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CAPITOLO 1- LA STRUTTURA INTERNA DELLA TERRA
La terra è un geoide: cioè una sfera lievemente schiacciata ai poli e rigonfia nella parte centrale. Del nostro pianeta conosciamo direttamente solo la parte esterna, mentre le conoscenze che abbiamo sull'interno della terra si basano sullo studio delle onde sismiche che sono registrate dai sismografi posti in vari punti della terra.
Gli scienziati hanno capito che la terra è divisa in diversi strati, perché le onde sismiche a seconda del tipo di materiale che incontrano si propagano più o meno velocemente. Gli strati in cui è divisa la terra sono 3: crosta, mantello e nucleo divisi dalle superfici di discontinuità.
CROSTA: La crosta è la parte più superficiale della terra, quella su cui viviamo. Il suo spessore e gli strati di roccia che la compongono variano in corrispondenza di continenti e oceani. La crosta continentale infatti è più spessa ed è composta prevalentemente da rocce granitiche, mentre quella oceanica è più sottile e costituita per la maggior parte da rocce basaltiche. La crosta è divisa dal mantello dalla discontinuità di "MOHOROVICIC" o più semplicemente "MOHO."
MANTELLO: Il mantello si estende sotto la crosta fino a circa 2900 Km di profondità. Fra la crosta e il mantello si trovano spesso delle enormi sacche di magma, che sono all'origine dell'attività vulcanica. Infatti, quando la crosta, come spesso avviene, presenta fessure o spaccature, gas e rocce incandescenti riescono a raggiungere la superficie e fuoriuscire. Il mantello termina verso il basso con la superficie di discontinuità di "GUTEMBERG".
NUCLEO: Il nucleo è la parte più interna del nostro pianeta. E' suddivisa in nucleo "esterno" che ha le caratteristiche di un liquido, mentre il nucleo "interno" è solido. Nessuna sonda è mai riuscita a penetrare nel mantello o nel nucleo, di conseguenza queste conclusioni sono basate solo su studi particolari e sono quindi suscettibili d'ulteriori perfezionamenti. La discontinuità che separa il nucleo esterno da quello interno è detta discontinuità di “LEHMANN”
LITOSFERA, MESOSFERA E ASTENOSFERA: La terra è suddivisa inoltre in Litosfera, Astenosfera e Mesosfera, in base allo stato fisico in cui i materiali si trovano. La litosfera rappresenta il guscio superficiale rigido e comprende la crosta terrestre e la parte superiore del mantello. L'astenosfera è lo strato che segue la litosfera: in essa le rocce si trovano allo stato prevalentemente fuso. Nella mesosfera avvengono i moti convettivi. La mesosfera è la parte più profonda del mantello ed è costituita da materiali solidi.
Secondo la teoria della tettonica delle placche, la litosfera è suddivisa in placche rigide (12 principali e altre minori) che si muovono molto lentamente le une rispetto alle altre “galleggiando” sopra l’astenosfera. In pratica è come se mettessimo tante tavolette di sughero sopra una vaschetta di miele. Le placche litosferiche possono contenere solo masse continentali, solo oceani, o sia continenti che oceani, dunque i loro bordi o margini, non coincidono necessariamente con i confini dei continenti.
La parte interna di una placca non viene deformata a seguito del movimento, mentre le rocce dei margini si piegano, si “stirano”, si fratturano, cioè in generale subiscono una deformazione. Per questo si dice che i margini delle placche sono geologicamente attivi, ovvero lungo di essi troviamo le principali zone sismiche con presenza di attività vulcanica e terremoti che variano di intensità e profondità a seconda del tipo di margine. Secondo la tettonica delle placche, i movimenti relativi di due placche a contatto sono di tre tipi:
3) Margine trasforme : 2 placche scivolano l’una accanto all’altra con movimento orizzontale senza creare ne’ distruggere litosfera e provocano terremoti con ipocentro poco profondo. Un famoso esempio è quello della faglia di San Andreas, in California, dove la Placca Pacifica scivola accanto alla Placca Nordamericana.
