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LA COLPEVOLEZZA
Il principio di colpevolezza.
Le teorie sulla colpevolezza.
Il problema.
Il concetto di colpevolezza ha a che fare con le concezioni, le condizioni, i principi concernenti l’attribuzione di responsabilità.
Il problema della colpevolezza sorge, per definizione, con riguardo a fatti che presentano tutti gli estremi obiettivi di una figura di reato, e per i quali non sussiste alcuna obiettiva giustificazione.
L’art. 27 Cost. dispone che “la responsabilità penale è personale”.
Concezione psicologica e concezione normativa della colpevolezza.
La concezione psicologica definisce la colpevolezza come relazione soggettiva dell’agente con il fatto antigiuridico: il dolo, la colpa, o forme intermedie fra l’uno e l’altra.
“Colpevolezza è riprovevolezza” è la formula citata, con la quale il padre della concezione normativa riassume la sua concezione. L’agire colpevole è quello per il quale si può muovere all’agente un rimprovero.
Non v’è dubbio che il giudizio di colpevolezza abbia una dimensione tipicamente normativa.
Colpevolezza penale e colpevolezza morale.
La distinzione fra colpevolezza etica e giuridica è fondamentale, ed è fondata sul riferimento ai diversi sistemi normativi, rispettivamente giuridico ed etico. In un ordinamento giuridico laico, che esclude la possibilità di un’etica ufficiale dello stato, l’identificazione della colpa giuridica con la colpa morale è improponibile, nel senso che il giudizio giuridico non è legittimato a caricarsi di significati etici che vadano oltre la riaffermazione dell’ordinamento positivo di comportamenti e rapporti sociali.
Colpevolezza e funzioni della pena.
Per le teorie retributive assolute la moralità della pena è collegata al disvalore etico del male commesso, e la determinazione dei presupposti anche soggettivi della responsabilità è rimessa al sistema etico assunto come valido.
Nella prospettiva della prevenzione generale intimidatrice, il ruolo del principio di colpevolezza sarebbe visto in chiave utilitaristica: la punizione presuppone la colpevolezza, perché solo una realizzazione colpevole può essere idoneo riferimento della deterrenza legale.
Attraverso il principio di colpevolezza, l’area della punibilità viene ristretta rispetto all’area dell’illecito obiettivo tipico; vengono introdotte delle scuse legali, e con esse la pratica possibilità di farle valere, magari pretestuosamente.
Il fondare la responsabilità penale anche su momenti soggettivi è necessario a completare la funzione di garanzia per cui è posto il principio di legalità.
L’esclusione di responsabilità per fatti incolpevoli dà la garanzia che nessuno sarà punito per conseguenze accidentali del suo agire; in questo senso è una garanzia della certezza d’azione, e quindi della libertà individuale.
Il principio di colpevolezza fra concezioni funzionali e concezioni garantiste.
L’approccio funzionale giustifica anche l’esigenza ed i requisiti della colpevolezza partendo dagli scopi della pena. La priorità è data al punto di vista della società, quale si esprime in obiettivi più o meno razionali di politica criminale o in bisogni emozionali di pena.
Teoricamente contrapposto a quello funzionale è l’approccio garantista: il principio di colpevolezza visto dalla parte dell’individuo, come diritto di protezione. L’imputazione soggettiva risponde ad un’esigenza di delimitazione della responsabilità: non sono ammesse affermazioni di responsabilità penale che non siano riferite ad atti ed eventi la cui realizzazione rientri nelle possibilità di controllo personale del soggetto, della cui responsabilità si discuta.
Nessuna pena senza colpevolezza, dice il principio garantista.
Non ogni colpa deve essere necessariamente punita, dice i principio di razionalità rispetto allo scopo.
I criteri d’imputazione soggettiva nell’ordinamento italiano.
Il sistema dell’imputazione soggettiva nel codice Rocco.
Nel sistema del codice Rocco, l’esigenza dell’imputazione soggettiva trova riconoscimento di principio negli istituti del dolo e della colpa, quali criteri generali d’imputazione dell’illecito.
Il dolo, cioè la volontaria realizzazione dell’illecito, è la forma più grave di colpevolezza. La volontà del fatto è necessaria a fondare il rimprovero nella sua forma più piena.
Anche in assenza di dolo è possibile un rimprovero (di colpa) per avere realizzato il fatto illecito con inosservanza di standard di comportamento doverosi.
Fra il dolo e la colpa il codice Rocco ha inserito un terzo istituto, per così dire intermedio: la preterintenzione.
L’ambito di applicazione dei diversi criteri d’imputazione soggettiva è disciplinato dall’art. 42 c.p..
“Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come delitto, se non l’ha commesso con dolo, salvi i casi di delitto preterintenzionale o colposo espressamente preveduti dalla legge”.
Nell’ambito delle contravvenzioni “ciascuno risponde della propria azione od omissione cosciente o volontaria, sia essa dolosa o colposa”.
Ai fini dell’attribuzione di responsabilità per reato contravvenzionale, o per illecito amministrativo, dolo e colpa sono dunque equivalenti.
La rilevanza della distinzione fra dolo e colpa.
Il dolo è una forma di colpevolezza maggiore che non la colpa, e nell’ambito dei delitti segna il limite normale della responsabilità.
L’azione dolosa, in questo senso, costituisce una più diretta aggressione agli interessi tutelati dalla legge, ed una diretta minaccia per la pretesa di validità della norma, qualitativamente diversa ed assai più grave che non l’agire colposo.
Il dolo è, di regola, l’unica forma di colpevolezza ritenuta idonea a giustificare l’intervento penale. Solo fatti di aggressione volontaria si ritengono, in via di principio, così gravi da giustificare la disciplina severa, propria della più grave fra le categorie di reati.
Il maggiore bisogno di protezione di determinati beni primari è la ragione della previsione formalmente eccezionale di delitti colposi.
Nel codice penale, il campo dei delitti colposi è costituito, fondamentalmente, da delitti contro la vita e l’incolumità personale, e contro l’incolumità pubblica. In questi campi la responsabilità anche per colpa è la regola.
In altri settori, le figure di delitto colposo sono rare.
Quanto alle contravvenzioni, la sufficienza della colpa si spiega su un duplice ordine di considerazioni:
Non può essere prevista la responsabilità penale per colpa, in relazione a fatti per i quali no sia prevista la responsabilità penale nel caso di realizzazione dolosa.
Le definizioni dell’art. 43 c.p..
Il codice Rocco, all’art. 43 c.p., si è preoccupato di dare una definizione degli istituti nei quali si articola l’elemento psicologico del reato. Abbiamo così delle definizioni legislative del dolo, della colpa e della preterintenzione, il cui valore è controverso.
La dimensione costituzionale del principio di colpevolezza.
Gli orientamenti della dottrina.
Secondo l’art. 27 Cost. la responsabilità penale è personale.
Non è ammessa alcuna forma di responsabilità penale per fatto altrui. Il soggetto sottoponibile a pena non può essere che l’autore o un coautore del fatto illecito.
È una funzione di garanzia: quella di impedire che taluno possa essere sottoposto a sanzioni penali, in conseguenza di eventi non riconducibili alla sua sfera d’azione e di potenziale controllo personale.
Fuori della sfera personale di signoria sono anche le conseguenze materiali delle proprie azioni, che non fosse dato prevedere e prevenire, o che non fosse esigibile evitare. Ammettere, in tali ipotesi, una responsabilità penale, pregiudicherebbe la libertà e certezza d’azione dell’individuo allo stesso modo di una attribuzione di responsabilità per fatto altrui.
La giurisprudenza costituzionale meno recente.
Nelle affermazioni di principio, l’interpretazione della corte costituzionale all’art. 27 Cost. era un’interpretazione restrittiva, che ne limitava la portata al divieto di responsabilità per fatto altrui, e riteneva ciò conforme alla volontà storica dei costituenti.
La svolta verso la rilevanza costituzionale del principio di colpevolezza.
Il quadro cambia radicalmente con la storica sentenza 364/1988, con la quale la corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 5 c.p., e ne ha riscritto il testo nei seguenti termini: “l’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d’ignoranza inevitabile”.
