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ALESSANDRO MANZONI. VITA
Alessandro Manzoni nasce a Milano nel 1785 da Giulia Beccaria e Pietro Manzoni. Il matrimonio dei genitori non è felice e, quando i due si separano (1792), la madre va a vivere a Parigi, con il conte Carlo Imbonati. Alessandro resta inizialmente a Milano, frequentando collegi religiosi, ma alla morte del padre (1805) si trasferisce anch’esso a Parigi.
Sono questi gli anni della sua formazione culturale, di stampo illuminista, razionalista e anticlericale, ma sono anche gli anni della nascita del suo rapporto con Enrichetta Blondel, di religione calvinista, che diventerà sua moglie nel 1808.
Il 1810 è un anno fondamentale, poiché segnato dal ritorno al cattolicesimo: la “conversione” sarebbe avvenuta in seguito a un drammatico avvenimento: in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Napoleone Bonaparte Manzoni, nella calca, smarrisce la moglie; in preda al panico si rifugia in una chiesa, pregando per il ritrovamento della moglie.
Nello stesso anno anche la moglie si converte al cattolicesimo, dopodiché la famiglia torna a vivere a Milano; qui Manzoni resterà quasi ininterrottamente sino alla morte, tranne brevi spostamenti. Pochi sono i fatti degni di nota della lunga vita di Manzoni, segnata, purtroppo, anche da eventi dolorosi, tra cui la morte della moglie Enrichetta, della seconda moglie, Teresa Stampa, di ben sei degli otto figli. Nel 1873 l’autore, uscendo di chiesa, cade battendo la testa sul selciato. Muore dopo due mesi di agonia
LE OPERE: QUALCHE CENNO…
La produzione letteraria di Manzoni è davvero vasta. Il testo più maturo dell’età giovanile è l’ode “In morte di Carlo Imbonati” (1805), che testimonia non solo l’affetto per l’Imbonati ma anche la già raggiunta maturità morale dell’autore.
Negli anni successivi, a documento dell’avvenuta conversione religiosa, escono gli “Inni Sacri”: il progetto iniziale prevedeva 12 inni, dedicati ognuno a una festività della Chiesa; di essi ne porterà a termine solo 5: “La Resurrezione”, “Il nome di Maria”, “Il Natale”, “La Passione” (tra il 1812 e il 1815) e “La Pentecoste” (tra il 1817 e il 1822).
Il periodo successivo vede la stesura delle odi civili:
Un ruolo fondamentale, per lo svilupparsi della riflessione di Manzoni, è giocato anche dalle due tragedie risalenti al 1820, “Il conte di Carmagnola”, e al 1822, “L’Adelchi” (in quest’ultima è rappresentato il momento conclusivo della guerra tra Franchi e Longobardi”).
Tutte queste opere vedono la riflessione sulla Provvidenza divina, sulla storia, sull’agire di Dio nella vicenda umana collettiva e individuale, tutte tematiche che ritroveremo nei Promessi Sposi.
Infine ricordiamo gli scritti di Manzoni sulla lingua (es. “Sulla lingua italiana”, del 1845), dove sostiene la necessità di una lingua scritta che si accosti a quella a quella parlata, perché possa arrivare a tutti. Manzoni indicherà così la strada da seguire per l’unificazione linguistica italiana.
I PROMESSI SPOSI
Composizione |
La composizione dura circa 20 anni. Possiamo distinguere tre fasi:
Contesto storico |
La vicenda è ambientata nella Lombardia del 1600 (dal novembre 1628 all’ottobre 1630), al tempo della dominazione spagnola, presente in Italia dalla metà del ‘500, nei regni di Milano, Napoli e Sardegna.
E’ un periodo di crisi per l’Italia, non più al centro dei commerci dopo la scoperta dell’America; questa debole economia è messa ancor più a dura prova dal malgoverno spagnolo che, fra l’altro, impone tasse molto elevate.
La situazione peggiora totalmente con lo scoppio della peste, nel 1630-31 al Nord e nel 1656-57 al Sud.
Lo spazio |
Nel romanzo incontriamo vari spazi.
Questi spazi sono descritti sia in modo oggettivo (la pagina iniziale del romanzo: “Quel ramo del lago di Como…”) sia in modo soggettivo, psicologico (es. l’”Addio monti” di Lucia)
SCELTA DEL ROMANZO E DEL GENERE STORICO-REALISTA |
Manzoni sceglie la forma del romanzo perché si trattava di un genere “popolare”, in grado di raggiungere un vasto pubblico; il suo obiettivo, infatti, era educare attraverso l’opera letteraria, facendo passare un messaggio morale, religioso e civile.
Per Manzoni la letteratura non era semplice narrazione, semplice invenzione, ma doveva avere
Ecco il perché della scelta del romanzo storico, genere reso famoso in quegli anni dallo scozzese Walter Scott con il testo “Ivanhoe” (1802).
Su questa scia si spiega perché nel romanzo siano inseriti personaggi non solo inventati (es. Renzo, don Abbondio…) ma anche realmente esistiti (es. fra Cristoforo, il cardinal Federigo Borromeo….). La storia fa poi da sfondo a tutta la vicenda, anzi ne è una protagonista, influenzando la vita dei personaggi (es. le guerre, la peste… modificano l’esistenza delle persone).
Manzoni scrive molto pagine con l’impegno dello studioso, come quelle dedicate alla carestia o alla peste, dove fitta e di prima mano è la documentazione cui attinge.
Tutto ciò contribuisce al realismo del romanzo: gli stessi personaggi inventati acquistano concretezza, non li distinguiamo da quelli realmente vissuti; accurata è la descrizione di oggetti, ambienti, psicologia dei protagonisti. La stessa lingua è realista, infatti si diversifica a seconda delle classi sociali.
UN ROMANZO RELIGIOSO |
L’opera, come già si accennava, ha una forte componente religiosa; Manzoni vede nella storia – singola e collettiva – l’intervento divino; non è un caso che, in tutto il testo, ricorra più volte il termine “Provvidenza”, con l’invito ad affidarsi a Dio, alla Fede, soprattutto nei momenti di difficoltà, di dolore, perché la Fede aiuta a sopportarli meglio e può far trarre insegnamenti da essi.
In questa logica è possibile inoltre individuare un’eterna opposizione tra
E’, certo, una visione “pessimista” che, però, trova una conclusione positiva proprio nella Fede, nel credere che il Bene (Dio) alla fine trionfi sul male.
TEMPO DELLA STORIA E DEL DISCORSO; AUTORE-NARRATORE, PERSONAGGI |
Tempo della storia e del discorso non coincidono. La vicenda dura due anni (autunno 1628- autunno 1630), ma il tempo del discorso (cioè sulla pagina) si differenzia da quello reale poiché in essa incontriamo ora rallentamenti della narrazione (descrizioni, digressioni… es. la vicenda della monaca di Monza) ora accelerazioni (es. ellissi= salti temporali).
L’autore affida il racconto alla voce di un narratore esterno e onnisciente che
Questo narratore finisce quasi per identificarsi con l’Autore.
Vi sono, però, altre voci narranti, di secondo grado:
I personaggi
Giovane contadina, orfana di padre, vive con la madre, Agnese. Fin dall’inizio del romanzo mostra grande fede e grande rispetto per tutto ciò che riguarda la religione. L’autore la definisce di bellezza normale, senza caratteristiche fisiche particolari, dunque semplice nel complesso. A colpire di lei sono invece la purezza, l’onestà, capace di suscitare anche in altri gli stessi sentimenti. Altra caratteristica è la determinazione nel portare avanti le decisioni prese, pensiamo, ad esempio, al voto di castità.
l’autore non ne offre una descrizione fisica o psicologica diretta, possiamo ricavarla solo mettendo insieme quanto di lui narrato nel testo. Il punto in cui meglio possiamo capire questo personaggio – incarnazione di gran parte della classe nobiliare del ‘600 – è il V capitolo, nel momento dell’incontro-scontro verbale con fra Cristoforo. E’ un signorotto, non ricchissimo ma comunque benestante, altolocato, tanto da potersi permettere di essere sbruffone, prepotente, violento. E’ apparentemente forte, ma questa forza, legata solo alle sue potenti conoscenze, sarà messa in crisi proprio dall’incontro con fra Cristoforo, dal suo riferirsi a Dio e a un giudizio finale. Davanti a questo “nemico”, infatti, don Rodrigo sa di non poter far valere la forza delle armi e questo lo inquieta, lo opprime.
è il curato di Pescarenico, un uomo pauroso, egoista, interessato solo a difendere il suo quieto vivere e, per questo, disposto anche a fare il gioco dei potenti. Ha scelto il sacerdozio per far parte di una classe sociale rispettata, non “per servire” (ideale evangelico) ma per farsi servire. Non per togliere gli altri dai guai ma restarne fuori lui. Più il romanzo proseguirà più vedremo emergere questi aspetti del suo carattere, sino all’apice, cioè il dialogo con il cardinal Borromeo.
è un personaggio centrale, benché non compaia spesso nella vicenda. Padre cappuccino, dal carattere coraggioso, combattivo, forte, buono, altruista, amante della giustizia, sempre pronto a servire ed aiutare gli umili e le vittime dei potenti. E’ uno dei personaggi – con Lucia e il cardinal Federigo – cui Manzoni affida le sue idee religiose, in particolare la vicenda personale di fra Cristoforo e gli insegnamenti che darà a Renzo e Lucia s’incentreranno sul concetto del perdono cristiano.
madre di Lucia, donna semplice ma al tempo stesso pratica, come mostrano i suo tentativi di risolvere il più presto possibile e con qualsiasi mezzo i problemi della figlia. Il suo ruolo è chiaramente quello di aiutante dei protagonisti. E’ convinta che, a volte, nel rispettare perfettamente le leggi si finisca male comunque poiché le leggi sono fatte da e per chi comanda. E’ giusto seguirle ma a volte un’interpretazione un po’ diversa di esse può aiutare a trovare una via d’uscita. Tuttavia ricordiamo che ogni suo stratagemma sarà sempre finalizzato al bene, mai ad arrecare male ad alcuno
suor Virginia, vero nome Marianna de Leyva, fu protagonista nel 1600 di uno scandalo divenuto famoso in tutta Monza; parte di questa storia è ripresa dal Manzoni per costruire questo personaggio che, nel romanzo, prende il nome di Gertrude. La vicenda di questa donna è una sorta di “piccolo romanzo nel romanzo”, in cui viene narrata la fanciullezza, l’adolescenza, la monacazione forzata, la relazione clandestina con Egidio, l’assassinio di una conversa venuta a sapere della relazione, sino all’incontro con Lucia.
Figlia di Cesare Beccaria, Illuminista, autore de “Dei delitti e delle pene”
Vedi sezione successiva, “I Promessi Sposi”, Composizione
è la domestica di don Abbondio. Sembra fare da contraltare al suo padrone: come lui è schivo, quieto, amante della tranquillità e della pace, così Perpetua è ciarliera, addirittura sfrontata, capace di usare buon senso e intelligenza quando si tratta di far uscire dai guai don Abbondio. Manzoni sembra aver costruito questi due personaggi in una coppia indissolubile, due figure “comiche”, soprattutto nei dialoghi che li vedono protagonisti.
cioè “trovaimbrogli”; persona infida, meschina, al servizio dei potenti.
coppia di nobili milanesi. Lei ama far del bene agli altri, cerca di alleviarne le sofferenze (lo farà con Lucia) ma lo fa a modo suo, facendo quello che lei crede essere il bene e, come parte della nobiltà del tempo, per “mettere in mostra se stessa”. Inoltre l’aiuto offerto a Lucia, in apparenza disinteressato, è legato anche alla curiosità di conoscere la vicenda della giovane. Questo carattere “ambiguo” non tarderà a manifestarsi proprio nel rapporto con Lucia. Lui è messo un po’ in ombra dalla moglie: uomo mite, amante della letteratura, ha raggiunto con la moglie il compromesso di potersi dedicare ai suoi studi e ai suoi libri, mentre lei si occuperà di tutte le faccende domestiche e pratiche. Orgoglio di don Ferrante è la sua grande biblioteca di opere antiche e moderne, in cui passava ore e ore.
capo dei bravi di don Rodrigo. Il suo uomo di fiducia, figura negativa come il suo signore; un vero delinquente, che svolge con competenza e dedizione quanto ordinatogli. E’ anche un uomo freddo e calcolatore, come si capirà al momento dell’emergere della malattia del padrone, quando metterà don Rodrigo nelle mani dei monatti per poterne prendere il gruzzolo contenuto nella cassetta dei tesori posta sul tavolino della camera del signore. Un personaggio fedele…. Ma solo verso le sue tasche.
cugino di don Rodrigo; anch’esso è rappresentante dei caratteri, spesso negativi, della nobiltà del Seicento.
