Epica

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Epica

L’introduzione di un nuovo argomento
Per studenti di scuola secondaria di secondo grado
I GRANDI POEMI EPICI
DELL’EUROPA MEDIOEVALE
di Ileana ZEPPETELLA, docente Scuola Secondaria di secondo grado
Finalità del percorso
Il percorso si propone come esempio di introduzione allo studio di un nuovo argomento previsto dal curricolo scolastico.
Modalità di lavoro
Il lavoro prevede la mediazione dell’insegnante nella presentazione della materia e un uso autonomo dei materiali da parte dello studente solo dopo un primo approccio guidato. Il percorso, infatti, propone una parte di informazioni essenziali, intorno alle quali può aprirsi una discussione in classe, e una parte di approfondimento, che gli studenti possono utilizzare anche in modo autonomo.
La lezione dovrebbe essere svolta nell’aula informatica, in modo da rendere possibile l’immediata integrazione delle informazioni date dal docente con quanto viene detto nel presente percorso.
La complessità delle componenti culturali chiamate in causa rende auspicabile una gestione multidisciplinare; le competenze interessate sono: letteratura italiana, letteratura inglese, letteratura francese, storia , filosofia, religione.
Prerequisiti
Qualche sommaria conoscenza di testi dell’epica classica.
Che cosa è l’epica?
La produzione epica (dal greco ‘epos’, parola, verso) in ogni tradizione letteraria (identificata dalla lingua e\o dal luogo) si colloca costantemente nel momento delle origini. L’epopea racconta le imprese eroiche di personaggi, spesso investiti di una particolare autorità per volere divino, che sono presentati come i progenitori del popolo a cui il racconto è destinato. Il poeta celebra persone lontane nell’asse temporale (perché più antiche) e nella gerarchia di valori (perché modelli esemplari): questa distanza epica crea l’atmosfera favolosa in cui interventi divini, avvenimenti miracolosi e presenze magiche trovano una naturale e quasi necessaria collocazione.
I canti epici nascono e vivono in una trasmissione orale per un tempo non precisabile, ma certamente molto lungo. Erano recitati in riunioni collettive da un cantore, e trasmessi poi da un cantore all'altro. La scrittura, anche se conosciuta, era riservata ad usi pratici o burocratici. Il testo esisteva solo nel momento in cui gli veniva data sostanza verbale da un cantore o giullare: era dunque effimero, come qualunque recita pubblica (di un’orazione o di un testo poetico di qualsiasi genere). Solo in un momento successivo il testo epico, destinato tradizionalmente alla recitazione e al canto, incontrava una diversa esecuzione, la redazione nella forma durevole della scrittura.
Alla fruizione e trasmissione orale sono legate le più evidenti caratteristiche formali dell'epica, prima di tutto la struttura in versi, poiché ritmo e ripetizione di suoni aiutano l’apprendimento a memoria. Tipico dell’epica è lo stile formulare, cioè l'uso, ogni volta che il senso lo consente, delle stesse parole e delle formule retoriche per raccontare eventi simili come fenomeni atmosferici (albe, tramonti, tempeste), scene di battaglia, banchetti, ecc.) Fa parte di questa tendenza alla ripetizione anche l’uso degli epiteti. L’epiteto è un aggettivo, un nome, o una più complessa locuzione, che enfatizza una caratteristica fisica (Atena dagli occhi azzurri), o morale (Odisseo ricco d'astuzie), o una particolare abilità ( il piè veloce Achille). In altre parole è un attributo o un'apposizione o un complemento di qualità, che accompagna abitualmente, o sostituisce, il nome di dei ed eroi. Spesso forma insieme al nome proprio un'unità metrica fissa (per esempio un mezzo verso), favorendo perciò l'abitudine alla ripetizione.
Tutte queste modalità offrono un aiuto alla memoria e favoriscono le possibilità di reciproco adattamento tra la musica (che sempre accompagnava la recitazione cantata) e le parole.
L’epica medioevale: chi la recita, chi la ascolta.
L’epica nel mondo medioevale (come già era avvenuto per l’epica classica) è sempre trasmessa oralmente, cioè ‘messa in scena ’ davanti ad un pubblico in una esecuzione in un luogo aperto (piazza, mercato, sagrato di una chiesa o monastero). Il personaggio chiave di questa oralità popolare è il ‘giullare’ (joculator, vocabolo etimologicamente connesso con ‘gioco’); erede degli attori del circo, dei contastorie ambulanti della tarda latinità, probabilmente anche dei ‘bardi’ (parola celtica che designa il poeta-cantore del mondo celtico e germanico), il giullare è mimo, musicista, danzatore, cantante. Un particolare tipo di giullare è specializzato nella recitazione di poesie, di vite di santi e di canzoni. Questa attività è l’unica esclusa dalla condanna della Chiesa che colpisce tutte le altre. Interpreti o creatori o rifacitori di leggende e storie assicurano l’attualizzazione orale e vocale necessaria all’opera medioevale, che ha sempre un carattere di teatralità.
