Dispensa diritto commerciale

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Dispensa diritto commerciale

diritto commerciale

 

L’evoluzione storica del diritto commerciale

L’attività commerciale ha sempre avuto nel corso dei secoli una disciplina particolare nonostante non abbia mai costituito una branca del diritto completamente autonoma rispetto al diritto civile.

La società romana non conobbe un sistema unitario del diritto commerciale e lo “jus civile” non pose le regole riguardanti la produzione manifatturiera e gli scambi commerciali, considerati attività inferiori persino presso le classi plebee. Il commercio in senso stretto aveva infatti, in Roma, carattere tipicamente esterno. Le origini del diritto commerciale vanno ricercate nell’età comunale grazie al rigoglioso sviluppo del commercio e alla nascita delle corporazioni di arti e mestieri. Successivamente l’affermarsi dei traffici marittimi sulle grandi tratte oceaniche determinò la nascita dei titoli documentali di credito per agevolare i pagamenti su piazze lontane. Con la Rivoluzione Francese del 1789 le corporazioni vennero travolte perché contrarie ai principi liberali: il diritto commerciale perse il suo carattere di specialità soggettiva e si passò a considerare commerciale ogni singolo atto che interessasse da vicino il commercio. Si aprì così la strada alle grandi codificazioni dove il diritto commerciale era ormai oggettivizzato: nel codice di commercio napoleonico del 1808, l’atto di commercio, da chiunque compiuto, divenne l’unico criterio di applicabilità della disciplina commercialistica.

Il primo codice italiano di commercio venne pubblicato il 25 giugno 1865 e ricalcava largamente i principi del codice francese, già introdotto in Italia con le guerre napoleoniche. Il diritto commerciale si affermò come un sistema di norme autonomo rispetto al diritto civile, prevalente su di esso per il criterio della specialità e caratterizzato dall’esistenza di principi generali propri dei rapporti commerciali.

Con il codice civile del 1942 venne deciso di unificare il codice civile e il codice di commercio, per unificare il diritto delle obbligazioni, partendo da una considerazione unitaria di ogni attività economica facente capo alla figura generale dell’imprenditore commerciale.

Le fonti del diritto commerciale

Nell’ambito delle fonti legali, due sono, accanto alla Costituzione e accanto al codice civile, le species cui occorre assegnare una posizione di preminenza:

  • la legislazione speciale, che in alcuni settori del diritto commerciale ha profondamente innovato rispetto alla disciplina del codice civile, provocando mutazioni radicali;
  • la legislazione comunitaria, la quale soprattutto nel settore societario ha modernizzato la preesistente disciplina.

Una seconda categoria di fonti è quella degli usi, prevista al numero 4 dell’art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile. Gli usi di cui parliamo e che possiamo continuare a chiamare commerciali, sono normalmente relativi ad aspetti contrattuali non disciplinati da norme scritte o fatti salvi da esse. Comunque non sono da escludersi gli usi c.d. legali perché frutto di prassi consuetudinarie, né le pratiche generali interpretative previste dall’art. 1368 c.c.. Uno degli argomenti principali per negare la specificità del diritto commerciale dopo l’unificazione dei codici è stato sempre quello della scomparsa di una norma come quella contenuta nel nell’art. 1 del codice di commercio del 1882, che nell’ordine delle fonti anteponeva gli usi mercantili al diritto civile. Non v’è dubbio che il netto ridimensionamento degli usi normativi (commerciali) nella unificazione del 1942 è stato accompagnato da una sostanziale dilatazione della portata e della rilevanza degli usi negoziali, tra i quali naturalmente occupano una posizione dominante le clausole d’uso di natura commerciale. Occorre inoltre aggiungere che:

  • sono frequenti casi in cui convenzioni internazionali o direttive comunitarie indicano le norme usuarie come fonti primarie cui l’imprenditore deve far capo;
  • non va sottovalutata la funzione che gli usi svolgono verso la tipizzazione di molti dei nuovi rapporti commerciali;
  • per molti comparti ed in particolare per quello dei contratti che possono considerarsi come contratti di impresa (leasing, factoring), esiste un corpus codificato di usi (raccolte di usi, di cui al n. 9 dell’art. 1 delle disposizioni preliminari).