è il bravo più fedele dell’Innominato, il suo uomo più stretto servitore; come per il padrone anch’egli è preceduto dalla fama della sua malvagità e delle sue azioni. Fondamentale saranno le sue parole a proposito di Lucia – dopo averla rapita e portata al castello dell’Innominato – per dare avvio definitivo alla crisi e successiva conversione del suo signore.
l’Italia, nel Seicento, era suddivisa in tanti piccoli Stati e nella zona del Milanese e del Nord vedeva il dominio spagnolo contrastato da quello francese (presente in altre zone della penisola). Si tratta di una sorta di “malavita” locale, per lo più al soldo dei signorotti locali, altre volte in autonomia. Li vediamo in scena dal I capitolo, con la minaccia rivolta a don Abbondio di non celebrare il matrimonio fra Renzo e Lucia.
ci si riferisce in particolare alla folla incontrata da Renzo una volta giunto a Milano. Un insieme di persone, uomini e donne, uniti da sentimenti comuni, in particolare dalla rabbia e dal desiderio di ottenere giustizia. Non è positivo il giudizio di Manzoni sulla folla, che agisce come entità unica, in cui ognuno si fa trascinare dagli altri, in particolare dai capi della sommossa, senza pensare con la propria testa.
E poi sentiremo parlare di: il conte zio, il vicario Ferrer, Bortolo, Tonio e Gervaso, il padre Provinciale…. .
Sintesi dei singoli capitoli
CAPITOLO I: Il capitolo si apre con la descrizione precisa dei luoghi in cui si svolgerà la vicenda; La sera del 7 Novembre del 1628 l’anziano parroco, Don Abbondio, è sulla strada del ritorno verso casa dalla passeggiata quotidiana. In mano ha un breviario per le preghiere. Giunge a un crocicchio dove due stradine si dividono. Proprio in prossimità del crocicchio, don Abbondio scorge uomini che non aveva mai incontrato prima, ma di cui capisce subito l’identità: sono dei bravi. I due sono armati fino ai denti, hanno una pistola con un corno per la polvere da sparo appesi tutti e due ad una grande cinta di cuoio, uno spadone e un pugnale che spunta dalla cintola. Uno dei due è seduto sul muro di cinta che separa la stradina da una proprietà privata, mentre l’altro, in piedi, sembra intento a chiacchierare con l’amico. Don Abbondio è sempre più preoccupato, vedendo che i due, dopo averlo notato, si fanno un cenno appostandosi all’imbocco delle due stradine che partono dall’incrosio. Tra sé e sé inizia a chiedersi perchè quegli uomini siano in attesa proprio di lui, così, cercando di non dare nell’occhio, tenta individuare una possibile via di fuga o la presenza di qualcuno a cui poter chiedere aiuto. Richiamando a sé tutto il suo, poco, coraggio affretta il passo e giunge davanti ai due uomini: subito uno dei due gli rivolge la parola chiedendo conferma su chi sia e sulla sua intenzione di celebrare, di li a pochi giorni, il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella. Don Abbondio, che trema dalla paura, cerca subito di difendersi spiegando loro la sua estraneità alla decisione presa dai due giovani e che lui è stato solo incaricato, in quanto sacerdote, di sposarli. Uno dei due bravi pronuncia una frase emblematica “..questo matrimonio non s’ha da fare né domani, ne mai!” che allarma ancor più il curato già spaventato e timoroso per la sua incolumità fisica. Prima di lasciarlo, quasi a rendere più forte e duratura la minaccia, i due pronunciano il nome del temuto Don Rodrigo, loro signore. Dopodiché i bravi si allontanano intonando una canzonaccia volgare. Don Abbondio resta per un attimo impietrito e terrorizzato per la minaccia di morte che gli è stata fatta; riprende, poi, il breve tratto di strada che lo separa ancora dalla sua casa, ma le gambe si muovevano a fatica bloccate dalla grande paura. Giunto a casa, Perpetua si rende subito conto del suo turbamento e, con insistenza, riesce a fargli raccontare l’accaduto, dopo aver promesso al padrone che non rivelerà nulla a nessuno. Lo consiglia di rivolgersi al cardinale di Milano, Federigo Borromeo, ma don Abbondio ripensando alla minaccia di morte si rifiuta e si rifugia nella sua stanza.
CAPITOLO II: la notte di don Abbondio trascorre agitata, soprattutto al pensiero della visita di Renzo, l’indomani, per fissare l’ora del matrimonio. Alla fine il curato decide: convincerà Renzo della necessità di rimandare il matrimonio, così da guadagnare tempo. Giunge la mattina e con essa ecco entrare in scena Renzo, di cui l’autore tratteggia la descrizione. Il giovane giunge a casa del curato per fissare l’ora della cerimonia, ma questi prima finge di essersi dimenticato poi accampa una serie di difficoltà burocratiche che rendono impossibile la celebrazione. Per confondere Renzo il curato usa il latino, irritando il giovane che lo accusa di servirsi della sua cultura per prenderlo in giro. Alla fine don Abbondio ottiene la proroga di una settimana (così si entrerà in Avvento, tempo in cui, sino all’Epifania, era proibito celebrare matrimoni) e Renzo, infuriato, lascia l’abitazione. Lo strano comportamento di don Abbondio, però, insospettisce Renzo che, intravista Perpetua, la chiama e riesce a sapere da lei che il suo padrone non ha agito di sua volontà ma su ordine di non meglio precisate persone. Furioso Renzo torna da don Abbondio e, con gesti minacciosi, si fa rivelare tutto l’accaduto, compreso il nome di don Rodrigo. Il giovane lascia la casa, diretto verso l’abitazione di Lucia, mentre don Abbondio si chiude, febbricitante, nella sua stanza. Giunto da Lucia – impegnata negli ultimi preparativi del matrimonio, insieme alla madre Agnese – Renzo le parla in privato e i due annunciano il rinvio del matrimonio, ufficialmente per un malanno del curato.
CAPITOLO III: Renzo, Lucia e Agnese restano soli in casa; la discussione si anima quando Lucia lascia intendere di sapere del problema esistente, dopodiché si abbandona al pianto e, fra le lacrime, racconta di come, alcuni giorni prima, mentre tornava dal lavoro, don Rodrigo – in compagnia di un altro signore (il conte Attilio) – l’avesse importunata con discorsi sconvenienti. Era riuscita ad allontanarsi ma aveva sentito don Rodrigo rivolgersi all’altro con uno “Scommettiamo?”. Per non preoccupare Renzo, si era rivolta a padre Cristoforo, suo confessore, che l’aveva consigliata di sposarsi il prima possibile. Terminato il racconto Renzo reagisce con ira, minacciando vendetta, Lucia piange, mentre Agnese – la sola che riesce a mantenersi calma – consiglia Renzo di recarsi da un avvocato di Lecco che, certo, potrà aiutarli: l’Azzecca-garbugli. Renzo parte subito, portando con sé, come pagamento, quattro capponi. Purtroppo l’incontro non ottiene il risultato sperato: l’avvocato scambia inizialmente Renzo per un bravo, pensando sia lui a doversi difendere da qualche accusa, quando però il giovane chiarisce l’equivoco e fa il nome di don Rodrigo Azzecca-garbugli si arrabbia e lo mette alla porta. Nel frattempo a casa di Lucia giunge fra Galdino, in cerca di noci per il convento, e la giovane ne approfitta per chiedergli di comunicare a fra Cristoforo il desiderio di parlargli con urgenza. Giunto, poi, Renzo questi comunica il fallimento dell’incontro con l’avvocato.
CAPITOLO IV: Fra Cristoforo non perde tempo e all’alba del giorno seguente, lascia già il convento di Pescarenico per dirigersi a casa di Lucia: nel cammino il frate scorge mendicanti e contadini affamati, preannuncio della carestia che sta per abbattersi sulla zona. A questo punto Manzoni apre una lunga parentesi sulla vita precedente di fra Cristoforo: non si era sempre chiamato così, poiché suo vero nome era Ludovico, ed era figlio di un ricco mercante che, per tutta la vita, aveva cercato di essere accettato nella cerchia nobiliare, allevando il figlio come un vero nobile. Proprio l’origine sociale, il rifiuto di ogni violenza sui più deboli e il carattere forte e orgoglioso, gli creano però diversi nemici. Ludovico diventa una sorta di difensore degli oppressi ma, per farlo deve ricorrere anch’egli alla violenza, e questo lo turba non poco. Un giorno Ludovico si ritrova a passare in una stretta via, in compagnia dei suoi bravi e del suo maggiordomo, Cristoforo. S’imbatte in un signorotto, suo nemico, e – per questioni di precedenza – fra i due scoppia un violento scontro: Cristoforo, per salvare la vita a Ludovico, viene ucciso; anche Ludovico è ferito ma, accecato dall’ira, ha la meglio sull’avversario e lo colpisce a morte. La folla per metterlo in salvo lo consegna al vicino convento dei cappuccini: qui il rimorso per l’omicidio, il dolore per la morte del servitore, il desiderio di scontare il male fatto fanno rinascere in lui l’antica vocazione e così chiede di entrare nell’ordine dei cappuccini, prendendo il nome di Cristoforo in onore del fedele servitore. Ma, prima di prendere i voti, Cristoforo decide di presentarsi davanti alla famiglia del signore ucciso per chiedere perdono al fratello del morto; questi accetta con l’intenzione di umiliarlo davanti a tutti gli invitati all’evento, ma l’umiltà e il pentimento di Cristoforo sono tali da mutare anche i sentimenti dell’altro e dei presenti. Prima di lasciare il palazzo il frate domanda, per il viaggio che dovrà compiere, un pane, che conserverà – in parte – come segno duraturo del perdono ricevuto.
Ed ecco Manzoni tornare sul nostro frate, ormai anziano e che nel tempo aveva saputo rendere più mite il suo carattere pur ponendosi sempre al servizio dei più indifisi, giunto, nel frattempo, a casa di Lucia.
CAPITOLO V: Il frate viene informato dell’accaduto; pensa un attimo al da farsi, poi decide di recarsi personalmente a casa di don Rodrigo per cercare di dissuaderlo dalle sue cattive intenzioni. Il frate, incamminatosi, passa per il borgo che circonda il palazzotto di don Rodrigo: si tratta di misere case, abitate per lo più dai bravi del signore, come lasciano intuire le armi e le reticelle appese ai muri, la corporatura tarchiata e il volto torvo degli abitanti. Finalmente il frate giunge al palazzo: la porta è chiusa – poiché il padrone è a pranzo – le poche e piccole finestre sono difese da massicce inferriate: davanti al portone fanno la guardia quattro creature, due bravi e due avvoltoi, imbalsamati. Un vecchio servitore fa entrare il frate e lo introduce nella sala da pranzo dove si sta tenendo un banchetto, presenti fra gli altri, oltre al padrone di casa, il cugino Attilio, il podestà del paese, Azzecca-garbugli. Per un po’ don Rodrigo tenta di rimandare il colloquio con il frate, fingendosi impegnato nella conversazione, ma non potendo prorogare oltre l’incontro i due si ritirano in un’altra stanza.