Approfondimenti
Le più antiche ‘storie’ che circolano nello spazio culturale dell’Europa non sono ancora veri e propri poemi epici, ma canti epico-lirici che celebrano le gesta dell’eroe di una tribù o, in una chiave religiosa, un sistema mitologico con le relative costellazioni di dei e semidei. Gli esempi più remoti di una letteratura europea (dopo quella classica, latina e greca) si diffondono in aree remote dell’Europa, al di fuori dei confini dei territori colonizzati da Roma.
Un posto importante occupano le 11 storie gallesi, o celtiche, delle isole britanniche (dal nome di quelle popolazioni che i Romani chiamavano Galli e i greci Keltoi). La raccolta è nota sotto il titolo di Mabinogion (parola dal significato ancora controverso); i manoscritti che ci hanno trasmesso queste leggende furono redatti posteriormente all’XI secolo (i più completi nel XIII – XIV), ma la loro composizione, nella forma in cui le leggiamo, risale al secolo X per i più antichi, o XI. I testi, continuamente tramandati nella trasmissione orale e poi nelle redazioni scritte, sono da ricondurre a un ambiente molto più antico, pre-medioevale e pre-cristiano, addirittura preistorico.
Anche i 29 canti in antico islandese che costituiscono l’Edda, contenuti in un manoscritto del XIII secolo, furono composti tra il IX e il XII secolo, e in precedenza erano circolati oralmente per almeno un secolo. La materia, di origine germanica, trasportata poi in Scandinavia e adattata allo spirito di quei popoli, riflette un clima culturale pre-cristiano: racconta miti (creazione, distruzione e risurrezione del mondo, azioni miracolose del dio Odino) ed imprese epiche (leggenda dei Nibelunghi). Sicuramente i grandi poemi epici medioevali devono molto a questi antichi canti, e in particolare all’Edda, per la maggiore rilevanza di leggende e tradizioni germaniche in un’Europa dove re e guerrieri, cavalieri e feudatari erano di origine germanica.
I poemi epici medioevali: caratteristiche distintive
Canti e leggende epiche cominciano a circolare diffusamente in Europa a partire dal IX – X secolo in lingue e dialetti diversi, ma qui vogliamo focalizzare l’attenzione sulle opere più complesse che per le loro caratteristiche possiamo definire propriamente poemi.
Si tratta di narrazioni in poesia, di notevole lunghezza (superiore ai 3000 versi), ricchi di una forma metrica elaborata e attenta agli effetti fonici (in relazione alla recitazione), con un intreccio saldamente strutturato intorno ad una figura dominante che è il protagonista della vicenda e l’eroe delle imprese raccontate.
I poemi epici di materia eroica dell’Europa medioevale, pur appartenendo a lingue, culture, epoche ed aree geografiche diverse, hanno in comune una frontiera ideologica, quella che contrappone il popolo della fede cristiana a coloro che a tale fede sono estranei o nemici. Questa comune appartenenza non esclude naturalmente che, all’interno di una prima marcatura di campo, ciascuno di essi sia caratterizzato da forme e temi suoi particolari, a sottolineare un’identità che, alla luce della storia successiva, potremmo chiamare ‘nazionale’.
Approfondimenti
Il più antico del poemi epici medioevali del ‘popolo cristiano ’ è Beowulf. Il manoscritto che ce lo tramanda fu redatto nell’XI secolo, ma le caratteristiche testuali ne pongono la composizione nell’VIII. La vicenda si articola intorno a tre duelli che vedono l’eroe in lotta con il mostro. Le mitologie di tutti i popoli parlano di mostri (dal latino ‘monstrum’ = segno divino) o animali divini, in cui una ferinità contro natura si combina con una radice soprannaturale. Rappresentano una forza primordiale che incarna in sintesi indistinta pulsioni umane contraddittorie, istinti violenti di sopraffazione e aspirazione ad un superiore equilibrio. La presenza del mostro sposta l’asse del tempo all’indietro fin nel cuore mitico dell’elaborazione culturale dell’uomo, che ancore non distingue criticamente, ma simbolicamente rappresenta paure dell’ignoto e desiderio di dominarlo, in un primo affacciarsi della coscienza. Il mostro combattuto e vinto da Beowulf ha subito una profonda interpretazione culturale cristiana, perdendo l’originario carattere di ambiguità e venendo a identificarsi col mostro biblico, cioè Satana. L’eroe dunque è anche l’aiutante nell’opera divina della creazione e nella vittoria del Bene contro il Male. In una dimensione più storica, il poema, che traduce una materia nordica nella lingua degli anglosassoni ormai stanziati in Inghilterra, rappresenta anche la nascita di una coscienza di sé di quel popolo, pur diviso in regni diversi, in contrapposizione con i ‘barbari’ ancora pagani che dal nord minacciano le loro coste e da cui subiranno ripetute invasioni.
