruolo e ai poteri del prefetto nel nuovo contesto normativo dettato dal novellato art. 54 T.u.e.l., pare interessante accennare alla questione relativa ad un dato semantico e concettuale, ossia il richiamo operato in tale disposizione alla nozione di «sicurezza urbana», locuzione che negli ultimi anni si è posta al centro di un vivace dibattito, per poi venire sancita dal legislatore.
E’ utile premettere che il concetto di sicurezza sembra contrassegnarsi per un carattere specificamente relazionale, in quanto normalmente destinato ad incontrarsi con ulteriori qualificazioni (pubblica, nazionale, sociale…) che tendono a limitarlo contribuendo al contempo ad attribuirgli significanza. Tale carattere concorre inoltre a metterne in luce un altro profilo: proprio perché la sicurezza implica sempre la necessità di una relazione, le esigenze da essa sottese non possono, normalmente, essere soddisfatte da interventi che gravano su di un solo soggetto istituzionale, ma dal coordinamento e dall’integrazione di attività di soggetti istituzionalmente diversi.
Oltre ad avere carattere relazionale, la sicurezza abbraccia una pluralità di esigenze sentite dai cittadini, non potendo essere ridotta alla sola attività di repressione delle attività criminali: in questo senso, nel documento approvato dalla riunione di Presidenza del Forum generale italiano per la sicurezza urbana nel giugno del 2005, si ribadisce come «le politiche di sicurezza riguardino l’intera popolazione, la qualità delle relazioni sociali e interpersonali, la qualità dell’ambiente urbano, mentre le politiche criminali solo la prevenzione e repressione di determinati comportamenti personali qualificati come reati. In sostanza, le politiche criminali sono solo una parte, più o meno rilevante a seconda dei contesti, delle politiche di sicurezza. L’equivoco nasce dal fatto che in Italia, anche per mancanza di esperienze diverse, per politiche di sicurezza si finisce per intendere le sole politiche di prevenzione e repressione della criminalità, tradotte in «sicurezza pubblica» o «pubblica sicurezza». In questo caso la lingua italiana non aiuta; chi parla francese o inglese ha due diversi termini per indicare, da un lato, la sicurezza urbana in senso ampio, dall’altro quella specifica che si riferisce all’azione della polizia contro la criminalità: securité e sureté in francese, safety e securety in inglese».
In questo quadro si inserisce l’uso pubblico della nozione di «sicurezza urbana» che tende a distinguersi dai concetti tradizionali di sicurezza ed ordine pubblico, ponendo in evidenza l’affermazione di un nuovo significato di sicurezza, che non è più soltanto garanzia di un’assenza di minaccia, ma anche e soprattutto attività positiva di rafforzamento della percezione pubblica della sicurezza stessa. Secondariamente, l’aggettivo qualificativo «urbana» richiama in maniera esplicita il luogo ove si manifestano oggi rilevanti problemi di sicurezza e nei quali si concentrano gli interventi preventivi e repressivi. Il riferimento al contesto urbano, tuttavia, allude anche agli attori istituzionali che hanno la responsabilità, a livello locale, di farsi carico dei problemi dei cittadini – compresi quelli relativi al rischio oggettivo di vittimizzazione e alla percezione dell’insicurezza – cioè gli amministratori delle città. Così, il legame con il contesto urbano coinvolge il governo della città, ponendo la necessità di considerare le relazioni tra fenomeni locali e problemi ben più ampi, talora di livello globale, come avviene per la prostituzione o lo spaccio di stupefacenti.
Sembra pertanto efficace la sintesi illustrativa della ratio del nuovo art. 54 T.u.e.l., che si può desumere dalla Relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione del decreto n. 92 del 2008, a mente della quale le nuove norme intendono garantire un potenziamento degli strumenti giuridici a disposizione del sindaco contro i pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana, «tale potenziamento è […] il frutto di un bilanciamento fra le prerogative statali in tema di sicurezza pubblica e l’esigenza di valorizzare, anche in tale ambito materiale, il ruolo degli enti locali […] la posizione del sindaco diviene così quella di fulcro di una nuova sinergia tra le istituzioni nella lotta alla criminalità, atteso che la qualità di amministratore locale gli permette di sapere quali problematiche del suo territorio ridondino in rischi per la sicurezza» .
Si può notare come, il nuovo testo dell’art. 54 del T.U. degli enti locali, pur suggerendo una nozione di sicurezza urbana, delineata nei termini sopra indicati, si rifiuti espressamente (e paradossalmente) di definirla, demandandone la precisazione ad un apposito provvedimento ministeriale, al quale è altresì attribuito il compito di disciplinare anche l’ambito di applicazione delle disposizioni poste dalla legge con riferimento alle attribuzioni del sindaco in tema di servizi di competenza statale.