CAPITOLO VI: Il tono di don Rodrigo si mostra subito prepotente; fra Cristoforo non si lascia intimorire e, pur senza accusarlo direttamente, invita il signorotto ad aiutare i due giovani, riparando al male che “qualcuno” ha fatto loro. Rodrigo finge di non capire, provoco di continuo il frate, s’irrigidisce di fronte ai suoi accenni alla coscienza e a Dio, poi al massimo della sfrontatezza invita il frate a suggerire a Lucia di mettersi sotto la sua protezione, nel suo palazzo. A quel punto torna in Cristoforo il vecchio Ludovico: indignato con tono duro afferma che Lucia è già sotto la protezione di Dio e alzando una mano la cielo e quasi contro don Rodrigo pronuncia una sorta di profezia: “verrà un giorno…”. In preda all’ira e spaventato, il signorotto caccia il frate. Uscendo, però, questi viene fermato dal servitore che l’aveva fatto entrare: questi pur lavorando da anni per la famiglia di don Rodrigo non condivide le malvagità di quest’ultimo, così rivela a fra Cristoforo dell’esistenza di un piano riguardante Lucia, promettendogli inoltre che l’indomani si recherà da lui al convento per riferirgli ogni novità. Intanto a casa di Lucia, Agnese escogita un piano e lo espone ai due giovani: esiste la possibilità di sposarsi anche senza il consenso del sacerdote, basterà presentarsi davanti a lui, con due testimoni, e pronunciare la formula di rito: “Questi è mia moglie”, “Questi è mio marito”, e il matrimonio sarà fatto. Renzo accetta subito, Lucia tentenna, soprattutto davanti alla richiesta di non dire nulla a fra Cristoforo, poiché capisce che si tratta di un “imbroglio”. Quest’ultimo esce in cerca di due testimoni fidati, e li trova in due fratelli, Tonio – in cambio del cui favore Renzo promette il pagamento di un vecchio debito che questi ha proprio con don Abbondio – e suo fratello Gervaso. Tornato a casa i tre discutono nuovamente sull’onestà o meno del piano, quand’ecco giungere fra Cristoforo.
CAPITOLO VII: Il frate racconta tutto l’accaduto, poi lascia l’abitazione, con Renzo furente e in preda a desideri di vendetta; Lucia esita ancora, poi accetta anch’essa il piano della madre, per evitare che Renzo commetta qualche azione sbagliata. Tutto è architettato per la sera seguente. L’indomani, mentre Renzo è impegnato nei preparativi del piano, strane figure compaiono nella casa delle due donne: un mendicante con la scusa di chiedere la carità entra e sembra spiare l’abitazione, altri uomini – sospetti – ruotano intorno. Tutto questo getta nel timore Agnese e Lucia: si tratta del capo dei bravi di don Rodrigo, il Griso, e di altri suoi uomini incaricati di organizzare il rapimento di Lucia, ordinato quella stessa mattina da don Rodrigo, per vendicarsi dell’affronto subito dal frate e per non perdere la scommessa con il cugino Attilio, che non mancava di deriderlo in continuazione. Del dialogo tra don Rodrigo e il Griso si era reso conto anche l’anziano servitore che, subito, si era messo in cammino verso il convento per comunicare tutto a fra Cristoforo. Mentre il Griso e i suoi decidono come appostarsi e come agire quella sera stessa, Tonio, Gervaso e Renzo passano a prendere le due donne e si dirigono verso la casa di don Abbondio. Con uno stratagemma – Tonio dice di essere venuto per saldare il debito con il curato – riescono a farsi aprire da Perpetua (Renzo e Lucia restano nascosti dietro un angolo); Agnese, poi, finge di passare di lì per caso e fa in modo che Perpetua si allontani dall’ingresso, impegnandola in una lunga conversazione… così i due giovani possono entrare.
CAPITOLO VIII: i quattro compaiono davanti a don Abbondio; Renzo riesce a pronunciare la formula di rito, Lucia ha appena cominciato ma viene bloccata dal curato che le lancia addosso un tappeto, impedendole di terminare. Nella confusione e nel buio – anche l’unica lucerna si era spenta – don Abbondio, a tastoni, riesce a rifugiarsi in un’altra stanza e chiama in suo aiuto prima Perpetua, poi il sagrestano, Ambrogio, che si precipita a suonare le campane (segno di pericolo), facendo accorrere molti abitanti del paese. Anche i bravi, che intanto erano entrati in casa di Lucia, accorgendosi dell’assenza delle donne, sentono le campane e, temendo di essere stati scoperti, si danno alla fuga. Renzo, Lucia, Agnese e i due testimoni fuggono verso casa ma sono avvertiti da un ragazzino del paese , mandato da fra Cristoforo per avvisarli del pericolo, di recarsi al convento di Pescarenico. Qui il frate comunica loro la necessità di lasciare il paese e di separarsi: Agnese e Lucia si recheranno in un convento di Monza, Renzo – provvisto di una lettera – si recherà in un convento di Milano. I tre abbandonano il paese, attraversando il lago di Como su un’imbarcazione, con il cuore pieno di tristezza per ciò che stanno lasciando. E’ l’”addio monti” di Lucia.
CAPITOLO IX: a Monza i tre si separano. Le due donne vengono condotte al convento di monache della città, nella speranza di entrare nelle grazie della “signora” (la badessa) del convento, che accetta di offrire rifugio alle due donne. Ecco iniziare un altro flash-back, dopo quello sulla vita di fra Cristoforo, questa volta sul passato della “monaca di Monza”. Gertrude, questo il suo nome, era figlia di un ricco gentiluomo Milanese che, come era usanza in quel tempo, aveva destinato tutto il suo patrimonio al suo primogenito, programmando per gli altri maschi la carriera militare e per le femmine la vita in convento. Gertrude non era nata per fare la suora ma sin da bambina era stata messa a giocare con bambole vestite da religiose e abituata a sentirsi chiamare con nomi e appellativi propri dell’ambiente religioso. A sei anni era entrata in monastero, ma quando, un po’ più grandicella, confrontandosi con altre coetanee aveva capito che il suo destino sarebbe stato quello di diventare suora, e non di uscirne come altre per sposarsi, fece di tutto per ribellarsi. Nel suo caso avevano preso il sopravvento la volontà del padre e gli accordi tra questo e la badessa. La giovane aveva anche inviato una lettera al padre, per fargli comprendere come la sua volontà fosse, come si sentisse molto legata alla famiglia e alle cose terrene; ma la sua supplica non aveva ottenuto i risultati sperati, anzi, tornata a casa per un breve periodo era stata trattata come un’estranea, quasi umiliata, fatta sentire non voluta, senza alcuna manifestazione d’affetto: una vera tortura psicologica, tanto da spingerla a ritenere migliore la vita in convento, dov’era riverita e trattata con onore.
CAPITOLO X: disperata e contro la sua volontà la giovane aveva espresso il proposito di tornare in convento, cosa accolta con grande entusiasmo dalla famiglia che, con rapidità, aveva sfruttato il momento: portata in convento aveva fatto domanda di essere definitivamente accolta nel monastero.
Ma c'era ancora una prova da superare: Gertrude doveva sostenere un esame, un colloquio, con il padre guardiano per stabilire che la decisione fosse spontanea e libera, non condizionata da pressioni esterne. Era l’ultima possibilità di sfuggire a un destino imposto, ma Gertrude non aveva avuto il coraggio di dire la verità e tra grandi festeggiamenti si era trovata suora per sempre. Vittima del sopruso, dell’inganno, del ricatto, non aveva mai saputo perdonare né aveva saputo cercare nella fede le grandi consolazioni che essa può concedere a tutti gli infelici che, nonostante tutto, riescono ad abbandonarsi alla volontà di Dio. Continuava a rammaricarsi con se stessa, a vedere le atre suore come coloro che avevano contribuito a ingannarla, a pensare alla realtà esterna, da cui era esclusa e che proprio l’esclusione rendeva desiderabile sempre più.
Gli anni erano trascorsi tra passività, ribellioni, insoddisfazione, sgarbi e soprusi verso le consorelle, ricerca di una persona a cui appoggiarsi e in cui trovare fiducia, improvvisi cambiamenti d'umore. Il sapersi di nobile famiglia, e i privilegi a ciò collegati, le dava solo fugaci consolazioni; la sua vita cambiò, almeno per un periodo quando, cedendo alle pressioni e alla corte di un giovane scellerato, Egidio, che abitava accanto al convento, si lasciò sedurre divenendone l'amante. Per un po' una sorta dì gioia le diede l'illusione di aver trovato ciò che cercava (e di ciò erano felici anche le consorelle). A volte però cadeva in stati d'animo di abbattimento e, ad un tratto, si trovò a passare dal peccato al delitto: un giorno una suora conversa minacciò di rivelare ai superiori la relazione amorosa: poco dopo scomparve. Era stata uccisa da Egidio e sepolta vicino al convento.
E’ passato un anno da questi fatti, quando Lucia arriva al convento e trova la sua protezione.
CAPITOLO XI: I bravi rientrano nel palazzotto di don Rodrigo e il Griso riferisce del fallimento del rapimento. Rodrigo ordina al Griso d’informarsi al più presto di quanto sia realmente accaduto; la mattina seguente troviamo il signorotto a colloquio con il cugino Attilio che, dopo averlo preso in giro per l’ennesima volta, insinua come la colpa di tutto sia certamente di fra Cristoforo, proponendo di risolvere lui la questione, chiedendo aiuto al potente “conte zio”. Il Griso, intanto, raccoglie e comunica a don Rodrigo novità importanti: Lucia è a Monza, Renzo a Milano; viene poi mandato a Monza per studiare la situazione.
Ma, a questo punto, Manzoni sposta l’attenzione su Renzo: questi è appena entrato in Milano, restando affascinato alla vista del Duomo. Prosegue poi il cammino, dirigendosi verso il convento dei frati cappuccini; tuttavia in città c’è un’aria strana: le strade sono deserte e sul suolo sono visibili strisce bianche, di farina. Vede anche, per terra, dei pani, e se ne impossessa, ed una famiglia, carica di farina e pane. Renzo capisce che è in presenza di qualche tumulto e giudica positivamente, tra sé e sé, chi – a motivo della fame – deve usare la forza per ottenere giustizia. Il giovane, intanto, è giunto al convento, ma il frate a cui l’ha indirizzato padre Cristoforo è momentaneamente assente, così Renzo – anziché attenderlo – decide di avvicinarsi ai luoghi del tumulto.
CAPITOLO XII: l’Autore, da storico, chiarisce le cause della carestia che sta attanagliando Milano: i raccolti erano stati scarsi a causa di avverse condizioni climatiche e parte del raccolto era stato destinato ai soldati, impegnati nella guerra di successione al ducato di Mantova; la stessa guerra, inoltre, aveva provocato l’abbandono di molti terreni, lasciati incolti. Tutto ciò aveva provocato un rialzo dei prezzi, tra cui quello del pane, causando malcontento nella popolazione e il sospetto che i fornai tenessero nascosta la farina per portare all’aumento dei prezzi. Il governatore spagnolo, Gonzalo Fernandez de Cordova, era in quel momento assente, impegnato nell’assedio di Casale e, al suo posto, l’incarico di governare era stato affidato al reggente, Antonio Ferrer, un vero incapace. Questi, timoroso davanti alle richieste del popolo, aveva imposto un nuovo prezzo del pane, ma eccessivamente basso: se la gente era stata contenta, i fornai si erano trovati sul lastrico, decidendo – in segno di protesta – di scioperare. Di nuovo Ferrer modificò il prezzo del pane, questa volta verso l’alto, spingendo però il popolo alla rivolta. Il 10 novembre 1628, il giorno prima dell’arrivo di Renzo, la gente era ormai sul piede di guerra e, la mattina dell’arrivo di Renzo, i garzoni dei fornai (che uscivano per portare il pane nelle case dei nobili) e i panettieri erano stati assaliti e saccheggiati. Non soddisfatta la gente aveva assalito un forno vicino, detto “delle grucce”, facendo incetta di pane e farina (tumulto di San Martino).
