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I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo, di Giovanni Verga
Una vita dedicata alle lettere
Una biografia senza eventi
[L’attesa del successo]Di rado la biografia di un autore è così povera di dati interessanti, o di avvenimenti notevoli, come nel caso di Verga: nessuna preoccupazione finanziaria, nessuna tragedia familiare, nessuna avventura galante, nessuna presa di posizione ideologica e politica. A Verga non interessano né i legami sentimentali, né le questioni politiche: si schiera senza tanto scalpore a favore della Destra storica, sostiene moderatamente gli interventisti all’epoca della Prima Guerra Mondiale, non si lascia coinvolgere più di tanto dai legami familiari, tiene ben a distanza anche le donne più amate, rifuggendo da qualsiasi vincolo, affettivo e coniugale. La sua esistenza è consacrata a un unico scopo: la dedizione scrupolosa e costante al lavoro letterario e alla scrittura. L’attesa strenua della consacrazione ufficiale da parte della critica e del pubblico verrà tuttavia disillusa e il riconoscimento dell’effettivo valore della sua opera arriverà troppo tardi.
[L’anti-d’Annunzio]Verga sarà amareggiato, negli anni della maturità, dal confronto con d’Annunzio, il cui successo è invece immediato e straordinario (anche se per molti aspetti effimero). La stessa antitesi si può vedere nelle biografie: da una parte riservatezza quasi maniacale, rifiuto dei legami affettivi troppo forti, moderato coinvolgimento politico; dall’altra esibizione spettacolare della vita privata, mitizzazione delle relazioni sentimentali, prese di posizione estreme e provocatorie. Si tratta di una contrapposizione caratteriale ed esistenziale che diviene anche, lo vedremo, ideologica e letteraria: è forse questa la chiave da cui partire per collocare nella giusta prospettiva l’opera verghiana, e per cogliere la silenziosa moralità di una vita apparentemente oscura, trascorsa nel dignitoso e modesto esercizio delle lettere.
L’infanzia e la gioventù: da Catania a Firenze
[Le origini e la formazione]Giovanni Verga nasce a Catania il 2 settembre 1840 da una famiglia di origine nobile, in condizioni di discreta agiatezza. Il nonno, di idee liberali, aveva partecipato da protagonista ai primi moti carbonari (negli anni venti dell’Ottocento); egli stesso, da ragazzino, aveva respirato i fermenti rivoluzionari del ’48. Il clima familiare tranquillo, il carattere accondiscendete e aperto dei genitori, l’assenza di preoccupazioni economiche garantiscono a Verga un’infanzia serena, caratterizzata dai giochi con i coetanei e con i fratelli, ma anche dalla precoce manifestazione della vocazione letteraria. Verga legge con avidità tutto ciò che trova nella biblioteca di famiglia, ed è favorito dal fatto di avere come precettore personale uno dei pochi insegnanti laici (di scuola pubblica non se ne parlava ancora) disponibili:Antonino Abate, personaggio di grande cultura e grande umanità, fervente repubblicano. Da questa formazione nasce la prima prova letteraria di Verga (ancora quindicenne), rimasta inedita: un romanzo storico avventuroso, di ambientazione risorgimentale.
[La partecipazione ai moti risorgimentali]Allo scoppio dei tumulti, dopo lo sbarco garibaldino in Sicilia, Verga si arruola nella Guardia Nazionale, un corpo volontario guidato dai moderati, spesso in aperto contrasto con le truppe garibaldine, non di rado utilizzato per reprimere con la forza gli sparsi tentativi di sollevazione popolare. Dopo quattro anni di servizio militare, deluso dai compiti sempre più chiaramente polizieschi assegnati alla Guardia, Verga decide di dimettersi; allo stesso tempo, sceglie di abbandonare gli studi giuridici alla facoltà di legge di Catania, presso la quale si era iscritto pur senza provare alcuna propensione. Ormai il suo destino è segnato e, dopo aver ottenuto l’approvazione paterna, si dedica a tempo pieno all’attività letteraria: scrive nel giro di pochi anni altri due romanzi e comincia a collaborare con giornali e riviste locali. Ben presto però l’ambiente provinciale siciliano gli appare asfittico e paralizzante; come molti altri giovani siciliani di belle speranze, decide di tentare l’avventura sul Continente.
[Il soggiorno fiorentino]Nel 1869, dopo alcuni anni di viaggi frequenti e di periodi sempre più lunghi di permanenza, Verga si trasferisce a Firenze. All’epoca la città sta attraversando una straordinaria trasformazione: nel giro di un brevissimo lasso di tempo, la vecchia città granducale diventa la capitale del regno italiano appena nato, vede crescere a dismisura il suo giro d’affari, acquista una posizione di privilegio nella vita culturale e letteraria della nuova Italia. Nei primi tempi Verga, per quanto sostenuto dall’eleganza e dal fascino naturale della sua persona, si muove con timore, sempre preoccupato di fare brutta figura e di rivelare la sua formazione ‘provinciale’. Comincia a frequentare l’ambiente letterario fiorentino, segretamente animato da una tenace ambizione: farsi conoscere e apprezzare, raggiungere il vero e duraturo successo. L’insoddisfazione per i risultati raggiunti e la speranza di trovare condizioni più favorevoli lo spingono nel 1872 a un nuovo trasferimento: Milano.
Gli anni milanesi e la scoperta del naturalismo
[Il trasferimento a Milano e la ‘conversione’ al verismo]Nella nuova città Verga arriva sotto la protezione di Salvatore Farina, all’epoca romanziere alla moda e di gran successo, di cui in seguito diventerà amico e confidente fedele. Grazie all’appoggio di Farina, entra ben presto in contatto con un ambiente culturale molto più vivace e variegato di quello fiorentino: frequenta i cosiddetti ‘scapigliati’ (vedi pag. xxx), ma anche il raffinatissimo e aristocratico salotto della contessa Maffei; si interessa di musica, teatro e pittura. Soprattutto grazie al sodalizio con l’amico Luigi Capuana (anche lui trasferitosi di recente a Milano), si avvicina al positivismo e al naturalismo francese, assimilandone i principi e i modelli narrativi. L’evento decisivo è la lettura di Madame Bovary di Flaubert, testimoniata in una lettera a Capuana, del 1874: dalla suggestione dell’opera deriva quella che è stata definita una vera e propria ‘conversione’ al verismo.
[Il ciclo dei vinti]Nasce così il progetto di un ciclo unitario di romanzi (sull’esempio di Zola: cfr cap.xxx), presentato per la prima volta in una lettera del 1878: «Ho in mente un lavoro che mi sembra bello e grande. Una specie di fantasmagoria della lotta per la vita, che si estende dal cenciaiuolo al ministro ed all’artista ed assume tutte le forme, dall’ambizione alla avidità di guadagno, e si presta a mille rappresentazioni del gran grottesco umano, lotta provvidenziale che guida l’umanità attraverso tutti gli appetiti, alti e bassi, alle conquiste della verità». Per quanto rallentato dal dolore per la scomparsa della madre e dai frequenti viaggi a Catania, il progetto procede e si concretizza nel 1881 con la pubblicazione dei Malavoglia, preceduti dalla prima raccolta di novelle ‘veriste’, Vita dei campi. Ma, nonostante l’accoglienza calorosa di critici e amici, il romanzo rimane pressoché sconosciuto, e non ottiene il successo di pubblico sperato.
[La prosecuzione del ciclo dei vinti]Deluso dal mancato successo (e piccato dal contemporaneo, straordinario primato, raggiunto in un breve lasso di tempo dal più giovane d’Annunzio), Verga decide di sospendere momentaneamente il ciclo dei vinti e si dedica a un nuovo romanzo, Il marito di Elena(cfr. capitolo xxx), con il quale torna alla tematica sentimentale, senza però risolvere le difficoltà riscontrate nei romanzi giovanili; maggiore successo ottengono invece le prime prove teatrali, fra le quali spicca la Cavalleria rusticana, che diverrà celebre per l’adattamento musicale del maestro Pietro Mascagni (e rappresenterà per l’autore una considerevole fonte di sostentamento, in un periodo non particolarmente florido).Nel frattempo, Verga lavora al secondo romanzo del ciclo dei vinti, Il mastro-don Gesualdo, che viene pubblicato a puntate nel 1888, con esito analogo a quello dei Malavoglia: molte recensioni favorevoli e scarso successo di pubblico.
[Le relazioni sentimentali]Convinto assertore della negatività dei legami coniugali, Verga continua a vivere da solo, senza impegnarsi in alcuna relazione sentimentale stabile, dedicandosi in maniera esclusiva al lavoro letterario. Ancora giovanissimo, era rimasto affascinato da Giselda Fojanesi, infelicemente sposata con Mario Rapisardi, all’epoca intellettuale catanese di spicco, possessivo e gelosissimo. La relazione tra i due era andata avanti per anni nella massima segretezza, tra i sospetti e le sfuriate del marito; la casuale scoperta di una lettera del Verga fa a un certo punto precipitare la situazione: Giselda viene scacciata di casa dal marito e decide di trasferirsi a Firenze, dove spesso Verga la raggiunge, anche se nel giro di pochi anni la relazione diventa una tranquilla amicizia. Successiva è la relazione con la contessa Dina di Soredolo, più giovane di lui di quasi vent’anni, che durerà fino alla vecchiaia, anche se Verga si rifiuterà ripetutamente di sancire l’unione attraverso il matrimonio.
Una gloria tardiva
[L’abbandono della letteratura]Ma la delusione per gli insuccessi va prendendo il sopravvento: dopo anni di dedizione incondizionata all’attività letteraria, Verga si sente incompreso e isolato; sempre più spesso cerca rifugio nella sua città natia, Catania, dove risiede pressoché stabilmente, pur tra continui viaggi a Roma, Firenze e Milano, dal 1893. A poco più di cinquant’anni, i sogni di gloria letteraria si sono infranti definitivamente, e la grande stagione creativa si è ormai chiusa. A parte alcune novelle e alcuni copioni per il teatro, Verga scrive poco: il ciclo dei vinti rimane incompiuto, gli ultimi romanzi solo abbozzati. Parallela alla delusione letteraria procede quella politica: il disgusto per la corruzione e gli scandali della vita parlamentare italiana lo spingono ad avvicinarsi alle posizioni politiche della destra e a sostenere prima il governo autoritario di Francesco Crispi, poi la partecipazione italiana al primo conflitto mondiale.
[«Un uomo finito»]Amareggiato e disilluso, Verga abbandona completamente l’attività di scrittore (facendo mostra di sprezzante disinteresse per qualsiasi questione letteraria) e negli ultimi vent’anni della sua vita si dedica all’amministrazione del patrimonio residuo, sfinendosi in una serie di minute questioni giudiziarie. A settant’anni si sente un uomo finito, e così scrive all’immancabile Dina: «Sono qui, a domicilio coatto, malgrado il caldo, i malanni e tutto il resto. Non ho più la salute, né la gioventù, né denari. Cosa volete che faccia e dica? Se vi scrivo queste cose, a voi, la sola, dovete comprendere e scusare, senza accusarmi d’altri torti, né immaginarne altri a voi. Bruciate queste righe che mi bruciano la penna, se pensate ancora a me come io penso a voi, e dite solo: è un uomo finito, ecco tutto». Annoiato dalle minute beghe quotidiane, infastidito persino dall’interessamento degli amici d’un tempo (il Capuana, in primo luogo), Verga sembra inseguire solo la tranquillità della solitudine e dell’oblio.
[Una riscoperta tardiva] Eppure, proprio negli ultimi anni di vita dello scrittore la sua opera comincia a essere riscoperta e considerata nel suo effettivo valore (divenendo oggetto di attenzione critica, nonché modello e fonte d’ispirazione per le nuove generazioni). Il successo vanamente inseguito in gioventù arriva infine, inaspettato e tardivo: in occasione dell’ottantesimo compleanno, Verga viene celebrato ‘ufficialmente’ dal conterraneo Pirandello, che lo indica come ineguagliabile maestro; quasi contemporaneamente, gli viene notificata la nomina a senatore. La gloria ‘postuma’ sembra però non toccarlo più di tanto, né lo spinge a modificare le abitudini acquisite. Proprio al rientro da una delle consuete passeggiate al circolo locale, la sera del 24 gennaio del 1922, Verga è colpito da un ictus, e muore tre giorni dopo, senza riprendere conoscenza.
Ricorda le date: |
2 settembre 1840: Giovanni Verga nasce a Catania |
1869: si trasferisce a Firenze, scegliendo di dedicarsi esclusivamente all’attività letteraria |
1872: si trasferisce da Firenze a Milano. |
1881: pubblicazione dei Malavoglia |
1888: pubblicazione di Mastro-don Gesualdo |
1893: ritorna a Catania |
14 gennaio 1922: muore a Catania |
Una lezione di realismo e di impegno civile
La funzione conoscitiva della letteratura
[Le basi della poetica verghiana]Benché la produzione narrativa di Giovanni Verga sia ampia e variegata, le opere considerate all’unanimità più importanti sono quelle in cui egli è fedele ai principi e alle tecniche espressive del verismo (vedi capitolo XXX): il Verga verista è, insieme con Manzoni, il più grande narratore realista dell’Ottocento, e il fondatore del romanzo moderno in Italia. La poetica verghiana, basata sul positivismo e sul naturalismo francesi, considera la narrativa uno strumento di rappresentazione veritiera della psicologia individuale e dei meccanismi collettivi, economici e sociali, che producono il mutamento storico. In questa prospettiva la letteratura non è affatto una forma di intrattenimento o di passatempo per il suo pubblico (la società colta, aristocratica e borghese), ma, pur essendo frutto d’invenzione, assume la dignità di una forma conoscitiva della realtà individuale e sociale, pari a quella delle scienze sociali che proprio in quel periodo andavano sorgendo o affermandosi definitivamente (la psicologia, la sociologia, l’economia).
[L’eredità manzoniana]È evidente la continuità tra questa concezione e quella manzoniana (di circa cinquant’anni prima): le ambizioni realistiche sono però trasposte dalla storia passata (i Promessi Sposi sono un romanzo storico, ambientato nel Seicento) alla contemporaneità. Così come Zola (maestro riconosciuto e teorico del naturalismo e degli obiettivi ‘scientifici’ della letteratura) propone nei suoi romanzi un affresco della società francese e parigina, allo stesso modo il siciliano Verga rappresenta le condizioni storico-economiche della Sicilia ottocentesca, attraverso le vicissitudini di personaggi appartenenti a diverse classi sociali: in particolare, i ceti umili,la borghesia imprenditrice e proprietaria, l’aristocrazia terriera in declino.