La previsione di cui all’art. 6, 4 co., del d.l. n. 92/2008, ha trovato quindi attuazione con il decreto del Ministro dell’Interno 5 agosto 2008, con il quale si è provveduto a definire l’ambito di applicazione delle disposizioni di cui allo stesso art. 6, primo e quarto comma, attraverso una tipizzazione degli interventi del sindaco ammessi in sede di esercizio delle funzioni di ufficiale di governo.
Il decreto si compone di una premessa e di due disposizioni, di cui la prima è volta a porre le definizioni di incolumità pubblica e sicurezza urbana, e la seconda a disciplinare l’ambito di applicazione dei poteri del sindaco quale ufficiale di governo con riferimento all’incolumità pubblica e alla sicurezza urbana. In particolare, la «sicurezza urbana» viene descritta come «un bene pubblico da tutelare attraverso attività poste a difesa, nell'ambito delle comunità locali, del rispetto delle norme che regolano la vita civile, per migliorare le condizioni di vivibilità».
Nonostante l’apparente genericità, la definizione ha una sua capacità di indicare quello che può essere definito un programma di realizzazione della sicurezza urbana, attraverso la rappresentazione di finalità, strumenti e attività che servono ad assicurare e garantire l’effettività delle norme che regolano la civile convivenza in un contesto urbano.
Si pone, infine, un’ultima questione – su cui la dottrina si è divisa – ossia se la «sicurezza urbana» possa o meno essere sussunta entro il binomio concettuale «ordine e sicurezza pubblica» , con tutte le ricadute che ne derivano in termini di attribuzione di competenza e di rapporti tra istituzioni centrali e periferiche.
Secondo parte della dottrina, che si richiama all’apparato concettuale della sociologia, la sicurezza urbana tende a distinguersi dai concetti tradizionali di sicurezza e di ordine pubblico, come appare evidente dallo stesso riferimento al contesto urbano che «allude in particolare agli attori istituzionali che hanno la responsabilità, a livello locale, di farsi carico dei problemi dei cittadini». In questo contesto la sicurezza urbana non si configura tuttavia come una nuova «materia» e nondimeno può ridursi (soltanto) a esercizio di funzioni di ordine e sicurezza pubblica o di polizia amministrativa locale, ma è il risultato dell’esercizio di funzioni fra di loro connesse, il frutto di una attività di coordinamento fra attribuzioni ed attori istituzionali diversi.
Autorevole dottrina ritiene invece che la portata del nuovo art. 54 del T.u.e.l. e le coordinate della sua applicazione si debbano rinvenire considerando il significato della locuzione costituzionale «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, 2 co., lett. h), che, pur tenendo conto dell’evoluzione ordinamentale, non descrive concetti mobili o generici, ma strettamente inerenti ai rapporti tra autorità e libertà dei singoli (che non possono comunque vulnerare i diritti degli altri) e, sotto un secondo e convergente profilo, connessi ad esigenze unitarie.
In questo senso dunque l’ordine pubblico e la sicurezza pubblica debbono essere esaminati congiuntamente, essendo espressione di un significato unitario: ciò ha indotto a ritenere che si sia in presenza non di una dicotomia bensì di un’endiadi, in quanto ordine pubblico e sicurezza non sono due concetti distinti anche se correlati, i quali esprimano differenti aspetti o valori da tutelare, ma un unico concetto enunciato tramite due termini coordinati.
Nell’ambito di un’analisi sistematica, si può quindi asserire che «incolumità pubblica» e «sicurezza urbana» – in vista delle quali l’art. 54 del T.u.e.l. ha assegnato nuovi poteri ai sindaci – facciano parte dell’ambito materiale dell’ordine e della sicurezza pubblica e non costituiscano invece un tertium genus tra esso e la «polizia amministrativa locale», come confermano le stesse definizioni normative contenute nel d.m. 5 agosto 2008 che impiegano locuzioni descrittive coincidenti o comunque inquadrabili nella sopra ricordata nozione di ordine e sicurezza pubblica.
La riconducibilità di tali concetti all’ambito dell’ordine e sicurezza pubblica ne confermano la natura e competenza statale, pur nella valorizzazione delle autonomie, attraverso la rappresentativa figura del sindaco, il quale, in virtù degli accresciuti poteri in una materia che attiene ad interessi pubblici primari, viene a configurarsi, in modo più spiccato che nel passato, come autorità di pubblica sicurezza.
