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L’attività commerciale ha sempre avuto nel corso dei secoli una disciplina particolare nonostante non abbia mai costituito una branca del diritto completamente autonoma rispetto al diritto civile.
La società romana non conobbe un sistema unitario del diritto commerciale e lo “jus civile” non pose le regole riguardanti la produzione manifatturiera e gli scambi commerciali, considerati attività inferiori persino presso le classi plebee. Il commercio in senso stretto aveva infatti, in Roma, carattere tipicamente esterno. Le origini del diritto commerciale vanno ricercate nell’età comunale grazie al rigoglioso sviluppo del commercio e alla nascita delle corporazioni di arti e mestieri. Successivamente l’affermarsi dei traffici marittimi sulle grandi tratte oceaniche determinò la nascita dei titoli documentali di credito per agevolare i pagamenti su piazze lontane. Con la Rivoluzione Francese del 1789 le corporazioni vennero travolte perché contrarie ai principi liberali: il diritto commerciale perse il suo carattere di specialità soggettiva e si passò a considerare commerciale ogni singolo atto che interessasse da vicino il commercio. Si aprì così la strada alle grandi codificazioni dove il diritto commerciale era ormai oggettivizzato: nel codice di commercio napoleonico del 1808, l’atto di commercio, da chiunque compiuto, divenne l’unico criterio di applicabilità della disciplina commercialistica.
Il primo codice italiano di commercio venne pubblicato il 25 giugno 1865 e ricalcava largamente i principi del codice francese, già introdotto in Italia con le guerre napoleoniche. Il diritto commerciale si affermò come un sistema di norme autonomo rispetto al diritto civile, prevalente su di esso per il criterio della specialità e caratterizzato dall’esistenza di principi generali propri dei rapporti commerciali.
Con il codice civile del 1942 venne deciso di unificare il codice civile e il codice di commercio, per unificare il diritto delle obbligazioni, partendo da una considerazione unitaria di ogni attività economica facente capo alla figura generale dell’imprenditore commerciale.
Nell’ambito delle fonti legali, due sono, accanto alla Costituzione e accanto al codice civile, le species cui occorre assegnare una posizione di preminenza:
Una seconda categoria di fonti è quella degli usi, prevista al numero 4 dell’art. 1 delle disposizioni preliminari al codice civile. Gli usi di cui parliamo e che possiamo continuare a chiamare commerciali, sono normalmente relativi ad aspetti contrattuali non disciplinati da norme scritte o fatti salvi da esse. Comunque non sono da escludersi gli usi c.d. legali perché frutto di prassi consuetudinarie, né le pratiche generali interpretative previste dall’art. 1368 c.c.. Uno degli argomenti principali per negare la specificità del diritto commerciale dopo l’unificazione dei codici è stato sempre quello della scomparsa di una norma come quella contenuta nel nell’art. 1 del codice di commercio del 1882, che nell’ordine delle fonti anteponeva gli usi mercantili al diritto civile. Non v’è dubbio che il netto ridimensionamento degli usi normativi (commerciali) nella unificazione del 1942 è stato accompagnato da una sostanziale dilatazione della portata e della rilevanza degli usi negoziali, tra i quali naturalmente occupano una posizione dominante le clausole d’uso di natura commerciale. Occorre inoltre aggiungere che:
Una terza categoria di fonti è costituita da quelli che denomineremo riassuntivamente codici. Questi codici possono essere i più vari e possono, innanzi tutto, essere collettivi e individuali.
Sotto il profilo economico, l’imprenditore si presenta come colui che utilizza i fattori della produzione organizzandoli, a proprio rischio, nel processo produttivo di beni o servizi: egli è, dunque, l’intermediario tra quanti offrono capitale e lavoro e quanti domandano beni o servizi.
Da un punto di vista giuridico, la nozione di imprenditore ha subito una profonda evoluzione. Si è infatti passati da un imprenditore inteso come speculatore sul lavoro, una figura particolare di commerciante, ad una visione completamente opposta che considera imprenditore e commerciante in un rapporto da genere a specie: il commerciante è quell’imprenditore la cui attività consiste nello scambio di beni.