CAPITOLO 2 – DALLA DERIVA DEI CONTINENTI ALLA TETTONICA A PLACCHE
A partire dal 600 uno studioso (Bacone) iniziò ad avanzare l’ipotesi che un tempo i continenti fossero uniti in un unico ammasso di terra, in quanto osservarono una conformità dei margini dei continenti posti ai due lati dell’Oceano Atlantico. Qualche anno più tardi Snider studiando fossili di piante che erano vissute 300 milioni di anni prima aveva notato una certa sominglianza tra qualli rinvenuti in Europa e in America.
Nel 1885, un geologo austriaco di nome Edward Suess fornì ulteriori prove alla teoria sviluppata da Francis Bacon, attraverso l’analisi di fossili e suggerì che i continenti dell’emisfero Sud un tempo dovevano essere stati uniti, poiché riportavano delle similitudini per quanto riguardava i fossili rinvenuti; egli parlò di un unico grande ammasso di terra che chiamò Gondwana.
Dato che, sia Bacon che Suess non seppero spiegare il meccanismo che portò allo smembramento della massa di terra, la comunità scientifica non prese seriamente in considerazione le loro teorie. Nel 1912, Alfred Wegener propose una nuova ipotesi che tentasse di spiegare il movimento e la separazione delle masse di terra: la teoria della deriva dei continenti. Secondo lo scienziato tedesco, fino a 200 milioni di anni fa esisteva un unico grande continente: la Pangea, circondato da un unico grande oceano: la Pantalassa.
Secondo la sua teoria, 220 - 200 milioni di anni fa, il grande continente Pangea cominciò a lacerarsi, seguendo un movimento distensivo che si protrasse per qualche decina di milioni di anni, in due blocchi chiamati rispettivamente Laurasia (formato da Europa, Asia e America settentrionale) e Gondwana (costituito da America meridionale e Africa), separati da un oceano chiamato Tetide. A partire da questa
primordiale scisione, la Laurasia andò alla deriva verso Nord, mentre il blocco Africa-America del Sud si staccò dal blocco Australia-Antartide.
Intorno a 130 milioni di anni fa, Laurasia e Gondwana si fratturarono formado: Nord America e Eurasia la prima, Sud America, Africa, India, Antartide e Australia la seconda. Intorno a 50 milioni di anni fa, il continente settentrionale iniziò a dividersi in due blocchi: il Nord- America e l'Eurasia e fra i due continenti si aprì l'Atlantico settentrionale; Africa e Sud America continuarono ad allontanarsi fino al raggiungimento delle posizioni attuali.
I continenti sono tuttora in moto, con una velocità di pochi centimetri all’anno: la loro attuale configurazione, quindi, non è definitiva. Ad esempio, l’Oceano Atlantico si sta gradualmente allargando, ma per compensare questo ampliamento il Pacifico si restringe progressivamente; nello stesso tempo, a causa dello spostamento dell’Africa verso l’Europa, il mare Mediterraneo si sta restringendo e finirà con lo sparire completamente. La periodicità del processo di deriva suggerisce che la giunzione di masse continentali si verificherà ancora in un futuro più o meno lontano, e prima o poi tutti i continenti finiranno probabilmente con il aggregarsi in un nuovo unico supercontinente.
Wegener supportò la sua teoria con numerose prove:
Prove geologiche: la corrispondenza quasi perfetta tra i margini dei continenti che s’incastrano l’uno nell’altro come in un puzzle, es. Africa e Sud America, già sostenuto da Bacone e la presenza nei continenti ai due lati dell’Oceano, di formazioni rocciose della stessa natura e della stessa età.
Prove paleontologiche: il ritrovamento in continenti attualmente lontani di fossili degli stessi organismi terrestri (già sostenuto da Snider, vedi figura).
In particolare i fossili delle felci del genere Glossopteris, i fossili dei rettili terrestri Lystrosaurus e Cynognatus, e i fossili del rettile acquatico Mesosaurus.