Una terza categoria di fonti è costituita da quelli che denomineremo riassuntivamente codici. Questi codici possono essere i più vari e possono, innanzi tutto, essere collettivi e individuali.

l’impresa

L’imprenditore e l’impresa

Concetti generali

Nozione economica e giuridica di imprenditore commerciale

Sotto il profilo economico, l’imprenditore si presenta come colui che utilizza i fattori della produzione organizzandoli, a proprio rischio, nel processo produttivo di beni o servizi: egli è, dunque, l’intermediario tra quanti offrono capitale e lavoro e quanti domandano beni o servizi.

Da un punto di vista giuridico, la nozione di imprenditore ha subito una profonda evoluzione. Si è infatti passati da  un imprenditore inteso come speculatore sul lavoro, una figura particolare di commerciante, ad una visione completamente opposta che considera imprenditore e commerciante in un rapporto da genere a specie: il commerciante è quell’imprenditore la cui attività consiste nello scambio di beni.

Per l'art 2082 del cod. civ. è imprenditore "colui che esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi". Da tale definizione si evincono i caratteri che qualificano l’attività imprenditoriale:

  • l’attività economica, in quanto per creare nuova ricchezza, espone al rischio di perdere la ricchezza utilizzata;
  • l’organizzazione, che prescinde tuttavia dall’impiego o meno di collaboratori o di un complesso di beni materialmente percepibile come invece si pensava in passato;
  • la professionalità, risultante da un’attività costante e sistematica, non solo occasionale;
  • il fine della produzione o scambio di beni o servizi;
  • lo scopo di lucro, che tuttavia la dottrina dominante ritiene solo requisito naturale e non necessario;
  • la spendita del nome, requisito necessario in quanto determina l’assun-zione del rischio imprenditoriale;

Ai sensi dell’art. 2238, i liberi professionisti e gli artisti non sono mai – in quanto tali – imprenditori: essi lo diventano solo se ed in quanto la professione intellettuale sia esercitata nell’ambito di un’altra attività di per se qualificata come impresa. Il motivo di tale esclusione è da ricercare nel fatto che tali soggetti non assumono, nell’esercizio delle proprie attività, quel rischio del lavoro che caratterizza la figura di imprenditore: si parla per essi di una “obbligazione di mezzi” e non di una “obbligazione di risultati”. Quindi il professionista ha diritto al compenso per il solo fatto di aver prestato la propria opera ed a prescindere dal risultato di essa, il cui rischio, pertanto, grava sull’altra parte del rapporto obbligatorio.

Lo “status” di imprenditore e la nozione di impresa nel codice civile

La qualifica di imprenditore comporta per il soggetto uno speciale regime giuridico (status di imprenditore). Questi infatti:

  • ha la direzione dell’impresa;
  • ha l’obbligo di tutelare le condizioni di lavoro dei propri dipendenti;
  • è sottoposto ad un regime di particolare rigore pubblicistico.

Quanto all’impresa, poiché il codice si limita a definire la figura dell’imprendi-tore, è la dottrina ad estrapolarne la nozione: partendo dal presupposto che l’im-prenditore è il titolare dell’impresa, questa può essere definita come l’attività economica organizzata dall’imprenditore e da lui esercitata professionalmente al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.

Principi costituzionali

Tutto il Titolo della Costituzione dedicato ai “Rapporti economici” riguarda in modo più o meno diretto l’impresa. Infatti:

  • all’art. 41 si sancisce la libertà di iniziativa economica privata e pubblica: per cui l’impresa pubblica e quella privata coesistono nel nostro sistema in condizioni giuridicamente paritarie e di concorrenza. Se da un lato si stabilisce che l’iniziativa economica è libera, dall’altro si proclama che essa non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale e in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana.
  • all’art. 43 si sancisce l’intervento pubblico nell’economia in forme sia autoritative che espropriative. Le imprese in questione debbono riferirsi a servizi pubblici essenziali, a fonti di energia, a situazioni in monopolio ed avere un preminente interesse generale. La normativa esaminata, sancendo l’intervento dello Stato nell’economia, spezza il rapporto tradizionale fra pubblico e privato e porta, come afferma Galgano, alla conversione del diritto privato in un diritto comune a pubblici e privati operatori che, nell’esercizio delle attività economiche, operano in posizione paritaria.
  • all’art. 41 comma 3 si sancisce l’indirizzo e il coordinamento a fini sociali dell’at-tività economica pubblica e privata.
  • Agli art. 45 e 46 si ha invece il riconoscimento della cooperazione mutualistica, la tutela e lo sviluppo dell’artigianato e la collaborazione dei lavoratori alla gestione dell’azienda.