Per l'art 2082 del cod. civ. è imprenditore "colui che esercita professionalmente un'attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi". Da tale definizione si evincono i caratteri che qualificano l’attività imprenditoriale:
Ai sensi dell’art. 2238, i liberi professionisti e gli artisti non sono mai – in quanto tali – imprenditori: essi lo diventano solo se ed in quanto la professione intellettuale sia esercitata nell’ambito di un’altra attività di per se qualificata come impresa. Il motivo di tale esclusione è da ricercare nel fatto che tali soggetti non assumono, nell’esercizio delle proprie attività, quel rischio del lavoro che caratterizza la figura di imprenditore: si parla per essi di una “obbligazione di mezzi” e non di una “obbligazione di risultati”. Quindi il professionista ha diritto al compenso per il solo fatto di aver prestato la propria opera ed a prescindere dal risultato di essa, il cui rischio, pertanto, grava sull’altra parte del rapporto obbligatorio.
La qualifica di imprenditore comporta per il soggetto uno speciale regime giuridico (status di imprenditore). Questi infatti:
Quanto all’impresa, poiché il codice si limita a definire la figura dell’imprendi-tore, è la dottrina ad estrapolarne la nozione: partendo dal presupposto che l’im-prenditore è il titolare dell’impresa, questa può essere definita come l’attività economica organizzata dall’imprenditore e da lui esercitata professionalmente al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi.
Tutto il Titolo della Costituzione dedicato ai “Rapporti economici” riguarda in modo più o meno diretto l’impresa. Infatti:
In questo periodo i codici di commercio sono separati da quelli civili per poter essere più facilmente emendabili al fine di soddisfare le mutevoli esigenze dei traffici.
Ex art. 1340, le clausole d’uso si intendono inserite nel contratto se non risulta che non sono state volute dalle parti.
Possono ritenersi tali alcuni tipi di regolamenti come:
L’abrogato codice di commercio non conteneva una definizione di imprenditore, ma all’art. 3 elencava alcune attività che erano reputate atti di commercio ed all’art. 8 definiva “commercianti” “coloro i quali esercitavano atti di commercio per professione abituale e le società commerciali”.
Il termine “attività economica” sta ad indicare una serie di atti finalizzati ad uno scopo, nel senso che ogni atto che l’imprenditore compie serve all’esercizio dell’impresa e, più in particolare, a realizzare la produzione o lo scambio di uno o più beni, di uno o più servizi determinati. Il passaggio dal sistema degli atti di commercio, previsto nel codice di commercio del 1882, al sistema dell’attività, previsto nel codice del 1942, non è esente da critiche: in primo luogo, occorre ribadire che l’attività deve potersi far risalire alla volontà del soggetto. Non a caso la dottrina si è domandata se l’attività dovesse considerarsi un fatto ovvero un atto. La seconda conseguenza rende ancora più evidente la contrapposizione tra vecchio e nuovo sistema, dove si consideri che nell’ambito di una attività perfettamente lecita l’imprenditore può compiere singoli atti illeciti e che, nell’ambito di una attività illecita l’imprenditore possa compiere una serie di atti perfettamente leciti. Il discorso sull’impresa illecita assume grande importanza. Nella disputa tra coloro i quali respingono decisamente la plausibilità di un’impresa illecita e coloro i quali l’ammettono preferendo porre l’accento sul profilo ontologico, si inseriscono quegli autori i quali preliminarmente distinguono l’ipotesi in cui illecita è l’attività come tale dall’ipotesi in cui l’illiceità riguarda solo le modalità di svolgimento di un’attività lecita. Nel primo caso la sanzione è quella della non invocabilità della disciplina dell’impresa da chi è autore e partecipe dell’illecito; nel secondo caso si tratterà di valutare di volta in volta se l’atto singolo debba o no essere colpito dalla sanzione della nullità.