Nella normativa qui analizzata, il ruolo del sindaco viene infatti considerato nella sua veste di ufficiale del governo, piuttosto che di rappresentante dell’ente esponenziale della comunità locale, il che rappresenta una chiave di lettura particolarmente significativa, atta a far emergere con chiarezza che l’attribuzione di poteri volti a fronteggiare le situazioni inerenti alla sicurezza delle città avviene nell’ambito di una prospettiva prevalentemente legata alla dimensione statale degli interventi, rispetto ai quali i provvedimenti affidati al sindaco devono necessariamente inscriversi nell’ambito di un relazione che ancora sembra caratterizzarsi in termini di rapporto gerarchico tra amministrazione statale e locale, per lo più attraverso la mediazione della figura del prefetto.
L’interrelazione tra il prefetto ed il sindaco rappresenta dunque una garanzia di coordinamento per la realizzazione dell’obiettivo della sicurezza e pertanto un rafforzamento di effettività dei nuovi, possibili interventi realizzati sul territorio.
Si può notare come, attraverso una corretta applicazione dei raccordi stabiliti nell’art. 54 del T.u.e.l., si sia instaurato, in varie realtà, un fattivo dialogo tra i diversi livelli istituzionali, favorito dal ruolo svolto dal prefetto che ha assunto la funzione di organo di garanzia rispetto all’esercizio da parte dei sindaci dei nuovi poteri.
Il prefetto, in virtù della richiamata disposizione, ha assunto una funzione di controllo e raccordo, che si esplicano nel: a) ricevere comunicazione preventiva dell’ordinanza del sindaco (comma 4); b) in caso di conseguenze su comuni contigui o limitrofi, indire conferenze cui partecipano i sindaci interessati, il presidente della provincia e, se opportuno, altri soggetti pubblici e privati (comma 5); c) ricevere comunicazione dell’eventuale delega dell’esercizio dei poteri di ordinanza a presidenti di circoscrizioni o, in assenza di queste, a consiglieri comunali (comma 10); d) intervenire con propri provvedimenti «anche in caso di inerzia» nell’esercizio dei poteri di ordinanza (comma 11); e) esercitare poteri di annullamento.
Non vi è, nella nuova disciplina, una sostanziale innovazione per quanto riguarda il potere di procedere d’ufficio in caso di inottemperanza, la possibilità per il sostituto del sindaco, di esercitare le funzioni in questione, il potere ispettivo del prefetto, e la facoltà di delegare le funzioni statali (con espressa eccezione di quelle relative alla emanazione delle ordinanze) al presidente del consiglio circoscrizionale o ad un consigliere comunale.
Tre disposizioni sembrano invece confermare l’opzione che tende a configurare la sicurezza urbana come species del genus sicurezza pubblica e quindi la natura eminentemente statale (e non locale) della relativa funzione e dei relativi poteri.
La prima è l’obbligo di comunicazione delle ordinanze al prefetto, «anche ai fini della predisposizione degli strumenti necessari alla loro attuazione». Viene ribadito che i provvedimenti in questione si inseriscono nel sistema dell’ordine pubblico provinciale, sicché prima della loro notificazione o pubblicazione ne deve essere informato il prefetto, quale responsabile istituzionale della sicurezza, per la predisposizione delle misure necessarie e per una naturale valutazione di compatibilità con le altre misure già esistenti e con le risorse a disposizione.
Tale ricostruzione trova conferma nella distinzione tra le funzioni che il sindaco svolge per conto dello Stato, ossia quelle statali attribuite o delegate ai sensi dell’art. 50, 3 co. T.u.e.l. e quelle che svolge quale ufficiale del governo ai sensi dell’art. 54.
Per quanto riguarda le funzioni «attribuite» al sindaco, parte della dottrina le distingue da quelle «delegate», ritenendo che le prime siano esercitabili liberamente, senza interferenze esterne. Invece, per quanto concerne le funzioni delegate e quelle esercitate quale ufficiale del governo, la dottrina generalmente ritiene che il sindaco, in quanto organo periferico dello Stato, sia quindi soggetto al potere gerarchico del prefetto.
E’ bene rammentare che la figura del sindaco quale ufficiale di Governo fu introdotta nell’ordinamento italiano nel 1915, inserendosi nella figura dell’istituto dell’avvalimento degli uffici comunali per lo svolgimento di funzioni statali che era previsto dall’art. 118 Cost. nel testo entrato in vigore nel 1948.
Secondo parte della dottrina , tuttavia, tale figura sarebbe ormai incompatibile dopo l’entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione, nel quale la legge statale o regionale ai sensi dell’art. 118 Cost. affida lo svolgimento di una determinata funzione amministrativa ad un determinato ente componente la Repubblica e non già al capo di un altro ente autonomo territoriale, affinché le eserciti in modo atipico e alle dipendenze di un altro ente.