La letteratura epica nelle lingue romanze ha la sua più antica produzione nelle Chansons de geste. Le Chansons de geste sono poemi narrativi cantati. Infatti il termine francese geste corrisponde all’italiano gesta: entrambi derivano dal latino gesta , participio passato del verbo gerere, compiere. Gesta è un plurale neutro e significa ‘[cose] compiute ’, imprese, mentre l’esito italiano e francese è singolare. Poiché chanson (in italiano canzone) è connesso con il latino canere = cantare, una chanson de geste è un componimento cantato che racconta un’impresa. Il contenuto è la celebrazione di azioni eroiche di uno o più personaggi di una stessa famiglia nobile, e risponde al desiderio delle dinastie feudali (impegnate, nei secoli X – XI, in guerre contro nemici esterni, ma spesso anche in una asperrima lotta interna per il potere) di ottenere fama e prestigio.
Un nucleo tematico importante è quello noto sotto il nome di ‘materia di Francia’, e si colloca sempre al tempo di Carlo Magno o tutt’al più di suo figlio Ludovico il Pio (fine dell’VIII, inizio del IX secolo). Narra le guerre degli eserciti cristiani contro i Mori (dal nome latino degli abitanti dell’Africa nord occidentale, detti appunto ‘Mauri’ o per contrazione ‘Mori’) o Saraceni (dal nome di una tribù del Mar Rosso, esteso a designare tutti gli Arabi e tutti i Mussulmani) che occupavano tutta l’Africa settentrionale, la Spagna, la Sicilia e la Sardegna. Gli eroi della materia di Francia sono i Paladini, sui quali eccelle il loro capo, Orlando, eroe di forza e coraggio sovrumani, strenuo difensore della fede e del suo imperatore, ma anche del proprio orgoglio di combattente, in nome di un senso dell’onore assunto a valore assoluto. La celebrazione dell’imperatore e dei suoi conti di palazzo, nobili che vivono alla sua corte e sono a lui legati da rapporti personali e familiari ha anche una valenza ideologica e politica di intervento ‘propagandistico’ a favore di un rafforzamento del potere centrale contro le tentazioni ribellistiche e autonomiste della grande nobiltà feudale. Dietro l’imperatore del Sacro Romano Impero si intravede la monarchia francese dell’XI - XII secolo, quando le chansons de geste furono composte, che cominciava il lungo cammino verso il rafforzamento del potere centrale e la costruzione di uno stato a carattere nazionale.
La produzione epica medioevale in lingua castigliana è dominata dall’opera maggiore, il Cantare del Cid; vi si aggiungono un ampio poema su Fernán Gonzáles (che, pur nel quadro della perenne lotta tra regni cristiani e mori, sottolinea le rivalità tra Leonesi e Castigliani ) e una Cronica rimata. La notevole storicità di questa epopea e il carattere di schietta umanità dei personaggi, che coniugano la grandezza eroica con atteggiamenti più dimessi e quotidiani, suggeriscono un’influenza della letteratura araba, attenta ai dati dell’intimità e dell’esperienza. Queste caratteristiche distinguono la produzione castigliana dalle chansons de geste francese, in cui domina il tono del sublime e del sovrumano. I cantari castigliani e il Cantare del Cid incarnano lo spirito della Riconquista contro i dominatori Saraceni e l’orgoglio della Castiglia che, con i suoi re, assume la guida di una lotta insieme religiosa e politica. La vittoria verrà a coincidere con l’affermazione della monarchia centralizzata e nazionale, e imporrà un’identità castigliana a tutta la Spagna.
L’invenzione di una nuova scrittura: le lingue parlate diventano lingue scritte
Un ampio patrimonio di produzioni ‘letterarie’ circolava nello spazio orale dell’Europa, trovando solo casuali, precarie e parziali trascrizioni scritte, che costituiscono però la nostra unica traccia. Infatti anche dopo la fine dell’impero romano l’unica lingua che veniva scritta era il latino. Poiché solo i chierici, cioè la persone che volevano intraprendere la carriera ecclesiastica (diventare sacerdoti e, più in alto, vescovi o abati nei monasteri) studiavano il latino, soltanto i chierici possedevano l’abilità della lettura e della scrittura. Tutti gli altri gruppi sociali erano ‘illetterati’ (senza lettere, analfabeti), sia i barbari, compresi i loro principi e re, che parlavano lingue germaniche, sia le masse popolari romanizzate, che parlavano una lingua derivata dal latino. Tutte queste sono lingue del popolo, che non venivano scritte se non per motivi pratici (per esempio per verbalizzare una testimonianza in tribunale). I canti epici appartenevano all’oralità, ed erano cantati in pubbliche riunioni nelle lingue parlate. Ad un certo punto questi testi, magari anche solo come aiuto alla memoria, vennero fissati in una redazione scritta. Per i poemi epici più complessi, la redazione scritta era indispensabile per garantire la fissità della metrica e l’organizzazione dell’intreccio. I poemi epici sono tra i più antichi testi letterari che vengono scritti nelle lingue della comunicazione orale.