Il termine “organizzata” è richiamato più volte nel codice civile come ad esempio nell’articolo 2083. Ai fini dell’organizzazione occorrono quindi: capitale, proprio o altrui, e lavoro. Secondo l’opinione prevalente, l’organizzazione serve a individuare il confine tra le attività produttive, che in quanto organizzate, assumono il carattere di impresa e quelle attività che, pur essendo destinate a produrre beni o servizi, non assumono carattere di impresa proprio perché non sono organizzate (lavoro autonomo e professioni liberali). L’organizzazione deve rivolgersi al mondo esterno, si parla a proposito di eterorganizzazione, e deve essere rivolta al mercato. Se queste sono le conclusioni della dottrina prevalente, v’è da registrare l’opinione contraria di chi ritiene che la presenza di una organizzazione intermediatrice fra quanti hanno lavoro e capitale da offrire, gli imprenditori, e quanti domandano determinati beni o servizi, i consumatori, non costituisca più carattere distintivo ed esclusivo dell’impresa. Concludendo, non potendosi ignorare una distinzione che il legislatore comunque fa, quella cioè tra imprenditore e lavoratore autonomo, si può scrivere che vi è “lavoro autonomo finché l’uso di mezzi o di strumenti materiali serve all’esplicazione dell’attività di lavoro del soggetto e non configura una produttività che ecceda quella del lavoro individuale; vi è impresa quando il livello è superato, appunto come risultato del concorso determinante e qualificante di altri fattori, quale che sia poi il rapporto tra di essi e il rapporto tra essi e l’attività di lavoro del soggetto”.
Il termina “professionalità” sta a significare abitualità, ma non vuol dire permanenza, né esclusività, né prevalenza nell’esercizio. E mentre alla stregua di tali precisazioni, non sono imprese quelle occasionali, come ad esempio la costruzione di un edificio per abitazioni civili da parte del libero professionista che dispone di eccedenze liquide, lo sono quelle stagionali, come ad esempio gli stabilimenti balneari e, quando la lavorazione seguiva i ritmi naturali della fruttificazione, le imprese di trasformazione dei prodotti agricoli. Altro problema è quello dell’accertamento della professionalità relativamente al momento della nascita e della cessazione dell’impresa, da un lato, e, dall’altro, in funzione dell’attività professionalmente esercitata da una attività occasionalmente esercitata e quindi l’impresa occasionale. Occorre subito affermare che per aversi impresa occasionale non è sufficiente il compimento di un singolo atto o di un singolo affare, perché anche tale tipo di imprese necessità il più delle volte di una reiterazione di atti per un certo periodo di tempo. Si può concludere affermando che la valutazione relativa all’esistenza del requisito della professionalità non può andar mai disgiunta da una coeva valutazione dei dati relativi alla organizzazione.
È discusso se costituisca requisito essenziale dell’attività di impresa lo scopo di lucro. Parte della dottrina (Ascarelli) è orientata in senso affermativo sul rilievo che la realizzazione di un profitto è insita nel concetto di attività economica e nel concetto di professionalità. Per altri autori (Ferrara) non è necessario che in concreto il soggetto percepisca un lucro, ma occorre che l’attività da lui esercitata sia astrattamente lucrativa, capace cioè di procurare un lucro indipendentemente dal fatto che concretamente lo produca o meno. Altri autori, infine, e sono oggi la maggioranza (Galgano), ritengono che lo scopo di lucro non sia un elemento essenziale dell’attività imprenditoriale, ma solo un elemento naturale: se, infatti, nella maggior parte dei casi, l’impresa è esercitata al fine di ricavare i mezzi necessari di sostentamento per l’imprenditore, non mancano comunque ipotesi in cui il fine di lucro esula dagli scopi dell’impresa (imprese esercitate da enti pubblici, cioè casse di risparmio, le imprese mutualistiche, cioè società cooperative e società di mutua assicurazione). Più che lo scopo di lucro, quello che è essenziale all’impresa è la obiettiva economicità della sua gestione, cioè la capacità di ricavare dall’attività svolta quanto occorre per coprire con i ricavi i costi di produzione.