Il principio di personalità della responsabilità esige anche, quale presupposto della responsabilità, la colpevolezza soggettiva.
Il dolo.
Generalità.
La forma più grave di colpevolezza, in tutti i sistemi penali moderni, è individuata nel dolo, cioè nella volontaria realizzazione del fatto illecito.
Secondo la definizione dell’art. 43 c.p., il delitto “è doloso, o secondo l’intenzione, quando l’evento dannoso o pericoloso, che è il risultato della azione od omissione e da cui la legge fa dipendere l’esistenza del delitto, è dall’agente preveduto e voluto come conseguenza della sua azione od omissione”.
Nell’ambito dei delitti il dolo segna anche, di regola, il limite della responsabilità, salvi i casi in cui la legge preveda un diverso criterio d’imputazione.
Il dolo è volontà di realizzazione, che si realizza nel fatto commesso.
L’imputazione per dolo ha come presupposto oggettivo comune all’imputazione per colpa la violazione di una regola di condotta specificamente finalizzata a evitare il prodursi di un fatto di quel determinato tipo. Non c’è dolo senza colpa.
L’oggetto del dolo: il fatto costitutivo di reato.
Oggetto del dolo è il fatto costitutivo di reato, sotto tutti i profili che ne determinano la conformità al tipo legale. L’agente doloso vuole realizzare un fatto del quale si rappresenta tutti gli elementi necessari e sufficienti a fondarne la corrispondenza alla fattispecie criminosa.
Il dolo funziona come criterio di imputazione soggettiva del fatto, in quanto è volontà del fatto costitutivo di reato.
La conoscenza e la volontà del soggetto agente devono abbracciare gli elementi essenziali del fatto, quelli cioè da cui dipende la tipicità penale del fatto.
Il dolo richiesto dalla legge ha un oggetto che si esaurisce nel fatto tipico. Viene definito dolo generico.
Secondo che ci si riferisca a reati di danno o di pericolo, può parlarsi di dolo di danno e dolo di pericolo.
Il contenuto psicologico del dolo. Volontà e rappresentazione.
Il dolo consiste in stati psicologici effettivi, riferiti al fatto di reato che si vuole realizzare.
La volontà di realizzazione, che integra il dolo, è la volontà che sorregge la condotta con la quale l’agente realizza il fatto.
Estranei alla struttura del dolo sono gli elementi affettivi che stanno a monte della decisione di agire.
La volontà deve investire l’intero fatto nella sua unità di significato.
Dolo intenzionale, diretto, alternativo.
Dolo intenzionale.
Il nucleo centrale della figura del dolo è costituito dai casi in cui la realizzazione del fatto tipico è un risultato che l’agente aveva di mira. Avendo riguardo al profilo della volontà, tali casi sono definiti come dolo intenzionale.
Dolo diretto.
Casi in cui la realizzazione dell’evento delittuoso non sia l’obiettivo avuto di mira dall’agente, ma sia, e sia conosciuta, come necessariamente connessa alla realizzazione dell’obiettivo avuto di mira.
Nel caso di rappresentazione del fatto di reato quale consegna certa della propria condotta, tale conseguenza non può non essere considerata voluta: l’efficacia motivante che la rappresentazione dell’evento delittuoso avrebbe dovuto avere, non vi è stata: con la scelta di agire, l’agente si è posto consapevolmente contro l’interesse tutelato.
I casi di dolo caratterizzati dalla rappresentazione certa dell’evento, diversi dal dolo intenzionale, sono definiti come dolo diretto.
Dolo alternativo.
Come dolo alternativo vengono definiti i casi in cui l’agente si rappresenta il possibile verificarsi di eventi diversi, tutti coperti, per così dire, dalla sua volontà, che non ne esclude nessuno.
Il problema del dolo eventuale.
Accettazione del rischio o accettazione dell’evento?
Casi in cui l’agente non ha di mira la realizzazione del fatto tipico né se la rappresenta come sicuramente connessa alla realizzazione del proprio obiettivo, ma se la rappresenta come possibile risultato della propria condotta. Si parla di dolo eventuale.
Risponde a titolo di dolo eventuale l’agente che, pur non volendo l’evento, accetta il rischio che esso si verifichi come risultato della sua condotta, e decide di agire anche a costo di determinarlo; mentre risponde a titolo di colpa aggravata l’agente che, pur rappresentandosi l’evento come possibile risultato della sua condotta, agisce nella ragionevole opinione o speranza che esso non si verifichi.
Aspetti emozionali, contenuto rappresentativo e contenuto volitivo del dolo eventuale.
Il dolo eventuale sarebbe escluso qualora l’evento, previsto come possibile, sia contro il desiderio dell’agente e questi speri di evitarlo.
Si tratta di un’impostazione non accettabile e giustamente criticata. Elementi emozionali sono estranei alla struttura tipica del dolo: anche eventi non desiderati possono essere previsti e voluti in quanto inscindibili dalla realizzazione del proprio obiettivo.
Un atteggiamento emozionale negativo rispetto all’evento è di per sé compatibile con qualsiasi forma di dolo.
È possibile che stati emozionali, desideri e simili, si risolvano in fattori d’esclusione del dolo; ma ciò solo se e in quanto abbiano influito sul momento intellettivo della rappresentazione dei fatti.
Il dolo non può essere escluso dal desiderio che un evento previsto non si verifichi; sì, invece, da una percezione o comprensione alterata della realtà, derivante da un wishful thinking che abbia impedito il formarsi di una previsione dell’evento che altrimenti vi sarebbe ragionevolmente stata.
Quali sono i contenuti cognitivi e volitivi, in ragione dei quali si può parlare di accettazione dell’evento?
Il dolo eventuale è rappresentazione non in termini di certezza. Non è sufficiente, però, una generica rappresentazione del fatto come possibile. Per poter fondare la volontà del fatto, si pure nella forma sfumata della accettazione del suo eventuale verificarsi, appare necessaria una rappresentazione del fatto come avente un grado significativo di probabilità.
Il contenuto di coscienza necessario al dolo.
Il dolo implica la conoscenza di tutti gli elementi o caratteri della situazione di fatto, dai quali dipende la tipicità penale dell’azione commessa o dell’evento cagionato. Non è invece richiesta la conoscenza della legge violata.
Ciò che è necessario e sufficiente per aversi dolo, è che nella situazione concreta l’agente riesca a cogliere tutti gli aspetti su cui si fonda la valutazione legale d’illiceità.
Sufficiente e necessaria a integrare il dolo è dunque una comprensione nella sfera laica (nella cultura del non giurista) degli elementi tipici della situazione descritta dal legislatore mediante concetti tecnico-giuridici.
Dolo e coscienza dell’offesa agli interessi tutelati.
Il dolo, così come disciplinato nel nostro ordinamento, non comprende la coscienza dell’illiceità del fatto commesso.
La coscienza e volontà del fatto tipico, nella quale il dolo formalmente consiste, deve avere ad oggetto un tipo d’illecito, che sia tale per il suo carattere dannoso o pericoloso per interessi meritevoli di tutela. Nel fatto di reato, che costituisce l’oggetto del dolo, il carattere illecito deve essere riconoscibile.
Agisce con dolo l’agente per convinzione, il quale ritenga di potere o dover tenere, in coerenza con le sue convinzioni morali o religiose o ideologiche, un comportamento che sa essere antigiuridico. La coscienza dell’offesa, che può costituire elemento del dolo, si identifica con la consapevolezza di realizzare un comportamento lesivo di dati interessi, colti nella loro realtà effettuale.
Dolo specifico.
Alcune figure di reato danno rilievo ad una finalità che l’agente si prefigge di conseguire mediante la realizzazione del fatto, ma non è necessario si realizzi perchè il reato sia consumato. Si parla, in questi casi, di reati a dolo specifico.
Accertamento del dolo.
L’esigenza di una prova certa.
Il dolo deve essere rigorosamente provato, non diversamente da ogni altro elemento del reato, al di là di ogni ragionevole dubbio.
Base essenziale per l’accertamento del dolo sono le modalità della condotta e le circostanze che la precedono, accompagnano e seguono.
La questione dei segnali d’allarme.