Renzo era giunto a Milano proprio a saccheggio quasi concluso. Sente i commenti della gente ma non condivide la violenza della folla, anche se ne capisce i motivi; a quel punto decide di seguire la folla verso piazza del Duomo, dove si sta tenendo un falò con quanto era stato portato via dal forno. Intanto giunge la notizia dell’assalto a un altro forno: Renzo vi si reca, con altri, trovando però la bottega chiusa e il proprietario deciso a difendersi. Ma ecco giungere l’invito ad attaccare la vicina casa del vicario di provvisione, ritenuto da tanti il vero responsabile della situazione; la proposta è accolta.
CAPITOLO XIII: la folla, inferocita, assalta la casa del vicario provvisione che, terrorizzato, dalla soffitta, osserva quanto sta accadendo; Renzo tenta di distogliere la folla dai propositi di linciaggio, inveendo contro i malintenzionati, tanto da rischiare esso stesso di essere malmenato. D’improvviso ecco giungere, in carrozza, il cancelliere Ferrer: circola la voce che sia giunto per arrestare il vicario di provvisione, ecco perché molta gente lo sostiene. Con abile recita e capacità oratoria questi rivolge alla gente sorrisi e promesse, giura giustizia e pane per tutti; anche Renzo resta affascinato dalle sue parole, in apparenza oneste. Il cancelliere arriva all’entrata del palazzo, entra per poi uscirne con il vicario di provvisione che, in fretta, è caricato sulla carrozza; i due così possono allontanarsi sani e salvi.
CAPITOLO XIV: mentre la folla si disperde Renzo, imbattutosi in un gruppetto di persone, comincia – ad alta voce – a manifestare la sua opinione su quanto accaduto, scagliandosi contro gli abusi commessi dai potenti, ancor più infervorato perché pensa al male commesso contro di lui e Lucia da don Rodrigo. Renzo sfoga, così, tutta la rabbia che ha dentro, elogiando la possibilità – per il popolo – di ottenere giustizia con la propria forza. Man mano altra gente, attirata dal tono della voce, accorre a quello che aveva l’aspetto di un vero “comizio”. Ormai, però, si è fatto tardi per tornare al convento dei cappuccini e Renzo chiede indicazioni per giungere a un’osteria in cui mangiare e dormire. Un giovane, che aveva assistito al discorso, si offre di accompagnarlo a una locanda non lontana; lungo il tragitto questi si rivela molto interessato alla vicenda di Renzo, cerca di conoscerne l’identità, ma egli non fornisce indicazioni precise. I due giungono all’osteria della “Luna piena”: è un ambiente chiassoso, sporco, affollato di persone che giocano a carte e dadi. I due siedono a un tavolo e ordinano cibo e vino, continuando a chiacchierare delle vicende della giornata. L’oste, nel frattempo, ha riconosciuto nel giovane che è con Renzo una spia della polizia. Renzo scola rapidamente un bicchiere dopo l’altro e il suo tono di voce aumenta, così come la pericolosità di quanto pronunciato, continuando a pronunciare parole contro i potenti e i loro soprusi. Giunta l’ora tarda Renzo viene invitato dall’oste a fermarsi per la notte, ma alla richiesta dei suoi dati personali si rifiuta di presentarsi volendo proteggere ogni suo segreto. Ma il vino ha ormai avuto il suo effetto: Renzo inveisce di nuovo contro i potenti, contro il loro uso della cultura e della scrittura per imbrogliare la gente semplice, e si dice favorevole della giustizia diretta, raggiunta con l’azione, pur senza violenza eccessiva. Ormai del tutto stordito, però, Renzo finisce per rivelare alla spia il suo nome e cognome.
CAPITOLO XV: La guida di Renzo, una volta ottenuto ciò che voleva, se ne va velocemente; l’oste accompagna così in una stanza il giovane, del tutto ubriaco, poi si dirige verso il Palazzo di Giustizia, per denunciare Renzo. I pensieri dell’oste, lungo la strada, riflettono il suo carattere opportunista e prudente, rivolto solo a mettere al sicuro se stesso. Una volta giunto al Palazzo di Giustizia, però, l’oste si rende conto che la polizia sa già tutto riguardo a Renzo grazie alla guida che lo aveva accompagnato all’osteria. Era, appunto, un poliziotto “in borghese”, incaricato di identificare gli autori dei tumulti per poterli arrestare. L’oste viene dunque lasciato andare raccomandandogli di non lasciare fuggire Renzo. La mattina dopo quest’ultimo viene svegliato da qualcuno che grida il suo nome: davanti a sé vede un notaio (in abito nero) e due guardie; è invitato a seguirli al Palazzo di Giustizia, anche se il notaio cerca di tranquillizzarlo asserendo si tratti di una pura formalità. Il notaio, infatti, teme di restare coinvolto, una volta in strada, in qualche tumulto, visto il clima di tensione presente nella città; per questo, una volta scesi, il notaio continua a invitare Renzo a comportarsi il più normalmente possibile, ma il giovane ha intenzioni diverse: comincia, prima con gesti, poi con grida, ad attirare l’attenzione dei passanti che accorrono, sempre più minacciosi, costringendo le guardie e il notaio alla fuga e permettendo a Renzo la fuga.
CAPITOLO XVI: Renzo si allontana velocemente, con l’intenzione – da subito – di lasciare Milano e di rifugiarsi presso il cugino Bortolo, in territorio bergamasco, dove non sarebbe più stato ricercato dalla polizia, poiché non più sotto lo Stato di Milano ma sotto la Repubblica di Venezia. Il primo problema che si presenta a Renzo è quello della richiesta d’informazioni riguardo la propria meta. Chiedere del territorio bergamasco non sarebbe prudente, anzi, sarebbe chiaramente sospetto; decide, allora, di farsi indicare la direzione per un paese che sia il più vicino possibile al confine, anche se ancora nello Stato di Milano. Si ferma allora in un’osteria, nei campi, dove mangia ma non beve (Renzo ha imparato la prima lezione), poi chiede indicazioni per il paese più vicino al confine, fingendo di non ricordarne il nome, così da farselo dire da una vecchia lì presente: Gorgonzola. Renzo s’incammina verso il paese e, giuntovi, si ferma in un’altra osteria, soprattutto per informarsi riguardo alla distanza dall’Adda, fiume che segnava il confine tra i due Stati. Con circospezione Renzo chiede solo indicazioni essenziali mentre, seduto in un angolo, sente altri clienti discutere sugli ultimi fatti avvenuti a Milano. Essi cercano di coinvolgere lo stesso Renzo nella discussione, ma senza ottenerne nulla; nel frattempo arriva – da Milano – un mercante, e tutti lo interrogano per conoscere le novità. Questi racconta dei tumulti, dal suo punto di vista, e fa riferimento anche ad un forestiero arrestato in un’osteria, un capo dei tumulti, a suo dire, riuscito, a fuggire grazie all’aiuto di alcuni compagni. Renzo si riconosce nella descrizione, così, appena terminato di mangiare, paga il conto e si rimette in cammino.
CAPITOLO XVII: Ancora sconvolto dal racconto, in più punti falso, del mercante, Renzo prosegue il cammino, prendendo una stradina secondaria; scende, intanto, l’oscurità e sulla via non vi sono più passanti cui chiedere informazioni. Il giovane prima attraversa dei campi incolti, poi entra in un bosco: è stanco, scoraggiato, impaurito in quell’intrico di alberi, infreddolito, sta per cedere ma ecco… un rumore d’acqua corrente riaccende in lui la speranza e la forza: è l’Adda. Giunto alla riva, grazie al chiarore della luna Renzo intravede da lontano Bergamo; essendo notte non sarebbe prudente attraversare il fiume, per questo decide di aspettare l’indomani, trovando rifugio in un capanno per gli attrezzi. La notte non trascorre del tutto serena: dopo aver pregato, essersi affidato a Dio ed essere giunto a una conclusione riguardo alla durezza e complessità della vita (ulteriore passo verso la maturazione), nella mente di Renzo si affollano immagini dei giorni appena trascorsi, pensa con rabbia a don Abbondio e a don Rodrigo, con amore e sofferenza a Lucia, a fra Cristoforo e ad Agnese. Ma ecco, finalmente, l’alba: tornato sulla riva il giovane domanda a un barcaiolo di traghettarlo sull’altra sponda. Questi senza tante parole accetta, portando Renzo in territorio bergamasco; prima di lasciarsi i due, con un gesto, si promettono reciprocamente silenzio; il barcaiolo era abituato a traghettare clandestinamente malfattori e contrabbandieri, per questo – forse scambiandolo per uno di loro – aveva accettato la richiesta di Renzo. Una volta a terra il giovane è inizialmente preso dalla nostalgia per il suo paese e i suoi cari (ma anche da fastidio per quanto di spiacevole per lui proprio in quel paese era accaduto), ma la scaccia velocemente e si avvia verso il paese del cugino Bortolo; lungo la strada, come nel Milanese, lo spettacolo è quello della miseria e della carestia, tuttavia – nonostante la scarsità di lavoro e la situazione difficile presente anche in queste zone (mitigata però da provvedimenti migliori presi dal governo di Venezia) – appena giunto dal cugino questi assicura che gli troverà un impiego come filatore.
CAPITOLO XVIII: Nel frattempo nel paese dei promessi sposi la situazione per Renzo non è delle migliori; il Tribunale di Milano ha dato ordine al podestà di Lecco di recarsi a casa di Lorenzo Tramaglino e di arrestarlo; recatovi non trova nessuno ma la notizia dell’avvenimento si diffonde subito tra i paesani convinti dell’innocenza del giovane e che dietro tutto ciò vi sia la figura di don Rodrigo. Quest’ultimo, intanto, ha ottenuto dal Griso informazioni riguardo al rifugio di Lucia nel monastero di Monza – notizia che preoccupa il signorotto, poiché vede il luogo come una sorta di fortezza inespugnabile, tale da fargli pensare, come unica soluzione, alla richiesta di aiuto a un uomo potente ma anche molto pericoloso – e la promessa del cugino Attilio, sul punto di partire per Milano, di essere liberato da fra Cristoforo. Così è: a Milano Attilio si reca dal conte zio, rappresentante più potente della famiglia, ed espone – dal suo punto di vista, quindi in modo distorto – i fatti avvenuti tra don Rodrigo e fra Cristoforo. E il risultato è immediato.
Un’altra coincidenza sta giocando a favore di don Rodrigo: al convento di Monza Agnese e Lucia erano venute a sapere, con preoccupazione, dei tumulti di Milano e della fuga di Renzo; un uomo inviato da fra Cristoforo, però, le aveva rassicurate sulla salvezza del giovane, e per due settimane aveva continuato a portare loro notizie; la terza non era più comparso, lasciando nell’angoscia le due donne. Agnese aveva così deciso di tornare al paese, passando per il convento di Pescarenico: qui aveva saputo del trasferimento a Rimini di fra Cristoforo.
CAPITOLO XIX: Il conte zio, dopo il colloquio con Attilio, si era rivolto al superiore dell’Ordine dei cappuccini per far allontanare il frate da Lecco; pur con la tristezza nel cuore e con il pensiero rivolto a Renzo e Lucia il frate, per il voto di obbedienza, aveva dovuto accettare la decisione del padre provinciale di inviarlo a Rimini, partendo immediatamente.
Intanto don Rodrigo si reca dall’unico uomo, potente e terribile, che possa aiutarlo a rapire Lucia dal convento. E’ un personaggio “misterioso”, di cui il manoscritto (da cui l’Autore finge di aver tratto la vicenda) non rivela il nome e, per questo, detto “l’Innominato”. E’ un uomo temuto da tutto, famoso per la sua violenza e il suo potere. A lui la legge aveva cercato di opporsi, persino esiliandolo ma, dopo essersi creato una fama uguale anche all’estero, era tornato a casa, e tutti i signori della zona, chi in un modo chi in un altro, avevano dovuto fare i conti con lui, come amici o nemici; talvolta si era schierato con i deboli, in loro difesa contro i potenti che li opprimevano, e in quei casi il suo nome anziché maledetto era stato benedetto. Anche don Rodrigo aveva dovuto adattarsi a questo signore e ora era costretto a rivolgersi a lui.