Approfondimenti
In tutte le culture che conoscono la scrittura, la lingua scritta si differenzia in modo più o meno sensibile da quella parlata. La differenza tra i due livelli è tanto maggiore quanto più ristretto è il gruppo delle persone in grado di scrivere, o trascrivere, i testi. Lo scarto, per quanto riguarda il latino, era avvertito fin dagli ultimi tempi della Repubblica (come testimoniano gli indizi ricavati da giochi di parola, versi satirici, iscrizioni), ma la forbice era destinata ad aprirsi con la decadenza della cultura scritta cui si assiste all’epoca delle invasioni barbariche e della caduta dell’impero romano. La competenza della lettura e della scrittura rimase patrimonio esclusivo della Chiesa che istruiva i chierici (sacerdoti) nelle scuole dei monasteri e dei vescovadi. Sottratta al controllo di una più stabile lingua scritta, la lingua parlata subì una rapida evoluzione, allontanandosi tanto dal modello standard che, ad un certo punto, gli ‘illetterati’ non furono più in grado di comprendere il latino, non solo quello scritto, ma nemmeno quello parlato, che manteneva una sua limitata circolazione negli ambienti ecclesiastici e giuridici (e, più tardi, nelle università). Non è possibile stabilire l’esatto momento in cui la lingua rustica (etimologicamente ‘dei contadini ’ e, per estensione, dei non colti ) non designa più il latino volgare (etimologicamente ‘del popolo ’, dunque parlato), ma una lingua diversa. Sappiamo però che nell’813 il concilio di Tours raccomanda ai sacerdoti di predicare in una lingua comprensibile ai loro fedeli, cioè in lingua romana(romanza) per la popolazione romanizzata, o in lingua thiotisca (teutonica, germanica) per i barbari. La lingua romana ( o romanza), non è il risultato di un’evoluzione omogenea del latino (troppi e troppo diversi sono i fattori in gioco nelle varie regioni), ma il nome collettivo di un numero infinito di dialetti tutti derivati dal latino volgare. Anche nell’area dell’Europa settentrionale la comune matrice germanica si attualizza in molte varietà diverse. Di fronte a questa frantumazione, la nascita e poi l’affermazione dell’uso scritto delle nuove lingue avrà una funzione di controllo, proponendo modelli e innestando il processo che porterà alla nascita delle lingue letterarie (che ebbero, a loro volta, fortune assai diverse, ma questa è una storia non solo culturale, ma anche politica).
Prima che ciò avvenga, anche nei secoli in cui la scrittura non registra espressioni del parlato se non per occasionali motivi pratici (come deposizioni rese in tribunale), non sarebbe giusto pensare ad una coincidenza assoluta tra cultura e scrittura. La cultura ufficiale non è solo scritta. I libri sono rari e costosi: è vero che ad essi è affidata la fonte dell’autorità, ma anche l’oralità svolge un ruolo importante nella trasmissione dell’insegnamento religioso e nel commento dei testi sacri che si svolge in gran parte attraverso la lezione e la discussione. Naturalmente si realizzano nell’esecuzione orale, in stretto rapporto con la musica, la poesia latina e i testi liturgici.
Ma quando si consuma un divorzio pressoché definitivo tra la parola parlata e il latino, lingua scritta per eccellenza (con le eccezioni già ricordate), quando perfino nelle chiese i preti devono rivolgersi ai loro fedeli nelle lingue degli ‘illetterati’, nulla lascia prevedere un contatto organico e continuo tra queste e l’espressione scritta. Nulla spingeva i chierici a trascrivere le canzoni che pure sentivano cantare (visto che molte ordinanze ecclesiastiche le condannavano come immorali), o le leggende che circolavano tra il popolo, in cui affioravano tracce di credenze pagane e di pratiche magiche guardate con sospetto dall’ortodossia ufficiale. Eppure questo avviene e i grandi poemi epici costituiscono appunto il più antico (insieme a pochi altri generi) e più consistente corpus di opere letterarie scritte nelle nuove lingue, quelle che diventeranno le lingue dalla cultura moderna dell’Europa.
Il poema epico dell’Inghilterra anglosassone: Beowulf
Beowulf, principe dei Goti, è l’eroe del poema epico delle popolazioni anglosassoni che invasero l’attuale Inghilterra (fine del V – VI secolo) e vi fondarono regni. Il poema è la re-interpretazione e la redazione scritta di racconti folklorici di tribù scandinave, composta in Inghilterra in lingua anglosassone (cioè uno stadio arcaico dell’inglese) per un pubblico cristiano da un poeta cristiano. Nel testo sono presenti elementi dell’antica mitologia pagana (mostri, spiriti, caverne buie e acque putride), e si accenna anche a riti idolatri ma questo materiale viene inserito in un’ottica cristiana e la Bibbia è usata come repertorio di riferimento. I mostri contro cui combatte Beowulf sono portatori del male in quanto appartenenti alla stessa stirpe di Caino. Non vi è nessun diretto riferimento a Gesù Cristo, ma si nomina spesso Dio, invocandolo attraverso una ricca gamma di perifrasi di straordinario valore poetico. Gli usi pagani sono però ancora vivi, come testimonia la conclusione del poema, che si chiude sul rogo funebre di Beowulf. Com’è noto, la cremazione è un rito condannato dalla tradizione ebrea e cristiana; la chiesa cattolica ha tolto il divieto a questa pratica solo alcuni anni or sono.