[Il primato della contemporaneità]Così sulla scena del romanzo moderno italiano diventa protagonista l’età contemporanea, per di più rappresentata da personaggi lontanissimi dal mondo sociale dell’autore e dei suoi lettori: personaggi che discendono dagli ‘umili’ manzoniani, ma che acquisiscono per il lettore una fisionomia storicamente più definita, strettamente legata al loro ambiente storico-economico. Proprio per questo sono ben più lontani e poco familiari di quanto lo fossero Renzo e Lucia: gli ‘umili’ di Verga sono pescatori, contadini, pastori analfabeti che parlano solo il loro dialetto, e, anche nei casi in cui ottengono l’ascesa sociale (come Mastro-don Gesualdo), la loro provenienza originaria resta attaccata su di loro come un marchio indelebile.
[La scoperta del Meridione]La scelta di rappresentare una realtà nuova per la letteratura e la cultura italiane costituisce un contributo di grande importanza alla ‘scoperta’ che l’Italia appena nata come stato unitario fa di se stessa, portando alla luce le profonde differenze che separano il Nord e il Sud e rivelando l’arretratezza storica complessiva di cui sono prigioniere le regioni meridionali. Di questa scoperta (tutt’altro che lieta) dell’altra Italia, dell’Italia delle campagne, povera, remota e arretrata (incomparabile con l’Italia cittadina, borghese e industriale che sta cominciando ad affermarsi), Verga è la voce letteraria più importante del secondo Ottocento, e il suo contributo è una forma significativa di impegno civile, anche se non si tratta di un'azione politica esplicita, né tanto meno di una battaglia progressista: la rappresentazione ‘oggettiva’ della Sicilia dei suoi tempi assume implicitamente una funzione di denuncia, mette in luce le storture, i mali e le ingiustizie storiche, svela i costi dolorosi del ‘progresso’.
La poetica del Verga verista
[Gli esordi e la ‘conversione’ al verismo]Le prime opere narrative di Verga sono legate a un gusto tardo romantico e melodrammatico: sono grandi affreschi storici, storie di passioni travolgenti e di conflitti interiori insanabili (doveri coniugali e soddisfazione sentimentale; rispettabilità borghese e culto supremo dell’arte; accettazione della società borghese e rifiuto delle sue regole). A prevalere è la rappresentazione della ‘mondanità’ (ambienti artistici e circoli letterari, salotti borghesi, mondo dello spettacolo), svolta attraverso l’adesione – spesso incondizionata – al punto di vista dei protagonisti (l’autore non fa nulla per nascondere le sue predilezioni, parteggia esplicitamente per l’uno o per l’altro) e centrata sull’analisi del mondo interiore dei personaggi.
[La proposta di una nuova forma narrativa]. La vera svolta avviene con le prime novelle d’ambientazione siciliana, nelle quali alla scelta tematica si accompagna una ben diversa impostazione formale. Tale novità è enunciata in alcuni testi esplicitamente programmatici: benché Verga non abbia mai scritto un saggio di teoria della letteratura o di poetica, ha più volte sentito il bisogno di giustificare o di annunciare al lettore i principi e i metodi della sua opera narrativa. È per questo che su otto novelle della sua prima raccolta ‘verista’ (Vita dei campi) si trovano ben due testi definibili di poetica, ai quali bisogna aggiungere la prefazione ai Malavoglia, che completa l’enunciazione della nuova poetica. Possiamo così sintetizzarne i principi essenziali:
[Una poetica paradossale] Non bisogna dimenticare che l’originalità delle tecniche narrative è strettamente connessa alla rappresentazione dalla società siciliana contemporanea, ma anche alla visione del mondo che scaturisce da quel contenuto: una visione dolorosa e rassegnata, ben lontana dalla fiducia nell’evoluzione storica che è tipica della cultura positivistica. La poetica verista di Verga si fonda così su un esplicito paradosso, che è anche una sua invenzione geniale: da una parte la scomparsa del narratore come portavoce esplicito dell’autore (bisogna «eclissare completamente lo scrittore», scrive Verga in una lettera), dall’altra il riemergere della partecipazione e del giudizio morale da parte dell’autore stesso, nascosto dietro altre voci narranti diverse dalla sua, eppure sempre presente a orientare il giudizio del lettore. Il realismo del Verga verista è quindi ‘oggettivo’ e ‘impersonale’ nella rappresentazione del mondo narrato e nell’assenza del narratore onnisciente e giudicante, ma allo stesso tempo non imparziale (perché di fatto fondato su un atteggiamento giudicante) e non ottimista.
[La crisi della poetica verghiana] Si tratta di un equilibrio precario, destinato a spezzarsi velocemente: il periodo verista vero e proprio si esaurisce infatti nel giro di pochi anni, con il Mastro-don Gesualdo e una successiva raccolta di racconti. Alla base della crisi è senza dubbio l’evolversi del clima culturale (e la parallela messa in discussione del naturalismo francese) e l’affermarsi di tendenze di tutt’altro stampo (cfr. cap. xxx), nonché la delusione per la tiepida accoglienza riservata dal pubblico alle opere ‘veriste’ (mentre di gran lunga superiore era stato il successo dei romanzi mondani giovanili). Ma si tratta anche dello sbocco inevitabile di alcune contraddizioni interne: il metodo impersonale e oggettivo, adatto al mondo degli umili, si rivela impraticabile per rappresentare il mondo complesso e interiormente ambiguo dei personaggi appartenenti ai ceti superiori, che non si lasciano scoprire e identificare in base ai gesti e alle parole esteriori. Anche per questo il ciclo dei vinti si arena quando dovrebbe passare all’analisi del mondo aristocratico, politico e intellettuale: la duchessa di Leyra, l’uomo di lusso, l’onorevole Scipioni. Ciò non toglie che le opere veramente innovative e originali, per le quali ricordiamo ancora Verga, siano proprio quelle composte all’insegna del verismo.
L’eredità verghiana
[Stile di cose e stile di parole]L’importanza della svolta verghiana si può misurare dall’eredità che da essa è nata, e che si concretizza in almeno due filoni importanti. Il primo si può riassumere in una formula usata dal più grande scrittore siciliano nato dopo di lui, Luigi Pirandello (nel discorso pronunciato per l’ottantesimo compleanno dell’autore): lo «stile di cose». Pirandello definisce Verga «il più “antiletterario” degli scrittori» a causa del suo «stile di cose», volutamente antiretorico, sempre funzionale all’oggetto del racconto, in cui «la parola non vuol valere se non in quanto esprime la cosa»; tutto il contrario dello «stile di parole» (il cui campione viene indicato in d’Annunzio), in cui «la cosa non vale tanto per sé quanto per come è detta, e appar sempre il letterato che ti vuole far vedere com’è bravo a dirvela». L’antitesi tra stile di cose e stile di parole, anche se ne eliminiamo il significato polemico che ha per Pirandello (che detesta d’Annunzio), resta valida nel definire due concezioni e due pratiche della letteratura agli antipodi, di cui in effetti Verga e d’Annunzio sono i rappresentanti esemplari, e non solo per il loro tempo: da una parte una concezione per così dire autoriflessiva e autocelebrativa (in d’Annunzio la letteratura, attraverso la raffinatezza e la ricchezza formale, mira soprattutto a celebrare se stessa); dall’altra una concezione ‘oggettiva’, secondo cui le tecniche della narrazione sono subordinate all’impegno di rappresentare nel modo più nudo e fedele possibile la realtà esterna. Per questo Verga è sempre stato considerato, dal primo Novecento al neorealismo, modello e ‘padre’ ideale da tutti quegli scrittori desiderosi di mettere al centro della propria opera le ‘cose’ e non le ‘parole’.
[La fondazione della letteratura ‘siciliana’ impegnata]Un’altra lezione decisiva consiste nell’impegno civile con cui Verga ha messo in scena la ‘scoperta’ di un’Italia sconosciuta alla letteratura e in genere alla cultura dell’appena nato Stato unitario. Egli è il primo scrittore definibile 'siciliano' in senso stretto, in cui cioè l’identità regionale segna la vocazione letteraria e lega l’opera alla rappresentazione cruda e oggettiva di una realtà a sé, qual è quella siciliana. Non è un caso, dunque, che a Verga e al verismo si siano richiamati, come a un maestro e a un padre letterario, gli scrittori che nel Novecento hanno voluto riscoprire e rappresentare senza retorica l’'altra' Italia, l’Italia lontana e arretrata del Mezzogiorno. Da Verga è nata la letteratura siciliana ‘impegnata’, tesa a raccontare e a denunciare, al di fuori di ogni falsificazione e di ogni semplificazione idillica, i caratteri storici e i drammi peculiari della Sicilia: a partire dai suoi contemporanei Capuana e De Roberto (vedi pag. XXX), per arrivare a Pirandello novelliere e romanziere (vedi pag. XXX), fino a Leonardo Sciascia (vedi pag. XXX).
I Malavoglia
Presentazione dell’opera
Nel 1874 Verga (allora noto autore di romanzi ‘mondani’) pubblica a Milano Nedda, bozzetto siciliano, il suo primo racconto di ambientazione popolare siciliana, ottenendo un successo superiore alle attese. Incoraggiato dal suo editore, prosegue l’esplorazione di questa nuova tematica, con altri racconti e con un progetto di «bozzetto marinaresco» da intitolarsi Padron ’Ntoni, a cui pensa fin dal 1874 ma che rielaborerà, senza mai esserne soddisfatto, fino al 1878. Ma proprio nel 1878 questo progetto ha assunto una portata ben più ambiziosa: un grande ciclo dal titolo collettivo La marea, composto di cinque romanzi, di cui Padron ’Ntoni sarà il primo; da allora in poi Verga lavora al romanzo, fino all’inizio del 1881, quando il libro uscirà col titolo definitivo I Malavoglia, e come primo grande capitolo del ciclo I vinti. Un titolo come I Malavoglia indica già una caratteristica fondamentale di quest’opera: si tratta di un romanzo familiare, incentrato sul declino di una famiglia di pescatori di Trezza nei primi anni dell’Italia unita, in una comunità arcaica e ai margini delle trasformazioni socio-economiche causate dal «progresso»; e tuttavia sarà proprio l’azione del «progresso», insinuatasi a Trezza e nei Malavoglia attraverso l’attrazione del mondo esterno e della logica dell’economia, a contaminare i valori tradizionali della famiglia e portarla sull’orlo della rovina.
Il percorso testuale
Testo 1. La Prefazioneal romanzo
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta fino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell'ignoto, l'accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell'attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l'uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi, e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro-don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa di Leyra; e ambizione nell'Onorevole Scipioni, per arrivare all'Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosie, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell'azione umana si allarga, il congegno delle passioni va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l'educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all'idea, in un'epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un'uniformità di sentimenti e d'idee. Perché la riproduzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell'argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l'umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell'insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l'accompagna dileguansi le irrequietudini, le avidità, l'egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l'immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c'è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l'attività dell'individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorio universale, dalla ricerca del benessere materiale, alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada questa immensa corrente dell'attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l'osservatore, travolto anch'esso dalla fiumana, guardandosi attorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall'onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sopravvegnenti, i vincitori d'oggi, affrettati anch'essi, avidi anch'essi d'arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l'Onorevole Scipioni, l'Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l'esistenza, pel benessere, per l'ambizione - dall'umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi - all'uomo dall'ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini; di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all'artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un'altra forma dell'ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com'è stata, o come avrebbe dovuto essere.
Leggiamo insieme – «Uno studio sincero e spassionato»
Una rappresentazione ambigua del progresso
Nel presentare il primo romanzo del progettato ciclo dei Vinti, Verga indica il tema centrale dell’intera opera: la rappresentazione del meccanismo essenziale che determina il progresso umano. Ma già la definizione del tema è svolta all’insegna di una palese contraddizione. Il progresso viene giudicato infatti in maniera opposta, a seconda del punto di vista da cui lo si guarda. Visto nell’insieme e da lontano, appare come un grandioso movimento propulsivo, in grado di assicurare maggior benessere e sicurezza a tutta l’umanità. Più si procede in avanti, più le condizioni di vita migliorano, grazie alle scoperte tecnologiche, alle conquiste scientifiche, alle innovazioni in campo medico. Da questo punto di vista, Verga sembra condividere in pieno l’ottimismo tipico della dottrina positivista, e la sua fiducia incondizionata negli effetti benefici del progresso.
Tuttavia, se ci spostiamo in un’altra posizione e osserviamo il progresso da vicino, lo spettacolo è ben diverso: la molla essenziale che spinge in avanti l’umanità è rappresentata dall’ambizione, dall’invidia, dall’avidità, dall’inseguimento del proprio tornaconto personale, dall’egoismo. Si tratta di una contraddizione insanabile: per quanto possa apparire paradossale, solo la somma dei desideri e degli interessi individuali garantisce, alla fine, il benessere di tutti. Ciò che da vicino appare quasi spregevole e negativo, nell’insieme ottiene, in maniera quasi paradossale, un risultato positivo. Verga sottolinea con insistenza il carattere necessario e inevitabile di questo meccanismo: «il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti». Dal momento che sappiamo dove va «questa immensa corrente dell’attività umana», non dobbiamo certo domandarci «come ci va». Eppure, nell’esaltazione del progresso si avverte qualcosa di forzato, di insincero: come se il risultato finale non valesse a riscattare la negatività intrinseca delle singole componenti. L’ideologia dichiarata contrasta insomma con la convinzione intima. Verga si sforza di credere nel progresso e di considerarne i vantaggi e le acquisizioni; ma vede pur sempre alla base del progresso stesso la guerra di tutti contro tutti, l’istinto di prevaricazione, la violenza.
Dalla parte delle vittime
Questa visione ‘drammatica’ del progresso è confermata dalla scelta di assumere come protagonisti della propria opera non i vincitori, ma i vinti. A Verga non interessano coloro che sono riusciti, che si sono affermati e hanno realizzato le loro ambizioni; al contrario, gli interessano i vinti, coloro che sono annegati, travolti dalla corrente: «i deboli che restano per via», «i fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto». La scelta di assumere la prospettiva delle vittime ha una conseguenza fondamentale: visto attraverso gli occhi dei vinti, il meccanismo che sta alla base del progresso assume un aspetto mostruoso, quasi infernale. I benefici generali rimangono sullo sfondo, e in primo piano ci sono le vite schiacciate, le sofferenze, le aspirazioni frustrate. Per di più, la stessa differenza tra vinti e vincitori è relativa e temporanea, perché i vincitori di oggi saranno fatalmente i vinti di domani: qualsiasi trionfo è dunque precario, destinato a essere superato e dimenticato. In fin dei conti, esistono solo vinti, e nessun vincitore.