In tal senso, nel vigente assetto costituzionale, una specifica funzione amministrativa può dunque essere alternativamente comunale o provinciale o regionale o infine statale, sicchè nello svolgimento comunale delle funzioni amministrative previste dalle leggi e dai regolamenti statali non è ammissibile altra forma di ingerenza ordinaria delle autorità amministrative statali. Il provvedimento così adottato dal Sindaco deve essere imputato al solo Comune che ne deve rispondere.
Tornando al nostro tema, si deve escludere che la riforma dell’art. 54 abbia inteso attribuire al prefetto il potere di operare modifiche ai suddetti provvedimenti, in quanto il comma 4 (pur avendo una formulazione imprecisa) indica che la finalità di questa preventiva comunicazione non è quella di esercitare un controllo su questi provvedimenti (controllo che in questo caso sarebbe di merito), ma soltanto di predisporre gli strumenti necessari per la loro attuazione. La norma quindi ha voluto solo ribadire la necessità di collaborazione e dialogo tra i sindaci e la prefettura nell’ambito del settore della sicurezza.
Nella prassi, in varie realtà (tra cui ad esempio Bergamo e Bologna) si è inteso seguire un procedimento di consultazione che, anticipando tramite contatti informali tra prefettura e sindaci la valutazione al progetto di provvedimento, ne ha consentito l’emanazione in una formulazione condivisa anche dagli altri apparati dello Stato.
La seconda disposizione innovativa è quella contenuta nell’art. 54, 11 co., alla stregua della quale, nelle fattispecie di cui ai commi 1, 3 e 4 (quindi anche con riferimento al potere di ordinanza), in caso di inerzia del sindaco, il prefetto può intervenire con «propri provvedimenti».
Nella disciplina previgente alla novella, a fronte dell’inerzia del sindaco era previsto il potere del prefetto di nominare un commissario: restava così, sottolineata la pertinenza delle funzioni statali al rappresentante dell’ente locale, dal momento che il commissario, eventualmente nominato, rimaneva pur sempre organo straordinario dell’ente locale. In forza della nuova disciplina, in caso di inerzia, il prefetto si sostituisce direttamente al sindaco, esercitando non il potere del sindaco ma un potere proprio.
La terza disposizione (art. 54, 5 co., T.u.e.l.) che prevede la possibilità per il prefetto di convocare di propria iniziativa, una apposita conferenza, con la presenza dei sindaci interessati, qualora i provvedimenti da loro adottati comportino conseguenze sull’ordinata convivenza delle popolazioni dei comuni contigui o limitrofi, da una parte suppone un costante monitoraggio dei prefetti sull’uso dei poteri statali attribuiti ai sindaci, e dall’altra si inserisce nel più generale ruolo del prefetto quale garante del buon funzionamento del sistema istituzionale ed amministrativo nel territorio provinciale.
Con il d.l. 12 novembre 2010, n. 187, convertito in L. 15 dicembre 2010, n. 217 si è sostituito il precedente comma 9 dell’articolo 54 del T.u.e.l., che ora recita: “Al fine di assicurare l’attuazione dei provvedimenti adottati dai Sindaci ai sensi del presente articolo, il Prefetto dispone le misure ritenute necessarie per il concorso delle Forze di polizia. Nell’ambito delle funzioni di cui al presente articolo il Prefetto può altresì disporre ispezioni per accertare il regolare svolgimento dei compiti affidati, nonché per l’acquisizione di dati e notizie interessanti altri servizi di carattere generale”. Nella complessa disciplina delle ordinanze d’urgenza dei sindaci, è stato ora coinvolto il Prefetto che - per assicurare l’attuazione dei provvedimenti adottati dai sindaci in base al comma 4 dell’ articolo 54 - “dispone” ( e quindi - in base alla costante regola dell’interpretazione dei verbi all’indicativo - “deve disporre”) “le misure ritenute necessarie per il concorso delle Forze di polizia”. Le finalità di queste modifiche sono rivolte ad una migliore e più ampia sicurezza urbana, ma le modalità tecnico-giuridiche che dovrebbero realizzare queste finalità presentano molti aspetti critici. Innanzitutto si deve anche rilevare come il nuovo comma 9 non sia ben coordinato con il comma 2 dell’articolo 54, che già attribuiva al sindaco una potestà di “concorrere” per “assicurare la cooperazione della polizia locale con le Forze di polizia statale assicurare”: infatti dalla leale cooperazione a mezzo della concorrenza virtuosa si passa a prefigurare (attraverso quell’indicativo “dispone”) una sorta di rovesciamento gerarchico tra la funzione e i poteri del Prefetto, massimo garante della sicurezza sul territorio provinciale, e quelli del sindaco, nella sua qualità di ufficiale di Governo. Inoltre, non è chiaro quali possano essere queste “misure necessarie”, e specialmente come si possa concretizzare il “concorso” tra le Forze della vigilanza urbana e le Forze di polizia. Sorge poi il quesito se questo concorso debba essere stabilito di volta in volta, oppure attraverso regole generali di carattere organizzativo , ed in quest’ultima ipotesi se ciò non costituisca un’illegittima interferenza nell’autonomia organizzativa del Comune.