Per spiegare questi ritrovamenti fossili, in passato era stato ipotizzato che tra essi potessero essere esistiti dei ponti sotto forma di grandi lingue di terra, i cosidetti ponti continentali, successivamente sprofondati nell'oceano. Wegener rigetta su evidenze geofisiche e sulla base dei principi dell'isostasia, la possibilità che i cosidetti ponti continentali siano spariti e sprofondati negli oceani.
Prove paleoclimatiche: la presenza in Sudamerica, Australia, Africa ed India, di rocce sedimentarie paleozoiche deposte in ambiente glaciale, le tilliti, (morene fossili), mentre in Siberia, America settentrionale ed Europa centrosettentrionale trovò dei carboni fossili della stessa età delle tilliti, ma formate da resti vegetali tipici di climi tropicali. La particolare distribuzione di queste rocce poteva essere spiegata solo ammettendo che al momento della loro deposizione le terre soggette al clima glaciale fossero tutte unite tra di loro, così come
dovevano esserlo quelle dove il clima era invece tropicale: nel paleozoico la parte meridionale del Pangea era ricoperta dalla calotta glaciale.
Tale teoria venne criticata dagli scienziati dell’epoca secondo i quali la forza centrifuga è troppo debole per determinare lo spostamento delle masse continentali; inoltre mancavano segni evidenti, quali scie o spazi sul fondale oceanico, del movimento dei continenti.
Con l’aiuto delle onde sismiche, gli scienziati compresero che il mantello non era costituito da roccia solida ma da materiale semifluido. A seguito di questa nuova scoperta, Holmes propose un meccanismo che consentiva il movimento dei continenti. Egli ipotizzò l’esistenza, nel mantello (in particolare nall’astenosfera) di correnti convettive: aree in cui il materiale semifluido sale verso l’alto, si sposta lateralmente e poi ridiscende. Tali correnti sono generate dalle differenze di temperatura esistenti fra gli strati più profondi, più caldi e quelli più superficiali a temperature più basse; infatti il mantello si comporta come un liquido che viene riscaldato: le particelle più calde (più leggere) salgono e raggiunta la superficie prendono il posto di quelle più fredde che, essendo più pesanti, scendono verso il basso in modo da ripristinare l’equilibrio termico.
I moti convettivi dell’astenosfera provocano la rottura della litosfera e il movimento delle placche che vengono trascinate come da enormi tappeti mobili.
Dunque, le “zattere” di cui parlava Wegner, non coincidono con i continenti (vedi figura), ma il movimento interessa frammenti di litosfera detti placche o zolle e ogni zolla è formata da crosta continentale, oceanica o da entrambe: teoria della tettonica a placche.
Eruzioni vulcaniche e vulcani
Un vulcano può essere definito come una fenditura nella crosta terrestre, in corrispondenza della quale il magma viene a giorno nel corso di una eruzione. Comunemente i materiali eruttati tendono ad accumularsi attorno al centro di emissione, costruendo edifici vulcanici di forma e dimensioni variabili a seconda della dinamica eruttiva, del tipo e della quantità di materiali emessi, e della durata dell’attività vulcanica. Si distinguono due tipi principali di edifici vulcanici: i vulcani lineari (lunghe e profonde spaccature della superficie da cui fuoriesce il magma) e i vulcani centrali (forma a cono). Nei vulcani centrali, il magma che si forma nella crosta terrestre e nella parte superiore del mantello, risale verso la superficie esterna del pianeta e si accumula in un serbatoio detto camera magmatica. Un condotto, il camino vulcanico, mette in comunicazione la camera magmatica con l’edificio vulcanico esterno. Alla sommità del cratere si trova la bocca del vulcano.
Quando il magma raggiunge la superficie esterna della crosta si ha una eruzione vulcanica. Questa può verificarsi tramite l'espulsione di un magma poco denso che fluisce lungo la superficie, oppure tramite la violenta espulsione di frammenti di magma solido o parzialmente fuso. Nel primo caso l'eruzione viene detta effusiva, e il suo prodotto è una colata lavica; nel secondo caso l'eruzione viene detta esplosiva e produrrà i cosiddetti frammenti piroclastici. Nelle eruzioni esplosive, infatti, il magma risale lentamente nel camino magmatico e tende a solidificare nella parte alta formando uno spesso “tappo”. I gas presenti nel magma premono contro l’ostruzione fino a che il magma riesce a liberarsi causando una violenta esplosione che frantuma il tappo.