La considerazione negativa è del resto esplicita nella presentazione del primo romanzo del ciclo sui Vinti, I Malavoglia. L’autore dichiara infatti di voler mostrare gli effetti disastrosi provocati dalle «prime irrequietudini pel benessere» in una «famigliola vissuta sino allora relativamente felice», riconoscendo così il ruolo negativo dell’ambizione e del desiderio di migliorare la propria condizione. Lo stesso meccanismo, nei romanzi successivi, sarà applicato a contesti sociali diversi, di complessità crescente: nel Mastro-don Gesualdo diverrà avidità di ricchezza e di prestigio sociale, nella Duchessa di Leyra vanità aristocratica, nell’Onorevole Scipioni ambizione politica.
Spassionato: senza passione, cioè imparziale.
Irrequietudini: smanie, inquietudini.
Pel: per il.
Arrecare: causare.
Vaga bramosia: desiderio indistinto.
Potrà quindi osservarsi: si potrà osservare.
Schiette: sincere.
Cotesta: codesta.
Travagliato: inquietato.
Pei: per i.
Consunto: consumato-
Onde: da cui.
Dar rilievo all’idea: esprimere le proprie idee con maggiore evidenza.
Giacché la forma… generale: dal momento che la forma (dell’opera) è tanto legata al soggetto (sempre dell’opera), quanto le singole parti del soggetto sono necessarie alla definizione del soggetto nel suo complesso.
Fatale: immutabile, voluto dal destino.
Dileguansi: si dileguano, spariscono.
Immane: enorme.
Sviluppasi: si sviluppa.
Cooperante inconscio a beneficio di tutti: che collabora in maniera inconsapevole a beneficio di tutti.
Al certo: di sicuro.
Sopravvegnenti: coloro che sopravvengono, vengono dopo.
I Malavoglia… Uomo di lusso: dei cinque romanzi previsti, Verga scrisse e completò solo i primi due.
Stimmate: impronte, segni (letteralmente le stimmate sono i segni prodotti dai chiodi sul corpo di Gesù, durante la crocifissione).
Ciascuno colle stimmate… virtù: le stesse caratteristiche che hanno condotto alla perdizione i personaggi (e che dunque appaiono come il loro peccato) sarebbero state considerate pregi, se essi fossero riusciti a trionfare. L’unica colpa dei vinti, insomma, è quella di aver fallito. Non è possibile indicare in astratto cos’è peccato e cos’è virtù.
Il ruolo del narratore
Dal punto di vista più strettamente teorico e narrativo, la prefazione illustra i caratteri essenziali del programma verista:
Esercizi
Per capire
Per approfondire
Per scrivere
L’inizio del romanzo presenta la famiglia Toscano («Malavoglia», secondo il nomignolo del paese), saldamente unita attorno al suo membro più anziano, padron ’Ntoni, e alla sua saggezza, e racconta il primo evento decisivo della trama, un evento che turba la vita e l’economia stabili della famiglia: la partenza del giovane ‘Ntoni per il servizio militare.
Testo 2. I Malavoglia
Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n'erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all'opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev'essere. Veramente nel libro della parrocchia si chiamavano Toscano, ma questo non voleva dir nulla, poiché da che il mondo era mondo, all'Ognina, a Trezza e ad Aci Castello, li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio, che avevano sempre avuto delle barche sull'acqua, e delle tegole al sole. Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron 'Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza ch'era ammarrata sul greto, sotto il lavatoio, accanto alla Concetta dello zio Cola, e alla paranza di padron Fortunato Cipolla.
Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia, erano passate senza far gran danno sulla casa del nespolo e sulla barca ammarrata sotto il lavatoio; e padron 'Ntoni, per spiegare il miracolo, soleva dire, mostrando il pugno chiuso - un pugno che sembrava fatto di legno di noce - Per menare il remo bisogna che le cinque dita s'aiutino l'un l'altro.
Diceva pure: - Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.
E la famigliuola di padron 'Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant'ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perché era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c'era dipinto sotto l'arco della pescheria della città; e così grande e grosso com'era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «soffiati il naso» tanto che s'era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: 'Ntoni il maggiore, un bighellone di vent'anni, che si buscava tutt'ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l'equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant'Agata» perché stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce. - Alla domenica, quando entravano in chiesa, l'uno dietro l'altro, pareva una processione.
Padron 'Ntoni sapeva anche certi motti e proverbi che aveva sentito dagli antichi: «Perché il motto degli antichi mai mentì»: - «Senza pilota barca non cammina» - «Per far da papa bisogna saper far da sagrestano» - oppure - «Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai» - «Contentati di quel che t'ha fatto tuo padre; se non altro non sarai un birbante» ed altre sentenze giudiziose.
Ecco perché la casa del nespolo prosperava, e padron 'Ntoni passava per testa quadra, al punto che a Trezza l'avrebbero fatto consigliere comunale, se don Silvestro, il segretario, il quale la sapeva lunga, non avesse predicato che era un codino marcio, un reazionario di quelli che proteggono i Borboni, e che cospirava pel ritorno di Franceschello, onde poter spadroneggiare nel villaggio, come spadroneggiava in casa propria.
Padron 'Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschello, e badava agli affari suoi, e soleva dire: «Chi ha carico di casa non può dormire quando vuole» perché «chi comanda ha da dar conto».
Nel dicembre 1863, 'Ntoni, il maggiore dei nipoti, era stato chiamato per la leva di mare. Padron 'Ntoni allora era corso dai pezzi grossi del paese, che son quelli che possono aiutarci. Ma don Giammaria, il vicario, gli avea risposto che gli stava bene, e questo era il frutto di quella rivoluzione di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile. Invece don Franco lo speziale si metteva a ridere fra i peli della barbona, e gli giurava fregandosi le mani che se arrivavano a mettere assieme un po' di repubblica, tutti quelli della leva e delle tasse li avrebbero presi a calci nel sedere, ché soldati non ce ne sarebbero stati più, e invece tutti sarebbero andati alla guerra, se bisognava. Allora padron 'Ntoni lo pregava e lo strapregava per l'amor di Dio di fargliela presto la repubblica, prima che suo nipote 'Ntoni andasse soldato, come se don Franco ce l'avesse in tasca; tanto che lo speziale finì coll'andare in collera. Allora don Silvestro il segretario si smascellava dalle risa a quei discorsi, e finalmente disse lui che con un certo gruzzoletto fatto scivolare in tasca a tale e tal altra persona che sapeva lui, avrebbero saputo trovare a suo nipote un difetto da riformarlo. Per disgrazia il ragazzo era fatto con coscienza, come se ne fabbricano ancora ad Aci Trezza, e il dottore della leva, quando si vide dinanzi quel pezzo di giovanotto, gli disse che aveva il difetto di esser piantato come un pilastro su quei piedacci che sembravano pale di ficodindia; ma i piedi fatti a pala di ficodindia ci stanno meglio degli stivalini stretti sul ponte di una corazzata, in certe giornataccie; e perciò si presero 'Ntoni senza dire «permettete». La Longa, mentre i coscritti erano condotti in quartiere, trottando trafelata accanto al passo lungo del figliuolo, gli andava raccomandando di tenersi sempre sul petto l'abitino della Madonna, e di mandare le notizie ogni volta che tornava qualche conoscente dalla città, che poi gli avrebbero mandati i soldi per la carta.
Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch'esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l'avesse con lei. Così se ne tornarono ad Aci Trezza zitti zitti e a capo chino. Bastianazzo, che si era sbrigato in fretta dal disarmare la Provvidenza, per andare ad aspettarli in capo alla via, come li vide comparire a quel modo, mogi mogi e colle scarpe in mano, non ebbe animo di aprir bocca, e se ne tornò a casa con loro. La Longa corse subito a cacciarsi in cucina, quasi avesse furia di trovarsi a quattr'occhi colle vecchie stoviglie, e padron 'Ntoni disse al figliuolo:
- Va a dirle qualche cosa, a quella poveretta; non ne può più.
Il giorno dopo tornarono tutti alla stazione di Aci Castello per veder passare il convoglio dei coscritti che andavano a Messina, e aspettarono più di un'ora, pigiati dalla folla, dietro lo stecconato. Finalmente giunse il treno, e si videro tutti quei ragazzi che annaspavano, col capo fuori dagli sportelli, come fanno i buoi quando sono condotti alla fiera. I canti, le risate e il baccano erano tali che sembrava la festa di Trecastagni, e nella ressa e nel frastuono ci si dimenticava perfino quello stringimento di cuore che si aveva prima.
- Addio 'Ntoni! - Addio mamma! - Addio! ricordati! ricordati! - Lì presso, sull'argine della via, c'era la Sara di comare Tudda, a mietere l'erba pel vitello; ma comare Venera la Zuppidda andava soffiando che c'era venuta per salutare 'Ntoni di padron 'Ntoni, col quale si parlavano dal muro dell'orto, li aveva visti lei, con quegli occhi che dovevano mangiarseli i vermi. Certo è che 'Ntoni salutò la Sara colla mano, ed ella rimase colla falce in pugno a guardare finché il treno non si mosse. Alla Longa, l'era parso rubato a lei quel saluto; e molto tempo dopo, ogni volta che incontrava la Sara di comare Tudda, nella piazza o al lavatoio, le voltava le spalle.
Poi il treno era partito fischiando e strepitando in modo da mangiarsi i canti e gli addii. E dopo che i curiosi si furono dileguati, non rimasero che alcune donnicciuole, e qualche povero diavolo, che si tenevano ancora stretti ai pali dello stecconato, senza saper perché. Quindi a poco a poco si sbrancarono anch'essi, e padron 'Ntoni, indovinando che la nuora dovesse avere la bocca amara, le pagò due centesimi di acqua col limone.
Comare Venera la Zuppidda, per confortare comare la Longa, le andava dicendo: - Ora mettetevi il cuore in pace, che per cinque anni bisogna fare come se vostro figlio fosse morto, e non pensarci più.
Ma pure ci pensavano sempre, nella casa del nespolo, o per certa scodella che le veniva tutti i giorni sotto mano alla Longa nell'apparecchiare il deschetto, o a proposito di certa ganza che 'Ntoni sapeva fare meglio di ogni altro alla funicella della vela, e quando si trattava di serrare una scotta tesa come una corda di violino, o di alare una parommella che ci sarebbe voluto l'argano. Il nonno ansimando cogli ohi! ooohi! intercalava - Qui ci vorrebbe 'Ntoni - oppure - Vi pare che io abbia il polso di quel ragazzo? La madre, mentre ribatteva il pettine sul telaio - uno! due! tre! - pensava a quel bum bum della macchina che le aveva portato via il figliuolo, e le era rimasto sul cuore, in quel gran sbalordimento, e le picchiava ancora dentro il petto, - uno! due! tre!
Il nonno poi aveva certi singolari argomenti per confortarsi, e per confortare gli altri: - Del resto volete che vel dica? Un po' di soldato gli farà bene a quel ragazzo; ché il suo paio di braccia gli piaceva meglio di portarsele a spasso la domenica, anziché servirsene a buscarsi il pane.
Oppure: - Quando avrà provato il pane salato che si mangia altrove, non si lagnerà più della minestra di casa sua.
(da Giovanni Verga, I Malavoglia, a cura di Ferruccio Cecco, Torino, Einaudi 1997, pp. 9-16)
Leggiamo insieme. La celebrazione di un mondo tradizionale
La tecnica narrativa: ‘regressione’ e narratore collettivo.
L’inizio dei Malavoglia svolge le funzioni tipiche di un inizio di romanzo realista (esplicita l’ambientazione spazio-temporale, presenta i personaggi, mette in moto la trama), ma il modo in cui le svolge produce nel lettore un effetto di sorpresa, potremmo dire di choc: il lettore viene catapultato senza alcun preavviso nel mondo narrato, cioè in un villaggio di pescatori sulla costa siciliana, un mondo che è lontanissimo dall’esperienza di quasi tutti i lettori dei Malavoglia, e certamente di quelli ottocenteschi. Per valutare tale effetto è molto istruttivo il confronto con il predecessore obbligato di ogni romanzo ottocentesco italiano, I promessi sposi: alla presentazione ‘oggettiva’, graduale e dettagliata, del «ramo del lago di Como» e dell’epoca in cui si svolge la vicenda, corrisponde una sorta di presentazione rapida, quasi confusa perché non graduale. Qui il lettore non è messo davanti al quadro della vicenda narrata, ma è immerso da subito in una serie di coordinate geografiche e culturali (i nomi dei paesi e i riferimenti locali, a cominciare da quello alla «strada vecchia di Trezza», i nomi e i nomignoli dei personaggi, le infilate di proverbi siciliani) a lui del tutto estranei, e che lo disorientano, perché non gli vengono presentati attraverso la mediazione del narratore, ma dati per scontati.
Questo effettoè il frutto della profonda originalità della tecnica narrativa dei Malavoglia (che non ha riscontri nella narrativa italiana): la scomparsa del narratore-autore e la ‘regressione’ (com’è stata definita) del narratore al medesimo livello del mondo narrato. La voce narrante di quest’inizio non è (a differenza di quella dei Promessi sposi) quella dell’autore/narratore, ma possiede alcune caratteristiche rivoluzionarie rispetto al romanzo realista ‘classico’: 1) si tratta di un narratore anonimo (perché appunto non ha un nome, e non è la voce dell’autore) e collettivo (perché non si identifica con nessun personaggio, ma esprime una sorta di voce della comunità intorno ai personaggi stessi); 2) è un narratore interno al mondo narrato, poiché ne utilizza i riferimenti e il linguaggio specifici (i nomignoli, le similitudini dei personaggi con dei luoghi noti solo ai pescatori di Trezza e dintorni), e li utilizza presupponendoli, senza sentire alcun bisogno di spiegarli, proprio come se si trattasse di un paesano che racconta ai suoi paesani (ad un pubblico omogeneo) la storia di una famiglia che tutti conoscono.
La voce del mondo narrato: il ‘colore locale’ linguistico.
Una della manifestazioni più sperimentali e virtuosistiche di questa tecnica narrativa profondamente originale è quello che Verga definiva (con una metafora tratta dalla pittura) il ‘colore locale’ nel linguaggio della narrazione, un linguaggio popolare come lo sono non solo i personaggi, ma anche il narratore anonimo e collettivo, e che perciò si esprime non solo nella citazione diretta dei discorsi dei personaggi, ma anche nello stile della narrazione. Non si tratta di una riproduzione fedele del dialetto siciliano locale (che sarebbe risultato incomprensibile per quasi tutti i lettori), ma di una sorta di italiano popolare, ben lontano dalla lingua letteraria e dalla lingua della prosa colta, che riecheggia continuamente il linguaggio parlato e dialettale, soprattutto nel lessico (ad esempio attraverso i citati riferimenti e le similitudini di ambito locale, oppure attraverso i nomignoli dei personaggi, i proverbi esplicitamente citati e le espressioni proverbiali) e nella sintassi, che è colloquiale e libera, ‘scorretta’ rispetto alla grammatica dell’italiano scritto, proprio per imitare il più possibile il parlato. Si tratta insomma di una lingua artificiale, creata a tavolino, che ottiene tuttavia uno straordinario effetto di realtà, e che riesce a rendere alla perfezione il colore locale, pur senza trasformarsi in una trascrizione letterale del dialetto.