Nel complesso, comunque, se ne desume che l’esercizio dei poteri statali da parte dei sindaci in materia di sicurezza urbana non dovrebbe essere vissuto come un’occasione per fare del territorio comunale un luogo caratterizzato da una disciplina speciale, ma come un’opportunità per la costruzione, nell’intera provincia, di un tessuto articolato di sistemi di sicurezza urbana.
A chiusura del sistema, seppure quale potere implicito, si afferma la legittimazione del prefetto a disporre l’annullamento delle ordinanze non conformi ai principi dell’ordinamento. Tale potere si giustifica nella misura in cui il sindaco, in materia di pubblica sicurezza, non agisce quale organo del comune, ma emette atti a carattere generale in funzione di ufficiale del Governo, risultando in una posizione di subordinazione gerarchica rispetto al prefetto.
Infatti, pur se l’art. 1 r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi sulla pubblica sicurezza) e l’art. 15 della legge 1 aprile 1981, n. 121 prevedono che il sindaco, in mancanza di un ufficio di pubblica sicurezza, svolga le funzioni di autorità locale di pubblica sicurezza e che, in tale qualità, debba curare l’osservanza delle leggi e dei regolamenti, ciò non comporta l’attribuzione di poteri normativi, ma esclusivamente di poteri amministrativi.
La posizione di supremazia del prefetto trova inoltre riscontro in altre norme dell’ordinamento, come l’art. 13, 3 co., L. n. 121/1981, che attribuisce al prefetto il compito di assicurare l’unità di indirizzo ed il coordinamento dei compiti e delle attività degli ufficiali ed agenti di pubblica sicurezza nella provincia, e l’art. 2 del T.u.l.p.s., che attribuisce al prefetto il potere di adottare, nel caso di urgenza o per grave necessità pubblica, i provvedimenti indispensabili per la tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica.
Con riferimento alle funzioni esercitate dal sindaco in materia di pubblica sicurezza vi è, quindi, un rapporto di dipendenza dal prefetto, che non ha solo il compito di sovrintendere all’attuazione delle direttive, ma conserva rilevanti poteri finalizzati ad incidere in modo diretto sulla gestione della pubblica sicurezza.
In particolare, spetta al prefetto promuovere ogni misura idonea a garantire tale unità di indirizzo, svolgendo una fondamentale funzione di garante dell’unità dell’ordinamento in materia.
L’adozione di ogni misura non può che includere anche il potere di annullamento d’ufficio degli atti adottati dal sindaco quale ufficiale di governo, che risultano essere illegittimi o che comunque minano la menzionata unità di indirizzo. (da ultimo Consiglio di. Stato, sez. VI, 19 giugno 2008, n. 3076, pres. Ruoppolo).
Da quanto sopra deriva che il prefetto, in quanto titolare della funzione di garante del sistema, non svolge il ruolo di mero «controllore immobile» dell’attività del sindaco, ma potrà invece assicurare a quest’ultimo – nell’ambito di una più complessa attività di coordinamento e di raccordo tra i vari soggetti istituzionali - gli «strumenti ritenuti necessari alla [...] attuazione dei provvedimenti del Sindaco per l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana».
Come ricorda M.C. MASCAMBRUNO, Il prefetto. Dalle origini all’avvento delle regioni, I, Giuffrè, Milano, 1988, 134 ss.: «La questione [dell’abolizione del prefetto], quantunque con toni moderati ed accomodanti, rimase aperta per i vari interventi interlocutori di Lussu, ma considerata ripetutamente fuori luogo o per lo meno inopportuna, venne definitivamente accantonata con l’esplicito rinvio al legislatore ordinario, dopo che un un ex-prefetto politico [on. Persico] chiudendo l’argomento aveva sottolineato «il prefetto è l’organo dello Stato nelle province» come se intendesse procrastinare la sopravvivenza e con essa l’unitarietà e continuità dello Stato».
M.C. MASCAMBRUNO, Il prefetto. Dalle origini all’avvento delle regioni, cit., 131 ss.; R. LAURO – V. MADONNA, Il prefetto della Repubblica. Tra istituzioni e società, Maggioli, Rimini, 2005, 100 ss.