Approfondimenti
Beowulf è il principe dei Goti (popolo della Svezia meridionale). L’azione del poema è collocata nelle regioni costiere del mare del Nord, in particolare la Svezia meridionale, la Danimarca e la Frisia (fascia lagunare fitta di isole dell’Olanda settentrionale e della Germania nord-occidentale fino al confine danese.). Queste terre nel V secolo erano occupate da varie popolazioni germaniche ancora pagane, organizzate in piccoli regni, nient’altro che vaste unioni di tribù dove gli uomini liberi nelle assemblee deliberavano sugli interessi comuni ed eleggevano i capi. Ovviamente il poema Beowulf è un’opera d’invenzione poetica, ma narra anche fatti realmente avvenuti, come l’incursione di Hygelac, re dei Goti contro la Frisia, avvenuta intorno al 516; anche altri episodi e personaggi trovano riscontro in fonti storiche, in particolare nelle Gesta Danorum del dotto danese Saxo Grammaticus.
Da questa base storica le genti germaniche stanziate sulle rive del Mare del Nord svilupparono, attraverso l’interpretazione della memoria collettiva e dei primitivi canti epici, un patrimonio di leggende eroiche, espressione di un’identità culturale . Gli Angli e i Sassoni, strettamente legati a livello dinastico e personale con le stirpi della Svezia, traghettarono questa tradizione orale in Inghilterra, quando in ondate successive la invasero durante il V e VI secolo.
Le legioni romane, ritirandosi definitivamente nel 406 dalla Britannia, lasciavano un paese romanizzato in modo superficiale (il latino non fu mai parlato dagli indigeni), ma già cristianizzato, e il cristianesimo per quei provinciali, romanizzati o no, era tutt’uno con la civiltà.
L’Inghilterra anglosassone, quale venne a formarsi dopo reiterate invasioni, gravitava sul Mare del Nord e sulla Scandinavia, ed era costituta da piccoli regni di tipo germanico. I regni più importanti erano sette, per cui si parla di questo periodo della storia inglese (450 – 800) come dell’Eptarchia anglosassone. In questa struttura politica e sociale gli elementi della romanità cristiana s’infiltrarono abbastanza rapidamente, anche per l’intervento di dotti e tenaci evangelizzatori, arrivando alla conversione integrale dell’isola nei primi anni del VII secolo.
Il poeta del Beowulf è molto probabilmente un monaco, visto che allora solo gli ecclesiastici conoscevano la scrittura; il suo stile, il ricorso continuo ad un linguaggio simbolico e i riferimenti ai testi sacri e ai valori etici cristiani confermano la sua formazione ecclesiastica.
Musicalità e creatività ‘immaginifica’ in un canto antico e solenne.
Il testo del poema Beowulf è in poesia. La lingua è caratterizzata da un andamento ritmico e musicale, grazie all’insistente ripetizione di suoni, che costituisce la più evidente caratteristica della struttura metrica del poema; il tono è solenne e grandioso per l’uso costante di metafore, di perifrasi e di epiteti che ritardano e amplificano la narrazione. Questi strumenti retorici sono anche produttori di una fitta catena di immagini, come è possibile vedere da qualche citazione. Ad un nome comune, per esempio drago, si sostituisce la perifrasi ‘creatura sacrilega ’, che rimanda al suo comportamento empio; similmente l’uso della metafora ‘pastore di crimini ’ mette in scena un pastore che raduna, come un gregge di pecore, i suoi orrendi misfatti. Lo stesso nome dell’eroe protagonista, Beowulf, secondo J.R.R. Tolkien (l’autore de Il signore degli anelli), appassionato studioso del poema, corrisponderebbe a bee-hunter, = cacciatore di api, perifrasi che allude all’orso, amante del miele. L’orso, animale forte e coraggioso, per un paragone naturale in una società di cacciatori, sarebbe diventato epiteto fisso del principe dei Goti, fino sostituire il nome proprio.
Approfondimenti
Il testo del poema Beowulf - privo di notazioni circa il nome dell’autore – ci è pervenuto in un unico manoscritto indicato come Nowell Codex (dal nome del suo più antico possessore), contenente anche altre opere e conservato alla British Library. Fu redatto all’inizio dell’XI secolo da due copisti; il secondo, più accurato del primo, inizia dal verso 1939. Complessivamente conta 3183 ed è il più lungo dei poemi tramandatici in inglese arcaico (anglosassone). Le caratteristiche linguistiche suggeriscono una data di composizione più antica rispetto alla copia manoscritta conservataci, tra la metà del VII e la fine dell’VIII secolo, anche se in proposito non vi è unanimità tra gli studiosi.