I processi a carico di soggetti titolari di doveri di vigilanza e controllo, per reati attinenti all’esercizio delle loro funzioni, si è posta la questione se la prova del dolo possa essere desunta dall’impedimento di tali doveri, che sono, si noti, doveri di acquisizione di conoscenze.
Il non conoscere ciò che si sarebbe potuto conoscere, se il dovere di vigilanza fosse stato adempiuto, fonda un addebito di colpa.
Il passaggio dalla colpa al dolo è stato ricercato dalla giurisprudenza elaborando la teoria dei segnali d’allarme, dando rilievo ad un volontario chiudere gli occhi per non vedere. L’avere del tutto trascurato certe attività, l’assenteismo più o meno totale, il non essersi curati di segnali d’allarme pur percepiti, fonderebbe un addebito di dolo rispetto agli illeciti commessi dagli organi di gestione non assoggettati a controllo.
L’oggetto del dolo non può essere identificato in asseriti segnali d’allarme, che potrebbero evocare la possibile esistenza di elementi del fatto tipico. Per affermare il dolo occorre in ogni caso la rappresentazione concreta del fatto penalmente tipico.
Il passaggio dalla colpa al dolo eventuale potrà prospettarsi in capo a chi abbia non solo percepito determinati segnali d’allarme, ma li abbia anche concretamente valutati come segnali di specifici fatti-reato, concretamente rappresentati. L’inerzia acquisirebbe, in simili casi, il significato di consapevole accettazione del verificarsi di un determinato fatto illecito concretamente rappresentato.
Il dolo nei reati omissivi.
Il dolo nei reati omissivi puri.
I principi generali sul dolo valgono anche per i reati omissivi. L’oggetto del dolo è qui determinato dalla specifica dimensione negativa (il non fare) che caratterizza il fatto omissivo.
L’oggetto del dolo d’omissione comprende innanzi tutto la conoscenza della situazione tipica, cui la legge riconnette il dovere d’agire.
In aggiunta alla consapevolezza della situazione tipica occorre anche la consapevolezza e volontà di non compiere un’azione (quella doverosa) rappresentata come possibile.
Il dolo nei reati commissivi mediante omissione.
Nei reati commissivi mediante omissione, il dolo richiede la conoscenza della situazione tipica, nella quale sorge l’obbligo di agire, e la volontà di non impedire l’evento, astenendosi da un’azione impeditiva rappresentata come possibile.
È richiesta la consapevolezza della posizione di garanzia, sulla quale si fonda la tipicità del reato omissivo improprio?
È necessaria la conoscenza di tutti gli elementi, descrittivi o normativi, in cui si esprime il significato tipico del fatto illecito per omissione.
Il dolo richiede perciò la conoscenza degli elementi che danno corpo alla posizione di garante, e può richiedere la conoscenza del dovere d’agire, quando i presupposti di tale dovere consistano in una situazione di fatto normativamente qualificata.
Non fa parte del dolo, invece, la conoscenza della rilevanza penale dell’obbligo, cioè del principio legale, espresso od implicito nel sistema, che qualifica come posizioni di garanzia dati rapporti negoziali o di vita.
La colpa.
Il problema della responsabilità per un fatto non voluto.
La condotta colposa come inosservanza di regole cautelari.
Il problema della colpa concerne le condizioni per l’attribuzione di responsabilità penale per fatti illeciti realizzati involontariamente (senza dolo).
Il fatto può essere rimproverato, ascritto a colpa, se è stato realizzato con inosservanza di regole di comportamento aventi funzione cautelare, di tutela preventiva dell’integrità del bene offeso dal reato. Condotta colposa è una condotta inosservante di regole cautelari, o di diligenza, finalizzate alla prevenzione del fatto che è stato realizzato.
Statuisce l’art. 43 c.p.: il delitto “è colposo, o contro l’intenzione, quando l’evento, anche se preveduto, non è voluto dall’agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”.
Il riferimento a regole cautelari ha una doppia rilevanza: le regole cautelari vengono in rilievo non solo nel giudizio di colpevolezza, ma già sul piano della tipicità, nel senso che concorrono a precisare i contenuti oggettivi del dovere posto dalla norma penale.
Il reato colposo viene tipizzato non semplicemente dalla norma penale, ma dalla combinazione di questa con le regole di diligenza pertinenti all’attività di volta in volta considerata, differenziandosi dalla corrispondente forma dolosa già nella struttura della fattispecie obiettiva.
Di fronte alla questione della colpa le buone intenzioni non sono una valida difesa.
Doveri di sapere e doveri di comportamento.
I doveri di diligenza rilevanti per il diritto sono innanzi tutto doveri di acquisizione di conoscenza e di abilità. Chiunque, agendo, entra in rapporto con interessi di altri, è tenuto a non offendere gli interessi di altri, e perciò è tenuto a sapere e saper fare quanto gli occorre per condurre la sua attività (la sua vita) senza combinare guai ad altri.
Il dovere di sapere riguarda direttamente le situazioni concrete in cui si agisce, o sulle quali cadono le conseguenze del proprio agire.
Ai fini del giudizio di colpa occorre guardare alla situazione personale dell’agente, nel momento in cui ha agito (o si è astenuto dal fare certe cose). Occorre individuare quali regole di diligenza egli fosse tenuto a rispettare; quali i suoi doveri di sapere, di saper fare, di fare o non fare, nel tempo e nel contesto del fatto di cui si discuta.
Il carattere colposo della condotta può consistere, innanzi tutto, nel mancato riconoscimento di rischi riconoscibili.
Nel caso che la situazione di rischio sia conosciuta, la colpa potrà consistere nella mancata adozione di comportamenti idonei a fronteggiare (neutralizzare, ridurre) il rischio.
Colpa in attività lecite e illecite.
Il dovere di evitare la realizzazione di eventi illeciti prevedibili, che costituisce il tratto fondamentale della colpa, vale per lo svolgimento di qualsiasi attività.
Chi compie attività illecite, violando il divieto relativo a quelle attività, ovviamente non è esonerato dall’osservanza di regole cautelari volte a prevenire la realizzazione di altri fatti vietati dal diritto penale.
L’individuazione delle regole cautelari.
I criteri della prevedibilità e prevedibilità.
Condotta diligente è quella conforme a cautele atte a prevenire il realizzarsi di un evento la cui realizzazione, in assenza di quelle cautele, sarebbe prevedibile.
Il criterio di costruzione della regola è come prevenire eventi altrimenti prevedibili.
Anche in situazioni nuove occorre basarsi sulla scienza e sull’esperienza acquisita, per valutare eventuali rischi ed individuare eventuali cautele di nuovo tipo. Le regole cautelari sono regole tecniche fondate sul sapere scientifico.
A proposito degli standard di diligenza la dottrina richiama l’importanza degli usi sociali.
Le regole cautelari non sono usi sociali, ma criteri di controllo sulle prassi effettive.
L’agente modello.
La colpa va determinata alla stregua di ciò che avrebbe potuto prevedere e prevenire un agente ideale il quale svolga, professionalmente o per assunzione volontaria anche occasionale, con la dovuta capacità e competenza, la medesima attività per la quale si pone il problema della colpa di un agente reale.
Come regole generali devono poter valere per una pluralità di soggetti.
Agente modello eiusdem professionis vel condicionis (della stessa condizione e professione dell’agente concreto): è il modello del buon agente nei diversi settori di attività, cui ciascun agente concreto dovrebbe conformarsi.
Chi svolga un’attività che non è in grado di svolgere nel rispetto delle regole proprie di essa, e in conseguenza di ciò realizza dei fatti penalmente illeciti, risponde a titolo di colpa per assunzione.
La colpa specifica.
La formalizzazione di regole cautelari.
Fonte di regole cautelari può essere la legge. Non c’è differenza fra regole cautelari non formalizzate e regole cautelari assunte a contenuto di specifiche disposizioni di legge ed autonomamente sanzionate come illecito penale o amministrativo.
Vengono richiamate anche categorie di atti non aventi valore di legge: regolamenti, ordini, discipline. Deve trattarsi, in tutti i casi, di regole aventi funzione cautelare, la cui emanazione è autorizzata dal legislatore in relazione a bisogni di disciplina di attività o situazioni potenzialmente pericolose.