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Al sindaco del comune capoluogo viene altresì riconosciuto il potere di chiedere la convocazione del Comitato e di proporne l’integrazione dell’ordine del giorno, per la trattazione di questioni attinenti alla sicurezza della comunità locale o per la prevenzione di tensioni o conflitti sociali che possono comportare turbamenti dell’ordine o della sicurezza pubblica in ambito comunale.
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Sui poteri del prefetto in materia di ordine e sicurezza pubblica G. BALSAMO – R. LAURO, Il Prefetto della Repubblica…, cit., 396 ss.
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S. COFFERATI, Introduzione ai lavori, Intervento alla Giornata di studio “Nuovi orizzonti della sicurezza urbana”, Bonomia University press, 2009, 42 ss. per cui : «Il rapporto tra le istituzioni è un valore aggiunto per l’azione di ognuna di esse e anche per i livelli di decentramento dello Stato. Poi viene il rapporto tra le istituzioni e lo Stato. Il confronto sistematico, l’utilizzo della sede di discussione, che è rappresentata dal Comitato per l’ordine e la sicurezza, ha fatto sì che molti temi potessero essere affrontati, anche con opinioni diverse, ma avendo a disposizione un luogo dove cercare gli elementi di convergenza, o in ogni caso per poter togliere il dubbio, che poteva nascere, sulle reali intenzioni dei singoli protagonisti di quel confronto».
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A. TRANFAGLIA, Introduzione ai lavori, Intervento alla Giornata di studio “Nuovi orizzonti della sicurezza urbana”, Bonomia University press, 2009, 29 ss.
A. PAJNO, La sicurezza urbana tra poteri impliciti e inflazione normativa, Nota per il Gruppo Astrid su “Sicurezza e sicurezze”, in www.astrid.it per cui «Si conferma così la natura eminentemente “relazionale” e “plurale” della nozione di sicurezza: relazionale perché il suo significato e la sua nozione si completa sempre grazie ad una nozione ulteriore che la specifica, plurale perché la stessa necessità di essere completata grazie ad una ulteriore contenuto concettuale evidenzia che non può esservi un solo significato specifico di sicurezza, ma tante quante sono le nozioni ulteriori che possono specificarlo. E’ quindi per le ragioni sopra esposte che nell’ordinamento esistono nozioni diverse di sicurezza, che si differenziano in relazione all’aggettivo od al sostantivo che qualifica o definisce quest’ultima; si parla, così, di sicurezza pubblica, di sicurezza sociale, di sicurezza ambientale, sanitaria, di sicurezza del lavoro, della navigazione, dei mercati».
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E’ utile sottolineare come il Tar Veneto, sez. III, 22 marzo 2010, n. 40, in www.asgi.it ha contestato la legittimità costituzionale di tale disposizione rilevando «Delineati i caratteri propri del potere di ordinanza configurato dall'art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, il Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di detta norma, nella parte in cui ha inserito la congiunzione "anche" prima delle parole “contingibili ed urgenti”. In primo luogo la norma della cui legittimità costituzionale si dubita, nel prevedere un potere d'ordinanza così configurato, viola i limiti costituzionali di legalità, tipicità e delimitazione della discrezionalità enucleabili dagli artt. 23, 97, 70, 76, 77 e 117 della Costituzione e chiaramente sanciti dalle sentenze della Corte Costituzionale 2 luglio 1956, n. 8, 27 maggio 1961, n. 26 e 4 gennaio 1977, n. 4, e 28 maggio 1987 , n. 201. In base a tali pronunce risulta che il potere di ordinanza si deve fondare sulla contingibilità ed urgenza che costituiscono il presupposto, la condizione e il limite per consentire di derogare, nel rispetto dei soli principi generali dell'ordinamento, alla disciplina vigente nei vari settori di intervento, e per legittimare l'assunzione delle competenze in capo ad un organo monocratico, in luogo di quello ordinariamente deputato. Le norme che prevedono il potere di ordinanza devono pertanto mantenere indefettibilimente il contenuto provvedimentale dell'atto, l'obbligo di motivazione, l'efficacia limitata nel tempo delle ordinanze. Le ordinanze inoltre, anche se e quando - eventualmente - normative, non possono poi mai essere ricomprese tra le fonti dell'ordinamento giuridico, non possono innovare al diritto oggettivo, né, tanto meno, possono essere equiparate ad atti con forza di legge, per il sol fatto di essere eccezionalmente autorizzate a provvedere in deroga alla legge. Sotto questo profilo l'art. 54, comma 4, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, avendo previsto una vera e propria fonte normativa libera con valore equiparato a quello della