In questo periodo i codici di commercio sono separati da quelli civili per poter essere più facilmente emendabili al fine di soddisfare le mutevoli esigenze dei traffici.

Ex art. 1340, le clausole d’uso si intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti.

Possono ritenersi tali alcuni tipi di regolamenti come:

  • i regolamenti di borsa o i regolamenti delle camere arbitrali;
  • le condizioni generali di affari codificate da associazioni professionali al fine di predisporre una disciplina unitaria e certa per le contrattazioni nel settore merceologico interessato;
  • i contratti normativi, che predispongono il regolamento dei futuri comportamenti dei soggetti e dei rapporti ancora da concludere;
  • i codici di lealtà e di correttezza professionale elaborati anch’essi da associazioni di operatori o da enti indipendenti senza fini di lucro.

L’abrogato codice di commercio non conteneva una definizione di imprenditore, ma all’art. 3 elencava alcune attività che erano reputate atti di commercio ed all’art. 8 definiva “commercianti” “coloro i quali esercitavano atti di commercio per professione abituale e le società commerciali”.

Il termine “attività economica” sta ad indicare una serie di atti finalizzati ad uno scopo, nel senso che ogni atto che l’imprenditore compie serve all’esercizio dell’impresa e, più in particolare, a realizzare la produzione o lo scambio di uno o più beni, di uno o più servizi determinati. Il passaggio dal sistema degli atti di commercio, previsto nel codice di commercio del 1882, al sistema dell’attività, previsto nel codice del 1942, non è esente da critiche: in primo luogo, occorre ribadire che l’attività deve potersi far risalire alla volontà del soggetto. Non a caso la dottrina si è domandata se l’attività dovesse considerarsi un fatto ovvero un atto. La seconda conseguenza rende ancora più evidente la contrapposizione tra vecchio e nuovo sistema, dove si consideri che nell’ambito di una attività perfettamente lecita l’imprenditore può compiere singoli atti illeciti e che, nell’ambito di una attività illecita l’imprenditore possa compiere una serie di atti perfettamente leciti. Il discorso sull’impresa illecita assume grande importanza. Nella disputa tra coloro i quali respingono decisamente la plausibilità di un’impresa illecita e coloro i quali l’ammettono preferendo porre l’accento sul profilo ontologico, si inseriscono quegli autori i quali preliminarmente distinguono l’ipotesi in cui illecita è l’attività come tale dall’ipotesi in cui l’illiceità riguarda solo le modalità di svolgimento di un’attività lecita. Nel primo caso la sanzione è quella della non invocabilità della disciplina dell’impresa da chi è autore e partecipe dell’illecito; nel secondo caso si tratterà di valutare di volta in volta se l’atto singolo debba o no essere colpito dalla sanzione della nullità.

Il termine “organizzata” è richiamato più volte nel codice civile come ad esempio nell’articolo 2083. Ai fini dell’organizzazione occorrono quindi: capitale, proprio o altrui, e lavoro. Secondo l’opinione prevalente, l’organizzazione serve a individuare il confine tra le attività produttive, che in quanto organizzate, assumono il carattere di impresa e quelle attività che, pur essendo destinate a produrre beni o servizi, non assumono carattere di impresa proprio perché non sono organizzate (lavoro autonomo e professioni liberali). L’organizzazione deve rivolgersi al mondo esterno, si parla a proposito di eterorganizzazione, e deve essere rivolta al mercato. Se queste sono le conclusioni della dottrina prevalente, v’è da registrare l’opinione contraria di chi ritiene che la presenza di una organizzazione intermediatrice fra quanti hanno lavoro e capitale da offrire, gli imprenditori, e quanti domandano determinati beni o servizi, i consumatori, non costituisca più carattere distintivo ed esclusivo dell’impresa. Concludendo, non potendosi ignorare una distinzione che il legislatore comunque fa, quella cioè tra imprenditore e lavoratore autonomo, si può scrivere che vi è “lavoro autonomo finché l’uso di mezzi o di strumenti materiali serve all’esplicazione dell’attività di lavoro del soggetto e non configura una produttività che ecceda quella del lavoro individuale; vi è impresa quando il livello è superato, appunto come risultato del concorso determinante e qualificante di altri fattori, quale che sia poi il rapporto tra  di essi e il rapporto tra essi e l’attività di lavoro del soggetto”.