La colpa specifica (per inosservanza di regole codificate) differisce dalla colpa generica (per inosservanza di regole di diligenza non formalizzate) solo in ragione della fonte delle regole, fermo restando in tutti i casi il contenuto cautelare delle regole.
Per regolamenti si intendono disposizioni di carattere generale, emanate da pubbliche autorità.
Per ordini e discipline si intendono disposizioni di carattere generale o individuale che possono essere emanate sia da pubbliche autorità sia da soggetti privati, in relazione alla disciplina di particolari attività o situazioni potenzialmente pericolose, e perciò bisognose di specifica regolamentazione ai fini della sicurezza.
Norme rigide e norme elastiche.
Fra le regole cautelari poste da fonti formali, possiamo trovare norme più o meno rigide, più o meno elastiche. Norme rigide se i presupposti e il contenuto del dovere sono oggetto di puntuale descrizione, nella loro materialità. Nella maggior parte dei casi, peraltro, le leggi speciali che contengono regole cautelari contengono elementi di elasticità.
Anche in relazione a norme a struttura rigida il dovere di osservanza viene meno in casi eccezionali, in cui l’osservanza si risolverebbe in aumento, e non diminuzione del rischio.
Regole cautelari e standard generalmente adottati.
Le regole cautelari che possono essere poste a fondamento del giudizio di colpa non possono essere che regole chiaramente individuate, diffuse e consolidate, rientranti nel patrimonio delle conoscenze esigibili dalla cerchia dei soggetti che svolgono quella attività in un determinato momento storico.
Svolgimento di attività pericolose. Il problema del rischio consentito.
Un limite generale alla responsabilità per colpa è spesso indicato con la formula del rischio consentito.
Rischio consentito è un concetto puramente formale. Non addita un criterio di delimitazione della responsabilità per colpa, ma è un modo di presentare il problema base della colpa, quello dei criteri normativi (le regole cautelari) per il contenimento dei rischi entro un ambito accettabile, e perciò consentito.
I confini del rischio permesso dipendono da un bilanciamento d’interessi: da un lato l’interesse allo svolgimento d’una data attività, dall’altro lato la misura del rischio ad essa collegato, in funzione della probabilità, del tipo, della gravità e del numero di eventi lesivi che potrebbero derivarne.
Doveri di sicurezza e costo economico.
L’adempimento di doveri di sicurezza ha spesso un costo economico, più o meno consistente, e talora molto consistente. Può la responsabilità per colpa essere condizionata da considerazioni di costo economico?
Il dovere di attuazione di misure legalmente previste non può ritenersi limitato dalla considerazione dei costi economici e da condizionamenti derivanti da esigenze produttive o dal contingente assetto dell’impresa. L’attività insicura, ove il costo della sicurezza non sia sostenibile, non può essere avviata o proseguita; il costo della sicurezza può non essere ritenuto ostativo, perché evitabile con la astensione dalla attività.
Il limite del costo eccessivo viene in causa solo quando quel limite ultimo sia stato rispettato: nel senso, cioè, che l’autorità non potrebbe imporre nuove tecnologie disponibili, capaci di ridurre ulteriormente il livello d’inquinamento, se queste risultino eccessivamente costose per la categoria cui l’impresa appartiene.
Il principio d’affidamento.
Gli standard di diligenza richiesti per i diversi campi di attività hanno importanza per tutti i partecipanti alla vita di relazione, anche nel senso che concorrono a definire aspettative ragionevoli nelle situazioni regolate, da parte dei diversi soggetti implicati in quelle situazioni.
Affidamenti fondati su aspettative normative possono considerarsi ragionevoli, ma solo fino a che non siano messi in crisi da concreti elementi di fatto, che rendano prevedibile la condotta inosservante di altri.
Affidamenti reciproci sono condizione necessaria della cooperazione.
Il nesso fra colpa ed evento.
L’evento come concretizzazione del rischio.
Nei reati d’evento la colpa è un presupposto della responsabilità penale che si aggiunge alla causalità, senza sostituirla e senza incidere sui criteri di accertamento della causalità. Solo in relazione a condotte, attive od omissive, che siano causali rispetto all’evento, si pone il problema ulteriore della colpa.
L’evento colposamente cagionato è, secondo i concetti usuali della teoria del reato, elemento costitutivo del fatto tipico, non diversamente che se fosse stato realizzato con dolo.
Può essere imputato a colpa (dell’autore di una condotta inosservante) solo un evento che costituisca la realizzazione di un rischio specifico che la regola cautelare violata tende a prevenire.
La prevedibilità dell’evento.
La colpa appare caratterizzata dalla prevedibilità: prevedibilità in concreto di un evento del tipo di quello poi verificatosi hic et nunc.
Viene in rilievo l’insieme degli elementi della situazione concreta conosciuti o conoscibili dall’agente concreto.
Se all’epoca della condotta non era ancora nota la cancerogenicità dell’esposizione, è possibile affermare la colpa, o l’evento deve essere ritenuto imprevedibile? La giurisprudenza ha affermato la responsabilità per colpa, per violazione delle regole cautelari volte alla protezione della salute, vigenti al tempo dell’esposizione al fattore patogeno.
La corte di cassazione, nel confermare la sentenza d’appello, ha affermato che ai fini della colpa la prevedibilità non necessariamente richiede la certezza scientifica che certe conseguenze possano prodursi, ma è sufficiente la probabilità o anche la sola possibilità, purchè fondata su elementi concreti e non solo congetturali.
La questione del comportamento alternativo lecito.
L’imputazione per colpa esige che l’evento si sia verificato a causa della negligenza imprudenza imperizia. Non basta che la condotta sia stata inosservante della regola cautelare, e nemmeno basta che la condotta colposa sia stata altresì condizione dell’evento. È necessario che l’inosservanza della regola cautelare sia stata rilevante ai fini della produzione dell’evento; l’imputazione dell’evento per colpa non è proponibile qualora, in concreto, l’inosservanza della regola sia stata neutra rispetto al verificarsi dell’evento.
La misura soggettiva della colpa.
L’esigenza di una misura soggettiva della colpa, tale da poter escludere la colpevolezza pur in presenza di un’obiettiva violazione di standard di diligenza, si porrebbe in casi particolari, di deficit di capacità intellettive o di deficit di socializzazione dell’agente.
Particolari condizioni personali possono di regola venire in rilievo nella stessa determinazione degli standard obiettivi di diligenza. Modelli differenziati di diligenza terranno conto per esempio di handicap fisici che non impediscano lo svolgimento di date attività, ma esigano l’adozione di cautele modellate su tali caratteristiche, eventualmente sostitutive di quelle valide per soggetti normali in condizioni normali.
Capacità e conoscenze specialistiche superiori alla media non impongono un più elevato standard, rispetto all’agente modello del campo di attività di cui si discuta.
Il grado della colpa.
La colpa, come il dolo, è graduabile, secondo una scala di gravità che acquista rilievo ai fini delle conseguenze del reato. Ciò in sede di commisurazione della pena, o ai fini della circostanza aggravante prevista dall’art. 61 c.p.: l’avere, nei delitti colposi, agito nonostante la previsione dell’evento.
La colpa cosciente, o con previsione, rappresenta la forma di colpa che confina con il dolo eventuale. Se ne differenzia per il fatto che la previsione dell’evento, caratterizzante la colpa cosciente, non ha le caratteristiche della volontà e previsione che caratterizzano il dolo eventuale.
Pur rappresentandosi di agire in modo imprudente, inosservante di una regola cautelare, esclude in concerto, sia pure per colpa, che dalla inosservanza deriverà un evento lesivo.
La colpa incosciente, a soggetti che non si sono nemmeno resi conto di non osservare una regola cautelare.
Ai fini della quantificazione della colpa, occorre distinguere la gravità della colpa dall’entità dell’apporto causale e dalla gravità dell’evento.
Da una colpa lieve possono derivare conseguenze enormi; una colpa gravissima può anche restare senza conseguenze concrete.
Caso fortuito e forza maggiore.