legge, viola pertanto la riserva di legge di cui agli artt. 23 e 97, e gli artt. 70, 76, 77 e 117 che demandano in via esclusiva alle assemblee legislative statali e regionali il compito di emanare atti aventi forza e valore di legge. Risultano altresì violati gli artt. 3, 23 e 97 della Costituzione quali norme che costituiscono il fondamento costituzionale delle libertà individuali e del principio di legalità sostanziale in materia di sanzioni amministrative, cristallizzato, a livello di normazione primaria, nell'art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Infatti l'art. 23 della Costituzione prevede che le prestazioni personali e patrimoniali non possono essere imposte ai singoli se non in base alla legge, in quanto solo il legislatore statale, col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, può essere interprete e custode dell'opera di bilanciamento tra valori e beni costituzionalmente rilevanti e tra loro confliggenti, mediante l'imposizione di obblighi, divieti e sanzioni. E' vero che si tratta di una riserva relativa e non assoluta di legge. Tuttavia la giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 4 del 1957, ma altrettanto significativa è la sentenza n. 447 del 1988, ha indicato i limiti e le garanzie necessarie a far ritenere rispettato il principio della riserva di legge relativa stabilito dall'art. 23 della Costituzione, precisando che la legge deve stabilire i criteri idonei a regolare eventuali margini di discrezionalità lasciati alla pubblica amministrazione nella determinazione in concreto della prestazione ed inoltre che, al fine di escludere che la discrezionalità possa trasformarsi in arbitrio, la legge deve determinare direttamente l'oggetto della prestazione stessa ed i criteri per quantificarla. La norma della cui legittimità costituzionale si dubita ha invece attribuito un potere normativo che, dovendo rispettare solo i principi generali dell'ordinamento ed essendo disancorato da specifici e localizzati presupposti fattuali insiti nei concetti della contingibilità ed urgenza, è tendenzialmente illimitato e, in quanto tale, autorizzato a dettare regole di condotta e sanzioni che conculcano la sfera di libertà dei singoli garantita invece dal principio «silentium legis, libertas civium ». Peraltro non pare possibile rinvenire una sufficiente delimitazione della discrezionalità normativa nel decreto ministeriale 5 agosto 2008, adottato ai sensi dell’art. 54, comma 4 bis, del Dlgs. 18 agosto 2000, n. 267, come modificato dal decreto legge 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24 luglio 2008, n. 125, che è una fonte anomala, di dubbia valenza (è stato definito come recante mere linee guida dalla sentenza Tar Lazio, Roma, sez. II, 22 dicembre 2008, n. 12222), che omette di dare una chiara definizione della nozione di sicurezza urbana ed ha un contenuto, a sua volta, estremamente generico. Tale è l'indeterminatezza che la norma finisce per autorizzare l'arbitrio e la sistematica sovrapposizione con norme penali incriminatici (è il caso ad esempio delle ordinanze sulla vendita di alcolici a minori di anni 16 o sullo spaccio di droga) oltre che sconfinamenti in fattispecie che sono esercizio di diritti di libertà, naturalmente attratte, per il principio della riserva di legge assoluta o relativa, alla competenza statuale, con conseguente violazione degli artt. 13 sulla libertà personale, 16 sulla libertà di circolazione e soggiorno, 17 sulla libertà di riunione, e 41 in materia di disciplina dell'iniziativa economica (ad esempio con i divieti generalizzati alla vendita di alcolici in deroga alle norme statali e regionali vigenti o i divieti che fissano limiti di reddito per l'iscrizione all'anagrafe di cittadini comunitari ed extracomunitari previa dimostrazione della liceità delle loro risorse economiche), oltre che negli ambiti di competenza legislativa regionale previsti dall'art. 117 della Costituzione. La norma della cui legittimità costituzionale si dubita, autorizza inoltre una irragionevole e ingiustificata frammentazione di discipline recanti divieti, obblighi di fare e di non fare profondamente diversificati (sotto il profilo della liceità o meno delle condotte e della misura e della tipologia di sanzioni irrogabili) tra i territori dei Comuni (che nella Repubblica sono più di 8.000), in ambiti che, essendo riconducibili a diritti e libertà individuali costituzionalmente rilevanti, richiederebbero invece un esercizio unitario a livello statuale. Ne risultano vulnerati, in combinato disposto con il criterio della ragionevolezza di cui all'art. 3, i principi di uguaglianza di cui all'art. 2, di unità ed indivisibilità della Repubblica di cui all'art. 5, di legalità di cui all'art. 97 della Costituzione, e di riparto delle