Il termina “professionalità” sta a significare abitualità, ma non vuol dire permanenza, né esclusività, né prevalenza nell’esercizio. E mentre alla stregua di tali precisazioni, non sono imprese quelle occasionali, come ad esempio la costruzione di un edificio per abitazioni civili da parte del libero professionista che dispone di eccedenze liquide, lo sono quelle stagionali, come ad esempio gli stabilimenti balneari e, quando la lavorazione seguiva i ritmi naturali della fruttificazione, le imprese di trasformazione dei prodotti agricoli. Altro problema è quello dell’accertamento della professionalità relativamente al momento della nascita e della cessazione dell’impresa, da un lato, e, dall’altro, in funzione dell’attività professionalmente esercitata da una attività occasionalmente esercitata e quindi l’impresa occasionale. Occorre subito affermare che per aversi impresa occasionale non è sufficiente il compimento di un singolo atto o di un singolo affare, perché anche tale tipo di imprese necessità il più delle volte di una reiterazione di atti per un certo periodo di tempo. Si può concludere affermando che la valutazione relativa all’esistenza del requisito della professionalità non può andar mai disgiunta da una coeva valutazione dei dati relativi alla organizzazione.

È discusso se costituisca requisito essenziale dell’attività di impresa lo scopo di lucro. Parte della dottrina (Ascarelli) è orientata in senso affermativo sul rilievo che la realizzazione di un profitto è insita nel concetto di attività economica e nel concetto di professionalità. Per altri autori (Ferrara) non è necessario che in concreto il soggetto percepisca un lucro, ma occorre che l’attività da lui esercitata sia astrattamente lucrativa, capace cioè di procurare un lucro indipendentemente dal fatto che concretamente lo produca o meno. Altri autori, infine, e sono oggi la maggioranza (Galgano), ritengono che lo scopo di lucro non sia un elemento essenziale dell’attività imprenditoriale, ma solo un elemento naturale: se, infatti, nella maggior parte dei casi, l’impresa è esercitata al fine di ricavare i mezzi necessari di sostentamento per l’imprenditore, non mancano comunque ipotesi in cui il fine di lucro esula dagli scopi dell’impresa (imprese esercitate da enti pubblici, cioè casse di risparmio, le imprese mutualistiche, cioè società cooperative e società di mutua assicurazione). Più che lo scopo di lucro, quello che è essenziale all’impresa è la obiettiva economicità della sua gestione, cioè la capacità di ricavare dall’attività svolta quanto occorre per coprire con i ricavi i costi di produzione.

Nel caso di imprenditore occulto (quando cioè è un prestanome a figurare come titolare dell’impresa), parte della dottrina ritiene che sia il prestanome a ricoprire la qualifica dell’impren-ditore, salva la responsabilità in solido con l’imprenditore occulto verso i creditori.

Alla tematica dell’imputazione appartengono anche

  • la figura dell’impresa senza imprenditore, figura creata dalla dottrina: vi rientrerebbero le ipotesi dell’ente pubblico, delle fondazioni o delle associazioni che esercitino attività di impresa ma non come oggetto istituzionale esclusivo o prevalente, dell’impresa esercitata dall’incapace o dal rappresentante legale dell’incapace senza la prescritta autorizzazione, delle entità prive della soggettività giuridica piena; ma secondo qualche autore un fenomeno di spersonalizzazione si può cogliere anche considerando il mondo della grande impresa, nel quale non solo vi è spesso scissione tra coloro che hanno investito nel capitale sociale e chi governa l’impresa;
  • il caso dell’imprenditore che eserciti più attività d’impresa o addirittura più imprese. Occorre far riferimento al concetto stesso di impresa e agli elementi costitutivi di esso: per cui si avranno imprese distinte, sia pur facenti capo allo stesso soggetto, quando potranno riscontrarsi e pluralità di attività e pluralità di organizzazioni, mentre dovrà parlarsi di impresa unica quando l’unica attività sia organizzata con articolazioni di stampo autonomistico sul piano territoriale, amministrativo, contabile o addirittura aziendale, cui sarà più consono attribuire la natura di settori o di rami d’impresa.

A titolo di esempio si consideri il medico che gestisce una clinica privata nella quale egli stesso opera.