CAPITOLO XX: La descrizione che Alessandro Manzoni da del castello dell’innominato sembra quasi presentarci un luogo molto più adatto ad una storia di terrore che alle vicende dei nostri promessi sposi.Il palazzotto, infatti, è arroccato in cima ad un colle e domina tutta la valle che si estende ai suoi piedi, posto a cavallo tra lo Stato di Milano e la Repubblica di Venezia. Agli inizi della salita sorgeva un’osteria, della Malanotte, un posto di guardia, pieno di bravi dell’Innominato. Riconosciuto come amico di quest’ultimo don Rodrigo deve però lasciare armi, cavallo e scorta per avviarsi al castello; una volta giunto rivolge subito la sua richiesta all’Innominato e, per essere certo del suo sì, fa il nome di fra Cristoforo, odiato anche dallo stesso Innominato perché nemico di ogni tiranno. L’uomo accetta subito l’incarico, sapendo di poter contare, a Monza, sull’appoggio di Egidio, amante di Gertrude. Tra i due, infatti, il legame non si era mai sciolto, poiché uniti dal segreto dell’uccisione della giovane suora; un segreto che metteva la monaca nelle mani del compagno, sempre pronto, in caso di necessità, a rivelare tutto.
Tuttavia, una volta solo, l’Innominato comincia a essere assalito da un’inquietudine strana – che da tempo avvertiva – da dubbi, legati a pensieri collegati al timore della vecchiaia, della solitudine, della morte, al pensiero dell’esistenza di Dio e di un giudizio divino. Per allontanare questi pensieri l’Innominato decide di mettersi subito in azione e invia il Nibbio da Egidio per organizzare il rapimento; Egidio, per il motivo visto prima, ottiene – dopo un tentennamento iniziale – l’aiuto di Gertrude per far uscire Lucia dal convento. Una mattina, infatti, la ragazza riceve la strana richiesta, proprio dalla madre superiora, di uscire dal monastero per recarsi dal padre guardiano dei Cappuccini con una comunicazione improvvisa. Ma, naturalmente, quella è l’occasione concordata con Egidio per permettere il rapimento. Lucia dopo un’esitazione, per gratitudine verso colei che finora l’ha protetta accetta ma, ad attenderla lungo la strada deserta, vi è il Nibbio, che, accompagnato in carrozza da altri bravi l’ attira con la scusa di un’indicazione, per poi caricarla a forza sulla carrozza. La giovane è terrorizzata, più volte sviene, per poi rinvenire e pregare i rapitori di liberarla.
Al castello l’Innominato, con ansia, l’attende e, quando vede da lontano la carrozza, vorrebbe ordinare subito di mandare Lucia da don Rodrigo, ma una voce interiore – Provvidenziale – lo fa desistere. Fa chiamare una vecchia serva, da tempo abitante del castello, ordinandole di andare incontro a Lucia con una piccola carrozza per consolarla e farle coraggio.
CAPITOLO XXI: All’osteria della Malanotte Lucia è fatta passare sulla piccola carrozza in cui è presente la vecchia serva e da qui condotta al castello; intanto il Nibbio le ha precedute dall’Innominato, per fare rapporto su quanto accaduto. Tutto era andato bene, ma aveva provato – per la prima volta in vita sua – pena per la giovane, tanto che avrebbe preferito ucciderla piuttosto che vederla così e provare quelle sensazioni. Il resoconto stupisce l’Innominato, conscio della durezza del suo uomo di fiducia, e ancora una volta vorrebbe spedire Lucia da don Rodrigo, ma la stessa voce di prima lo trattiene, anzi decide di farle visita nella stanza in cui è stata rinchiusa in compagnia della vecchia serva. La trova rannicchiata in un angolo, terrorizzata e, quando vede il potente signore, lo implora di liberarla, di avere pietà “ per quel Dio disposto a perdonare molto per una sola opera di misericordia”. Queste parole colpiscono subito l’Innominato che se ne va dopo averle promesse che nulla di male le sarà fatto e una sorta di promessa di liberazione. L’incontro termina con le raccomandazioni dell’uomo alla vecchia dalla quale esige il massimo controllo sulla ragazza e piena disponibilità ad offrirle assistenza e cibo. La notte che segue è una delle più difficili e tormentate per entrambi i protagonisti. Lucia, nel buio della stanza, esprime il desiderio di essere lasciata sola e, rifiutato qualsiasi cibo, rimane in preda della disperazione; pensa continuamente a tutti i momenti di quella terribile giornata ripercorrendoli ad uno ad uno e non riesce a darsi pace. Prova a dormire, ma riesce a chiudere gli occhi solo per pochi momenti in cui lo spavento provato solo poche ore innanzi riempie di ricordi la sua mente. Prega in silenzio, con in mano il rosario, raggomitolata in una angolo; lo spavento è tanto che arriva a fare un voto alla Madonna: chiede la Sua protezione in cambio della propria verginità, sperando che la sua intercessione possa toccare il cuore dell’Innominato e salvarla da quella prigione. Intanto l’Innominato, chiuso nelle sue stanza, cerca di riposare, non sapendo ancora che quella sarebbe stata, anche per lui, un lunga nottata. Messosi a letto, infatti, l’uomo inizia a riflettere su quanto la ragazza gli aveva detto e sulle parole del Nibbio, in particolare sulla parola “compassione”;
continua a chiedersi cos’abbia quella ragazza per aver destato tanto rimorso nel suo sgherro e per affollare così intensamente anche i suoi pensieri. Prova rabbia, abbattimento, presa di coscienza per il male fatto per tutta la sua vita, timore del futuro e, tutto ciò, lo spinge sull’orlo del suicidio. Ma il pensiero della possibile esistenza di una vita dopo la morte lo fa desistere, sente di nuovo il desiderio di liberare quella ragazza, e gli ritornano alla mente le parole da lei pronunciate sul perdono.
L’indomani mattina l’Innominato sente un gran frastuono provenire dalla valle sottostante il castello; si appresta a raggiungere la finestra per capire cosa stia accadendo a sua insaputa e si accorge, con un certo stupore, che la popolazione è in subbuglio. Dall’alto della sua postazione l’Innominato può scorgere uomini e donne fuoriuscire dalle loro casupole, carrozze e calessi ed avviarsi lungo le strade principali verso una direzione che lui ignora. Incuriosito, si affretta a mandare uno dei suoi bravi per capire meglio quanto stia succedendo.
CAPITOLO XXII: Il bravo ritorna con l’annuncio che la gente è festante per la visita pastorale del cardinale Federigo Borromeo, arcivescovo di Milano. L’Innominato si domanda cosa possa rendere quell’uomo tanto amato, così decide di recarsi di persona da lui; prima però si reca nella stanza di Lucia – addormentata – e ordina alla serva di rassicurarla, al suo risveglio, riguardo alle buone intenzioni dell’Innominato verso di lei. Ma chi era Federigo? Si tratta di una figura molto importante, di un uomo, oltre che di un religioso, molto rispettato e ben voluto da tutta la popolazione per il suo rigore morale e per il suo grande cuore: era nota la sua immensa carità, ma ad essere conosciuta e molto apprezzata era soprattutto la sua grande capacità di consigliare e rincuorare chiunque cercasse il suo aiuto. Insomma un grande spirito la cui principale ricchezza era l’enorme rispetto per tutti gli uomini, tutti da lui considerati suoi fratelli. Uomo mite, mai adirato se non con i preti che venivano meno ai doveri del sacerdozio. Era anche un uomo di profonda cultura, fondatore della Biblioteca Ambrosiana, ricca di manoscritti e volumi.
CAPITOLO XXIII: Il cardinale riceve l’inaspettata ma per lui gradita visita dell’Innominato, pieno di speranza nei frutti di questo incontro. Lo accoglie con un sorriso, come si farebbe con un amico; a lungo i due restano in silenzio: l’Innominato sente in sé la lotta tra il desiderio di trovare perdono per il male fatto e la paura dell’umiliazione. E’ il cardinale a sbloccare la situazione, rivolgendosi a lui con tono paterno, con parole di carità; è la voce di Dio che parla attraverso di lui, come già aveva parlato tramite Lucia, e che apre il cuore dell’Innominato alla conversione definitiva, manifestatasi nel pianto e nell’abbraccio fraterno tra i due, quasi che il cardinale, oltre a consolarlo, volesse accoglierlo, con un gesto, nella nuova vita che per lui sarebbe iniziata. Ormai il processo di conversione è inarrestabile: l’uomo confessa le sue colpe, tutto il male fatto, disgustato da esso ma consapevole della possibilità di un’esistenza diversa, illuminata da Dio. Esprime il desiderio di porre rimedio ai torti commessi e, in particolare, racconta quanto fatto a Lucia, tenuta prigioniera nel suo castello. I due convengono insieme che è il caso di fare subito qualcosa per Lucia. Il caso vuole che, presente in quel luogo, a causa dell’incontro tra clero locale e cardinale, ci sia anche don Abbondio. Federigo lo fa chiamare dal cappellano e questi compare, titubante e timoroso come al suo solito. Don Abbondio si fa coraggio e accede nella stanza in cui è presente il suo superiore, ricevendo da esso l’ incarico di accompagnare l’Innominato al castello di quest’ultimo per liberare Lucia, così che questa sia tranquillizzata dalla presenza di un volto noto. Con loro sarebbe salita una donna scelta dal curato del paese, mentre un altro uomo sarebbe stato mandato da Agnese per portarla dalla figlia. Don Abbondio cerca di sottrarsi a questo incarico, è infatti terrorizzato dalla presenza e dalla fama dell’Innominato, ma ormai la decisione è stata presa: messo a dorso di mulo il curato si appresta a seguire quell’uomo verso il suo castello. Si tratta di un viaggio breve, ma che al religioso sembra interminabile: trascorre il tempo osservando l’Innominato e scrutando il castello verso cui stavano avvicinandosi. Dentro di se è tutto un insieme di paura e fastidio e nella mente se la prende con l’Innominato perché dopo una vita di azioni malvagie si è convertito in modo clamoroso, con don Rodrigo perché invece di godersi la sua ricchezza è andato a creare tutta quella situazione per capricci amorosi, con il cardinal Federigo che per amore del prossimo, persino di uno come l’Innominato, intraprende azioni pericolose, con Lucia che, con le sue disavventure, ha messo in mezzo anche lui.
Giunti al castello l’Innominato si affretta a salire verso la stanza in cui è rinchiusa Lucia.
CAPITOLO XXIV: ed ecco giungere al termine il “romanzo dell’Innominato”, iniziato con il XIX capitolo. Alla vista di Don Abbondio sorpresa e contentezza si impossessano del cuore di Lucia, accresciute dalla consapevolezza che la liberazione è diventata possibile grazie alla conversione dell’Innominato che le si para davanti domandandole perdono. Viene subito organizzata la partenza: La discesa verso la valle libera definitivamente l’animo di Lucia da qualsiasi paura e un aiuto importante le viene dato dalla donna mandata con don Abbondio: si tratta della moglie del sarto del paese, che ha per Lucia solo parole di conforto e le racconta la vicenda della conversione dell’Innominato. Don Abbondio, intanto, non riesce a godere di quel momento, troppi pensieri affollano la sua mente, in particolare quello delle possibilie reazioni di don Rodrigo e il timore di dover spiegare al cardinale Federigo il perché del mancato matrimonio. Giunti in paese la giovane viene accolta a casa della donna dove, nel risistemarsi, alla vista del rosario che ha appeso al collo ricorda con improvviso dolore il voto che ha fatto in cambio della sua libertà, compensato però dalla gioia per la grazia ricevuta. Al tempo stesso Lucia riceve la notizia della visita del cardinale nel pomeriggio e dell’imminente arrivo della madre. Agnese era già in cammino per raggiungere la figlia ma, durante il tragitto, ha incontrato don Abbondio, di ritorno verso casa, che oltre a ragguagliare la donna su quanto accaduto alla figlia la prega di non dire nulla al Cardinale riguardo al matrimonio. Giunta a casa del sarto Agnese e Lucia si abbracciano con gioia, tuttavia la ragazza tace la questione del voto. Nel pomeriggio ecco giungere il Cardinale: l’occasione diventa importante soprattutto per Agnese che non sa celare le responsabilità di don Abbondio riguardo al mancato matrimonio; dal canto suo Federigo assicura tutto l’aiuto necessario e s’impegna a trovare una sistemazione per la ragazza.