Il verificarsi di una eruzione vulcanica effusiva o esplosiva dipende in buona sostanza dalle proprietà fisiche del magma che la alimenta.
I piroclasti
I piroclasti sono il prodotto della frammentazione del magma nel corso di una eruzione vulcanica esplosiva. In base alle loro dimensioni essi vengono distinti in:
Blocchi o bombe, con dimensioni maggiori di 64 mm; Lapilli, con dimensioni comprese tra 2 e 64 mm; Ceneri, con dimensioni inferiori a 2 mm
L’accumulo di questi frammenti determina la formazione dei depositi piroclastici.
Le colate laviche
In una colata lavica, la lava raffreddandosi può assumere principalmente due forme:
Le diverse forme dei vulcani
Gli edifici vulcanici si formano per l’accumulo dei materiali eruttati intorno alla bocca di emissione. La forma dei vulcani, dunque, dipende principalmente dal tipo di lava e dal tipo di eruzione. I vulcani a scudo sono formati da lava fluida per cui sono ampi e con pareti poco ripide; i cono di scorie sono piccoli rilievi dai fianchi ripidi e sono formati da materiali piroclastici; gli strato-vulcano sono formati da strati alternati di materiali piroclastici e colate laviche. Nei vulcani lineari, la lava molto fluida scorre lontano e forma ampi tavolati chiamati plateau basaltici.
DOMANDE DI VERFICA
La natura e l'origine di un terremoto
I terremoti, detti anche sismi (dal greco seismós, scossa), sono rapide e brusche vibrazioni del suolo, dovute alla repentina liberazione di energia accumulatasi nelle rocce della litosfera. Ciò si verifica a causa dei movimenti reciproci delle placche in cui la litosfera è suddivisa (per esempio, le placche si scontrano l'una contro l'altra, scorrono l'una rispetto all'altra o si allontanano l'una dall'altra). Tali movimenti sono all'origine di tensioni, rispetto alle quali le placche si comportano come corpi rigidi, fratturandosi. La frattura di una roccia litosferica determina la brusca liberazione di energia elastica sottoforma di vibrazioni (onde sismiche): queste si propagano all’interno della Terra e giunte in superficie causano il terremoto e sono avvertite sotto forma di scosse.
Il punto interno alla Terra da cui si originano le vibrazioni che causano il terremoto è detto ipocentro (dal greco hypó, sotto); quello sulla superficie terrestre sulla verticale dell'ipocentro è detto epicentro (dal greco epí, sopra). Nell'epicentro e nelle sue immediate vicinanze si registrano i danni più gravi, che via via si riducono allontanandosi da esso.
Posizione dell'ipocentro e dell'epicentro di un terremoto.
Ogni anno sulla Terra si verifica circa un milione di terremoti, in media uno ogni 30 secondi, la maggior parte dei quali, fortunatamente, non ha effetti sulle costruzioni e non è avvertita dalle persone: insieme al vulcanismo, essi sono una delle manifestazioni delle notevoli forze che si originano all'interno della Terra.
Le onde sismiche
Gli effetti distruttivi dei terremoti sono dovuti alla propagazione delle onde sismiche, che si originano sia dall'ipocentro, sia dall'epicentro. Le onde sismiche sono onde elastiche (attraverso le quali, cioè, l'energia elastica può essere trasportata lontano dal punto in cui si è originata), che hanno bisogno di un mezzo attraverso cui propagarsi; la propagazione avviene attraverso un meccanismo di deformazione delle rocce. Le onde sismiche si differenziano in:
La registrazione dei terremoti
Le vibrazioni del suolo dovute alle onde sismiche, la loro ampiezza e la loro durata possono essere registrate da strumenti chiamati sismografi, che traducono il complesso movimento oscillatorio del suolo durante un terremoto in una registrazione grafica detta sismogramma. Sulla superficie terrestre sono distribuite, in base a opportuni criteri, diverse stazioni sismiche, che nel loro insieme costituiscono una rete sismica che permette di "monitorare" tutta la superficie terrestre: il confronto dei dati ottenuti dalle diverse stazioni sismiche consente di localizzare rapidamente l'epicentro di un terremoto e di valutarne l'intensità.