Le categorie imprenditoriali

L’imprenditore agricolo

Fino all’entrata in vigore del codice del 1942, l’attività di sfruttamento delle terre -  considerata attività di mero godimento – era regolata anziché dal codice di commercio, dal codice civile. La normativa attuale, considerando imprenditore chiunque svolga un’attività creativa di ricchezza, ha incluso nella categoria anche l’agricoltore ma ha conservato per esso alcuni privilegi come l’esclusione dall’obbligo della tenuta delle scritture contabili e la non assoggettabilità al fallimento. Per l'art. 2135 è imprenditore agricolo “chi esercita un'attività (professionale) diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse”; il 2° comma dell'art. 2135 precisa che "si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura". La giurisprudenza e la dottrina prevalenti ritengono che le imprese agricole per connessione non si esauriscano nel novero di quelle elencate dalla norma considerando tale elencazione meramente esplicativa. In quest’ottica si distinguono:

  • attività connesse tipiche, cioè quelle dirette alla trasformazione o all’aliena-zione di prodotti agricoli, quando rientrano nell’esercizio normale dell’agri-coltura;
  • attività connesse atipiche, cioè tutte le altre attività esercitate in connessione con la coltivazione del fondo, la silvicoltura e l’allevamento del bestiame (es. agriturismo, trebbiatura per conto terzi ecc.).

Tali attività sono oggettivamente commerciali ma vengono considerate agricole qualora siano connesse ad una delle tre attività agricole essenziali. Perché possano essere considerate connesse, tali attività devono presentare:

  • una connessione soggettiva, in quanto il soggetto che esercita l’attività deve essere un imprenditore agricolo;
  • una connessione oggettiva, in quanto l’attività connessa non deve configurare un’autonoma speculazione commerciale o industriale e, tramite la persona dell’agricoltore, deve essere sempre collegata oggettivamente alla terra. Tale collegamento oggettivo viene individuato per le attività connesse tipiche attraverso il criterio dell’esercizio normale dell’agricoltura; per le attività connesse atipiche mediante il criterio dell’accessorietà.

L’imprenditore commerciale

L’imprenditore commerciale può essere individuato per via residuale allorché la sua attività non costituisca “attività agricola”. In particolare, ai sensi dell’art. 2195, sono imprenditori commerciali coloro che esercitano:

  • attività industriali dirette alla produzione di beni o servizi: sono tutte quelle che si propongono, attraverso la trasformazione di materie prime, la creazione di nuovi prodotti ovvero, attraverso la organizzazione di capitale e lavoro, la predisposizione di servizi;
  • attività intermediaria nella circolazione di beni, ovvero le attività commerciali;
  • attività di trasporto per terra, per acque, per aria;
  • attività bancaria, che si concreta nella raccolta di risparmio tra il pubblico e nell’esercizio del credito;
  • attività assicurativa, cioè quelle attività che consistono nell’esercizio delle assicurazioni private;
  • attività ausiliarie alla precedenti, cioè quelle attività che agevolano l’esercizio delle attività specificamente indicate o comunque sono legate a queste ultime da un rapporto di complementarità.

Occorre prestare attenzione ai casi particolari:

  • dell’impresa civile, intesa come attività di produzione di servizi, non definibile come attività industriale ai sensi del n. 1 dell’art. 2195: parte della dottrina ritiene che l’imprenditore civile non sia assoggettabile alla disciplina dell’imprenditore commerciale (quindi non fallirebbe); la dottrina dominante ritiene invece che la dicotomia impresa agricola – impresa commerciale esaurisca ogni possibile tipo di impresa e quindi non esista una “impresa civile”;
  • degli enti pubblici economici, ovvero quella particolare categoria di enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale l’esercizio di una attività commerciale: per essi, la normativa dettata per gli imprenditori privati, si aggiunge o si sovrappone alla disciplina istituzionale.

Il piccolo imprenditore

L’art. 2083 definisce piccoli imprenditori il coltivatore diretto del fondo, l'artigiano e il piccolo commerciante, e tutti coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia. Tale definizione si scontra però con l'art. 1 della legge fallimentare secondo la quale “sono piccoli imprenditori  quegli imprenditori che siano titolari, ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, di un reddito inferiore al minimo imponibile e, quando sia mancato l'accertamento, abbiano investito nella loro azienda un capitale non superiore a L. 900.000”. La discrasia pare essersi risolta con 4 pronunce della Corte Cost. La sentenza del 22 dicembre 1989 ha statuito che la norma del secondo comma dell'art. 1 L. Fall. è cancellata dal nostro ordinamento né è, fortunatamente, resuscitabile. La distinzione tra le categorie di piccolo, medio e grande imprenditore, ed insolvente civile deve essere operata, pertanto, non più in relazione ad un così esiguo capitale investito, bensì con ponderato riferimento “all’attività svolta, all’organizzazione dei mezzi impiegati, all’entità dell’impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale”.