Intanto l’Innominato è tornato nel suo castello, e richiama tutti i suoi uomini in una grande sala: comunica loro la sua decisione di cambiare vita e ordina di abbandonare qualsiasi missione, qualsiasi compito, rapimento, rapina e ritorsione che lui stesso aveva comandato, lasciandoli però liberi, prima di congedarli, di scegliere se seguirlo in questa nuova esistenza o meno. Chi non l’avesse fatto se ne sarebbe dovuto andare. Fatto questo e lasciati gli uomini sbigottiti e attoniti l’uomo si ritira nella sua stanza da letto: qui si corica e si addormenta, finalmente sereno.
CAPITOLO XXV: molto presto tutte le notizie sulla vicenda passano molto rapidamente di bocca in bocca, per tutto il paese di Lucia e fino a Lecco. Tali notizie giungono anche a don Rodrigo, sorpreso di udire tutto ciò sull’uomo a cui aveva chiesto aiuto e da cui si aspettava di ricevere la soluzione del proprio progetto; è deluso e rintanato nel proprio palazzo rimuginando sul da farsi e su una possibile fuga a Milano, anche perché la gente del posto sembra aver trovato il coraggio di denunciarne le malefatte e pronuncia considerazioni e commenti pesanti nei suoi confronti. Alla fine decide di partire per Milano. Arriva così il giorno della visita pastorale di Federigo nel paese di Lucia: tutti sono in festa tranne don Abbondio, timoroso di dovere delle spiegazioni al suo superiore; quando viene da quest’ultimo chiamato solo per trovare un nuovo rifugio per la giovane il curato si sente tranquillizzato, pensando di averla scampata. Federigo non sa ancora che Agnese e la figlia hanno già trovato una nuova sistemazione. Spinta da carità e curiosità, saputo del caso di Lucia, una nobildonna, Prassede (moglie di don Ferrante), lì in villeggiatura, ha offerto alla ragazza ospitalità nella sua casa di Milano, e le due donne, pur tristi per la nuova separazione, hanno accettato. In occasione della visita pastorale esse informano il Cardinale dell’offerta ricevuta e questi approva.
Se per Lucia qualcosa sembra sistemarsi non così è per don Abbondio, su cui sta per scatenarsi un nuovo temporale: al termine delle celebrazioni e dei festeggiamenti è chiamato dal Cardinale che, senza mezzi termini, gli domanda perché si sia rifiutato di unire i due giovani in matrimonio. Le giustificazioni del curato, riguardanti ancora una volta la paura per le minacce ricevute e, in definitiva, il terrore di perdere la sua vita, suscitano la rabbia di Federigo e i suoi rimproveri, richiamando il curato ai suoi doveri di sacerdote, cui è venuto meno. Il capitolo si chiude proprio con la domanda su cosa don Abbondio abbia fatto per Renzo e Lucia e se abbia agito con loro spinto da amore o da timore.
CAPITOLO XXVI: il capitolo si apre ancora sul dialogo fra il Cardinale e don Abbondio. Continuano i rimproveri del primo e la strenua difesa del secondo; sembra che ad affrontarsi siano due posizioni inconciliabili, due visioni opposte della fede e della missione sacerdotale, l’una nobile, come sacrificio e amore-dedizione al prossimo, l’atra meschina, terrena, come condizione di vita simile ad altre, vista solo come mezzo per tenersi lontano dai guai del mondo. Alla fine, però, le parole di Federigo sembrano suscitare nel sacerdote pentimento e l’accenno a una conversione, per quanto possibile per l’anziano curato, con la promessa di agire d’ora in avanti con più carità. Sarà il solo momento del romanzo in cui egli sembrerà superare il suo egoismo.
La mattina dopo Lucia viene ospitata da donna Prassede nella sua villa, in attesa di partire per Milano; intanto Agnese riceve dall’Innominato, tramite il Cardinale, cento scudi come risarcimento del male fatto a Lucia e si avvia verso l’abitazione della nobildonna per darne comunicazione alla figlia. Sola con essa le mostra i denari, che sarebbero dovuti servire per lei e per Renzo, ma la reazione – senza gioia – di Lucia le fa intuire che qualcosa non va, così la giovane deve rivelare il voto di castità fatto. La madre deve rassegnarsi all’accaduto, davanti alla sacralità del voto, ricevendo la preghiera da parte della figlia di far pervenire a Renzo la metà della somma di danaro insieme alla richiesta di mettersi il cuore in pace. Poi le due donne si lasciano promettendo di rivedersi l’autunno successivo.
Ma come rintracciare Renzo? Lo stesso Cardinale aveva fatto cercare il ragazzo ma senza ottenerne risultati. La polizia milanese dava ancora la caccia a Renzo e aveva chiesto aiuto anche alle autorità veneziane: venutolo a sapere Bortolo aveva avvisato il cugino, consigliandolo di spostarsi altrove, anche se non lontano, sotto il falso nome di Antonio Rivolta. Aveva trovato lavoro in un filatoio a pochi chilometri di distanza, inoltre il cugino aveva sparso notizie false su di lui (es. che fosse annegato guadando un fiume, fuggito in Germania….) che avevano fatto sì perdere le sue tracce, ma anche a chi avrebbe voluto aiutarlo.
CAPITOLO XXVII: dopo essere rimasto nascosto per molto tempo, Renzo cerca di mettersi in contatto con Agnese e Lucia, affidandosi ad un uomo capace di leggere e scrivere, poiché il giovane non è in grado. E’ una situazione delicata, poiché si tratta di fidarsi di qualcuno, di rivelare i propri segreti, inoltre questo qualcuno potrebbe fraintendere, scrivere diversamente quanto raccontato, reinterpretarlo. La stessa difficoltà l’ha Agnese nel momento in cui riceve la missiva di Renzo; un giorno, comunque, a quest’ultimo, insieme alla lettera di Agnese, giungono i cinquanta scudi e la spiegazione del voto fatto da Lucia. Renzo è amareggiato, infuriato, e risponde che non si metterà mai il cuore in pace e conserverà quei soldi come dote per Lucia. Qualcun altro non riesce a mettersi il cuore in pace, nonostante i tentativi fatti: è Lucia. L’immagine di Renzo, ora saputo sano e salvo, continua a insinuarsi nella sua mente, soprattutto a causa di donna Prassede che, nel tentativo di farglielo dimenticare, continua a parlarle di lui, descrivendolo come un poco di buono e costringendo così la giovane a prenderne le difese. Fortunatamente la nobildonna era impegnata a far del bene, a modo suo, anche ad altri, e il solo a sottrarsi dalla sua invadenza era il marito, don Ferrante, chiuso per ore nella sua biblioteca.
Le cose rimangono invariate sino all’autunno del 1629, l’anno successivo, momento in cui Agnese e Lucia avevano stabilito di rincontrarsi, ma i loro piani stavano per essere mutati da nuovi, tristi, eventi storici.
CAPITOLO XXVIII: Di nuovo ecco il Manzoni storico spiegarci le cause della carestia del 1629 nello Stato di Milano. Dopo i tumulti di San Martino, dell’11 novembre 1628, sembrava essere tornata la calma e l’abbondanza: i magazzini erano pieni di farina e i prezzi di nuovo bassi. Questa decisione, nuovamente insensata, delle autorità per placare gli animi dei rivoltosi aveva però provocato una vera corsa all’acquisto della farina esistente, e nel giro di un mese le scorte erano terminate. L’inverno e la primavera avevano visto raccolti scarsissimi e ciò aveva provocato il diffondersi della carestia. La vita in città peggiora notevolmente: botteghe chiuse, fabbriche deserte, strade piene di poveri, vecchi e nuovi, non solo di città ma anche provenienti dalla campagna. E’ uno spettacolo di miseria, sofferenza e di morte, poiché molti cadono sfiniti per strada. Il cardinale Federigo Borromeo, da parte sua, mette in atto tutta la sua generosità tentando di alleviare le sofferenze della popolazione stremata, ma nulla può da solo, e le stesse istituzioni, intervenute troppo tardi, devono fare i conti con un’eccessiva scarsità di mezzi rispetto alla drammatica situazione. Inoltre alla mancanza di cibo viene ad aggiungersi anche una situazione di scarsità di igiene. Con l’affollarsi delle strade e la presenza di cadaveri, spesso lasciati insepolti per giorni, cresce la sporcizia e il pericolo di malattie contagiose, come la peste. Per evitare un’epidemia le autorità decidono di riunire tutti gli accattoni, sani e malati, in un unico luogo, il lazzaretto, senza pensare che il contagio sarebbe aumentato per la vicinanza di tante persone nello stesso ambiente. Così è: i morti si moltiplicano e, alla fine della primavera, con un altro provvedimento assurdo il lazzaretto viene aperto e i suoi ospiti tornano a riversarsi nelle strade. Per fortuna con l’arrivo della nuova stagione si hanno nuovi raccolti produttivi che favoriscono la ripresa e una lenta ripresa per la popolazione superstite.
Ma un nuovo “flagello” si sta preparando: a settembre entrano nello Stato di Milano le truppe imperiali, organizzate in truppe mercenarie, i lanzichenecchi. Essi saccheggiano, depredano e distruggono ogni luogo in cui passano, con spietatezza, gettando di nuovo nel panico la popolazione; ben presto essi giungono anche a Lecco.
CAPITOLO XXIX: i lanzichenecchi si avvicinano anche al pese di Renzo e Lucia; è un fuggi fuggi generale, per salvare se e i propri averi. Lo stesso don Abbondio è terrorizzato: pensa a possibili vie di fuga ma tutte sembrano impraticabili, così non fa altro che lamentarsi, piagnucolare e infastidire Perpetua impegnata nei preparativi per la partenza e a nascondere i pochi averi. La soluzione sul luogo in cui rifugiarsi è portata da Agnese che, ricordandosi dell’offerta dell’Innominato di rivolgersi a lui in caso di bisogno, propone loro di salire al suo castello. Don Abbondio sembra titubante, perché non ancora certo della sua conversione, ma alla fine si lascia convincere e i tre si mettono in cammino. Durante il tragitto si fermano a casa del sarto che persuade don Abbondio del cambiamento dell’Innominato: dal momento della conversione questi non ha fatto altro che compiere opere di bene, aiutando poveri, componendo liti, e – con la calata dei lanzichenecchi – non ha esitato ad aprire a tutti le porte del suo castello, ben difeso da quei bravi ancora rimastigli fedeli. Il luogo è stato organizzato come una sorta di fortezza militare, con l’Innominato alla guida dei suoi uomini, benché disarmato (avendo fatto voto di non imbracciare più armi dopo le violenze del passato).