I versi non sono rimati e non sono strutturati sul numero di sillabe. Si tratta di versi lunghi, ciascuno dei quali è formato da due versi corti, legati tra loro da dall’alliterazione (ripetizione del suono iniziale delle parole), che interessa almeno tre parole di ogni verso. L’accento cade sulla prima sillaba delle parole legate da alliterazione Le tecniche retoriche tendono alla creazione di un tono alto della scrittura attraverso l’uso costante della metafora (figura retorica che evidenzia un rapporto di somiglianza tra due termini appartenenti a campi semantici diversi). La metafora trasferisce il piano della realtà a quello dell’invenzione immaginifica, dove p.e. il ‘mare’ è la ‘strada delle balene’; frequenti sono anche le perifrasi, assiduamente ripetute fino a diventare veri e propri sinonimi del nome comune della cosa o epiteti dei personaggi. L’uso ripetuto del linguaggio figurato è probabilmente legato alle necessità della recitazione e all’origine orale della tradizione epica.
Un problema ancora discusso è quello dell’autore, se cioè siamo di fronte ad un’opera unitaria, creazione di un unico poeta, o a canti epici autonomi, riuniti solo dal nome dell’eroe celebrato. L’analisi filologica e narratologica può dare suggerimenti in proposito, ma gli studiosi non hanno ancora fornito una risposta risolutiva. Sembra però certo che materiali più antichi, elaborati fuori dall’Inghilterra e trasmessi oralmente, furono rielaborati dal uno più autori di lingua anglosassone alla luce di una nuova sensibilità e di una cultura cristianizzata ed affidati alla scrittura.
Il poema fu pubblicato per la prima volta nel 1815 e tradotto in inglese moderno dal poeta nord-irlandese Seamus Heaney, premio Nobel per la letteratura nel 1995.
Un’epica lotta contro il male
Tutta la vicenda del poema consiste in un’estrema e ripetuta lotta dell’eroe contro il male personificato dai mostri. Gli studiosi dividono la narrazione in tre nuclei, ciascuno dei quali ha al centro una battaglia. Nella finzione narrativa i mostri sono tre, ma rimandano ad un unico archetipo, il Male come elemento incancellabile dell’universo. Quando il mostro, o drago, è messo in scena, è circondato da simboli negativi, la notte, le tenebre, le caverne valico per l’inferno, l’acqua paludosa. Certamente rimanda a miti e credenze pagane, che spesso vedono nel mostro un’entità ambigua, terribile ma divina, fonte insieme di morte e di vita, legata ai riti della fertilità. Ma nell’interpretazione del poeta cristiano il mostro è diventato il Nemico, assimilato al diavolo, che nella tradizione biblica è appunto satan, l’oppositore, uscito dalla stirpe di Caino.
Nonostante la veste cristiana, la vite è dominata non dalla Provvidenza, ma dal Fato.
Approfondimenti
La vicenda del poema si dipana in tre parti, intorno ai tre successivi duelli tra Beowulf e i mostri.
La prima parte narra la lotta sostenuta dal principe dei Goti Beowulf contro un mostro cannibale, Grandel. Beowulf, venuto a sapere che un feroce mostro aveva fatto strage dei cavalieri di Hrōdgār, re di Danimarca, mentre banchettavano con lui nella sua nuova reggia, corre in suo aiuto. Dopo la cena di benvenuto, Beowulf si fa chiudere con i suoi nella grande sala in attesa del Mostro. Grandel arriva e divora uno dei cavalieri, ma Beowulf lo affronta e gli strappa un braccio e una spallo. Ferito in mostro fugge per andare a morire nell’oscurità della sua tana.
Nella seconda parte, la battaglia è contro la madre di Grandel, anch’essa un mostro cannibale, che la sera successiva, mentre si va festa per la vittoria, torna nella reggia e divora un gran numero di convitati. Beowulf la insegue fin nella sua palude e la uccide.
Nella terza parte, che ha luogo in Svezia cinquanta anni dopo, l’avversario è un drago. Beowulf è succeduto allo zio e regna sui Goti. Un cavaliere ruba una coppa d’oro ad un drago, custode in una sua grotta di un immenso tesoro. Beowulf, pur essendo ormai vecchio, lo affronta e lo uccide, ma muore avvelenato dal suo alito. Il poema termina con il rogo funebre di Beowulf, su cui e posto anche il tesoro del drago.
Il mostro, o drago, o Orco è continuamente presente. La carriera di eroe di Beowulf è scandita dalle sue battaglie con il mostro. Boewulf ha la sensazione che tutte le sue azioni siano dominate da un onnipresente e incombente destino.
Il poema rappresenta una società germanica guerriera in cui la relazione di parentela tra i re, o capi, e i loro cavalieri ha un’importanza capitale. Tale relazione è definita in termini di elargizioni, concesse dai signori, e di servizi forniti dai suoi fedeli. Questi difendono in pace e in guerra gli interessi del loro signore e ne hanno in cambio armature, armi, ricchezze (oro e argento) vitto e bevande. I grandi banchetti notturni sono la prefigurazione della vita di corte nei castelli feudali o nelle regge, quale verrà ad organizzarsi in una evoluzione successiva della struttura sociale dell’Europa.