La lettura di un sismogramma
Il tracciato di un sismogramma permette di distinguere le diverse onde sismiche generate da un terremoto poiché, propagandosi con velocità diverse, le onde sismiche giungono al sismografo in tempi diversi (risultando dunque più facilmente distinguibili).
Procedendo da sinistra verso destra nella lettura di un sismogramma, si notano prima lievissime oscillazioni dovute al continuo tremolio del suolo per cause diverse da un sisma (per esempio, il traffico, il frangersi delle onde sulle coste ecc.); poi si osservano oscillazioni più evidenti, che indicano l'arrivo delle onde P, seguite dalle onde S (segnalate da un improvviso cambiamento dell'ampiezza dell'oscillazione) e infine dalle onde superficiali (che provocano oscillazioni di ampiezza maggiore delle precedenti).
L’intensità dei terremoti
L'intensità di un sisma si può valutare attraverso due scale: la scala Mercalli e la scala Richter. La scala Mercalli, si basa sulla rilevazione degli effetti di un terremoto su edifici, persone e ambiente e comprende 12 gradi: il grado I corrisponde a scosse avvertite solo dai sismografi, senza danni a edifici o persone; il grado XII equivale, invece, a una grande catastrofe e alla distruzione totale delle costruzioni. Sono state elaborate diverse scale Mercalli modificate, che tengono conto delle caratteristiche costruttive degli edifici in diverse aree: quella più utilizzata in Europa occidentale è la cosiddetta scala MCS (Mercalli- Cancani-Silberg). La scala Richter, invece, esprime la magnitudo, ovvero la quantità di energia liberata da un sisma. Matematicamente, la magnitudo , M, è così definita:
M = log A/A0 = log A – log A0
dove A indica la massima ampiezza delle onde registrate da un sismogramma di un terremoto sconosciuto e A0 l'ampiezza massima delle onde generate da un terremoto scelto come riferimento. La scala Richter non è quindi suddivisa in gradi e non ha limiti né inferiori (se non quelli legati alla capacità di percezione dei sismografi), né superiori: in questo secolo la massima magnitudine misurata è stata pari a 8,5-9. La scala Richter permette di valutare con precisione anche l'intensità dei terremoti che si verificano in zone desertiche, o il cui epicentro è situato su fondali marini, cosa che sarebbe impossibile con la scala Mercalli (poiché in tali zone non si rilevano effetti su costruzioni e persone).
Per l’uomo l’oro è sinonimo di ricchezza. Quali altre ricchezze sa regalarci la Terra?
L’uomo, fin dall’inizio della sua evoluzione, ha utilizzato le rocce: nell’età della pietra esplorava grotte e anfratti per cercare un riparo, usava la selce e altre rocce taglienti come armi di difesa e di offesa, o per il taglio delle carni e delle pelli, o per accendere il fuoco. Nell’età dei metalli imparò a fondere e a lavorare rame e ferro, a impastare e cuocere l’argilla, a ricercare i minerali più preziosi. Oggi l’uomo sfrutta - spesso in modo eccessivo – tutte le risorse che la Terra offre.