CAPITOLO XXX: Durante il tragitto per raggiungere il palazzo dell’Innominato don Abbondio scorge molte altre persone che hanno avuto l’idea di chiedere riparo al signore e questo lo preoccupa, ritenendo l’ammassarsi di tanta gente una sorta di richiamo per i lanzichenecchi. I tre sono accolti cordialmente dall’Innominato; lì restano per ventiquattro giorni, con Agnese e Perpetua impegnate a dare una mano in casa e agli altri ospiti e con don Abbondio occupato solo a individuare qualche possibile via di fuga in caso di necessità. Quando il pericolo sembra essersi allontanato dalla zona tutta la gente fa ritorno alle proprie case; ultimi a partire sono i nostri Agnese, Perpetua e don Abbondio perché il curato teme ancora d’imbattersi nei lanzichenecchi. Lo spettacolo di devastazione durante il cammino di ritorno li prepara al peggio e, infatti, anche il loro paese è in uno stato di desolazione e abbandono. La stessa casa del curato è stata devastata, messa a soqquadro, insozzata, con scritte e disegni volgari sui muri: quando Perpetua e don Abbondio escono nell’orto si accorgono che la terra vicino al fico, dove avevano sotterrato i loro soldi, è smossa, segno del furto avvenuto. Tra i due nasce un litigio con il sacerdote che, mancando nuovamente di carità, non sa far altro che rimproverare Perpetua per non aver saputo nascondere meglio i loro averi.
CAPITOLO XXXI: nuova interruzione della vicenda dei nostri personaggi e nuovo quadro storico. Come temuto il passaggio dei lanzichenecchi assieme alla devastazione porta anche la peste e Manzoni ricostruisce la comparsa e il diffondersi del male nel Milanese e nella città stessa, tra l’ottobre del 1629 e l’estate del 1630. Nei paesi attraversati dalle truppe mercenarie la gente comincia a morire di un male sconosciuto. Il Tribunale della Sanità all’inizio nega il contagio, attribuendo tutto a mali stagionali o alle conseguenze della carestia, la stessa popolazione non vuole credere all’epidemia e preferisce accettare queste spiegazioni. A nulla vale la denuncia di alcuni medici, come Lodovico Settala, che anzi si attirano l’ostilità della gente venendo considerati “uccelli del malaugurio”. A ottobre la peste entra in Milano con un soldato italiano al servizio della Spagna che aveva indosso abiti comprati o sottratti ai lanzichenecchi. La peste comincia così a diffondersi ma i casi non sono denunciati per timore del lazzaretto. Quando, però, il contagio si diffonde anche i medici in precedenza più scettici devono mutare idea e le istituzioni iniziano ad assumere provvedimenti, purtroppo tardivi. Intanto nel lazzaretto la situazione si fa drammatica e il Tribunale della Sanità decide di affidarne la conduzione ai frati cappuccini, sotto la guida di padre Felice Casati. Qui Manzoni loda, ancora una volta, l’operato di molti uomini di Chiesa, come questi frati, disposti a morire pur di aiutare il prossimo, mentre critica la cecità delle istituzioni, l’assenza del governatore spagnolo, impegnato nell’inutile guerra di Casale, la tendenza della gente a farsi convincere da voci fasulle e, persino, da superstizioni e false credenze. Infatti, nonostante l’estendersi del contagio, la gente preferisce attribuire le modalità del contagio a presenze maligne, a Satana e a suoi “emissari”: si crede che il male venga diffuso dagli “untori”, uomini che spalmerebbero sui muri e le porte della città, nonché sulle panche delle chiese un unguento malefico, giallognolo, portatore del morbo. Per cercare di far fronte a una situazione ormai ingestibile il Tribunale della Sanità prende una decisione che si rivelerà convincente: durante una festa per il periodo di Pentecoste è fatto portare, in mezzo alla numerosa folla, un carro con i cadaveri – nudi – di un’intera famiglia morta di peste, affinché tutti ne riconoscano i segni. L’effetto è raggiunto ma il contagio in tal modo aumenta ancor di più.
CAPITOLO XXXII: i magistrati della città mandano nuove richieste di aiuto al governatore, ma senza ottenerne risposta: lui deve pensare alla guerra. Si domanda, allora, all’arcivescovo di Milano, Federigo, di organizzare una processione con le reliquie di San Carlo Borromeo (suo zio), ma questi inizialmente rifiuta, temendo in particolare che il radunarsi di tanta gente potrebbe diffondere la malattia. Il Cardinale è però pressato da insistenze continue, così deve cedere alla richiesta: una grandiosa processione si svolge l’11 giungo 1630. Come temuto già il giorno dopo il contagio cresce ancor più, ma la colpa ancora una volta, anziché essere attribuita alla vicinanza, è data agli untori che, in mezzo alla gente, avrebbero agito – a detta di tutti – più liberamente. Il male dilaga: documenti dell’epoca parlano di 150.000 morti su 200.000 abitanti; ovunque, nelle case e per strada, vi sono cadaveri, per questo viene creato il servizio pubblico dei monatti, uomini incaricati di raccogliere i morti, di portare i malati al lazzaretto, di bruciare ogni oggetto infetto. Il lazzaretto, intanto, è colmo all’inverosimile, accanto ai religiosi lo stesso Cardinale vi entra per portare soccorso agli infermi. Accanto a questi esempi eroici, però, non mancano azioni di vigliaccheria: i monatti, pagati dallo Stato per il loro operato, si fanno pagare anche nelle case in cui giungono per portare via i cadaveri al più presto. Alcuni si fingono monatti, mettendosi come questi ultimi un campanello al piede (avviso del loro arrivo, insieme alla caratteristica veste rossa), entrando nelle case e razziandole. E in tutto questo ancora la pazzia collettiva spinge a una vera caccia agli untori, persino da parte dei magistrati.
Ma qui Manzoni interrompe la sua trattazione storica per tornare ai nostri personaggi
CAPITOLO XXXIII: Fine agosto 1630. Don Rodrigo, insieme al Griso, sta tornando a casa dopo una serata di divertimenti e bevute, quando inizia a sentirsi poco bene. Cerca, inizialmente, di rassicurarsi attribuendo la colpa al troppo vino e al caldo ma il Griso capisce subito che si tratta della peste. Infastidito anche dalla luce del lume, per la febbre che ormai l’ha colpito, don Rodrigo si mette a letto, tentando di sdrammatizzare la situazione; la notte passa però agitata. In preda a un incubo il signorotto si vede in una chiesa, circondato da appestati, cerca di farsi largo, ma senza successo, provando un forte dolore tra il cuore e l’ascella ; ad un tratto vede che tutti si rivolgono verso l’altare e, presso il pulpito, intravede una figura, con gli occhi fissi su di lui e con una mano alzata, quasi in segno di minaccia: è fra Cristoforo. Con un urlo don Rodrigo si sveglia: tutto è scomparso tranne il dolore che aveva sentito e, quando trova il coraggio di guardare, sotto l’ascella vede un bubbone. In preda al terrore don Rodrigo domanda al Griso di andare a chiamare un medico di fiducia, pensando di poter contare sulla fedeltà del suo bravo, ma questi – spietato e attento solo ai suoi interessi – torna con due monatti: l’uno immobilizza l’ammalato, che con le ultime forze rimaste, cerca di liberarsi e impreca contro il Griso, l’altro – insieme al bravo – scassina la cassetta di sicurezza, piena di gioielli, tenuta in quella stessa stanza. Don Rodrigo, ormai privo di conoscenza, viene portato via dai monatti, mentre il Griso termina il furto; è in questa occasione, preso dall’euforia del furto, che tocca i vestiti del signore, per cercare altri averi: un errore fatale, poiché il giorno dopo è colpito anch’esso dal male e muore prima di giungere al lazzaretto.
A questo punto il racconto si sposta su Renzo. All’arrivo della peste il giovane ha lasciato il villaggio in cui si era rifugiato per tornare a far visita al cugino Bortolo, ma qui viene contagiato dal morbo e si ammala gravemente sino al punto di morire. Riesce però a guarire, una bella fortuna perché chi riusciva a salvarsi poteva considerarsi immune da ulteriori contagi. Il giovane prende così la decisione di andare in cerca di Lucia: raggiunge Lecco e il suo paese, dove va a far visita alla sua vecchia casa, scoprendo le devastazioni che avevano interessato la sua proprietà, gran parte del paese e la popolazione. Incontra casualmente Tonio, traumatizzato dalla peste, tanto che Renzo inizialmente, da lontano, lo scambia per il fratello Gervaso. In seguito s’imbatte anche in don Abbondio: anche lui è stato colpito dalla peste, ma fortunatamente è riuscito a guarirne anche se con gravi conseguenze. Il curato appare molto dimagrito e provato nel fisico: da lui, però, viene a sapere della morte di molte persone del paese, tra cui Perpetua, e che Agnese si è recata in un paese vicino (Pasturo), da alcuni parenti. Il curato, dimostrando di non essere cambiato per nulla, non si mostra tuttavia contento della visita del giovane. Lo invita ad andarsene per non portare altri guai, poiché ancora ricercato dalla polizia (che di sicuro, però, in quel periodo doveva essersi scordata di lui). Renzo rimane in paese solo una notte, trovando ospitalità presso un vecchio amico, cui la peste aveva strappato l’intera famiglia: questi lo informa con più precisione sulle vicende di Lucia, indicandogli la sua attuale dimora, a Milano, presso don Ferrante e donna Prassede. L’indomani, all’alba, Renzo parte per Milano, giungendovi il mattino seguente.
CAPITOLO XXXIV: Renzo giunge a Milano in una giornata afosa, dal cielo velato. Tutto nella città appare spettrale: quello che si prepara per Renzo è una sorta di discesa all’Inferno. Tenta più volte di avvicinare dei passanti con l’intenzione di ricevere delle indicazioni, ma ogni volta viene respinto con insulti e modi a dir poco bruschi. Tra la popolazione regna il sospetto verso il prossimo, nel timore che altri siano ammalati e possano diffondere il contagio. Il solo a dargli le informazioni richieste è un sacerdote, che gli indica la strada verso l’abitazione di don Ferrante, tenendo però a debita distanza il ragazzo con il suo bastone. Renzo s’inoltra così nella città: ovunque è un passare di carri di monatti carichi di cadaveri, di morti per le strade, di case abbandonate: in tutto ciò il pensiero del giovane non fa che andare a Lucia, tremando al pensiero possa essere morta. Nel cammino c’è però soprattutto una scena che colpisce il cuore del giovane: la vista di una giovane mamma che, uscita in strada, si appresta a raggiungere un carro su cui sono ammucchiati cadaveri. In braccio ha una bambina che, ad un primo sguardo, sembra essere addormentata, vestita e pettinata con cura. Ma guardando con più attenzione e ascoltando le parole di quella giovane donna Renzo può capire che non è così: una mano pende inerte sul lato del corpicino mentre la madre, in un ultimo saluto rispettato addirittura dallo stesso monatto che si appresta a raccogliere il cadavere, le da un ultimo saluto chiamandola per nome, Cecilia. Non solo: la donna da una somma di danaro al monatto chiedendogli di tornare la sera per prendere anche il suo corpo e quello dell’altra figlia.
Dopo altro cammino e altre tristi scene Renzo raggiunge finalmente la casa di Don Ferrante: è molto agitato perché non sa cosa troverà, non conosce assolutamente quale sorte sia toccata alla povera Lucia; dopo essersi deciso a bussare e aver atteso qualche istante vede aprirsi una finestra del piano superiore, mentre il solido portone rimane saldamento chiuso. Una donna si affaccia e lo informa che Lucia è stata portata al lazzaretto. A quella notizia Renzo viene colto dall’agitazione e da una grande preoccupazione che vorrebbe sfogare prendendo a battere con violenza su quel portone sbarrato, ma una donna che lo osserva da qualche decina di metri, spaventata per quelle mani appoggiate sul battente della porta, lo scambia per un “untore” e, terrorizzata, inizia a urlare costringendolo alla fuga. Renzo riescie a salvarsi dalle urla della donna e dall’accorrere di altre persone che vogliono linciarlo grazie al passaggio, provvidenziale, di alcuni carri carichi di cadaveri, guidati da monatti. Il giovane ha la prontezza di spirito di correre loro incontro e di rifugiarsi proprio su uno di questi: gli inseguitori si vedono costretti a bloccare il loro inseguimento per non avvicinarsi a quel focolaio di peste. Il giovane, ora al sicuro, si fa portare per un tratto dal lento e lugubre cammino di quella carovana di morte ascoltando i dialoghi dei monatti e sorprendendosi di come questi siano capaci di ridere e scherzare nonostante l’orribile lavoro in cui sono impegnati. Alcuni sono seduti al governo dei carri, altri a piedi con in mano fiaschi di vino, altri ancora addirittura accovacciati sulle montagnole di cadaveri che i carri trasportavano, bestemmiando e cantando canzonacce . Renzo percorre così gran parte della strada che lo separa dal lazzaretto: riconosciuta la zona di quest’ultimo scende dal carro percorrendo l’ ultimo tratto a piedi. Al di fuori del lazzaretto il giovane scorge interminabili file di malati; giunto sulla porta d’entrata vi si ferma per un attimo.