In particolare, uno dei procedimenti più utilizzati per rendere le movenze del linguaggio parlato è il cosiddetto discorso indiretto libero: una sorta di compromesso tra il discorso diretto (che riporta letteralmente, tra virgolette, le parole o i pensieri dei personaggi) e il discorso indiretto (che riporta parole e pensieri in forma di proposizioni dichiarative – introdotte dalla congiunzione che – e dal punto di vista del narratore esterno alla vicenda). Il discorso indiretto libero, pur utilizzando il racconto alla terza persona e senza citare direttamente le parole dei personaggi, introduce elementi tipici del discorso parlato (e quindi della voce dei personaggi stessi): un lessico o una sintassi colloquiali, popolari (ad esempio, in «Padron ’Ntoni invece non lo conosceva neanche di vista Franceschiello», l’anticipazione del complemento oggetto Franceschiello nel pronome lo, sgrammaticatura per la lingua scritta ma fenomeno tipico della sintassi parlata), oppure il cosiddetto che polivalente, cioè ambiguo dal punto di vista del significato, e quindi scorretto anch’esso nella sintassi scritta (ad esempio, in «La Longa [...] gli andava raccomandando [...] di mandare le notizie ogni volta che tornava qualche conoscente dalla città, che poi gli avrebbero mandati i soldi per la carta»).
Padron ’Ntoni e i valori tradizionali della comunità.
La presentazione dei fatti e dei personaggi, per quanto ‘oggettiva’ nei modi che si sono visti (cioè non affidata direttamente a una voce dell’autore) non è però neutrale dal punto di vista ideologico: è evidente infatti, in questo inizio, una caratteristica di tutto il romanzo, e cioè il ritratto sempre interamente positivo di alcuni Malavoglia, e in particolare di padron ’Ntoni, un vero patriarca, il capofamiglia indiscusso e pienamente meritevole di esserlo, perché è il depositario di una saggezza impersonale e indiscutibile, la saggezza degli «antichi», e che non a caso si esprime prevalentemente attraverso i proverbi, voce collettiva della cultura popolare. Padron ’Ntoni (che non a caso, nell’idea originaria del romanzo, avrebbe dovuto dare il titolo al libro) è un personaggio integralmente positivo, perché è l’incarnazione dei valori tradizionali di una comunità popolare arcaica: l’etica della famiglia patriarcale (fondata su una gerarchia solida e indiscutibile), del lavoro e del sacrificio personale, ma anche l’etica della moderazione, che pone dei limiti all’ambizione personale (padron ’Ntoni è indifferente ai rivolgimenti storici e alle ambizioni della politica locale), e che quindi potrebbe definirsi immobilistica, statica.
Anche gli altri personaggi della famiglia sono positivi nella misura in cui partecipano senza discutere di quell’etica, svolgono il ruolo previsto nella famiglia arcaica, dove l’individuo non deve emergere per i suoi desideri personali, ma deve lavorare in funzione del bene della comunità familiare (Bastianazzo obbedisce senza discutere all’uomo più anziano di lui, la Longa e Mena adempiono pienamente ai doveri previsti per la donna). La situazione di partenza del romanzo – la famiglia che prospera sotto la guida di padron ’Ntoni – è quindi statica, come l’etica e la saggezza popolare senza tempo che padron ’Ntoni incarna e mette in pratica; non a caso i cambiamenti e i pericoli esterni («Le burrasche che avevano disperso di qua e di là gli altri Malavoglia») non hanno danneggiato i Malavoglia di Trezza.
Tempo statico della comunità arcaica e storia collettiva.
La trama vera e propria viene prodotta da un mondo esterno e sconosciuto all’orizzonte storico e mentale di cui fanno parte i Malavoglia, cioè la storia collettiva, che passa sconosciuta alle classi povere, ma è ugualmente decisiva per la loro sorte. In questo caso, la recentissima Unità d’Italia ha causato l'introduzione del servizio di leva obbligatorio, che provoca uno sconvolgimento nella vita della famiglia, dovuto all’assenza del giovane ’Ntoni per i cinque anni di ferma previsti. Non a caso questo è il primo evento vero, puntuale, del racconto, perché è il primo al passato remoto dopo una lunga serie di imperfetti, che ritmavano la vita ciclica e profondamente statica della famiglia ; e non a caso quest’evento è anche l’unico (in tutto il romanzo) ad essere indicato da una data precisa, il dicembre 1863.
La vicenda raccontata nasce così dall’interferenza della ‘grande’ storia (la rivoluzione politica, il passaggio della Sicilia da provincia del Regno delle due Sicilie a provincia del Regno d’Italia), nel mondo e nello stile di vita di una comunità lontana da quei rivolgimenti, e ancora più in una famiglia che aveva vissuto separata non solo dalle vicende nazionali (padron ’Ntoni è indifferente ai vecchi quanto ai nuovi governanti), ma anche da quelle minuscole della politica di paese. La storia interferisce con gli orizzonti chiusi della vita di villaggio per portare disordine e dolore, quel dolore su cui insiste il narratore nel descrivere le reazioni dei familiari alla partenza di ’Ntoni. Dal mondo esterno, contro cui la saggezza e le massime di padron ’Ntoni non possono niente, proviene un impulso estraneo alla cultura e alla vita della comunità, che trasformerà in maniera decisiva la vita della famiglia: dalla mancanza di un giovane valido come ’Ntoni nasceranno le prime difficoltà , e da queste le conseguenze e le fatalità che vedremo; allo stesso modo, per il giovane ’Ntoni, il contatto conla grande città, la società e l’economia borghesi avrà conseguenze altrettanto decisive e distruttive.
Esercizi
Per approfondire
Per scrivere
L’assenza di ’Ntoni mette in difficoltà l’economia di tutta la famiglia, perciò qualche tempo dopo padron ’Ntoni tenta un affare commerciale: acquista a credito (ricorrendo a un prestito dello zio Crocifisso, l’usuraio del paese) un carico di lupini da rivendere in un altro paese sulla costa. Ma durante il viaggio per andare a effettuare la vendita la Provvidenza scompare in una notte di tempesta, il carico di lupini va perduto e Bastianazzo muore annegato: quest’avvenimento getta la famiglia nel lutto, e per di più ne compromette in modo irreparabile la situazione economica, lasciandola priva dei due uomini più forti (‘Ntoni e Bastianazzo) e pesantemente indebitata. Allo strazio per Bastianazzo scomparso lontano da loro (il funerale si celebra con una bara vuota) si oppongono infatti i sentimenti ben diversi di zio Crocifisso, creditore dei Malavoglia, apparentemente solidale con il dolore della famiglia ma impaziente di recuperare il denaro che gli spetta e disposto a tutto per farlo.
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I Malavoglia tentano in tutti i modi di pagare il loro debito allo zio Crocifisso, dal quale hanno ottenuto una dilazione: la Provvidenza viene restituita dal mare e riparata, ’Ntoni torna dal servizio di leva facendosi sostituire (come prevedeva la legge) dal fratello più giovane Luca, e tutta la famiglia si sacrifica cercando anche lavori umili pur di guadagnare qualche soldo. Ma ben presto un altro lutto sconvolge la famiglia: la morte di Luca su una delle corazzate italiane affondate durante la battaglia di Lissa (20 luglio 1866), durante la cosiddetta terza guerra d’indipendenza contro l’Austria. E' un ulteriore tracollo per la famiglia: zio Crocifisso non concede più alcuna dilazione e s'impadronisce dellacasa del nespolo, che i Malavoglia devono lasciare per andare in affitto, decadendo così dalla condizione di possidenti (il che comporta anche l’abbandono di ogni progetto matrimoniale per Mena, ormai priva di dote). Padron ’Ntoni è sempre alla guida della famiglia, anche dopo che ha rischiato il naufragio e la morte durante una tempesta, e suo nipote ’Ntoni cerca di svolgere il ruolo di uomo fisicamente più forte della famiglia, ma è tormentato da una smania che è soltanto sua: l’insoddisfazione e la sfiducia profonde per quei tentativi disperati di pagare il debito e di recuperare la condizione precedente. ’Ntoni infatti, che a differenza degli altri della sua famiglia ha conosciuto il mondo al di fuori di Trezza, è rimasto affascinato e amareggiato dal miraggio di una ricchezza e di una condizione sociale inimmaginabile per dei pescatori, e passa sempre più tempo a lamentarsi della loro vita e a sognare di modificarla radicalmente per il vantaggio proprio e della sua famiglia, manifestando un desiderio sempre più intenso di lasciare di nuovo il suo paese in cerca di fortuna . |
Testo 4. «Voglio cambiare stato»: la rivolta di ’Ntoni
'Ntoni, quando la sera tornava a casa, non trovava altro che le donne, le quali mutavano la salamoia nei barilotti, e cianciavano in crocchio colle vicine, sedute sui sassi; e intanto ingannavano il tempo a contare storie e indovinelli, buoni pei ragazzi, i quali stavano a sentire con tanto d'occhi intontiti dal sonno. Padron 'Ntoni ascoltava anche lui, tenendo d'occhio lo scolare della salamoia, e approvava col capo quelli che contavano le storie più belle, e i ragazzi che mostravano di aver giudizio come i grandi nello spiegare gli indovinelli.
- La storia buona, disse allora 'Ntoni, è quella dei forestieri che sono arrivati oggi, con dei fazzoletti di seta che non par vero; e i denari non li guardano cogli occhi, quando li tirano fuori dal taschino. Hanno visto mezzo mondo, dice, che Trezza ed Aci Castello messe insieme, sono nulla in paragone. Questo l'ho visto anch'io; e laggiù la gente passa il tempo a scialarsi tutto il giorno, invece di stare a salare le acciughe; e le donne, vestite di seta e cariche di anelli meglio della Madonna dell'Ognina, vanno in giro per le vie a rubarsi i bei marinari. […]
- Lascia stare, lascia stare! gli disse il nonno, contento pei barilotti che vedeva nel cortile. Adesso ci abbiamo le acciughe da salare. Ma la Longa guardò il figliuolo col cuore stretto, e non disse nulla, perché ogni volta che si parlava di partire le venivano davanti agli occhi quelli che non erano tornati più.
E poi soggiunse: - «Né testa, né coda, ch'è meglio ventura».
Le file dei barilotti si allineavano sempre lungo il muro, e padron 'Ntoni, come ne metteva uno al suo posto, coi sassi di sopra, diceva: - E un altro! Questi a Ognissanti son tutti danari.
'Ntoni allora rideva,. - Gran denari! borbottava; e tornava a pensare a quei due forestieri che andavano di qua e di là, e si sdraiavano sulle panche dell'osteria, e facevano suonare i soldi nelle tasche. Sua madre lo guardava come se gli leggesse nella testa; né la facevano ridere le barzellette che dicevano nel cortile. […]
- Il peggio, disse infine Mena, è spatriare dal proprio paese, dove fino i sassi vi conoscono, e dev'essere una cosa da rompere il cuore il lasciarseli dietro per la strada. «Beato quell'uccello, che fa il nido al suo paesello».
- Brava Sant'Agata! conchiuse il nonno. Questo si chiama parlare con giudizio.
- Sì! brontolò 'Ntoni, intanto, quando avremo sudato e faticato per farci il nido ci mancherà il panico; e quando arriveremo a ricuperar la casa del nespolo, dovremo continuare a logorarci la vita dal lunedì al sabato; e saremo sempre da capo!
- O tu che non vorresti lavorare più? Cosa vorresti fare? l'avvocato?
- Io non voglio fare l'avvocato! brontolò 'Ntoni, e se ne andò a letto di cattivo umore.
Ma d'allora in poi non pensava ad altro che a quella vita senza pensieri e senza fatica che facevano gli altri; e la sera, per non sentire quelle chiacchiere senza sugo, si metteva sull'uscio colle spalle al muro, a guardare la gente che passava, e digerirsi la sua mala sorte; almeno così si riposava pel giorno dopo, che si tornava da capo a far la stessa cosa, al pari dell'asino di compare Mosca, il quale come vedeva prendere il basto gonfiava la schiena aspettando che lo bardassero! - Carne d'asino! borbottava; ecco cosa siamo! Carne da lavoro! E si vedeva chiaro che era stanco di quella vitaccia, e voleva andarsene a far fortuna, come gli altri; tanto che sua madre, poveretta, l'accarezzava sulle spalle, e l'accarezzava pure col tono della voce, e cogli occhi pieni di lagrime, guardandolo fisso per leggergli dentro e toccargli il cuore. Ma ei diceva di no, che sarebbe stato meglio per lui e per loro; e quando tornava poi sarebbero stati tutti allegri. La povera donna non chiudeva occhio in tutta la notte, e inzuppava di lagrime il guanciale. Infine il nonno se ne accorse, e chiamò il nipote fuori dell'uscio, accanto alla cappelletta, per domandargli cosa avesse.
- Orsù, che c'è di nuovo? dillo a tuo nonno, dillo! - 'Ntoni si stringeva nelle spalle; ma il vecchio seguitava ad accennare di sì col capo, e sputava, e si grattava il capo cercando le parole.
- Sì, sì, qualcosa ce l'hai in testa, ragazzo mio! Qualcosa che non c'era prima. «Chi va coi zoppi, all'anno zoppica».
- C'è che sono un povero diavolo! ecco cosa c'è!
- Bè! che novità! e non lo sapevi? Sei quel che è stato tuo padre, e quel ch'è stato tuo nonno! «Più ricco è in terra chi meno desidera». «Meglio contentarsi che lamentarsi».
- Bella consolazione!
Questa volta il vecchio trovò subito le parole, perché si sentiva il cuore sulle labbra:
- Almeno non lo dire davanti a tua madre.
- Mia madre… Era meglio che non mi avesse partorito, mia madre!
- Sì, accennava padron 'Ntoni, sì! meglio che non t'avesse partorito, se oggi dovevi parlare in tal modo.