Nel caso di imprenditore occulto (quando cioè è un prestanome a figurare come titolare dell’impresa), parte della dottrina ritiene che sia il prestanome a ricoprire la qualifica dell’impren-ditore, salva la responsabilità in solido con l’imprenditore occulto verso i creditori.
Alla tematica dell’imputazione appartengono anche
A titolo di esempio si consideri il medico che gestisce una clinica privata nella quale egli stesso opera.
Fino all’entrata in vigore del codice del 1942, l’attività di sfruttamento delle terre - considerata attività di mero godimento – era regolata anziché dal codice di commercio, dal codice civile. La normativa attuale, considerando imprenditore chiunque svolga un’attività creativa di ricchezza, ha incluso nella categoria anche l’agricoltore ma ha conservato per esso alcuni privilegi come l’esclusione dall’obbligo della tenuta delle scritture contabili e la non assoggettabilità al fallimento. Per l'art. 2135 è imprenditore agricolo “chi esercita un'attività (professionale) diretta alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse”; il 2° comma dell'art. 2135 precisa che "si reputano connesse le attività dirette alla trasformazione o all'alienazione dei prodotti agricoli, quando rientrano nell'esercizio normale dell'agricoltura". La giurisprudenza e la dottrina prevalenti ritengono che le imprese agricole per connessione non si esauriscano nel novero di quelle elencate dalla norma considerando tale elencazione meramente esplicativa. In quest’ottica si distinguono:
Tali attività sono oggettivamente commerciali ma vengono considerate agricole qualora siano connesse ad una delle tre attività agricole essenziali. Perché possano essere considerate connesse, tali attività devono presentare:
L’imprenditore commerciale può essere individuato per via residuale allorché la sua attività non costituisca “attività agricola”. In particolare, ai sensi dell’art. 2195, sono imprenditori commerciali coloro che esercitano:
Occorre prestare attenzione ai casi particolari:
L’art. 2083 definisce piccoli imprenditori il coltivatore diretto del fondo, l'artigiano e il piccolo commerciante, e tutti coloro che esercitano un'attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti la famiglia. Tale definizione si scontra però con l'art. 1 della legge fallimentare secondo la quale “sono piccoli imprenditori quegli imprenditori che siano titolari, ai fini dell'imposta di ricchezza mobile, di un reddito inferiore al minimo imponibile e, quando sia mancato l'accertamento, abbiano investito nella loro azienda un capitale non superiore a L. 900.000”. La discrasia pare essersi risolta con 4 pronunce della Corte Cost. La sentenza del 22 dicembre 1989 ha statuito che la norma del secondo comma dell'art. 1 L. Fall. è cancellata dal nostro ordinamento né è, fortunatamente, resuscitabile. La distinzione tra le categorie di piccolo, medio e grande imprenditore, ed insolvente civile deve essere operata, pertanto, non più in relazione ad un così esiguo capitale investito, bensì con ponderato riferimento “all’attività svolta, all’organizzazione dei mezzi impiegati, all’entità dell’impresa ed alle ripercussioni che il dissesto produce nell’economia generale”.
L’acquisto della qualità di imprenditore commerciale, per le persone fisiche, è indipendente da ogni adempimento di carattere formale e si produce in conseguenza dell’inizio effettivo della attività economica. Sul momento in cui debba dirsi nata l’impresa, l’orientamento della dottrina si bipartisce in due teorie:
L’accettazione di una piuttosto che dell’altra tesi non è senza conseguenze pratiche, proprio perché alla individuazione del momento dell’inizio dell’attività di impresa, la legge ricollega nell’ordine:
È doveroso registrare l’opinione di una parte della giurisprudenza, la quale ritiene che non sia di ostacolo all’acquisto della qualità di imprenditore l’esercizio da parte dello stesso soggetto di altra attività non compatibile ovvero l’esistenza di divieti espliciti contenuti in altri ordinamenti.