CAPITOLO XXXV: Renzo trova finalmente la forza di entrare nel lazzaretto; la stessa natura sembra prendere parte a quel luogo infernale: c’è cappa, è nuvoloso, da lontano giungono i suoni di quello che sembra un imminente temporale. Il giovane inizia ad aggirarsi alla ricerca di Lucia, ma ben presto si accorge di essere nel reparto degli uomini; il luogo, infatti, era organizzato come una sorta di città: diviso in quartieri (settore degli uomini, delle donne e dei bambini, lo “spedale degli innocenti”), con strade ed edifici pubblici (come la chiesetta) e i suoi “impiegati”, medici, monatti, frati. Ad un tratto, da lontano, il giovane scorge una figura: è fra Cristoforo. Era rimasto a Rimini fino a tre mesi prima, quando aveva chiesto di essere inviato al lazzaretto, per poter “morire” com’era vissuto, per gli altri. Anche lui era chiaramente mortalmente malato, come mostravano i segni sul corpo, ormai sfatto, ma gli occhi e la stessa voce ne rivelano ancora l’energia interiore, la carità, la forza morale. Il giovane narra al padre, ignaro di tutto dopo la sua partenza da Pescarenico, di quanto accaduto a lui e a Lucia (celandogli solo la questione del voto fatto da quest’ultima, nel timore il frate possa causargli altri impedimenti) e viene a sapere che, se in vita, essa si trova nel settore delle donne. E’ proprio il pensiero della morte di Lucia che spinge il giovane a pensare nuovamente a una giustizia terrena, immediata, verso don Rodrigo; questo atteggiamento, però, provoca la reazione decisa, quasi con rabbia, del frate che, prima, rimprovera Renzo di non aver capito nulla di quanto insegnatogli da quegli avvenimenti, di essere uguale a prima, di non meritare che Lucia sia viva, poi fa per andarsene, ma solo dopo avergli ricordato che c’è solo una giustizia, quella divina. Sconvolto dalle parole di fra Cristoforo Renzo si dichiara fermamente pronto a perdonare don Rodrigo (è l’apice del cambiamento di Renzo) e, quasi a metterlo alla prova, il frate gli domanda non solo di perdonarlo ma di amarlo. A quel punto conduce il giovane in una capanna dove, moribondo, giace proprio don Rodrigo: i due pregano per lui, con il frate che fa cenno a una possibile salvezza, nell’aldilà, del signorotto proprio grazie alla preghiera d’intercessione di Renzo, nei confronti del quale Dio avrà tanta misericordia quanta lui ne avrà verso il suo nemico. A questo punto i due si lasciano e Renzo, seguendo le indicazioni del frate, si avvia alla ricerca di Lucia.
CAPITOLO XXXVI: Seguendo il consiglio di padre Cristoforo, Renzo raggiunge la cappella dove era da poco iniziata la messa a cui partecipavano i malati guariti dalla peste e che si apprestavano a lasciare il lazzaretto. Si trattava di una celebrazione di ringraziamento a cui tutti i guariti partecipavano. Renzo si apposta in un angolo e proprio durante la celebrazione va osservando se tra le donne sia presente Lucia. Attende quindi la fine della messa e, appostatosi sull’ingresso della cappella passa in rassegna tutte le donne che ne escono ordinatamente. Lucia non è, però, tra quelle. Non gli rimane che andare a cercare tra gli ammalati. Mentre percorre la breve strada che lo separa dal quartiere dove si trovano ricoverate tutte le donne Renzo trova, a terra, uno di quei campanellini che i monatti hanno l’abitudine di portare legati alle caviglie e pensa di indossarlo per essere facilitato negli spostamenti. Ma la scelta anziché facilitarlo, lo rallenta parecchio poiché, scambiandolo proprio per un monatto, molti gli chiedono favori o gli ordinano di svolgere determinate faccende.
Prende, quindi, la decisione di disfarsi di quel campanello: senza farsi vedere si nasconde tra due baracche e fa per toglierlo ma, proprio mentre compie quell’operazione, sente una voce a lui conosciuta. Quella di Lucia. Fa il giro della capanna da cui ha udito la voce e ne raggiunge l’apertura da cui: guardando verso l’interno vede proprio la giovane; anch’essa, scorgendo una figura immobile sull’uscio, si volta per osservare, riconoscendo a sua volta il giovane. Grande è la gioia, la commozione, come grande il desiderio di dirsi tutto quanto era accaduto: per sommi capi parlano delle loro vicende, di Monza, di Agnese e presto giungono a fare riferimento alla lettera con cui la donna aveva spiegato proprio a Renzo del voto fatto da Lucia alla Madonna. Davanti al buon senso di Renzo, che ricorda a Lucia come essa abbia pronunciato il voto in un momento di pericolo e come di certo Dio non li abbia fatti riunire per tenerli separati, si oppone la caparbietà di Lucia a cui sembra sacrilego pensare di rompere un voto. L’idea risolutiva viene a Renzo: decide di andare a chiamare fra Cristoforo, perché offra loro una soluzione. L’incontro fra padre Cristoforo e Lucia è carico di emozione; il frate spiega alla ragazza che è disposto a scioglierla dal voto, se lei lo vuole, poiché pronunciato in un momento di pericolo e soprattutto perché già promessa in sposa a Renzo (essa non poteva decidere anche della vita del giovane), convinto anch’egli che se Dio aveva permesso loro di ricongiungersi avrebbe permesso che anche l’antica promessa di matrimonio venisse rispettata. Così su richiesta della ragazza il frate la scioglie dal voto.
La felicità dei due giovani è però turbata dal dolore per il distacco dal frate: cosciente della sua imminente morte egli consegna loro il “pane del perdono” perché lo conservino come una sorta di reliquia, di ricordo del loro frate. Dopodiché Renzo parte alla ricerca di Agnese, mentre il cielo preannuncia burrasca.
CAPITOLO XXXVII: Renzo è appena uscito dal lazzaretto quando scoppia il temporale, con una pioggia torrenziale; il ragazzo è pieno di gioia, felicità che sarebbe stata ancor più completa se avesse saputo che quella pioggia avrebbe portato via la peste. Il giovane prosegue il cammino fino al suo paese, dove pernotta nuovamente a casa dell’amico che l’aveva ospitato in precedenza, poi, il mattino, riprende il cammino e giunge a Pasturo dove ritrova, viva, Agnese. Le comunica che Lucia è viva, in via di guarigione, poi i due parlano del futuro e decidono che andranno a vivere nel paese di Bortolo. L’indomani Renzo parte proprio per questo paese, dove prende accordi per il futuro lavoro e dove acquista e prepara la casa che dovrà ospitare lui e le due donne. Quindi torna a Pasturo, prende con sé Agnese e ripartono per il paese natale, in attesa dell’arrivo di Lucia. Quest’ultima trascorre a Milano, presso l’abitazione di una mercantessa conosciuta al lazzaretto, il periodo della quarantena (imposto dalle autorità sanitarie per essere certi della guarigione) e qui viene a sapere, fra l’altro, della morte di fra Cristoforo e di don Ferrante e donna Prassede.
CAPITOLO XXXVIII: Ed ecco finalmente, una sera, ricongiungersi definitivamente i nostri promessi sposi; grande è la gioia di tutti, mitigata solo dalla notizia, comunicata da Lucia, della morte di fra Cristoforo. Senza esitare oltre Renzo si reca da don Abbondio per accordarsi riguardo al matrimonio, ma la scena sembra la stessa del primo capitolo: di nuovo il sacerdote oppone resistenze, apparentemente preoccupato per Renzo, per il bando di cattura ancora pendente su di lui, consigliandolo di sposarsi altrove, dove il suo nome non sia conosciuto, in realtà timoroso che don Rodrigo sia ancora vivo e, dunque, preoccupato per l’incolumità di se stesso. Fallito il tentativo di Renzo, sono le donne che provano a parlare con il sacerdote, ma anch’esse sembrano non aver maggior fortuna, quand’ecco giungere Renzo con la notizia dell’arrivo del marchese, erede di don Rodrigo, uomo di ottima fama e prova definitiva della morte del signore precedente. L’umore di don Abbondio cambia subito ed egli si dice subito disposto a celebrare il matrimonio; non solo: il giorno seguente il sacerdote riceve proprio la visita del marchese che, avendo saputo dal Cardinale Federigo del male fatto a due giovani da don Rodrigo, si dice pronto a far loro del bene come risarcimento morale. Venuto a sapere dal sacerdote che gli sposi intendono andare a vivere altrove domanda si offre di acquistare le loro abitazioni e promette anche d’interessarsi del mandato di cattura. Arriva così il giorno del matrimonio, dei festeggiamenti e del pranzo, l’indomani le nozze, al castello del marchese, quello stesso castello da cui erano partiti tutti i loro guai. Arriva anche il momento di lasciare il loro paese, con una vena di malinconia, per iniziare la loro nuova vita: le cose, però, non vanno subito bene. La gente del luogo si era creata grandi aspettative riguardo a Lucia, dopo averne conosciuto tutta la vicenda, così rimane delusa dal suo aspetto, lasciandosi sfuggire commenti poco gentili. Queste dicerie infastidiscono Renzo che inizia a litigare con tutti, a rendersi insopportabile ai più e a rovinarsi la vita; i tre decidono così di trasferirsi nuovamente, alle porte di Bergamo. Qui Renzo e il cugino Bortolo diventano padroni di un filatoio; gli affari procedono bene, nascono i primi figli e la vita scorre tranquilla, pur con qualche “fastidiuccio” di tanto in tanto. Ma i fastidi, come i guai – ormai Renzo e Lucia l’hanno capito – “quando vengono, per colpa, o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce, e li rende utili per una vita migliore”.
BIBLIOGRAFIA:
I promessi sposi, a cura di Giovanni T. Rosa, ed. Mursia
I promessi sposi a fumetti, riduzione di C. Nizzi, tavole di P. Piffarerio, ed. Paoline
Promessi- Sposi.com
Il Nord Italia era toccato, in quegli anni, da un’appendice della guerra dei Trent’anni (1618-1648) tra Francia e Spagna, con la guerra di successione al ducato di Mantova e del Monferrato. I Gonzaga, signori di Mantova dal 1300, avevano creato uno Stato autonomo, annettendogli nel 1536 il Monferrato. Nel 1627 il duca Vincenzo Gonzaga era morto senza lasciare eredi: il Monferrato era stato lasciato a un nipote che viveva in Francia, Carlo Gonzaga Nevers, sostenuto dai Francesi; gli Spagnoli, però, si erano opposti a questa decisione, sostenendo un altro Gonzaga, Ferrante, principe di Guastalla. Nel 1628 gli Spagnoli avevano assediato Casale Monferrato, e con loro – dalla Svizzera – nel 1629 erano giunti i lanzichenecchi, al servizio dell’imperatore asburgico. Non solo devastarono le città attraversate, come Mantova, ma portarono la peste. Nel 1631 il Monferrato fu restituito al duca di Nevers (di ciò c’informa Manzoni nel XXVII cap.)
Fonte: http://nuke.poloromani.it/Portals/0/2011-12/Dispensa%20Promessi%20Sposi.doc
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Autore del testo: G.Viani
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