Al caso fortuito il codice Rocco dedica una apposita disposizione (art. 45 c.p.): “Non è punibile chi ha commesso il fatto per caso fortuito o per forza maggiore”.
Il fortuito è qualcosa di imponderabile, improvviso ed imprevedibile, dal quale deriva l’evento vietato dalla legge.
Lo stesso è a dirsi per la forza maggiore. Vis maior cui resisti non potest (evento non resistibile fisicamente), la forza maggiore esclude la stessa configurabilità del coefficiente psichico dell’azione.
Un caso particolare di forza maggiore è il costringimento fisico, cui si riferisce l’art 46 c.p.: “Non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto da altri, mediante violenza fisica alla quale non poteva resistere o comunque sottrarsi. In tal caso, del fatto commesso dalla persona costretta risponde l’autore della violenza”.
Forza irresistibile che promana dall’uomo, non dalla natura.
L’errore sul fatto.
L’errore sul fatto come rovescio del dolo.
Il codice Rocco contiene una espressa disposizione (art. 47 c.p.) relativa all’errore sul fatto: “L’errore sul fatto che costituisce il reato esclude la punibilità dell’agente. Nondimeno, se si tratta di errore determinato da colpa, la punibilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
L’errore o ignoranza escludente il dolo è l’errore essenziale, ricadente cioè su un elemento o su un aspetto della realtà, dal quale dipende la tipicità del fatto.
Non esclude invece il dolo l’errore che cada su un profilo del fatto storico irrilevante rispetto alla tipicità del fatto.
Definito il dolo come coscienza e volontà del fatto costitutivo di reato, ne deriva che un errore su un elemento del fatto, facendo venire meno la conoscenza di detto elemento, esclude il dolo, senza bisogno di una disposizione espressa che ciò ribadisca.
L’errore su legge extrapenale.
Il codice Rocco stabilisce all’art. 47 c.p.: “L’errore su una lgge diversa dalla legge penale esclude la punibilità, quando ha cagionato un errore sul fatto che costituisce il reato”.
Leggi penali di origine extrapenale.
Una disposizione che appartenga, per origine e funzione, ai campi del diritto civile o amministrativo, commerciale o del lavoro o tributario, e così via, può essere allo stesso tempo una norma penale.
In tali casi l’errore sul precetto richiamato è un errore sul precetto penale.
Il codice Rocco contiene numerose disposizioni definitore. Le disposizioni definitore non sono norme autonome e complete, ma hanno una funzione servente rispetto ai precetti penali contenenti i termini legalmente definiti. Pertanto, l’erronea interpretazione delle disposizioni definitore si risolve in errore sul significato che il termine definito assume nel precetto penale, e in definitiva in un errore che cade sul precetto penale.
Ala medesima conclusione deve pervenirsi anche con riguardo a disposizioni definitore che, per origine e campo di materia, appartengano a settori extrapenali dell’ordinamento giuridico.
La teoria delle norme integratrici e la pratica disapplicazione dell’art. 47 c.p. ultimo comma.
Il campo praticamente controverso è quello dell’errore sugli elementi normativi della fattispecie, caratterizzati dal rilievo che la legge penale attribuisce a qualificazioni normative derivanti da norme non penali.
Distinzione fra disposizioni integratrici e non integratrici del precetto penale.
Il criterio di distinzione, che la giurisprudenza ha formulato, allarga al massimo l’ambito delle norme ritenute integratrici: ai fini dell’errore, per norma penale sarebbe da intendere non solo quella che stabilisce la punibilità di un determinato fatto, ma ogni altra norma, che pur essendo contenuta in una legge civile amministrativa è richiamata da quella penale e la integra, determinando il precetto penale vero e proprio.
Potrebbe essere propriamente considerata legge extrapenale, ai fini dell’art. 47 c.p., solo una legge destinata in origine a regolare rapporti giuridici non di carattere penale e che non sia richiamata in una norma penale né in essa esplicitamente o implicitamente incorporata.
La giurisprudenza ha sistematicamente considerato come errore sulla legge penale qualsiasi errore su norme qualificatrici di elementi normativi.
L’errore sugli elementi normativi come errore sul fatto.
Il rapporto degli elementi normativi con la legge extrapenale è un rapporto complesso, in cui possiamo distinguere due diversi momenti:
L’erronea individuazione della qualifica extrapenale, espressa dal concetto normativo, è un errore sul significato del precetto penale, sicuramente riconducibile all’art. 5 c.p.. Per contro, l’errore sulle fattispecie extrapenali, da cui dipenda la concreta applicazione della qualifica, è un errore in tutto compatibile con la comprensione del precetto penale.
La conoscenza delle norme extrapenali, teoricamente presupposte dagli elementi normativi, non è parte indefettibile del dolo: anche e soprattutto con riguardo agli elementi normativi, vale il principio che la conoscenza richiesta è una conoscenza profana, secondo gli schemi concettuali propri dell’agente.
La rilevanza scusante dell’errore extrapenale, nei termini di cui all’art. 47 c.p., non è che una conseguenza logica dei principi generali sul dolo, in relazione agli elementi normativi del fatto. La distinzione fondamentale ai fini dell’errore non è fra l’errore di diritto e l’errore di fatto, ma è fra l’errore sul precetto e l’errore sul fatto.
In caso di errore su legge extrapenale determinato da colpa la responsabilità non è esclusa quando il reato sia previsto anche nella forma colposa.
L’errore su elementi specializzanti.
Stabilisce l’art. 47 c.p., secondo comma, che “l’errore sul fatto che costituisce un determinato reato non esclude la punibilità per un reato diverso”.
Errore su elementi specializzanti, che concorrano a tipizzare una figura speciale di reato.
La non conoscenza dell’elemento specializzante è compatibile con il dolo del reato previsto dalla norma generale. È questo il reato diverso, la cui punibilità si dice non esclusa dal secondo comma dell’articolo.
L’errore sull’elemento specializzante esclude il dolo del reato speciale, e lascia residuare una responsabilità per il reato meno grave, dolosamente realizzato.
Ai confini fra colpevolezza e responsabilità oggettiva.
Residui di responsabilità oggettiva nel codice Rocco.
La preterintenzione, intenzione fra dolo e colpa, e altre ipotesi genericamente evocate dall’art. 42 c.p., terzo comma: “La legge determina i casi nei quali l’evento è posto altrimenti a carico dell’agente, come conseguenza della sua azione od omissione”.
Definiamo responsabilità oggettiva l’attribuzione di responsabilità ad un dato soggetto, per un fatto da lui materialmente causato o commesso, prescindendo dall’esistenza o comunque dalla prova della colpevolezza.
La disciplina della responsabilità del direttore di stampa periodica, ex art. 57 c.p., per reati commessi a mezzo della stampa è stata modificata dalla l.127/1958, che fonda la responsabilità sulla colposa omissione di controllo.
La disciplina è sostanzialmente una disciplina di parte speciale, relativa ad una particolare materia, quella dei reati commessi per mezzo della stampa, che sono delitti d’opinione. Il direttore risponde per colpa e a titolo di colpa anche per delitti che la legge congiura come dolosi; la pena è quella prevista per il delitto doloso, diminuita fino a un terzo. Non è più un’ipotesi di responsabilità oggettiva, ma resta una forma di responsabilità anomala rispetto alla normale struttura del sistema.
L’imputazione obiettiva delle circostanze aggravanti è stata eliminata dalla l.19/1990. Secondo la nuova formulazione dell’art. 59 c.p., le aggravanti possono essere valutate a carico dell’agente solo se da lui conosciute ovvero ignorate per colpa o ritenute inesistenti per errore determinato da colpa.
L’illegittimità costituzionale della responsabilità oggettiva.
La dottrina prevalente ravvisa nella responsabilità oggettiva un relitto di ordinamenti arcaici.
Secondo il criterio enunciato dalla corte costituzionale, l’imputazione soggettiva è imposta dall’art. 27 Cost. per tutti gli elementi dai quali dipende l’offensività del fatto: gli elementi, per così dire, significativi rispetto all’offesa.
L’imputazione per dolo o colpa deve inoltre ritenersi costituzionalmente necessaria in relazione agli elementi significativi rispetto alla pena: dai quali dipende, cioè, la misura o una variazione significativa in aumento della misura della pena.