Acquisto della qualità di imprenditore commerciale

L’acquisto della qualità di imprenditore commerciale, per le persone fisiche, è indipendente da ogni adempimento di carattere formale e si produce in conseguenza dell’inizio effettivo della attività economica. Sul momento in cui debba dirsi nata l’impresa, l’orientamento della dottrina si bipartisce in due teorie:

  • teoria oggettiva: l’impresa nasce quando sono realizzate organizzazione e attività produttiva. Alla stregua di tale criterio sembrerebbe risolto in senso negativo il problema della ricomprensione nell’attività di impresa di quelli che sono stati denominati gli atti di organizzazione, quegli atti, cioè, preparatori al vero e proprio inizio dell’attività;
  • teoria soggettiva: secondo i fautori di tale tesi, la distinzione tra atti di organizzazione e atti dell’organizzazione non avrebbe rilievo decisivo nella soluzione del problema, soprattutto, perché, a parte la difficoltà pratica di inquadramento degli atti compiuti dal soggetto in una piuttosto che in un’altra delle due categorie, anche gli atti preparatori dell’attività rientrano nell’attività di impresa. L’importante è che non si tratti di atti isolati.

L’accettazione di una piuttosto che dell’altra tesi non è senza conseguenze pratiche, proprio perché alla individuazione del momento dell’inizio dell’attività di impresa, la legge ricollega nell’ordine:

  • l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese;
  • l’obbligo di tenuta delle scritture contabili per gli imprenditori commerciali;
  • l’applicazione delle forme di tutela dei segni distintivi e contro la concorrenza sleale;
  • la soggezione alle procedure concorsuali.

È doveroso registrare l’opinione di una parte della giurisprudenza, la quale ritiene che non sia di ostacolo all’acquisto della qualità di imprenditore l’esercizio da parte dello stesso soggetto di altra attività non compatibile ovvero l’esistenza di divieti espliciti contenuti in altri ordinamenti.

Conseguenze all’assunzione della qualifica di “imprenditore commerciale”

Dalla qualità di imprenditore di una delle parti di un rapporto contrattuale, conseguono determinati effetti, fra i quali occorre ricordare:

  • la proposta o l’accettazione di un contratto, fatta dall’imprenditore nell’esercizio della sua impresa, non perde efficace se l’imprenditore muore o viene dichiarato incapace prima della conclusione del contratto, salvo che si tratti di piccolo imprenditore o che risulti diversamente dalla circostanze o dalla natura dell’affare;
  • la norma dell’art. 1341 (condizioni generali del contratto), si riferisce alle attività imprenditoriali per delineare la figura del c.d. contraente più forte;
  • nell’interpretazione del contratto, se una delle parti è imprenditore, le clausole ambigue si interpretano secondo gli usi del luogo in cui si trova la sede dell’impresa.

Capacità di esercitare un’impresa commerciale

Si può dire che chi ha la capacità di agire è anche capace di esercitare un’impresa. Sia l’incapace (minore o interdetto) che l’inabilitato possono essere autorizzati solo a continuare, ma non ad iniziare, l’esercizio dell’attività commerciale. Fa eccezione alla regola il minore emancipato, il quale, peraltro, dopo l’autorizzazione consegue la piena capacità di agire anche per gli atti estranei all’impresa, con la sola eccezione degli atti di donazione. In ogni caso, l’esercizio–continuazione o inizio di una impresa commerciale, sia nel caso di incapacità assoluta, sia nel caso di incapacità relativa, deve essere sempre autorizzato dal tribunale su parere del giudice tutelare. Nel caso del minore e dell’interdetto, il giudice tutelare può autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa.

Le deroghe alla disciplina comune riguardano esclusivamente le imprese commerciali, e non pure le imprese agricole, per le quali valgono le norme generali per il compimento degli atti giuridici da parte dell’incapace comune. Questa disparità di trattamento trova la sua giustificazione nella maggiore sicurezza dei risultati produttivi dell’impresa agricola e nell’essere, in tale tipo di impresa, prevalenti gli atti di ordinaria amministrazione.