'Ntoni per un po' non seppe che dire: - Ebbene! esclamò poi, lo faccio per lei, per voi, e per tutti. Voglio farla ricca, mia madre! ecco cosa voglio. Adesso ci arrabattiamo colla casa e colla dote di Mena; poi crescerà Lia, e un po' che le annate andranno scarse staremo sempre nella miseria. Non voglio più farla questa vita. Voglio cambiar stato, io e tutti voi. Voglio che siamo ricchi, la mamma, voi, Mena, Alessi e tutti.
Padron 'Ntoni spalancò tanto d'occhi, e andava ruminando quelle parole, come per poterle mandar giù. - Ricchi! diceva, ricchi! e che faremo quando saremo ricchi?
'Ntoni si grattò il capo, e si mise a cercare anche lui cosa avrebbero fatto. - Faremo quel che fanno gli altri… Non faremo nulla, non faremo!… Andremo a stare in città, a non far nulla, e a mangiare pasta e carne tutti i giorni.
- Va, va a starci tu in città. Per me io voglio morire dove son nato; - e pensando alla casa dove era nato, e che non era più sua si lasciò cadere la testa sul petto. - Tu sei un ragazzo, e non lo sai!… non lo sai!… Vedrai cos'è quando non potrai più dormire nel tuo letto; e il sole non entrerà più dalla tua finestra!… Lo vedrai! te lo dico io che son vecchio!
Il poveraccio tossiva che pareva soffocasse, col dorso curvo, e dimenava tristamente il capo: - «Ad ogni uccello, suo nido è bello». Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene.
- Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! rispondeva 'Ntoni. Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l'asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo, sempre a girar la ruota; io non voglio morir di fame in un cantuccio, o finire in bocca ai pescicani.
- Ringrazia Dio piuttosto, che t'ha fatto nascer qui; e guardati dall'andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. «Chi cambia la vecchia per la nuova, peggio trova». Tu hai paura del lavoro, hai paura della povertà; ed io che non ho più né le tue braccia né la tua salute non ho paura, vedi! «Il buon pilota si prova alle burrasche». Tu hai paura di dover guadagnare il pane che mangi; ecco cos'hai! Quando la buon'anima di tuo nonno mi lasciò la Provvidenza e cinque bocche da sfamare, io era più giovane di te, e non aveva paura; ed ho fatto il mio dovere senza brontolare; e lo faccio ancora; e prego Iddio di aiutarmi a farlo sempre sinché ci avrò gli occhi aperti, come l'ha fatto tuo padre, e tuo fratello Luca, benedetto! che non ha avuto paura di andare a fare il suo dovere. Tua madre l'ha fatto anche lei il suo dovere, povera femminuccia, nascosta fra quelle quattro mura; e tu non sai quante lagrime ha pianto, e quante ne piange ora che vuoi andartene; che la mattina tua sorella trova il lenzuolo tutto fradicio! E nondimeno sta zitta e non dice di queste cose che ti vengono in mente; e ha lavorato, e si è aiutata come una povera formica anche lei; non ha fatto altro, tutta la sua vita, prima che le toccasse di piangere tanto, fin da quando ti dava la poppa, e quando non sapevi ancora abbottonarti le brache, che allora non ti era venuta in mente la tentazione di muovere le gambe, e andartene pel mondo come uno zingaro.
In conclusione 'Ntoni si mise a piangere come un bambino, perché in fondo quel ragazzo il cuore ce l'aveva buono come il pane; ma il giorno dopo tornò da capo. La mattina si lasciava caricare svogliatamente degli arnesi, e se ne andava al mare brontolando: - Tale e quale l'asino di compare Alfio! come fa giorno allungo il collo per vedere se vengono a mettermi il basto. - Dopo che avevano buttato le reti, lasciava Alessi a menare il remo adagio adagio per non fare deviare la barca e si metteva le mani sotto le ascelle, a guardare lontano, dove finiva il mare, e c'erano quelle grosse città dove non si faceva altro che spassarsi e non far nulla; o pensava a quei due marinai ch'erano tornati di laggiù, ed ora se n'erano già andati da un pezzo; ma gli pareva che non avessero a far altro che andar gironi’. pel mondo, da un'osteria all'altra, a spendere i denari che avevano in tasca. La sera, i suoi parenti, dopo aver messo a sesto la barca e gli attrezzi, per non vedergli quel muso lungo, lo lasciavano andare a gironzolare come un cagnaccio, senza un soldo in tasca.
(da Giovanni Verga, I Malavoglia, a cura di Ferruccio Cecco, Torino, Einaudi 1997, pp. 241-250, con tagli)
Leggiamo insieme. La ribellione di ’Ntoni e l’aspirazione all’ascesa economica.
Il conflitto tra l’etica della comunità familiare e il desiderio individuale.
Questo passo esemplifica uno dei temi centrali del romanzo e uno degli elementi decisivi nella sua trama, cioè l’antitesi insanabile tra l’universo di valori della comunità familiare, impersonato esemplarmente da padron ’Ntoni (e quindi l’accettazione fatalista della propria condizione socio-economica, e l’etica del dovere e del sacrificio subordinata a tale accettazione), e la ribellione del giovane ’Ntoni, spinto dal desiderio di fuga e dalla ricerca del miglioramento socio-economico. Il dialogo tra ’Ntoni e suo nonno può essere considerato un’espressione tipica del conflitto tra generazioni, dato che agli ideali e ai consigli del vecchio, il giovane oppone dei desideri e dei valori antitetici e inconciliabili. Già il conflitto in sé è indice di un’anomalia, di una profonda frattura, perché è un fenomeno inconsueto in una società arcaica tradizionale, che si riproduce attraverso la trasmissione dei medesimi valori e delle medesime competenze di padre in figlio. Esso nasce dall’influsso esercitato dal mondo esterno, da una storia e da una società ben più dinamiche della vita del paesino, che al confronto sembra svolgersi secondo un ritmo ciclico, ignorando il progresso lineare. Dal mondo esterno provengono infatti gli obblighi nei confronti del potere politico (il servizio militare), ma anche le esperienze superficiali realizzate da ’Ntoni durante il suo periodo di levache creano agli occhi di ’Ntoni il miraggio di unavita diversa da quella di Trezza, in un paese di cuccagna dove non si è sottoposti alla schiavitù del lavoro quotidiano e dove si diventa ricchi non si capisce bene come, ma si trascorrono i giorni spendendo il denaro e godendosi la vita.
È questo miraggio, quest’immagine semplificata della società capitalistica urbana così come è apparsa agli occhi di un pescatore analfabeta, che produce la ribellione di ’Ntoni, fondata sull’insoddisfazione per le proprie condizioni sociali e sul desiderio di modificarle. Quell’immagine distorta del mondo esterno, assimilato a un paese di Bengodi, per quanto errata in sé, produce però su ‘Ntoni l'effetto di di fargli vedere la situazione socio-economica sua e della sua famiglia per quello che è: una vita povera, economicamente precaria, dipendente in misura decisiva da fattori esterni (i guadagni della pesca, a loro volta dipendenti da cause naturali), fatta di bisogni e di ambizioni elementari, insomma una vita da «povero diavolo». Ma questa visione è possibile soltanto a lui, perché è uscito dal suo paese e ha visto una società completamente diversa(pur semplificata e mitizzata nei modi che si è detto), mentre padron ’Ntoni, che ha sempre vissuto dove è nato e non ha altro desiderio che riacquistare da zio Crocifisso la casa del nespolo, non ha mai osservato dall’esterno la società di Trezza e la vita che vi si conduce. Di qui nasce una distanza incolmabile tra nonno e nipote: il primo considera naturale la condizione socio-economica sua e della sua famiglia, mentre il secondo la osserva e giudica con uno sguardo nuovo, soltanto suo, così come solo suo è il desiderio. nato da questa visione, di «cambiare stato».
Etica conservatrice e desiderio di mutamento.
In realtà, più che un conflitto, quello tra padron ’Ntoni e suo nipote è un dialogo tra sordi, perché non solo padron ’Ntoni non capisce il punto di vista e le intenzioni del giovane («O tu che non vorresti lavorare più? Cosa vorresti fare? l'avvocato?»: cioè un’ipotesi palesemente assurda), ma non ne capisce il linguaggio, che per lui risulta vuoto, ridondante («- C'è che sono un povero diavolo! ecco cosa c'è! - Bè! che novità! e non lo sapevi? ») o francamente incomprensibile («Voglio che siamo ricchi [...] Padron 'Ntoni spalancò tanto d'occhi [...] - Ricchi! diceva, ricchi! e che faremo quando saremo ricchi?»).
Padron ’Ntoni esprime una concezione del mondo e un’etica immobilistiche e conservatrici, ma senza nessuna sfumatura negativa: egli interpreta la condizione socio-economica sua e della sua famiglia, così come la collocazione fisica a Trezza e nella casa del nespolo, come un dato naturale, un destino che è assurdo giudicare e che sarebbe insensato cercare di modificare, mentre gli unici sforzi doverosi e irrinunciabili sono quelli per ritornare a quella posizione, ricomprare la casa del nespolo e ridiventare possidenti. ’Ntoni, al contrario, oppone una concezione a suo modo dinamica, una visione della società ben più articolata rispetto a quella di suo nonno: non solo ritiene quella condizione un destino miserabile (e quindi dimostra la consapevolezza dolorosa dello squilibrio su cui si regge la società, quello tra ricchi e ‘poveri diavoli’ come lui), ma aspira a modificarla, facendosi portavoce del desiderio di ascesa sociale inteso come miglioramento delle proprie condizioni materiali..
Per questo padron ’Ntoni non capisce il significato dei ragionamenti e dei termini usati da suo nipote e ’Ntoni rifiuta il linguaggio impersonale e tradizionale di suo nonno, cioè i proverbi (che identificano, psicologicamente e linguisticamente, padron ’Ntoni), e la concezione del mondo sedimentata in quelle formule, che è astorica e assimila la condizione degli uomini, immutabile, a quella degli animali («Vedi quelle passere? le vedi? Hanno fatto il nido sempre colà, e torneranno a farcelo, e non vogliono andarsene»). Ma ’Ntoni, che si ribella contro tale concezione, rifiuta appunto quest’assimilazione:«- Io non sono una passera. Io non sono una bestia come loro! Io non voglio vivere come un cane alla catena, come l'asino di compare Alfio, o come un mulo da bindolo.»; per lui vivere come animali ha un significato opposto, quello di una condanna a una vita indegna («Carne d'asino! borbottava; ecco cosa siamo!»).
Una rappresentazione non neutrale
Se osserviamo questo conflitto tra due generazioni alla luce dell’inizio della prefazione al romanzo (vedi pag. XXX), dobbiamo interpretare la ribellione individuale di ’Ntoni come un’espressione rozza ma chiara delle «prime irrequietudini pel benessere», la voce della «vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o si potrebbe star meglio». Il giovane che osserva e giudica la condizione economica della sua famiglia come nessun altro membro di quella famiglia ha mai fatto, che vuole modificare quella condizione e non crede più alla concezione immobilistica di padron ’Ntoni, rappresenta , nella vita dei Malavoglia, «la perturbazione», lo sconvolgimento apportati da quella frustrazione e da quel desiderio. Eppure, come recita sempre la prefazione al romanzo, quel desiderio vago ma insopprimibile del benessere e dell’ascesa socio-economica non è altro che «il movente dell’attività umana che ha prodotto la fiumana del progresso», il fattore che trasforma la società umana, colto qui al suo stadio più elementare, destatosi in un giovane pescatore analfabeta che ha visto per un po’ un mondo di «ricchi», ne ha fatto un desiderio e un miraggio e ne è rimasto affascinato e intossicato.
‘Ntoni esprimerebbe così la voce del ‘progresso’, che, al suo stadio più rozzo ed elementare, è una semplice aspirazione al mutamento, mentre suo nonno rappresenta la tendenza contraria, l’aspirazione alla condizione considerata ‘naturale’ e immutabile o al recupero di tale condizione. Sempre nella prefazione Verga afferma che chi osserva lo spettacolo della lotta per l’esistenza non ha il diritto di giudicare, di condannare chi ha cercato di migliorare la propria condizione ed è rimasto travolto dalle conseguenze di tale tentativo; tuttavia, è indubbio che la rappresentazione del conflitto fra ’Ntoni e suo nonno non è neutrale, ma parteggia per padron ’Ntoni, perché il narratore anonimo, pur simpatizzando in generale con i Malavoglia (come si è visto commentando il brano precedente), sta egli stesso, in questo caso, dalla parte del nonno, ne condivide la visione del mondo e dà per scontato che sia quella giusta, tanto che viene accettata dallo stesso ’Ntoni, sia pure per poco tempo («In conclusione 'Ntoni si mise a piangere come un bambino, perché in fondo quel ragazzo il cuore ce l'aveva buono come il pane; ma il giorno dopo tornò da capo.»).
La ribellione individuale come colpa.
In generale, leggendo la vera e propria orazione finale di padron ’Ntoni (« - Ringrazia Dio piuttosto, che t'ha fatto nascer qui; e guardati dall'andare a morire lontano dai sassi che ti conoscono. ...»), che è una celebrazione dell’etica del dovere e dell’accettazione del proprio destino e anche un richiamo al valore sacro degli affetti familiari, non si prova certo un’impressione di rappresentazione neutrale del conflitto: benché queste siano parole del personaggio (e non del narratore), e benché il linguaggio di quest’orazione sia coerente con il suo orizzonte mentale e culturale (con gli immancabili proverbi), si ha l’impressione che l’autore, seppure invisibile, approvi questo discorso e il suo contenuto. Esso è infatti caratterizzato da un tono alto e commosso e conferisce a padron ’Ntoni una nobiltà d’animo, una grandezza nell’accettare il proprio destino e nel difendere ciò che ha ereditato e costruito, che si possono definire eroiche.
Inoltre, gli sviluppi successivi della trama (le conseguenze disastrose che provocherà la scelta di ’Ntoni di partire dal paese in cerca di fortuna) confermano l’impressione ricevuta dalla lettura di questo passo: la ribellione individuale di ’Ntoni contro la vita e i valori immutabili della comunità familiare, e in particolare contro l’etica del dovere e del sacrificio personificata da padron ’Ntoni, è una colpa che avrà conseguenze fatali. Dietro l’intento, dichiarato nella Prefazione, di rappresentare in maniera imparziale la lotta per il miglioramento della propria condizione (considerata l’essenza del progresso) emerge dunque tutt’altro atteggiamento: una segreta solidarietà, una sorta di nostalgia conservatrice nei confronti di un mondo e di valori arcaici ma autentici, e nei confronti di chi, come padron ’Ntoni, incarna e mette in pratica quei valori con una coerenza esemplare.