Dalla qualità di imprenditore di una delle parti di un rapporto contrattuale, conseguono determinati effetti, fra i quali occorre ricordare:
Si può dire che chi ha la capacità di agire è anche capace di esercitare un’impresa. Sia l’incapace (minore o interdetto) che l’inabilitato possono essere autorizzati solo a continuare, ma non ad iniziare, l’esercizio dell’attività commerciale. Fa eccezione alla regola il minore emancipato, il quale, peraltro, dopo l’autorizzazione consegue la piena capacità di agire anche per gli atti estranei all’impresa, con la sola eccezione degli atti di donazione. In ogni caso, l’esercizio–continuazione o inizio di una impresa commerciale, sia nel caso di incapacità assoluta, sia nel caso di incapacità relativa, deve essere sempre autorizzato dal tribunale su parere del giudice tutelare. Nel caso del minore e dell’interdetto, il giudice tutelare può autorizzare l’esercizio provvisorio dell’impresa.
Le deroghe alla disciplina comune riguardano esclusivamente le imprese commerciali, e non pure le imprese agricole, per le quali valgono le norme generali per il compimento degli atti giuridici da parte dell’incapace comune. Questa disparità di trattamento trova la sua giustificazione nella maggiore sicurezza dei risultati produttivi dell’impresa agricola e nell’essere, in tale tipo di impresa, prevalenti gli atti di ordinaria amministrazione.
Di solito, la legge non impone l’adempimento pubblicitario ma fa discendere da esso l’opponibilità ai terzi dell’atto pubblicizzato (trascrizione). Il registro delle imprese nasce con il codice del 1942 e assolve una duplice esigenza:
La disciplina era integrata dagli art. da 99 a 101 delle disposizioni di attuazione del codice civile. La disciplina transitoria è stata per cinquant’anni la disciplina del registro delle imprese sino a quando non è intervenuta la legge n. 580 del 1993. Le innovazioni principali contenute e nell’art. 8 della legge n. 580 del 1993 e nel regolamento di attuazione sono:
Per coltivazione del fondo deve intendersi il complesso unico e inscindibile del ciclo dei lavori svolti dall’agricoltore per conseguire i prodotti immediati e diretti dalla terra, dalla rottura del suolo al raccolto. La giurisprudenza tende a far rientrare nella nozione di attività agricole anche la floricoltura sempre che il fondo rappresenti realmente il fattore produttivo e non sia solo lo strumento per la conservazione delle piante. La dottrina non ritiene verificate le condizioni minime richieste dalla norma in relazione alle colture artificiali attuate fuori dal fondo (piante le cui radici sono immerse in particolari soluzioni).
La silvicoltura sta ad indicare l’attività tecnica volta al fine di ottenere il più conveniente prodotto del bosco entro cicli regolari di tempo. Non rientra nell’attività di silvicoltura l’attività meramente estrattiva del legname, attività tipicamente industriale se disgiunta dalla coltivazione.
Al termine di numerosi dibattiti, alcuni dei quali sono ancora vivi in dottrina e giurisprudenza, possiamo affermare che: deve considerarsi agricola la pastorizia anche se svolta in forma transumante, poiché assume importanza il fondo e non la sua coltivazione; è dibattuto il senso e la portata del termine bestiame, nel quale, se interpretato estensivamente, rientrerebbero gli animali da pelliccia o da mero allevamento, le specie avicole e l’apicoltura.
L’attività di trasporto, specialmente di cose, è attività ausiliaria delle attività industriali e commerciali, ma per la sua essenzialità nella vita e nello sviluppo di una comunità essa è elevata a categoria autonoma e differenziata.
Ragion per cui non sono imprese di assicurazione quegli enti che gestiscono le c.d. assicurazioni sociali, le quali sono vere e proprie forme pubbliche di assistenza e previdenza.