Letture dal testo
Nel poema anglosassone vi è, continua e ossessiva, la presenza del mostro. La figura dell’animale, divino perché sovrumanamente potente e diabolico perché distruttore, è presente in tutti i miti delle origini, che per immagini raccontano il primo manifestarsi della vita, sullo sfondo in un caos primigenio fatto di acque stagnanti e di buio. Di fronte al mondo che comincia ad esistere, organizzato dalla luce del sole, simbolo di Dio, le tenebre e i suoi abitatori sono invece i simboli negativi del non essere e del disordine. Beowulf è l’eroe allo stato puro: non combatte semplicemente dei nemici, ma la personificazione stessa del Male. Le sue vittorie sono celebrate in grandi feste, che testimoniano, dopo il pericolo, il ritorno ad un mondo ordinato in cui si celebrano i riti della civile convivenza. Il poeta abbandona una mitologia di carattere ancora animista e pagana, esplicitamente condannata, per aprirsi ai valori cristiani e ad una nuova cultura.
La forza espressiva della sua poesia è straordinaria: il suo entusiasmo è visionario e si traduce nella creazione di una catena di immagini che si accumulano e si rafforzano a vicenda grazie soprattutto all’uso di un linguaggio figurato, ricco in particolare di perifrasi e metafore.
I versi che leggeremo sono tratti dalla prima parte del poema, che ha al centro il duello tra Beowulf e il mostro.
Trovò (1), dentro la sala, il seguito dei principi
nel sonno, dopo la festa. " Non conoscevano il lutto,
120 mala sorte degli uomini. La Creatura sacrilega, (2)
feroce, rapace, si mosse rapida:
selvaggia, crudele, strappò dai letti
trenta vassalli. E poi se ne andò via,
trionfante del suo furto; se ne tornò a casa sua,
carico di cadaveri, si rifugiò nella tana.
Ma verso l'aurora, già prima del giorno,
non fu più segreta la forza di guerra
i Grendel (3). Allora, a festa finita,
si alzò un gran compianto, un mattino di gridi (4).
130 Il celebre principe (5), un grande re da sempre,
sedeva stravolto. Nel pieno del potere
soffriva: portava il lutto dei suoi vassalli.
Finché non si scoprirono le impronte del Nemico (6),
del Demone infuriato. Troppo forte l'oltraggio,
troppo odioso e durevole.
Né passò molto tempo;
già la notte seguente ritornò a fare scempio
peggiore, e non rimpianse la sua faida (7) e i suoi crimini;
c’ era troppo legato. {...)
(...)
(...) Ma l'Orco (8) seguitava
160 la sua persecuzione: ombra buia di morte,
tendeva agguati e trappole ai giovani e agli esperti.
Teneva a notte eterna gli acquitrini nebbiosi:
nessuno si figura dove volgano i passi,
gli intimi dell'Inferno (9).
(...)
(..) A volte organizzavano (10)
sacrifici idolatri nei templi degli dèi:
pregavano a gran voce che l'Assassino di anime (11)
gli venisse in soccorso contro il Flagello pubblico.
Queste erano le usanze, le chimere pagane (12);
180 nell'umore della mente rievocare l'Inferno.
Non conoscevano l'Arbitro, il Giudice dei fatti:
ignoravano Dio, non sapevano adorare.
l'Elmo dei Cieli, il Padrone della Vittoria (13).
Disgraziati coloro che, per violènza estrema,
scaraventano l'anima nelle braccia del fuoco.
Non sperano conforto, né svolte. Ma felice
chi il giorno della morte salirà dal Signore,
e implorerà la pace tra le braccia del Padre.
(...)
Ognuno dei due (14) odiava la vita dell' altro.
Si aprì unta piaga, sul corpo del Mostro spaventoso:
gli apparve sulla spalla una vasta ferita.
I tendini saltarono, scoppiarono le casse
delle ossa. A Beowulf fu concesso il trionfo
in quel duello. Grendel sarebbe scappato di lì,
820 malato di morte, per paludi e pendici,
a ritrovare il covo senza gioia. Sapeva
più che certamente che era arrivata la fine
della sua vita, e il computo dei giorni dei suoi giorni.
La speranza di tutti i Danesi era accolta,
dopo quell’ urlo di morte. Così disinfestava,
venuto dì lontano, saggio e di spirito saldo,
la sala di Hròdgàr (15) la salvava dalla violenza. .
Esultava del suo lavoro notturno dell'impresa
valorosa. Verso i Danesi dell'Est il comandante
830 dei guerrieri geati aveva mantenuto
il vanto di alleviare tutte le sofferenze,
tutti i lutti maligni che avevano patito,
l'afflizione non poca, che era loro toccato
subire; oppressi, costretti. Ne fu un segnale, vistoso
quando, strenuo in battaglia, affisse mano e braccio
e spalla (ecco lì intera la grinfia dì Grendel)
sotto la volta del tetto.
Beowulf, a cura di L.Koch, Torino, Einaudi, 1987, vv. 118–137; 159–164; 175-188; 814-873.
1. Note
2. Il soggetto è Grendel, il mostro, o drago, discendente di Caino, simbolo del Male.
3. Creatura sacrilega è una perifrasi per indicare il mostro che ne evidenzia il comportamento negativo, la ribellione alla divinità.