Il principio costituzionale non parla di personalità dell’illecito, ma di personalità della responsabilità.
Il criterio del versari in re illicita.
L’imputazione oggettiva di alcuni elementi si innesta su un fatto.base doloso o colposo; l’idea sottesa è che chi versa colpevolmente nell’illecito può essere ritenuto responsabile di tutte le conseguenze che possano derivare dal suo agire colpevole: qui versat in re illicita respondet etiam pro casu.
Chi ha tenuto una condotta illecita risponde di tutte le conseguenze che ne siano derivate, anche se dovute al caso.
In relazione ad un fatto non voluto la responsabilità colpevole può essere affermata sulla base della colpa: il fatto deve essere derivato da inosservanza di regole cautelari volte a prevenire la prevedibile realizzazione.
Se però si assume il criterio del versari in re illicita a criterio autonomo per l’attribuzione di responsabilità, esso conduce ad affermare la responsabilità penale anche in relazione ad eventi che sono conseguenze causali di condotte illecite sì, ma non inosservanti di una regola cautelare rispetto a quel tipo di evento.
Per tutti gli istituti che appaiano costruiti in chiave di versare in re illicita, si pone il problema se essi corrispondano o non corrispondano, in concreto, al modello della responsabilità per colpa.
Preterintenzione e delitti aggravanti dell’evento.
Il delitto (così recita l’art. 42 c.p.) “è preterintenzionale, o oltre l’intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente”.
La figura della preterintenzione si caratterizza per una struttura complessa: una condotta di base dolosa, volta a commettere un dato tipo di reato e la realizzazione di un evento che integra un delitto più grave.
Ricostruzione dell’istituto come misto di dolo e di responsabilità oggettiva: per l’imputazione dell’evento più grave basterebbe il nesso causale, il codice non esige che l’evento più grave sia dovuto a negligenza o imprudenza, tutt’al più rifletterebbe l’idea della colpa per inosservanza di legge penale.
La ricezione costituzionale del principio di colpevolezza impone che la preterintenzione sia ricostruita come dolo misto a colpa, riferendosi il dolo al reato meno grave avuto di mira, e la colpa all’evento più grave in concreto realizzatosi.
La struttura e i problemi del delitto oltre l’intenzione si ritrovano nella categoria dei reati aggravanti dell’evento: per tali intendendosi quelli in cui sia prevista una fattispecie base dolosa o colposa e una responsabilità più grave qualora ne derivi un evento ulteriore di un dato tipo, non voluto dall’agente.
Reato aberrante.
Ipotesi di reato aberrante: ipotesi in cui, per errore nell’uso dei mezzi di esecuzione o per altra causa, sia stata cagionata offesa a persona diversa da quella contro cui l’offesa era diretta (aberratio ictus) ovvero sia stato cagionato un evento diverso da quello voluto (aberratio delicti).
Aberratio delicti.
Viene definita aberratio delicti l’ipotesi che sia stato realizzato un evento costitutivo di un reato diverso da quello voluto.
Dell’evento non voluto il soggetto agente risponde se il fatto è previsto come reato colposo, ed è stato realizzato per colpa. L’art. 83 c.p. dà la seguente risposta: l’agente “risponde, a titolo di colpa, dell’evento non voluto, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
Un’ipotesi particolare di aberratio delicti è quella di cui all’art. 586 c.p.: morte o lesioni come conseguenza non voluta di un altro delitto doloso (delitto preterintenzionale).
Aberratio ictus.
Per il caso di aberratio ictus (aberrazione del colpo) l’art. 82 c.p. detta una disciplina diversa e più problematica. Qui il soggetto agente voleva offendere e ha realizzato l’offesa, ma nei confronti di una persona diversa da quella presa di mira.
Il soggetto agente “risponde come se avesse commesso il reato in danno della persona che voleva offendere”.
L’evento concretamente realizzato viene imputato a titolo di dolo, pur non essendo l’evento voluto in concreto dall’agente: è un evento dello stesso tipo verificatosi per una deviazione dell’iter causale.
Il rapporto fra la volontà dell’agente e l’evento realizzato è il medesimo che nella aberratio delicti.
Condizioni obiettive di punibilità.
L’art. 44 c.p. stabilisce: “Quando, per la punibilità del reato, la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato, anche se l’evento, da cui dipende il verificarsi della condizione, non è da lui voluto”.
Una deroga ai principi: la disciplina dell’errore sull’età della persona offesa nei delitti sessuali.
Nella parte speciale del codice, una deroga specifica ai criteri generali d’imputazione soggettiva è prevista in materia di delitti sessuali: se il delitto è commesso in danno di persona minore di 14 anni, il colpevole non può invocare a propria scusa l’ignoranza dell’età della persona offesa.
Se l’età dell’infraquattordicenne è nota all’agente, il fatto è doloso. Se non è nota in conseguenza di un errore evitabile, la negazione di rilevanza ad un tale errore costituisce un criterio di responsabilità anomala, nel senso che la punizione a titolo di delitto doloso sarebbe collegata ad un fatto strutturalmente colposo.
L’inesigibilità come scusante generale?
Il principio di colpevolezza fonda la responsabilità penale sulla premessa che dall’autore del reato fosse esigibile un comportamento diverso, conforme alla legge.
Il panorama dottrinale presenta un rifiuto pressoché totale dell’inesigibilità quale causa generale di scusa, dovuto alla sua incompatibilità con primarie esigenze di tenuta dell’ordinamento e di determinatezza dei confini della responsabilità personale.
L’errore sull’illiceità del fatto commesso.
Il principio tradizionale: l’irrilevanza dell’errore sull’illiceità.
Il codice Rocco, recependo il principio “ignorantia iuris non excusat”, all’art 5 c.p. stabiliva: “Nessuno può invocare a propria scusa l’ignoranza della legge penale”.
La commissione dolosa o colposa di un fatto costituente reato, nell’ignoranza della sua illiceità.
L’ignoranza o l’errore sull’illiceità del fatto commesso non escludono la responsabilità penale, qualora sussistano i presupposti positivi della responsabilità altrimenti prevista dalla legge.
L’ignoranza inevitabile dell’illiceità come causa di esclusione della colpevolezza.
La dichiarazione d’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 5 c.p..
Teoria della buona fede in materia contravvenzionale.
È stata prospettata la tesi dell’illegittimità costituzionale dell’art. 5 c.p., non in tutto, ma nella parte in cui nega rilievo scusante anche all’ignoranza od errore incolpevole sul precetto. La corte costituzionale ha accolto questa impostazione con la sentenza 364/1988.
L’ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d’ignoranza inevitabile.
L’ignoranza della legge, se evitabile, è compatibile con l’affermazione della colpevolezza dell’errante. Ragione di scusa non è l’ignoranza in quanto tale, ma l’ignoranza od errore inevitabile.
I criteri dell’evitabilità dell’errore sul precetto.
Dovere strumentale di conoscenza della legge e doveri del legislatore.
Anche se non esiste un dovere autonomo di conoscenza delle singole leggi penali, il dovere primario di osservanza della legge trae con sé l’esigenza di comportamenti strumentali all’osservanza: doveri strumentali d’attenzione, prudenza…nel muoversi in campi prevedibilmente lesivi di interessi altrui.
Il cittadino deve fare quanto in suo potere per osservare la legge; ma lo stato non può punire senza porre preventivamente il cittadino in condizioni di conoscere la legge.
La questione dell’evitabilità o meno dell’errore sorgerà di fronte a situazioni, per così dire, di oscurità relativa, nelle quali la conoscenza della legge, astrattamente possibile, non sia direttamente accessibile al destinatario e richieda particolari mediazioni.
L’adempimento dei doveri di informazione come causa di esclusione della colpevolezza.
Chi, attendendosi scrupolosamente alle richieste preventive dell’ordinamento, agli obblighi di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost., adempia a tutti i predetti doveri strumentali e ciò non ostante venga a trovarsi in stato d’ignoranza della legge penale, non può essere stato trattato allo stesso modo di chi deliberatamente o per trascuratezza violi gli stessi doveri.