Esercizi
Per approfondire
Per scrivere
Verso l’esame
1. Prima prova, saggio breve. L’immagine del progresso nei Malavoglia (vedi anche la Prefazione al romanzo a pag. XXX)
Poco tempo dopo, anche la Longa muore, in un’epidemia di colera, e allora ’Ntoni, che era rimasto a Trezza solo perché trattenuto dalle preghiere di sua madre, decide di partire; per far fronte alle difficoltà economiche, padron ’Ntoni deve rassegnarsi a vendere la Provvidenza e andare a lavorare a giornata sulle barche altrui. Qualche mese dopo ’Ntoni ritorna in paese, ancora più povero di prima, e ancora più esacerbato contro le diseguaglianze economiche e la prospettiva di lavoro e di sacrificio a cui lo richiama inutilmente suo nonno: vive come un fannullone, torna a casa ubriaco, ha una relazione con Santuzza (l’ostessa del paese) e quindi diventa nemico di don Michele (brigadiere della guardia di finanza locale e amante di Santuzza); alla entra in un giro di contrabbando e una notte, durante un’operazione, accoltella don Michele e viene catturato. Il disonore dei Malavoglia in paese viene ulteriormente accresciuto al processo, quando l’avvocato di ’Ntoni, alla ricerca di attenuanti, motiva l’aggressione a don Michele con la gelosia per la tresca tra lo stesso don Michele e la giovane sorella Lia. ’Ntoni viene condannato a cinque anni di carcere, il denaro risparmiato fino ad allora dalla famiglia viene dilapidato per le spese del processo, padron ’Ntoni viene stroncato dal dolore per suo nipote e per la rivelazione su Lia, che perciò abbandona casa sua e il paese, e finisce col diventare una prostituta. Lo stesso padron ’Ntoni, ormai in fin di vita, per non essere più di peso alla famiglia, decide di farsi ricoverare all’ospedale di Catania, dove muore poco tempo dopo. Intanto Alfio Mosca, da sempre innamorato di Mena , è tornato a Trezza, dopo aver migliorato la sua posizione economica: ora è diventato un carrettiere, e perciò ha i mezzi per fare quel che avrebbe voluto da anni ma non poteva: chiedere a Mena di sposarlo. |
I Malavoglia superstiti (Alessi e sua moglie Nunziata, Mena) sono di nuovo nella casa del nespolo, ma non possono smettere di pensare a padron ’Ntoni morto lontano dal suo paese, a Lia e a’Ntoni; una sera ‘Ntoni, uscito di prigione, torna a casa.
Testo 6. L’addio di ’Ntoni
Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l'uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe 'Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato, e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando in giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l'aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi 'Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene.
Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, si sentì balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: - Te ne vai?
- Sì! rispose 'Ntoni.
- E dove vai? chiese Alessi.
- Non lo so. Venni per vedervi. Ma dacché son qui la minestra mi è andata tutta in veleno. Per altro qui non posso starci, ché tutti mi conoscono, e perciò son venuto di sera. Andrò lontano, dove troverò da buscarmi il pane, e nessuno saprà chi sono.
Gli altri non osavano fiatare, perché ci avevano il cuore stretto in una morsa, e capivano che egli faceva bene a dir così. 'Ntoni continuava a guardare dappertutto, e stava sulla porta, e non sapeva risolversi ad andarsene. - Ve lo farò sapere dove sarò; disse infine, e come fu nel cortile, sotto il nespolo, che era scuro, disse anche:
- E il nonno?
Alessi non rispose; 'Ntoni tacque anche lui, e dopo un pezzetto:
- E la Lia che non l'ho vista?
E siccome aspettava inutilmente la risposta, aggiunse colla voce tremante, quasi avesse freddo: - È morta anche lei?
Alessi non rispose nemmeno; allora 'Ntoni che era sotto il nespolo, colla sporta in mano, fece per sedersi, poiché le gambe gli tremavano, ma si rizzò di botto, balbettando:
- Addio addio! Lo vedete che devo andarmene?
Prima d'andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l'animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l'animo di passare da una camera all'altra se non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c'era pure la chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. 'Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva: - Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello; qui c'erano le chioccie, e qui dormivano le ragazze, quando c'era anche quell'altra… - Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e 'Ntoni disse: - Questa qui l'ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa.
Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli:
- Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c'è apposta il letto per te.
- No! rispose 'Ntoni. Io devo andarmene. Là c'era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch'io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene.
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli buttò le braccia al collo.
- Addio, ripeté 'Ntoni. Vedi che avevo ragione d'andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti.
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese. Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico.
Allora 'Ntoni si fermò in mezzo alla strada a guardare il paese tutto nero, come non gli bastasse il cuore di staccarsene, adesso che sapeva ogni cosa, e sedette sul muricciuolo della vigna di massaro Filippo.
Così stette un gran pezzo pensando a tante cose, guardando il paese nero, e ascoltando il mare che gli brontolava lì sotto. E ci stette fin quando cominciarono ad udirsi certi rumori ch'ei conosceva, e delle voci che si chiamavano dietro gli usci, e sbatter d'imposte, e dei passi per le strade buie. Sulla riva, in fondo alla piazza, cominciavano a formicolare dei lumi. Egli levò il capo a guardare i Tre Re che luccicavano, e la Puddara che annunziava l'alba, come l'aveva vista tante volte. Allora tornò a chinare il capo sul petto, e a pensare a tutta la sua storia. A poco a poco il mare cominciò a farsi bianco, e i Tre Re ad impallidire, e le case spuntavano ad una ad una nelle vie scure, cogli usci chiusi, che si conoscevano tutte, e solo davanti alla bottega di Pizzuto c'era il lumicino, e Rocco Spatu colle mani nelle tasche che tossiva e sputacchiava. - Fra poco lo zio Santoro aprirà la porta, pensò 'Ntoni, e si accoccolerà sull'uscio a cominciare la sua giornata anche lui. - Tornò a guardare il mare, che s'era fatto amaranto, tutto seminato di barche che avevano cominciato la loro giornata anche loro, riprese la sua sporta e disse: - Ora è tempo d'andarmene, perché fra poco comincierà a passar gente. Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu.
Leggiamo insieme. Esclusione, nostalgia, idealizzazione.
L’antitesi tra ’Ntoni e la comunità
La conclusione dei Malavoglia è incentrata, come l’inizio, sulla famiglia dei protagonisti, in particolare sull’incontro dei suoi pochi superstiti (Lia, prostituta a Catania, è peggio che morta: causa di disonore in paese, e di ricordo straziante per i suoi familiari). Il personaggio principale di tale incontro è ’Ntoni, che assume, in questa parte finale, un ruolo centrale: egli è il più ‘colpevole’ nei confronti della sua famiglia (anche senza volerlo) e dei valori dei quali la sua famiglia è portatrice, ed infatti accetta di pagare tale colpevolezza con l’abbandono definitivo. Ma ’Ntoni non è mai solo sulla scena: insieme con lui ci sono prima i suoi familiari e poi il paesaggio e le case, che qui assumono anch’essi aspetto e funzione di veri e propri personaggi. Insomma l’importanza di ’Ntoni nella conclusione dell’opera è l’effetto dell’antitesi che lo contrappone ai familiari superstiti, alla comunità del villaggio, ma anche al villaggio come luogo fisico, alla natura, al mare e al cielo visti da Trezza.
I superstiti: la ricostituzione dell’universo chiuso della comunità
Le vicende dei Malavoglia sono state quasi sempre tragiche, ma la loro conclusione torna, paradossalmente, al principio, come se il tempo girasse all’indietro: Alessi e Nunziata hanno ricostituito una nuova famiglia con Mena e con i loro bambini, abitano di nuovo nella casa del nespolo, nella quale niente sembra cambiato e in cui sembra rivivere anche la presenza dei morti, come riconosce lo stesso ’Ntoni («Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello; qui c'erano le chioccie, e qui dormivano le ragazze [...]»). Nella misura in cui è possibile agli uomini, Alessi ha riportato la storia dei Malavoglia nel luogo e nel tempo che, per così dire, le sono propri: la casa del nespolo e il tempo ciclico, che scorre ritmato dalla vita in famiglia e dal lavoro, da usanze e riti che passano di generazione in generazione. Da questo punto di vista, Alessi è il contrario di ’Ntoni, che invece ha dato un contributo decisivo a sconvolgere quel tempo ciclico, a introdurre nella storia della famiglia aspirazioni e comportamenti del tutto nuovi, e così facendo ne ha quasi provocato la distruzione.
La continuità con il passato sembra inoltre riconquistata anche al di fuori della casa del nespolo: nella vita del villaggio, che si svolge secondo i suoi ritmi ciclici (il risveglio, la ripresa del lavoro), ma anche nella natura e – soprattutto – nel mare (l’elemento essenziale della vita di Trezza), che è allo stesso tempo un elemento di continuità (esso brontola «la solita storia» a ’Ntoni) e un segno di identità specifico di Trezza, come se fosse un compaesano tra gli altri («anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto suo di brontolare [...] e par la voce di un amico»). Il paese in cui ’Ntoni è tornato non è più il luogo sconvolto dai mutamenti più o meno profondi che il lettore ha conosciuto seguendo la rovina dei Malavoglia, ma è di nuovo il mondo chiuso, arcaico, ciclico dell’inizio del romanzo, è di nuovo ‘la casa’ per tutti, anche per ’Ntoni: «Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c'è apposta il letto per te», gli dice Alessi.
La condanna di ‘Ntoni
Ma ’Ntoni non è tornato per restare. Egli ha scontato la sua condanna secondo la legge pubblica (il contrabbando e il ferimento di don Michele), ma si è condannato da solo a una pena dettata da una legge non scritta, per lui ben più importante. Egli si condanna all’espulsione dal villaggio, perché ne ha violato i valori: ha voluto uscirne per cercare fortuna, per diventare ricco, ma vi è tornato più povero di prima; ha contribuito con le sue colpe (che ora riconosce come tali) a disonorare se stesso e la sua famiglia. Non può più tornare nella casa dove c’è il letto che sua madre inzuppava di lacrime quando cercava disperatamente di persuaderlo a non andare via. Così, con una sorta di contrapasso dantesco, ’Ntoni trasforma in una pena perpetua la sua stessa scelta, che ora riconosce colpevole: ora che capisce di avere peccato contro il proprio mondo e i suoi valori – quelli di suo nonno, di sua madre, di Mena e di Alessi (vivere e morire al proprio paese, lavorando come i propri padri) – proprio ora che li condivide , non tornerà mai più in quel mondo.
’Ntoni stesso, nel formulare la condanna che egli si è inflitto, la giustifica con dei termini vaghi e suggestivi, che non fanno esplicito riferimento a fatti e motivi specifici, ma a una sorta di legge superiore: «ora che so ogni cosa devo andarmene», come a dire che l’esilio è la pena da scontare per aver conosciuto quel che non si doveva conoscere. Nel ricordare una scena («Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera...») che abbiamo riportato parzialmente (testo 3), ’Ntoni oppone due realtà incompatibili: da un lato il passato e la vita della comunità, delle famiglie che si ritrovano, durante alcuni lavori, a discutere fra loro come se tutto il paese fosse una sola famiglia, e una condizione di ignoranza collettiva, da lui stesso rifiutata («Anch'io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci»); dall’altro il presente e la conoscenza («Ora che so ogni cosa»), che è solo di ’Ntoni, e che lo isola per sempre dalla sua comunità originaria, come se la volontà di uscire dall’ignoranza del mondo esterno fosse il peccato più grave.
«Ora che so ogni cosa devo andarmene»: il prezzo della conoscenza
La sua figura e il suo gesto si caricano così di significati simbolici che vanno al di là della sua singola vita. Verga sembra ripetere per lui l’antichissima condanna biblica di Adamo ed Eva scacciati dal paradiso terrestre: il prezzo da pagare per la conoscenza è l’esilio perpetuo dal paradiso.’Ntoni ha voluto sapere, ha voluto conoscere il mondo fuori del minuscolo villaggio in cui era nato, e per questo non potrà mai più tornarvi e non avrà più una casa. In base a questa legge, che è collettiva e indiscutibile per tutti (anche Alessi, non opponendosi più alle motivazioni di suo fratello, dimostra di ritenerle giuste), l’ambizione di conoscere il mondo e di migliorare la propria condizione, comporta la condanna all’esclusione perpetua dalla propria comunità.
Una conferma viene dalle ultime parole di 'Ntoni e del romanzo (« Ma il primo di tutti a cominciar la sua giornata è stato Rocco Spatu»), dedicate a un personaggio secondario e negativo per consenso unanime del villaggio, un fannullone, un ubriacone, un malfattore (ha partecipato all’attività di contrabbando che ha mandato ’Ntoni in galera). Eppure anche lui è incluso nel ritmo ciclico e immutabile della vita del suo paese: anche lui ha il suo ‘lavoro’ di fannullone e può «cominciar la sua giornata» come gli altri (anzi, come osserva ’Ntoni con amara ironia, è il primo). Perfino Rocco Spatu è parte di un mondo da cui ’Ntoni è escluso per sempre.
L’addio di Verga a un mondo idillico: nostalgia e idealizzazione.
L'immagine della cacciata dal paradiso terrestre per descrivere l’esilio a cui ’Ntoni si condanna è motivato da ragioni interne al testo. Come ha notato la critica (in particolare Romano Luperini), in questo finale il punto di vista di ’Ntoni sul suo paese e sulla sua vita, sono rovesciati rispetto ai capitoli precedenti. Il villaggio che ’Ntoni abbandona è infatti un mondo idealizzato: non solo non è più una prigione ingiusta e soffocante, ma non è più nemmeno il luogo lacerato dai conflitti e dagli squilibri sociali ed economici (l’indebitamento e la rovina dei Malavoglia), il luogo dove la vita è precaria anche per l’ostilità della natura (il mare che si è mangiato Bastianazzo e la barca carica di lupini). Ora Trezza è diventata, allo sguardo dell’esule, una sorta di paradiso, il nido protettivo che assicura la vita e il suo senso alla comunità che vi abita, un luogo dove tutti trovano il loro posto (anche un poco di buono come Rocco Spatu) in accordo con la natura (il mare che brontola pare a ’Ntoni la voce di un amico). ’Ntoni rinuncia a questo mondo con la consapevolezza e il dolore con cui si esce da un mondo idillico e fuori dalla storia, per andare nella vita di tutti, segnata dal dolore e dalla solitudine.