La pubblicità dell’imprenditore individuale

Di solito, la legge non impone l’adempimento pubblicitario ma fa discendere da esso l’opponibilità ai terzi dell’atto pubblicizzato (trascrizione). Il registro delle imprese nasce con il codice del 1942 e assolve una duplice esigenza:

  • quella dell’impresa di rendere edotti della propria attività coloro che entrano con essa in contatto;
  • quella dei terzi di essere tutelati attraverso l’informazione relativa alle vicende più importanti della vita di un’impresa a partire dalla sua nascita, e cioè la sede e le eventuali sedi secondarie, l’oggetto dell’attività, la ditta, gli ausiliari legittimati ad agire, le modificazioni di tali elementi e la cessazione.

La disciplina era integrata dagli art. da 99 a 101 delle disposizioni di attuazione del codice civile. La disciplina transitoria è stata per cinquant’anni la disciplina del registro delle imprese sino a quando non è intervenuta la legge n. 580 del 1993. Le innovazioni principali contenute e nell’art. 8 della legge n. 580 del 1993 e nel regolamento di attuazione sono:

  • individuazione nella Camera di Commercio del responsabile alla tenuta del registro delle imprese deputato a curarne la tenuta sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale del capoluogo di provincia e sotto la direzione di un conservatore nominato dalla Giunta camerale;
l’istituzione delle sezioni speciali del registro, nelle quali sono iscritte tutte quelle categorie di imprenditori per le quali, nel regime previgente, non era prevista alcuna forma di pubblicità, e cioè gli imprenditori agricoli, le società semplici e le imprese artigiane.

Per coltivazione del fondo deve intendersi il complesso unico e inscindibile del ciclo dei lavori svolti dall’agricoltore per conseguire i prodotti immediati e diretti dalla terra, dalla rottura del suolo al raccolto. La giurisprudenza tende a far rientrare nella nozione di attività agricole anche la floricoltura sempre che il fondo rappresenti realmente il fattore produttivo e non sia solo lo strumento per la conservazione delle piante. La dottrina non ritiene verificate le condizioni minime richieste dalla norma in relazione alle colture artificiali attuate fuori dal fondo (piante le cui radici sono immerse in particolari soluzioni).

La silvicoltura sta ad indicare l’attività tecnica volta al fine di ottenere il più conveniente prodotto del bosco entro cicli regolari di tempo. Non rientra nell’attività di silvicoltura l’attività meramente estrattiva del legname, attività tipicamente industriale se disgiunta dalla coltivazione.

Al termine di numerosi dibattiti, alcuni dei quali sono ancora vivi in dottrina e giurisprudenza, possiamo affermare che: deve considerarsi agricola la pastorizia anche se svolta in forma transumante, poiché assume importanza il fondo e non la sua coltivazione; è dibattuto il senso e la portata del termine bestiame, nel quale, se interpretato estensivamente, rientrerebbero gli animali da pelliccia o da mero allevamento, le specie avicole e l’apicoltura.

L’attività di trasporto, specialmente di cose, è attività ausiliaria delle attività industriali e commerciali, ma per la sua essenzialità nella vita e nello sviluppo di una comunità essa è elevata a categoria autonoma e differenziata.

Ragion per cui non sono imprese di assicurazione quegli enti che gestiscono le c.d. assicurazioni sociali, le quali sono vere e proprie forme pubbliche di assistenza e previdenza.

È impresa pubblica quella esercitata dallo Stato o da altro ente pubblico, retta da uno statuto approvato con provvedimento nel quale sono indicati gli scopi che essa si prefigge di raggiungere. Oggi l’intervento pubblico nell’economia non ha più il ruolo di primo attore e sta abbandonando lentamente la scena per tanti anni tenuta. Infatti, è in atto un processo generale di privatizzazione, nel senso che lo Stato sta, attraverso procedure e modalità differenti, abbandonando progressivamente la politica dell’intervento pubblico in economia .

È opinione quasi generale della dottrina privatistica e pubblicistica che l’impresa pubblica non presenti rispetto all’impresa privata elementi di differenziazione. Una conferma in questo senso viene dalle uniche due norme di carattere generale che, nel codice civile, sono dedicate all’impresa pubblica:

  • l’art. 2093 che stabilisce espressamente che le disposizioni di questo articolo si applicano agli enti pubblici inquadrati nelle associazioni professionali;
  • l’art. 2201 che obbliga gli enti pubblici che hanno per oggetto esclusivo o principale un’attività commerciale all’iscrizione nel registro delle imprese.