L’errore inevitabile, che esclude la colpevolezza, deve essere pertanto identificato, in via generale, con l’errore che non si è potuto evitare nemmeno attraverso l’adempimento dei doveri strumentali d’informazione.
Le fonti dell’errore incolpevole sull’illiceità.
La principale fra le possibili fonti d’errore incolpevole richiamata dalla sentenza 364/1988 consiste nelle assicurazioni erronee di persone istituzionalmente destinate a giudicare sui fatti da realizzare, ed in precedenti giudizi assolutori.
Per affermare la scusabilità dell’ignoranza occorre che da un comportamento positivo degli organi amministrativi o da un complessivo pacifico orientamento giurisprudenziale l’agente abbia tratto il convincimento della correttezza dell’interpretazione normativa e della liceità del comportamento tenuto.
La giurisprudenza richiede che l’affidamento (la buona fede) abbia radice in un elemento positivo. Ciò esclude che come fonte di affidamento incolpevole possa essere invocata l’inerzia o tolleranza di comportamenti contrari alla legge, da parte di pubblica autorità.
Secondo le sezioni unite, per fondare un affidamento incolpevole occorre un indirizzo giurisprudenziale univoco. Altre sentenze, invece, danno rilievo all’esistenza di oscillanti orientamenti giurisprudenziali, che mostrano la mancanza di chiarezza, e in definitiva l’inconoscibilità del dato normativo.
Il dubbio invincibile sulla liceità o illiceità.
Nel caso di soggettiva invincibilità del dubbio sulla liceità o illiceità di un dato comportamento sarebbe doveroso astenersi dall’azione la cui liceità non sia sicura.
E se il dubbio, oggettivamente irrisolvibile, sull’illiceità penale concerna sia il compimento sia il non compimento di una data azione? In tal caso, nessuna scelta pone al riparo dal rischio dell’errore; se il soggetto ha fatto quanto dovuto per risolvere il dubbio, senza ottenere una soluzione sicura, la difformità della scelta compiuta da quella ritenuta legittima ex post dal giudice non può essere oggetto di rimprovero.
L’ignoranza dei doveri militari.
L’art. 39 del codice penale militare di pace sanciva non potersi invocare a scusa l’ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare.
La corte costituzionale ha dichiarato non fondata una questione di legittimità costituzionale dell’art. 39 c.p.m.p., in relazione all’art. 47 c.p., con sentenza interpretativa di rigetto: con consapevole distacco dalla volontà del legislatore storico, ha delimitato la portata del principio d’inescusabilità dell’errore sui doveri militari all’errore o ignoranza sulle fonti normative dei doveri, mentre gli atti amministrativi che condizionano il dovere in concreto sono fatti od atti che rendono operante il dovere in astratto disciplinato dalla norma giuridica, e perciò si ricollegano al principio di cui alla prima parte dell’art. 47 c.p..
Con la successiva sentenza l’art. 39 c.p.m.p. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non esclude dall’inescusabilità dell’ignoranza dei doveri inerenti allo stato militare l’ignoranza inevitabile.
Errore ed eccesso colposo in cause di giustificazione.
L’errore sulla situazione scriminante come causa di esclusione del dolo.
È possibile fondare un rimprovero di colpevolezza nei confronti di chi abbia commesso volontariamente un fatto costitutivo di reato, nell’erronea supposizione di trovarsi in una situazione che, se esistente, avrebbe reso legittimo il fatto?
In casi del genere c’è una realizzazione volontaria di un fatto penalmente tipico e obiettivamente antigiuridico, determinata, però, dall’erronea rappresentazione di una situazione scriminante.
La forma più grave di colpevolezza deve dunque essere esclusa: ancorché realizzato volontariamente, il fatto realizzato nell’erronea supposizione d’una situazione scriminante non può essere imputato a titolo di dolo.
Se ne è derivato un fatto di lesioni o di omicidio, cioè un delitto previsto anche nella forma colposa, sussistono tutte le condizioni per affermare la responsabilità dell’autore del fatto, a titolo di colpa. La colpa sarebbe invece esclusa, e con essa la responsabilità penale, qualora l’errore sia da ritenere ragionevole nella situazione concreta.
In relazione a delitti per i quali non sia prevista la responsabilità per colpa, l’erronea supposizione di una situazione scriminante esclude la responsabilità in qualsiasi caso.
Queste conclusioni sono affermate dall’art. 59 c.p.: “Se l’agente ritiene per errore che esistano circostanze di esclusione della pena, queste sono sempre valutate a favore dell’imputato. Tuttavia se si tratta di errore determinato da colpa, la responsabilità non è esclusa, quando il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
L’erronea supposizione d’un diritto o dovere scriminante.
Ipotesi dell’errore di diritto, in forza del quale il soggetto agente, in una situazione di fatto che si è correttamente rappresentato, abbia ritenuto applicabile una causa di giustificazione non prevista dall’ordinamento, o che comunque non comprende tale situazione. In casi del genere non v’è alcun errore sulla situazione di fatto, ma solo un errore sull’illiceità, disciplinato dall’art. 5 c.p., che esclude la colpevolezza solo se inevitabile, e, se evitabile, è perfettamente compatibile con la responsabilità per dolo.
L’eccesso colposo.
La medesima rilevanza dell’erronea supposizione di una situazione scriminante compete all’eccesso colposo dai limiti di una scriminante effettivamente esistente.
Dispone l’art. 55 c.p.: “quando, nel commettere alcuno dei fatti preveduti dagli artt. 51, 52, 53, 54 c.p., si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’autorità, si applicano le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”.
L’imputabilità.
Il problema. Imputabilità e colpevolezza.
L’ordinamento penale presuppone un soggetto potenzialmente libero, capace di recepire il messaggio normativo e di motivarsi in base ad esso, e perciò responsabile dell’eventuale violazione. L’autore del reato può essere reso responsabile, in quanto avesse al momento del fatto la soggettiva capacità di agire diversamente da come ha agito.
Per l’ordinamento giuridico si pone il problema se e come distinguere e delimitare la cerchia dei soggetti capaci d colpevolezza, ai fini dell’eventuale responsabilità per un commesso reato.
L’art. 85 c.p. detta il principio di base: “Nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al momento in cui lo ha commesso, non era imputabile. È imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.
La capacità di pena, in ordinamenti fondati sul principio di colpevolezza, dipende dalla possibilità del rimprovero di colpevolezza. La questione dell’imputabilità ha a che fare con i presupposti della soggettiva colpevolezza: capacità di colpevolezza come prima componente del giudizio di colpevolezza. L’imputabilità deve essere costruita come presupposto della colpevolezza.
Il codice contiene un elenco di cause di esclusione dell’imputabilità. L’orientamento prevalente in dottrina è a favore della non tassatività delle cause di esclusione dell’imputabilità.
Il vizio totale di mente.
Causa di esclusione della colpevolezza è il vizio totale di mente: “non è imputabile che, nel momento in cui ha commesso i fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da escludere la capacità di intendere e di volere” (art. 88 c.p.).
Capacità d’intendere significa capacità di normale percezione della realtà, e capacità di comprendere il significato del proprio comportamento.
Capacità di volere significa capacità di autodeterminazione, cioè capacità di scelte d’azione non determinate da condizioni psichiche che escludano la possibilità di controllo e di scelta.
L’infermità che dà luogo al vizio di mente può essere sia infermità fisica, che comporta conseguenze psicologiche; sia infermità psichica.
Il contributo che il sapere scientifico può dare riguarda il primo livello del giudizio sull’imputabilità, cioè l’accertamento delle condizioni psichico dell’imputato. Lo strumento processuale necessario è la perizia psichiatrica.
Il giudizio sull’imputabilità non si conclude con l’individuazione di un’eventuale infermità o disturbo di personalità, ma comporta un’ulteriore valutazione dell’incidenza dell’infermità o del disturbo sulle capacità di discernimento e di volizione dell’imputato.
Ai fini della non imputabilità è necessario un nesso eziologico fra infermità e reato, come già affermato da un consistente indirizzo giurisprudenziale e dottrinale: il reato deve avere avuto nel vizio di mente la sua causa.