Per risorsa naturale si intende tutto ciò che si trova in Natura o che l’uomo ricava dalla Terra, sottoforma di materie prime, non solo utilizzate in quanto tali ma rielaborate e trasformate in una vasta gamma di prodotti finali. Le risorse naturali vengono distinte in:
Le risorse minerarie
I minerali sono presenti in tutte le rocce, ma diventano una risorsa solo quando sono concentrati in uno spazio limitato: i giacimenti minerari. I minerali più sfruttati dall’uomo sono:
Raramente un giacimento si trova in superficie, di solito il minerale si trova nelle miniere in profondità, e per raggiungerlo si scavano gallerie di accesso da cui si dipartono altre gallerie sempre più profonde per uno sfruttamento maggiore. Il minerale è sempre mescolato a materiali privi di valore economico da cui dev’essere separato con un notevole costo, grande
produzione di scorie e conseguente notevole impatto ambientale. Poi il minerale grezzo, così estratto, deve sempre essere ulteriormente trattato con procedimenti chimici; ad esempio l’oro viene purificato con cianuro di potassio, un potente veleno che ha effetti negativi sull’ambiente. Le rocce stesse costituiscono una risorsa. Sono usate direttamente soprattutto in edilizia. Tra queste troviamo ad es. il marmo per la pavimentazione o il rivestimento degli interni o degli esterni delle abitazioni, sabbia e ghiaia usati per strade e per produrre il calcestruzzo. La loro estrazione viene eseguita nelle cave. Ciò comporta alcuni rischi, tra i quali:
Le risorse energetiche (non primarie)
Le risorse energetiche non primarie sono rappresentate dai combustibili fossili che distinguiamo in:
Il carbone è stato, fin dall’inizio del XX secolo, la risorsa energetica più utilizzata nei paesi industrializzati. Deriva da un lungo processo, iniziato più di 200 milioni di anni fa, di “carbonificazione” di piante terrestri, coperte alla loro morte da sedimenti e trasformate in carbone in ambienti privi di ossigeno. Il carbone è oggi utilizzato soprattutto per produrre energia nelle centrali termiche. Le riserve di carbone oggi accertate sono ingenti; la riserva è disponibile ancora per lungo tempo ma i costi di estrazione e di trasporto sono elevati e la combustione del carbone è fortemente inquinante.
Lo schema illustra il processo di formazione del petrolio.
Dal latino “petra” ed “oleum”, la parola petrolio significa OLIO DI PIETRA. Il petrolio era conosciuto anche nell’antichità: i popoli della Mesopotamia, che lo trovarono che affiorava dal suolo, lo usavano per impermeabilizzare le loro barche; gli egiziani lo usavano per imbalsamare i defunti; i greci furono i primi ad usarlo come combustibile per l’illuminazione. Altri popoli lo usavano per lubrificare i carri, per curare ferite e alcune malattie.
Si forma per lenta decomposizione di organismi microscopici, animali e vegetali, simili al plancton, depostisi alla loro morte sul fondo di bacini poco profondi, come lagune, estuari e poi coperti da fini detriti. In questi ambienti particolari, privi di ossigeno, la materia organica si trasforma in una miscela liquida (il petrolio greggio) che migra nel sottosuolo finchè non incontra rocce impermeabili, le rocce “serbatoio” dove si accumula. Attraverso appositi impianti per l’estrazione, il petrolio viene fatto risalire in superficie.
Lo schema illustra i processi di formazione e accumulo del petrolio
Dal greggio si ottengono (per distillazione frazionata ) diversi prodotti:
Oggi, questa preziosa materia, non solo ci dà combustibili, ma da essa si producono anche: la plastica, le vernici, i detersivi, i cosmetici ed i medicinali.
Il petrolio è attualmente la fonte energetica più utilizzata, e ciò per svariati motivi:
Si ritiene che le riserve mondiali di petrolio si esauriranno in poche decine di anni, se non si troverà il modo di sfruttare giacimenti oggi poco utilizzati perché poco economici o difficilmente raggiungibili e se non si troveranno fonti energetiche alternative.
DOMANDE
Fonte: http://www.iis-ferraris.gov.it/files/dispensa_sc_terra.pdf
Sito web da visitare: http://www.iis-ferraris.gov.it
Autore del testo: A.Corgiat Mecio
Il testo è di proprietà dei rispettivi autori che ringraziamo per l'opportunità che ci danno di far conoscere gratuitamente i loro testi per finalità illustrative e didattiche. Se siete gli autori del testo e siete interessati a richiedere la rimozione del testo o l'inserimento di altre informazioni inviateci un e-mail dopo le opportune verifiche soddisferemo la vostra richiesta nel più breve tempo possibile.
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"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
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