Questa idealizzazione finale del luogo natio, la nostalgia per esso insieme con l’accettazione dell’esilio, sono gli elementi che rendono la conclusione dei Malavoglia tanto simbolica dal punto di vista del significato, quanto patetica e struggente dal punto di vista del tono. Tale densità si spiega perché questa conclusione non è solo l’addio di ’Ntoni al suo paese, ma anche l’addio di Verga autore (nascosto dietro il narratore ‘anonimo’ del romanzo, al quale qui presta appunto la partecipazione commossa riservata alle vicende dei Malavoglia) al mondo di padron ’Ntoni, all’etica dei Malavoglia, che qui viene proiettata su tutta la popolazione e la vita di Trezza. Con quest’omaggio commosso Verga conclude il suo primo capitolo del ciclo romanzesco dedicato ai «Vinti», da una parte celebrando (e idealizzando) un mondo prima della storia e lontano dai complicati meccanismi storico-economici del «progresso», dall'altra dandogli anche l’ultimo addio. Il luogo estraneo e «lontano» per dove parte 'Ntoni è anche un’anticipazione di un mondo ben diverso, molto più crudele di quello dei Malavoglia, perché ben più inserito nei meccanismi della storia e dell’economia e fatto di di eroi solitari. Proprio come ’Ntoni alla fine del romanzo, e come Mastro-don Gesualdo, protagonista del romanzo successivo.
Esercizi
Per approfondire
Per scrivere
Verso l’esame
Il punto sull’opera.
Tra romanzo verista e romance
Una felice contraddizione
[Romanzo verista e romanzo lirico]Il fascino e la riuscita dei Malavoglia nascono in gran parte da una contraddizione profonda che, almeno in questo caso, è stata felicissima, perché ha avuto un risultato straordinario. Con una formula semplificatrice, potremmo definirla come contraddizione tra romanzo verista e romanzo lirico: da una parte la decisione di ricostruire e analizzare ‘oggettivamente’, da un punto di vista neutro e ‘scientifico’, una vicenda tragica di personaggi umili; dall’altra parte, la ‘messa in scena’ di questa vicenda che, attraverso le sue tecniche e la presenza nascosta eppure riconoscibile dell’autore, guida il lettore a simpatizzare con i personaggi protagonisti, a comprenderli, ad averne pietà anche quando cadono per loro colpa, tanto più quando cadono nella rovina malgrado la loro onestà o la loro grandezza d’animo.
La prefazione al romanzo: tra «studio sincero e spassionato» e scelta dei «Vinti»
[Un romanzo oggettivo e imparziale]La prefazione ai Malavoglia insiste fin dall’inizio sull’atteggiamento imparziale, neutrale, del narratore e sul carattere ‘oggettivo’ di questo romanzo, presentandolo come «studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosia dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe stare meglio». Verga promette una sorta di indagine oggettiva e imparziale («spassionata») sul meccanismo insieme psicologico ed economico già enunciato in Fantasticheria: la ricerca del miglioramento delle proprie condizioni economiche, l’attrazione per il mondo ignoto in cui si può cercare tale miglioramento, e le catastrofi che tale ricerca può provocare. Di nuovo, come in Fantasticheria, viene esplicitato il valore esemplare di una storia umile come questa; essa dimostra, e con una semplicità che la rende tanto più degna di attenzione, il meccanismo fondamentale che è il nucleo della storia umana, cioè il progresso come lotta per soddisfare l’aspirazione al miglioramento, in tutte le sue forme: «Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione».
[Le basi positiviste]Come si vede già dai termini usati – studio, meccanismo, osservarsi – sembra di leggere la prefazione non certo di una narrazione inventata, ma di un saggio di economia o di sociologia, poiché gli obiettivi e gli scrupoli dichiarati dall’autore sono quelli di uno ‘scienziato’ della società: insomma, queste righe promettono uno studio della società contemporanea alla ricerca dei meccanismi essenziali del suo funzionamento. Sono evidenti, in tale scelta, i fondamenti positivisti della cultura di Verga: la concezione della storia come progresso, cioè come lotta per l’esistenza (applicazione dalle scienze della natura alla storia umana delle recentissime scoperte di Darwin, fondatore della teoria dell’evoluzione), la fiducia nella capacità da parte della scienza di conoscere e spiegare il mondo fisico e anche il mondo umano, la concezione della letteratura come strumento di indagine della società.
[La scelta dei vinti]E tuttavia, già in questa prefazione si può ritrovare un punto di vista ben diverso da parte dell’autore, nato da una scelta che avrà conseguenze decisive: la scelta di rappresentare, per studiare i suddetti meccanismi psicologici ed economici, non i vincitori nella lotta per l’esistenza e per il proprio benessere, ma gli sconfitti: I vinti, infatti, è il titolo del ciclo romanzesco annunciato da Verga in questa prefazione (e di nuovo è evidente l’influsso di Zola, con il suo grande ciclo romanzesco I Rougon-Macquart, cominciato dieci anni prima, nel 1871), e del quale I Malavoglia sono il primo volume. I protagonisti di questo ciclo annunciato hanno una caratteristica essenziale in comune: sono tutti dei «deboli che restano per via» nel cammino inarrestabile del progresso umano, dei «vinti che la corrente [la «fiumana del progresso»] ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati». Insomma, Verga dichiara di voler contribuire allo studio della società umana e dei meccanismi fondamentali che ne determinano il funzionamento, ma sceglie di rappresentarli assumendo il punto di vista delle vittime.
[Una visione pessimista]Questa scelta non è affatto imparziale, perché esprime una concezione non certo celebrativa del progresso: sebbene Verga non discuta «il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso» (come ha scritto poco prima), i suoi romanzi ne illumineranno i lati più tragici , ricostruendo la vita dei suoi sconfitti. E tuttavia, ribadisce la prefazione, «chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo», e quindi tale ricostruzione sarà oggettiva. Ma perché la scelta di osservare il funzionamento del progresso umano attraverso i vinti? È possibile ‘studiare’ da un punto di vista neutrale le vicende tragiche dei vinti? Come abbiamo visto, già le prime pagine contraddicono l’immagine del romanzo come «studio sincero e spassionato» promesso dalla sua prefazione.
Un romanzo verista: il contenuto storico-sociale.
[La vicenda esemplare dei Malavoglia]La vicenda dei Malavoglia, come annuncia la prefazione, è storicamente esemplare: la rovina di una famiglia causata dall’ambizione del miglioramento economico. L’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe stare meglio» (nei termini della prefazione), è la base del comportamento del giovane ’Ntoni, ed è anche un elemento decisivo della trama, poiché il futuro capofamiglia (dopo la morte di suo padre Bastianazzo), invece di raccogliere l’eredità ideale di padron ’Ntoni tenta in tutti i modi che conosce, quelli legali come quelli illegali, di «cambiare stato», di elevare se stesso e la sua famiglia a una condizione materiale impensabile per le generazioni precedenti. Ma tali tentativi si riveleranno tutti fallimentari, e l’ambizione di ’Ntoni provocherà il risultato opposto di far precipitare la famiglia nel declassamento socio-economico (nella gerarchia sociale del villaggio) e di ‘disonorarla’. Del resto un altro tentativo di modificare la propria situazione era stato l'altrettanto rovinoso«affare dei lupini», non voluto da padron ’Ntoni ma imposto dalle circostanze (la partenza del nipote per il servizio militare): dal debito contratto per il carico di lupini perduto sarebbe infatti nata la prima crisi economica della famiglia.
[Uno spaccato storico-sociale]La vicenda dei Malavoglia è storicamente esemplare anche da un altro punto di vista, più locale, ma non meno importante per Verga, cioè come spaccato storico-sociale delle condizioni di vita delle classi povere di una delle regioni più arretrate dell’Italia unita. La trama, quindi, viene influenzata in misura altrettanto decisiva dalle difficoltà e dalle disgrazie che colpiscono i Malavoglia senza loro colpa: i rischi del mestiere di poveri pescatori («il mare è amaro, e il marinaio muore in mare», recita un proverbio di padron ’Ntoni, che qui si avvererà nella morte di Bastianazzo), la fragilità della vita economica del villaggio strozzata dall’usura (il debito con lo zio Crocifisso, l’usuraio del paese, divorerà la modesta ricchezza immobile della famiglia, la casa e la barca), ma anche l’interferenza della ‘grande storia’ nazionale, sia sotto forma di legge (la leva militare, le tasse, la condanna di ’Ntoni per la coltellata a don Michele), sia sotto forma di eventi storici incomprensibili dal punto di vista del mondo di Aci Trezza (la morte di Luca nella battaglia di Lissa).
[Un romanzo storico contemporaneo] I Malavoglia sono infine , nell’intenzione di Verga, anche un romanzo storico contemporaneo (sulla storia dell’Italia unita nel suo primo ventennio circa), sia pure in forma molto originale, perché fornisce una rappresentazione da lontano, e quindi straniata, di quella storia: Verga sceglie di non ricordare i fatti ‘pubblici’(con pochissime eccezioni: la battaglia di Lissa, l’epidemia di colera in cui muore Maruzza), ma di descrivere in maniera indiretta l’impatto dei grandi avvenimenti sulla società elementare e arcaica di un piccolo villaggio di pescatori.
Un romanzo verista: l’originalità della tecnica narrativa
[L’originalità della tecnica narrativa]Sul piano della forma, l’esigenza di una ricostruzione ‘oggettiva’ dei fatti si manifesta in una tecnica narrativa che fa dei Malavoglia allo stesso tempo un romanzo esemplarmente verista e un capolavoro senza paragoni nella letteratura italiana. Tale originalità formale si può cogliere almeno in tre elementi della forma e della tecnica narrativa: l’identità del narratore, i procedimenti della narrazione, la lingua del racconto. Ripercorriamo schematicamente (rinviando ai passi commentati per approfondimenti) questi tre punti.
[La ‘soggettivizzazione’ del racconto] Verga inventa insomma una raffinatissima tecnica di ‘soggettivizzazione’ del racconto, che restituisce l’orizzonte mentale e il linguaggio dei personaggi, per ottenere una narrazione ‘oggettiva’, capace di ricostruire quel mondo attraverso il suo stesso punto di vista.
Un’altra prospettiva: il punto di vista di padron ’Ntoni
[La trama del romanzo vista da padron ’Ntoni]Gli elementi esaminati fino ad ora si possono rubricare complessivamente sotto la definizione di ‘tecniche dell’oggettività’ (cioè fedeltà della ricostruzione storica, sociale e si direbbe ambientale del mondo narrato, anche attraverso i procedimenti linguistici) e costituiscono per così dire l’anima verista dei Malavoglia. Ma gli stessi elementi già osservati – la trama, i procedimenti narrativi, il linguaggio – si possono considerare a partire da un’altra prospettiva, altrettanto legittima. Dal punto di vista di padron ’Ntoni, la trama del romanzo è una catastrofe incomprensibile, o per meglio dire profondamente ingiusta, poiché egli non ha fatto nulla per far precipitare la sua famiglia nella rovina. Il suo unico gesto di compromissione con le leggi di un’economia esterna all'attività tradizionale (la pesca), cioè «l’affare dei lupini» (e quindi il prestito contratto con zio Crocifisso che finirà con lo schiacciare anche i Malavoglia sotto la morsa dell’usura), non è stato infatti volontario, ma imposto dalle circostanze (la partenza di ’Ntoni per il servizio militare, la necessità di procurare la dote per il matrimonio di Mena).
[Il comportamento dei personaggi in base alle leggi ‘oggettive’]L’etica e il comportamento di padron ’Ntoni, se valutati sulla base delle coordinate storico-sociali, ‘naturalistiche’ della prefazione al romanzo (le leggi inevitabili del progresso e della lotta per l’esistenza), incarnano una visione conservatrice del mondo, votata in partenza al fallimento; viceversa, suo nipote rappresenterebbe il principio dinamico della storia, l’inevitabile aspirazione al cambiamento in meglio (e, sempre giudicando in base alle leggi storiche enunciate nella prefazione, il giovane ’Ntoni non può certo ritenersi colpevole di finire come un «vinto» nella sua personale e microscopica partecipazione alla lotta collettiva da cui nasce il progresso).
[Il ribaltamento del giudizio]Tuttavia nel corso della trama questa classificazione si rovescia: padron ’Ntoni è l’eroe protagonista del romanzo, il miglior rappresentante dei valori autentici, perseguiti e difesi fino alla fine (fino al sacrificio di se stesso, che decide di morire lontano da casa per non essere di peso ai nipoti rimasti), e la sua famiglia è quasi sempre degna di lui, perché la tenacia con cui il nonno difende quei valori e cerca di mantenere o restituire la situazione familiare, è stata da lui trasmessa ai figli e ai nipoti. Allora sarà ’Ntoni il colpevole, per il fatto di aver trasgredito le leggi immutabili del mondo dei Malavoglia, di aver voluto provocare il cambiamento sociale della famiglia in termini inconcepibili per suo nonno. Da tale prospettiva la catastrofe di tutta la famiglia trova una spiegazione proprio nella colpa del nipote più anziano, che avrebbe dovuto raccogliere l’eredità di suo nonno (così come ne ha ereditato il nome). Per quanto questo nesso tra colpa e punizione, cioè tra l’azione individuale di ’Ntoni e la rovina di tutta la sua famiglia, sia razionalmente insostenibile, è lo stesso ’Ntoni a riconoscere la validità di tale spiegazione alla fine del romanzo, quando si condanna da solo all’esilio perpetuo dal suo paese e dalla sua famiglia, dando ragione per l’ultima volta al nonno ormai morto.
Un romance simbolico
[Il significato esemplare della vicenda dei Malavoglia]In questa prospettiva, la vicenda dei Malavoglia assume un valore simbolico (non più storico): potrebbe riassumersi, in poche parole, come la lotta dei valori autentici, impersonati dai Malavoglia, contro logiche contrarie, quella dell’egoismo e del profitto presenti anche nella comunità arcaica di Trezza, e contro la dimensione indifferente anzi ostile delle tendenze storiche ed economiche che dall’esterno distruggono il mondo chiuso e tradizionale della famiglia. In tale vicenda gli eroi indiscussi, i portatori dei valori autentici, sono sconfitti, e tuttavia rimangono i personaggi positivi della vicenda, la loro sconfitta anzi li illumina di una luce ancora più positiva, a cominciare dalla vita esemplare di padron ’Ntoni. Ma il finale, se da una parte segna la definitiva sconfitta di ’Ntoni, suggella anche la speranza, o meglio la certezza, che i valori in cui credono i Malavoglia non sono morti con padron ’Ntoni, ma sono rinati con i superstiti Alessi (con sua moglie) e Mena, che hanno rifondato la famiglia nella casa del nespolo. Il principio della permanenza, della circolarità della vita che si trasmette di generazione in generazione, finisce col trionfare: malgrado la morte, lo spirito e la volontà di padron ’Ntoni hanno vinto.