Per l’art. 90 c.p. “gli stati emotivi o passionali non escludono né diminuiscono l’imputabilità”.
Il vizio parziale di mente.
Art. 89 c.p.: “Chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale stato di mente da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, risponde del reato commesso; ma la pena è diminuita”.
Fra vizio totale e vizio parziale vi è una differenza esclusivamente quantitativa, dipendente cioè dal grado d’incidenza dell’infermità sulla psiche del soggetto agente.
Il semi-infermo di mente è un soggetto imputabile, la sua infermità ha rilievo su un piano interno al giudizio di responsabilità penale, quale presupposto di una minore colpevolezza.
La disciplina dell’ubriachezza e dell’azione di sostanze stupefacenti.
L’ubriachezza o stupefazione accidentale come causa di non imputabilità.
Fra le cause che possono incidere sulla capacità di intendere e di volere vi è l’assunzione di sostanze che alterino anche transitoriamente le normali condizioni psichiche, quali l’alcool e le sostanze stupefacenti.
Esclude l’imputabilità l’ubriachezza accidentale, cioè derivata da caso fortuito o da forza maggiore (art. 91 c.p.), quando escluda totalmente la capacità di intendere o di volere. “Se l’ubriachezza non era piena, ma era tuttavia tale da scemare grandemente, senza escluderla, la capacità d’intendere o di volere, l pena è diminuita”.
Non esclude né diminuisce l’imputabilità l’ubriachezza volontaria o colposa (art. 92 c.p.). “Se l’ubriachezza era preordinata al fine di commettere il reato, o di prepararsi una scusa, la pena è aumentata”.
Con espressa disposizione (art. 93 c.p.) è equiparata all’ubriachezza, ai fini dell’imputabilità, la stupefazione (alterazione di mente a seguito dell’azione di sostanze stupefacenti).
L’ubriachezza o stupefazione volontaria o colposa.
Derogando al principio generale di cui all’art. 85 c.p., l’art. 92 c.p. riconosce pienamente imputabile il soggetto in stato di ubriachezza colposa o volontaria, anche quando si trovi al momento del commesso reato in uno stato di totale incapacità di intendere e di volere.
Dispone l’art. 94 c.p.: “Quando il reato è commesso in stato di ubriachezza, e questa è abituale, la pena è aumentata. Agli effetti della legge penale, è considerato ubriaco abituale chi è dedito all’uso di bevande alcooliche e in stato frequente di ubriachezza. L’aggravamento di pena stabilito nella prima parte di questo articolo si applica anche quando il reato è commesso sotto l’azione di sostanze stupefacenti da chi è dedito all’uso di tali sostanze”.
Intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti.
Nel caso di cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, è espressamente prevista dall’art. 95 c.p. l’applicabilità delle norme sul vizio di mente. L’intossicazione cronica è cioè considerata come infermità, capace di escludere o diminuire la capacità di intendere o di volere del soggetto.
Si ha intossicazione cronica da alcool o da sostanze stupefacenti quando l’intossicazione per il suo carattere ineliminabile e per l’impossibilità di guarigione provoca alterazioni patologiche permanenti, tali da far apparire indiscutibile che ci si trovi di fronte ad una vera e propria malattia psichica.
Sordomutismo.
“Non è imputabile il sordomuto che, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità d’intendere o di volere” (art. 96 c.p.).
Nel caso di capacità grandemente scemata, la pena è diminuita.
Minore età.
“Non è imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, non aveva compiuto i quattordici anni” (art. 97 c.p.).
“E’ imputabile chi, nel momento in cui ha commesso il fatto, aveva compiuto i quattordici anni, ma non ancora i diciotto, se aveva capacità d’intendere e di volere; ma la pena è diminuita” (art. 98 c.p.).
Al di sotto di una soglia attualmente fissata ai 14 anni, il minore non è imputabile; la sua incapacità è presunta, e si tratta di una presunzione assoluta.
La capacità del minore di età fra i 14 e i 18 anni va invece accertata in concreto, caso per caso, e per il giudice esiste un obbligo di specifica motivazione circa l’accertamento effettuato.
L’accertamento sulla personalità del minore al fine del giudizio d’imputabilità deve avvenire in stretto riferimento al fatto commesso. L’imputabilità di uno stesso soggetto può essere ritenuta per alcuni reati e esclusa per altri, in considerazione della maggiore o minore avvertibilità del disvalore etico-sociale del fatto.
Indipendentemente dal giudizio sulla maturità, anche nei confronti di un minore infraquattordicenne può essere ricnosciuto il vizio totale o parziale di mente secondo i criteri generali di cui agli artt. 88, 89 c.p..
Quando il minore che abbia commesso il reato fra i 14 e i 18 anni viene riconosciuto capace di intendere e di volere, la minore età comporta una diminuzione di pena.
L’actio libera in causa.
L’art. 87 c.p. disciplina l’ipotesi in cui taluno abbia messo in stato d’incapacità sé stesso, al fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa. In tal caso non si applica la disposizione della prima parte dell’art. 85 c.p.: l’incapacità al momento del commesso reato, se preordinata dall’agente, non esclude l’imputabilità.
La dottrina parla, con riguardo a tale situazione, di actio libera in causa.
Il mettersi in stato d’incapacità al fine di commettere un reato non è che una modalità scelta dall’autore per la realizzazione del fatto, ed è su questa libera scelta che può appuntarsi il rimprovero di colpevolezza. Nel caso che l’incapacità procurata consista in ubriachezza o assunzione di stupefacenti, la pena è aumentata (art. 92 c.p.).
Dolo e colpa in soggetti naturalisticamente incapaci.
In base ai principi generali non derogati, la responsabilità per reato doloso richiede il dolo, anche nel caso di colui che ha commesso il fatto di reato in stato di incapacità ma è considerato imputabile dalla legge. La responsabilità per colpa richiede che il fatto sia stato realizzato con violazione di una regola cautelare; e tale carattere va verificato con riguardo alla condotta causale rispetto all’evento.
L’incapacità attiene alle condizioni del formarsi delle rappresentazioni e volizioni dell’incapace, ma non esclude che questi, quando agisce, si rappresenti la realtà in un dato modo, e voglia qualcosa. L’ubriaco o il pazzo omicida sanno e vogliono uccidere; il processo decisionale è viziato dall’incapacità, ama la volontà può sussistere pienamente.
L’elemento soggettivo minimo integrante il dolo, nei soggetto naturalisticamente incapaci, è dunque la volontà abnorme di realizzare il fatto. Sul piano della colpa verrà in rilievo l’avere tenuto una condotta obiettivamente difforme da una regola cautelare.
Persino nel caso che l’incapacità sia stata preordinata, l’imputazione per dolo esige anche la coscienza e volontà del fatto nel momento in cui questo è stato commesso.
La volontarietà dell’ubriacarsi o drogarsi non implica la coscienza e volontà del fatto commesso in stato d’ubriachezza; la colposità dell’ubriacarsi non implica di per sé sola il carattere colposo del fatto.
Il problema dell’elemento soggettivo si pone anche in relazione al fatto di soggetti non imputabili, al fine dell’eventuale applicabilità di misure di sicurezza.
L’elemento soggettivo dell’incapace va accertato secondo le regole generali.
Oggetto di discussione è la disciplina applicabile nel caso di errore condizionato, determinato cioè dallo stato d’incapacità.
La giurisprudenza ha ritenuto che lo stato di ebbrezza non può essere argomento né per affermare né per escludere la colpevolezza, né per fare all’imputato d’un reato commesso in stato d’ubriachezza non accidentale un trattamento deteriore rispetto alla generalità dei soggetti.
Più complessa è la questione della rilevanza dell’errore del non imputabile, ai fini dell’applicazione di misure di sicurezza. Se un errore sul fatto, escludente il dolo, ha la sua causa nell’infermità, esso costituisce un dato significativo per la valutazione della pericolosità del soggetto, che è il presupposto normativo dell’applicazione della misura di sicurezza. Per questa ragione, la dottrina prevalente nega all’errore condizionato da infermità la rilevanza (esclusione del dolo) che altrimenti l’errore sul fatto avrebbe.
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