È impresa pubblica quella esercitata dallo Stato o da altro ente pubblico, retta da uno statuto approvato con provvedimento nel quale sono indicati gli scopi che essa si prefigge di raggiungere. Oggi l’intervento pubblico nell’economia non ha più il ruolo di primo attore e sta abbandonando lentamente la scena per tanti anni tenuta. Infatti, è in atto un processo generale di privatizzazione, nel senso che lo Stato sta, attraverso procedure e modalità differenti, abbandonando progressivamente la politica dell’intervento pubblico in economia .
È opinione quasi generale della dottrina privatistica e pubblicistica che l’impresa pubblica non presenti rispetto all’impresa privata elementi di differenziazione. Una conferma in questo senso viene dalle uniche due norme di carattere generale che, nel codice civile, sono dedicate all’impresa pubblica:
Si deve inoltre ricordare che il fine dell’attività imprenditoriale è sempre quello della produzione o dello scambio di beni e servizi e che la finalità di interesse generale perseguita dall’impresa pubblica ha la stessa collocazione della finalità di profitto dell’imprenditore privato rispetto all’impresa e al fine dell’impresa. Infine, ai sensi dell’art. 2221, l’impresa pubblica non è soggetta a fallimento e al concordato preventivo, bensì, di norma, alla liquidazione coatta amministrativa.
Il coltivatore diretto del fondo è definito, sia pure indirettamente dall’art. 1647, come colui che coltiva il fondo “col lavoro prevalentemente proprio o di persone della sua famiglia sempre che il fondo non superi i limiti di estensione che, per le singole zone o colture, possono essere determinate”, rappresenta la specie dalla quale è iniziato quel processo di progressiva divaricazione tra la figura codicistica di piccolo imprenditore e l’interpre-tazione che di essa è stata data dalla legislazione speciale, la quale si è preoccupata di quantificare l’avverbio “prevalentemente”. Così con un susseguirsi di leggi si è giunti ad affermare che sia necessario che la complessiva forza lavorativa del nucleo familiare non sia inferiore ad un terzo di quella occorrente per la normale necessità della coltivazione del fondo e per l’allevamento e il governo del bestiame, e che ai fini del computo del fabbisogno di giornate lavorative occorre tener conto anche dell’impiego delle macchine agricole.
Questa è la categoria che ha dato luogo a dibattiti più accesi e corposi, anche perché oggetto di due leggi, la n. 860 del 1956 e la n. 443 del 1985 (legge – quadro dell’artigianato), le quali, a differenza delle leggi speciali dettate per il coltivatore diretto che si sono limitate a dare una valenza quantitativa dell’avverbio “prevalentemente”, hanno inciso profondamente sulla nozione stessa di artigiano. Occorre ricordare che la Costituzione, all’articolo 45 comma 2, stabilisce che “la legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato”, e all’articolo 117 che la materia è di competenza delle regioni. Le linee principali della legge – quadro dell’artigianato possono così riassumersi:
Piccolo commerciante è colui che, rispondendo ai caratteri di cui all’art. 2082, svolge un’attività di intermediazione nella circolazione dei beni, vale a dire il piccolo imprenditore commerciante. Questi non deve tenere le scritture contabili obbligatorie, non è soggetto alle procedure concorsuali e solo recentemente è stato obbligato all’iscrizione in una sezione speciale del registro delle imprese ai fini di certificazione e di pubblicità notizia.
Tutti i provvedimenti di autorizzazione e di revoca di questa devono essere iscritti, ex art. 2198, nel registro delle imprese.
Appare utile un riepilogo degli enti soggetti ad iscrizione, contenuto nell’art. 7 del regolamento. Tali soggetti sono:
Fonte: http://studiando.altervista.org/UNIVERITY/2anno/COMMERCIALE%20i/Dispense%20Diritto%20Commerciale.doc
Sito web da visitare: http://studiando.altervista.org
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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