[La componente ‘romanzesca’]Non è facile definire questa prospettiva simbolica che si intreccia a quella naturalistico-veristica, una prospettiva grazie alla quale i protagonisti posseggono e mantengono fino alla fine una superiorità morale sugli altri personaggi, una sorta di privilegio che li rende eroici e ammirevoli sempre, anche nella sconfitta. In mancanza di termini che ci sembrino più adeguati, ricorriamo al termine di romance, per definire un tipo di narrazione opposta al romanzo realista ottocentesco e tanto più al romanzo naturalista e verista (sul romance cfr. cap. xxx e xxx). Possiamo infatti definire come ‘romanzeschi’ alcuni dei caratteri individuati finora: la distinzione tra buoni e cattivi, l’esemplarità morale della storia, l’adesione emotiva al mondo dei protagonisti. Naturalmente questa definizione va presa per quello che è, un’etichetta di comodo e non una definizione storica: non esiste una tradizione italiana del romance, e quindi non si può ipotizzare un modello a cui Verga si sia ispirato. I Malavoglia sono certamente un romanzo tipicamente verista (rappresentazione oggettiva e imparziale di uno spaccato sociale e di una dinamica storica), ma sono anche tutt’altro: non uno studio sociologico degli sconfitti dalle leggi del progresso, ma il romance della felicità, della rovina e della rinascita di una famiglia portatrice del bene contro l’ostilità dell’egoismo individuale e la crudeltà della storia.
I caratteri del romance verghiano: una narrazione soggettiva, simbolica e lirica
[Il privilegio narrativo dei Malavoglia]Il riconoscimento di una componente ‘romanzesca’ nella trama dei Malavoglia trova un solido fondamento nella nelle forma narrativa, che si può definire soggettiva, simbolica e lirica. La narrazione è infatti orientata costantemente sui Malavoglia, li descrive come personaggi positivi, mira esplicitamente a suscitare la simpatia e la solidarietà dei lettori: basta pensare, ad es., alla presentazione iniziale di padron ’Ntoni, o alla rievocazione della sua morte (uno tra i passi più commoventi del romanzo). Nonostante la pluralità di voci e di punti di vista attraverso cui procede la narrazione, è possibile individuare una costante – a volte esplicita, a volte nascosta, a volte espressa per contrasto: l’adesione emotiva (anche se non razionale) all’universo di valori rappresentato dai Malavoglia. Il narratore è decisamente ‘parziale’ nei confronti dei personaggi positivi, anche quando questi sono sconfitti e (dal punto di vista della concezione della storia) già condannati in partenza, perché appartenenti a un mondo arcaico ed elementare (le classi povere della Sicilia rurale) che il progresso, e la nuova situazione storica modificheranno in maniera irreversibile
[Una narrazione simbolica]Un analogo procedimento di presentazione non imparziale, ma soggettiva, si riscontra anche nella descrizione del mondo esterno: si pensi ad es. al mare intorno a Trezza (che spesso è personalizzato, e «pare la voce di un amico», come viene detto nelle ultime pagine), ma anche alla casa del nespolo dove vivono i Malavoglia (esemplare sintesi di natura e architettura, cioè elementi artificiali), e in generale l’idealizzazione di tutto il villaggio e della natura circostante nel finale del romanzo, quando Trezza diventa una sorta di paradiso da cui ’Ntoni si separa per sempre. Gli elementi del paesaggio naturale e artificiale intorno ai Malavoglia diventano in un certo senso dei personaggi anch’essi, che partecipano in modo non imparziale alle vicende dei Malavoglia: acquisiscono il significato e il valore di simboli. Basti pensare alla casa del nespolo: non un edificio tra gli altri, ma dichiarato emblema della coesione e della continuità familiare.
[I caratteri lirici della narrazione]Infine, dal punto di vista specificamente linguistico la narrazione nei Malavoglia può anche definirsi lirica, cioè caratterizzata da uno stile poetico, tutt’altro che asciutto e ‘oggettivo’, in particolare quando oggetto della narrazione sono i Malavoglia. Ancora una volta, su un procedimento oggettivo molto originale, cioè la creazione di un italiano inclassificabile che conserva la sintassi e l’andamento del dialetto, si innesta un altro procedimento, altrettanto originale, ma del tutto opposto, cioè uno stile anch’esso inclassificabile ma definibile lirico, attraversato cioè da procedimenti retorici tipici del linguaggio poetico (ad es. ripetizioni verbali, inserzioni di proverbi o espressioni proverbiali o locuzioni dialettali quasi in funzione di ritornello, similitudini).
Un verismo lirico e simbolico: bellezza e originalità dei Malavoglia.
[Le due anime del romanzo]Abbiamo presentato I Malavoglia da due prospettive opposte e tuttavia compresenti, e abbiamo sostenuto che entrambe sono legittime; ma come risolvere tale contraddizione tra due identità letterarie e ideologiche opposte, tra una visione positivistica e ‘oggettiva’ della società e della storia (visione che si riflette nelle ‘tecniche dell’oggettività’, specifiche della narrativa naturalistica o veristica) e una identificazione ideologica e sentimentale con i Malavoglia e i loro valori? In effetti Verga considera la vicenda dei Malavoglia, e la dinamica storica di cui essa è esemplare, da due punti di vista opposti: il primo è quello positivista, cioè l’accettazione delle leggi della storia e del progresso, e di conseguenza la rappresentazione ‘oggettiva’ e imparziale di tali leggi e di tali dinamiche storiche; il secondo è invece un giudizio negativo su tali leggi e tali dinamiche storiche, che distruggono il mondo arcaico e povero, ma moralmente positivo ed eroico dei Malavoglia. Il progresso è visto solo nelle sue ricadute negative: è veramente una fiumana inarrestabile che travolge e distrugge tutto ciò che incontra, che paga il benessere di pochi con la miseria e i tormenti dei più. Il pessimismo storico produce l’ammirazione per quel mondo arcaico destinato alla sconfitta, e l’idealizzazione di tale mondo, la nostalgia per una società povera ma fuori dalla storia, per un’etica centrata sulla «religione della famiglia», sulla lealtà e sulla tenacia, estranea all’egoismo e alla mancanza di scrupoli che sono indispensabili ai vincitori nella lotta per l’esistenza. Il riconoscimento della necessità storica (il trionfo della logica del profitto su ogni altro ideale – amore, lealtà, legami familiari) non vale a cancellarne il prezzo.
Trezza: l’attuale Aci Trezza, allora un villaggio di pescatori a pochi chilometri a nord di Catania.
Ognina... Aci Castello: rispettivamente un borgo a pochi chilometri da Catania (oggi un quartiere della città) e un villaggio tra Catania e Aci Trezza.
gente di mare: ‘pescatori’ (locuzione siciliana).
nomignolo: ‘soprannome’, che, secondo l’uso siciliano, indica un difetto (in questo caso ‘gli svogliati’) opposto alla qualità della persona.
libro della parrocchia: registro parrocchiale (che conteneva la registrazione di nascite, matrimoni e funerali).
avevano... al sole: ‘erano sempre stati dei possidenti, dei proprietari di barche e case’.
’Ntoni: Antonio (forma popolare).
Provvidenza: nome della barca dei Malavoglia (come più avanti la Concetta è quella di “zio Cola”).
ammarrata sul greto: ‘ormeggiata a riva’.
zio Cola: ‘zio Nicola’, ma zio è un titolo generico di rispetto con cui ci si rivolge a persone del popolo anziane.
paranza: ‘barca da pesca’.
menare: ‘tirare’.
dito grosso: ‘pollice’.
comandava... quarant’ore: ‘era il capo indiscusso della famiglia’ (espressione proverbiale); le quarant’ore: l’esposizione e l’adorazione in chiesa del Santissimo Sacramento per quaranta ore di séguito.
Bastianazzo: Bastiano, con il suffisso accrescitivo siciliano –azzu.
pescheria della città: il mercato del pesce di Catania.
filava dritto: ‘obbediva senza discutere’.
s’era... moglie: ‘aveva sposato’ (tolta in: ‘presa per’).
la Longa: altro soprannome che equivale, per antifrasi (cioè perché esprime il contrario della sua qualità fisica più rilevante) a ‘la piccola’.
bighellone: ‘fannullone’.
scappellotto: ‘schiaffo’.
Sant’Agata: patrona di Catania e protettrice delle tessitrici.
donna... gennaio: ‘la donna che sta in casa a lavorare al telaio, la gallina allevata in pollaio e la triglia pescata di gennaio sono le migliori’ (proverbio siciliano).
ancora... pesce: ‘non più una bambina e non ancora una donna’.
motti: ‘detti brevi arguti o piacevoli, proverbi’ (termine siciliano).
antichi: ‘i vecchi, i saggi’.
Per... sagrestano: ‘per saper comandare bisogna imparare ad ubbidire’.
birbante: ‘farabutto’.
sentenze giudiziose: ‘espressioni proverbiali piene di saggezza’.
testa quadra: ‘persona di buon senso, saggia’.
don... segretario: il segretario comunale di Trezza (don: titolo di rispetto premesso ai nobili e in genere agli uomini di classe o di condizione economica superiori).
codino marcio: ‘un monarchico, un reazionario’ (codino: dall’acconciatura dei sostenitori del re durante la Rivoluzione francese).
i Borboni: la dinastia dei sovrani che regnava in Sicilia e nel Sud peninsulare (Regno delle Due Sicilie) prima dell’Unità d’Italia.
Franceschiello: nome popolare per Francesco II, l’ultimo re dei Borboni, cacciato da Garibaldi nel 1860.
onde: ‘allo scopo di’.
Chi... casa: ‘chi ha sulle proprie spalle il governo di una casa’.
Chi... conto: ‘chi è al potere deve rendere conto delle sue azioni’.
leva di mare: ‘servizio militare obbligatorio in marina’.
Possono aiutarci: allusione alla pratica, diffusissima nel Meridione, di affidarsi al favoritismo e alla protezione dei potenti per ottenere aiuto o assistenza.
il vicario: ‘il sacerdote sostituto del parroco’, la massima autorità religiosa del villaggio.
di quella...campanile: ‘di quella rivoluzione diabolica che avevano scatenato sventolando dal campanile il fazzoletto con i colori della bandiera italiana’: era il giudizio più diffuso tra le gerarchie ecclesiastiche sul compimento dell’Unità d’Italia.
speziale: ‘farmacista’; all’opposto di don Giammaria, egli è un repubblicano.
pale: ‘rami larghi e piatti’ (caratteristici dei fichi d’India).
mentre... quartiere: ‘mentre i soldati di leva appena arruolati erano portati in caserma’.
abitino della Madonna: una striscia di panno che pende sul petto e sulle spalle, con l’immagine e il nome di Maria; nella devozione popolare, doveva proteggere chi lo portava.
gruppo: ‘groppo, nodo’.
disarmare: togliere dalla barca gli attrezzi per la pesca.
salamoia: preparazione concentrata di sale nella quale viene conservato il cibo (in questo caso delle acciughe).
in crocchio: ‘formando un gruppetto’.
contare: ‘raccontare’.
lo scolare della salamoia: le donne stanno sostituendo la salamoia vecchia con quella nuova
dice: ‘dicono’.
scialarsi: ‘spassarsela’.
la Madonna dell’Ognina: una statua della Madonna venerata nel borgo (in quel tempo) di Ognina, a pochi chilometri a nord di Catania.
Lascia stare!: ’Ntoni ha appena espresso il desiderio di lasciare Trezza in cerca di fortuna.
pei: ‘per i’.
Né testa... ventura: ‘la condizione migliore è non essere né primo né ultimo’ (proverbio siciliano).
spatriare: ‘espatriare, emigrare’.
conchiuse: ‘concluse’.
panico: pianta dal seme giallo, usata come cibo per gli uccelli.
compare Mosca: Alfio Mosca, il carrettiere che (prima del dissesto economico dei Malavoglia) aveva dichiarato a Mena la sua intenzione di sposarla e poi, quando aveva saputo che la ragazza era stata promessa a un altro, aveva lasciato il paese.
basto: sella che si applica sulla schiena di un animale da soma per collocarvi il carico.
che lo bardassero: ‘che lo caricassero’.
ei: ‘egli’.
cappelletta: l’altarino posto sulla facciata della casa.
all’anno: ‘in poco tempo’.
un po’... scarse: ‘se anche per un po’ di tempo i guadagni di un anno saranno scarsi’.
stato: ‘condizione sociale’.
ruminando: ‘ripetendo e borbottando, come per digerirle’.
dimenava tristamente: ‘scuoteva con tristezza’.
colà: ‘là’.
mulo da bindolo: il mulo legato al bindolo, una macchina che (azionata dal mulo stesso) permette di attingere l’acqua da un pozzo.
cantuccio: ‘spazio stretto, un angolo di stanza’-.
era: ‘ero’ (come più avanti aveva: ‘avevo’).
Luca: il fratello più giovane di ’Ntoni, che ha accettato di sostituirlo nel servizio militare dopo la morte del padre ed è morto a sua volta nella battaglia di Lissa (1866).
menare: ‘muovere’.
andar gironi: ‘andare in giro’.
messo a sesto: ‘messo a posto, messo in ordine’.
colà: ‘là’.
sporta: ‘sacca’ (il fagotto con la roba di ’Ntoni uscito di galera).
cantuccio: ‘angolo’.
Ei: ‘egli’.
fino: ‘perfino’.
ché: ‘perché’.
serrato: ‘stretto’ (dal dolore).
dacché: ‘da quando’.
Per altro: ‘del resto’.
buscarmi: ‘guadagnarmi’.
risolversi: ‘decidersi’.
onde: ‘per’.
gli era... l’animo: ‘aveva avuto il coraggio di’.
nei guai: ‘in galera’ (locuzione dialettale).
quell’altra: Lia, che è finita a Catania a fare la prostituta.
la Mangiacarrube: la figlia di compare Mangiacarrubbe, che ha sposato Brasi Cipolla, figlio del ricco padron Fortunato Cipolla.
quistionare: ‘litigare’.
fariglioni: ‘scogli che affiorano dal mare davanti a scogliere alte’.
Massaro Filippo: il commerciante di vino del paese.
i Tre Re: le tre stelle centrali della costellazione di Orione.
la Puddara: la costellazione delle Pleiadi (letteralmente ‘la gallinella’, in dialetto siciliano)
Pizzuto: Vanni Pizzuto, il barbiere del villaggio.
Rocco Spatu: il fannullone del paese (che era stato anche contrabbandiere insieme a ’Ntoni).
lo zio Santoro: padre di Santuzza (l’ostessa del paese), mendicante davanti all’osteria.
Fonte: http://www.matteotti.it/NS/docs/dispense/verga.rtf
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