funzioni amministrative di cui all'art. 118. Sotto altro profilo si deve sottolineare che la norma autorizza irragionevolmente anche la deroga al riparto ordinario di competenze tra gli organi dell'ente locale, in quanto il Sindaco finisce per poter attrarre alla propria competenza, ad libitum, qualsiasi ambito riservato alla competenza dei regolamenti consiliari (quali il regolamento di polizia urbana). Sotto questo profilo, il potere normativo all'esame, libero perché solo finalisticamente orientato, essendo attribuito ad un organo amministrativo monocratico, il Sindaco quale ufficiale di governo, per sua natura non contempla la possibilità di sottoporre il processo decisionale ad un trasparente confronto pubblico nell'ambito di un organo collegiale elettivo e rappresentativo, e ciò finisce per contraddire, negandone valore ed utilità, il principio pluralista, che è principio fondamentale del vigente ordinamento costituzionale, e, in particolare, il pluralismo culturale, politico, religioso e scientifico di cui sono espressione gli artt. 2, 6, 8, 18, 21, 33, 39 e 49 della Costituzione. Risultano infine violati gli artt. 24 e 113 della Costituzione perché, la latissima discrezionalità intrinseca degli atti normativi così configurati, fa sì che i poteri attribuiti al Sindaco siano talmente "vasti ed indeterminati" (in tali termini il punto 7 in diritto della sentenza della Corte Costituzionale 1 luglio 2009, n. 196) da rendere eccessivamente difficoltosa la possibilità di un effettivo sindacato giurisdizionale sulle singole fattispecie»; anche Tar Lombardia, sez. Brescia, sez. II, ord. 1 ottobre 2010, n. 700, in Guida agli Enti Locali, 2010, 11, 45, 52 ss. per cui l’articolo 54 - finalizzato ad attribuire
al sindaco un vasto potere di ordinanza, esercitabile senza limiti di tempo, ed anche al di fuori dei casi di urgenza - «è potenzialmente eversivo della gerarchia delle fonti prevista dalla Carta costituzionale», che consente in linea di principio solo alla legge e agli atti equiparati (cioè decreti legge e decreti legislativi) di incidere sulla sfera giuridica di libertà del cittadino.
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Si veda la definizione che il legislatore ha voluto fornire circa l'ordine pubblico e la sicurezza pubblica ai sensi dell’art. 159, comma 2° del d.lgs. n. 112 del 1998 per cui le «funzioni ed i compiti amministrativi relativi all’ordine pubblico e sicurezza pubblica […] concernono le misure preventive e repressive dirette al mantenimento dell’ordine pubblico inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale, nonché alla sicurezza delle istituzioni, dei cittadini e dei loro beni».
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V. ITALIA, L’ingorgo normativo apre la strada al contenzioso, in Guida agli enti locali, Il Sole 24 Ore, 32/2008; Id., Un potere ampio con troppe incertezze, in Guida agli enti locali, Il Sole 24 Ore, 38/2008; L. VANDELLI, I poteri del sindaco in materia di ordine e sicurezza pubblica nel nuovo art. 54 del T.u.e.l, cit., 22 ss.
Il che verrebbe a sovvertire la catena di comando e responsabilità nell’uso delle forze di polizia, prevista dal Titolo V della Costituzione della Repubblica, trasferendo dal Prefetto al Sindaco tale potere volto all’applicazione delle ordinanze.
A. PAJNO, La sicurezza urbana tra poteri impliciti e inflazione normativa, cit., 16; Id., Alla ricerca della nozione di sicurezza urbana, in www.astrid.it .
L’art. 1 del t.u.l.p.s. prevede che «1. L’autorità di pubblica sicurezza veglia al mantenimento dell’ordine pubblico, alla sicurezza dei cittadini, alla loro incolumità e alla tutela della proprietà ; cura l’osservanza delle leggi e dei regolamenti generali e speciali dello Stato, delle province e dei comuni, nonchè delle ordinanze delle autorità ; presta soccorso nel caso di pubblici e privati infortuni. 2. Per mezzo dei suoi ufficiali, ed a richiesta delle parti, provvede alla bonaria composizione dei dissidi privati. 3. L’autorità di pubblica sicurezza è provinciale e locale. 4. Le attribuzioni dell’autorità provinciale di pubblica sicurezza sono esercitate dal Prefetto e dal Questore; quelle dal capo dell’ufficio di pubblica sicurezza del luogo o, in mancanza, dal Podestà ».
L’art. 15, 2 co., della legge 1 aprile 1981, n. 121, prevede che «ove non siano istituiti commissariati di polizia, le attribuzioni di autorita` locale di pubblica sicurezza sono esercitate dal sindaco quale ufficiale di Governo».
M. GNES, L’annullamento prefettizio delle ordinanze del sindaco quale ufficiale del governo, in Giornale di diritto amministrativo, 1/2009, 44 ss.; G. MELONI, Il potere ordinario dei sindaci di ordinanze extra ordinem, www.federalismi.it, 4/2009.
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