Si deve inoltre ricordare che il fine dell’attività imprenditoriale è sempre quello della produzione o dello scambio di beni e servizi e che la finalità di interesse generale perseguita dall’impresa pubblica ha la stessa collocazione della finalità di profitto dell’imprenditore privato rispetto all’impresa e al fine dell’impresa. Infine, ai sensi dell’art. 2221, l’impresa pubblica non è soggetta a fallimento e al concordato preventivo, bensì, di norma, alla liquidazione coatta amministrativa.

Il coltivatore diretto del fondo è definito, sia pure indirettamente dall’art. 1647, come colui che coltiva il fondo “col lavoro prevalentemente proprio o di persone della sua famiglia sempre che il fondo non superi i limiti di estensione che, per le singole zone o colture, possono essere determinate”, rappresenta la specie dalla quale è iniziato quel processo di progressiva divaricazione tra la figura codicistica di piccolo imprenditore e l’interpre-tazione che di essa è stata data dalla legislazione speciale, la quale si è preoccupata di quantificare l’avverbio “prevalentemente”. Così con un susseguirsi di leggi si è giunti ad affermare che sia necessario che la complessiva forza lavorativa del nucleo familiare non sia inferiore ad un terzo di quella occorrente per la normale necessità della coltivazione del fondo e per l’allevamento e il governo del bestiame, e che ai fini del computo del fabbisogno di giornate lavorative occorre tener conto anche dell’impiego delle macchine agricole.

Questa è la categoria che ha dato luogo a dibattiti più accesi e corposi, anche perché oggetto di due leggi, la n. 860 del 1956 e la n. 443 del 1985 (legge – quadro dell’artigianato), le quali, a differenza delle leggi speciali dettate per il coltivatore diretto che si sono limitate a dare una valenza quantitativa dell’avverbio “prevalentemente”, hanno inciso profondamente sulla nozione stessa di artigiano. Occorre ricordare che la Costituzione, all’articolo 45 comma 2, stabilisce che “la legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”, e all’articolo 117 che la materia è di competenza delle regioni. Le linee principali della legge – quadro dell’artigianato possono così riassumersi:

  • l’impresa artigiana ha ad oggetto prevalente lo svolgimento di una attività di produzione di beni, anche semilavorati, o di produzione di servizi, escluse le attività agricole e le attività di prestazione di servizi commerciali, di intermediazione nella circolazione dei beni e ausiliarie di queste ultime, di somministrazione al pubblico di alimenti o bevande;
  • è imprenditore artigiano colui che esercita personalmente, professionalmente e in qualità di titolare dell’impresa artigiana, assumendone la piena responsabilità con tutti gli oneri e rischi inerenti alla sua gestione e direzione e svolgendo in misura prevalente il proprio lavoro, anche manuale, nel processo produttivo;
  • l’impresa artigiana può essere svolta anche con la prestazione di opera di personale dipendente diretto personalmente dall’imprenditore artigiano o dai soci.

Piccolo commerciante è colui che, rispondendo ai caratteri di cui all’art. 2082, svolge un’attività di intermediazione nella circolazione dei beni, vale a dire il piccolo imprenditore commerciante. Questi non deve tenere le scritture contabili obbligatorie, non è soggetto alle procedure concorsuali e solo recentemente è stato obbligato all’iscrizione in una sezione speciale del registro delle imprese ai fini di certificazione e di pubblicità notizia.

Tutti i provvedimenti di autorizzazione e di revoca di questa devono essere iscritti, ex art. 2198, nel registro delle imprese.

Appare utile un riepilogo degli enti soggetti ad iscrizione, contenuto nell’art. 7 del regolamento. Tali soggetti sono:

  • gli imprenditori;
  • le società;
  • i consorzi;
  • le società consortili;
  • i gruppi europei di interesse economico;
  • gli enti pubblici che hanno per oggetto principale o esclusivo attività commerciali;
  • le società soggette alla legge italiana;
  • gli imprenditori agricoli;
  • i piccoli imprenditori;
  • le società semplici.

 

Fonte: http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/2anno/COMMERCIALE%20i/Dispense%20Diritto%20Commerciale.doc

Sito web da visitare: http://studiando.altervista.org

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