4. Qui il mostro è indicato con il suo nome.
5. Mattino di gridi è una splendida metafora: un mattino terribile, pieno di dolore come sono appunto i gridi che manifestano il dolore.
E’ Hrōdgar, re dei Danesi, che aveva fatto costruire un nuovo palazzo, con una grande sala centrale per tenervi banchetti. La tradizione voleva che il signore ripagasse la fedeltà del vassalli mantenendoli a corte.
6. Nemico è uno dei modi in cui nella Bibbia era indicato il diavolo: ‘diavolo’ è la trascrizione italiana della parola greca diabolos, usata nella versione greca (III – II secolo a.C.) della Bibbia ebraica, o Vecchio Testamento, per tradurre il termine ebraico satan.
7. Nell’antico diritto germanico ‘faida’è la guerra privata che la famiglia di un individuo offeso (ucciso o ferito) conduce contro la famiglia di chi ha compiuto l’offesa; qui indica appunto guerra, vendetta, con un’implicazione negativa.
8. Un altro termine per indicare Grendel. Nel linguaggio letterario (italiano antico e latino, orcus) designa il regno sotterraneo, gli Inferi, o il dio che vi abita. Nella tradizione popolare e fiabesca è il gigante cattivo.
9. Le forze infernali, oscure e imprevedibili.
10. Soggetto sottinteso è: i cavalieri danesi, perseguitati da Grendel. La paura fa vacillare la loro fede cristiana ancora non consolidata nelle loro coscienze e li spinge a rifugiarsi nelle vecchie pratiche idolatre e nella superstizione.
11. L’espressione assassino di anime indica probabilmente il dio più importante della mitologia germanica, Odino. In quanto divinità di una religione pagana è un falso idolo, e conduce le anime alla morte spirituale in quanto le tiene lontani dalla fede in Cristo, il Salvatore.
12. Il poeta cristiano sente la necessità di confermare, per sé e per i suoi ascoltatori, la validità dell’unica vera fede. La disposizione d’animo (umore della mente) dominata dall’angoscia spinge cavalieri danesi a tornare ai riti pagani tradizionali, ma questi non sono che chimere. Nella mitologia greca le chimere sono animali immaginari dal corpo triforme (testa di leone, corpo di capre,coda di drago). In senso figurato hanno il significato di sogno vano e illusorio.
13. La serie di perifrasi e metafore sono tutti modi diversi di nominare Dio, mettendone in rilievo in modo variato e attraverso immagini le diverse prerogative. La lunga invocazione si conclude con una preghiera (vv.187-9).
14. I due sono Beiwulf e Grendel, avversari nel duello. Beowulf, informato della strage dei cavalieri danesi, è accorso in loro aiuto.
15. Il re dei Danesi.
LA CANZONE DI ORLANDO
La Chanson de Roland in lingua d’oil (francese antico)
Come nasce la leggenda di Orlando e il poema che lo celebra.
L’episodio storico narrato nel poema La Canzone di Orlando (che porta la firma di un certo Turoldo), cioè una spedizione di Carlo Magno in Spagna, conclusasi tragicamente a Roncisvalle con l’assalto da parte dei Mori alla retroguardia dell’esercito franco e l’eccidio dei cavalieri cristiani, avvenne nel 778; La Canzone di Orlando invece fu composto verso la fine del secolo XI. Questa grande distanza temporale fa nascere il problema sulle origini dell’opera.
La battaglia di Roncisvalle, che vide l’eroica resistenza, fino alla morte, dei Paladini e del loro condottiero Orlando, fa nascere una leggenda intorno all’eroe: cominciano a circolare canti epici cantati nelle feste e trasmessi da un giullare all’altro. Infatti già in alcuni testi (in latino) del IX e X secolo vi è l’eco di una canzone di Orlando; inoltre in una glossa (commento), aggiunta verso il 1065 – 1070 (trenta anni prima del poema di Turoldo) ad un manoscritto spagnolo, vi è un riassunto di una canzone di Orlando. Dobbiamo dunque pensare ad una tradizione orale: ogni esecuzione ricreava il poema che di per sé non esisteva. La dimensione orale delle canzoni è percepibile anche nella forma poetica e nello stile formulare; questi tratti stilistici permangono anche nel testo scritto che ci è pervenuto. Un poeta rivisitò la materia a lungo tramandata oralmente e adottò consapevolmente uno stile tradizionale come strumento della dimensione estetica della sua opera, che trae un fascino particolare dall’effetto di antichità evocato dagli stilemi ereditati dall’oralità.
Approfondimenti
La Canzone di Orlando è la più antica delle Chansons de geste (posteriore al 1080, ma anteriore al 1100) e racconta una spedizione di Carlo Magno contro i Mori di Spagna del 778, conclusasi con una sconfitta a Roncisvalle, dove venne attaccata ed annientata la retroguardia dell’esercito franco, ormai sulla via del ritorno.
Per quanto riguarda l’origine del poema, due tesi si contrappongono in modo radicale: da una parte alcuni pensano che la Chanson de Roland sia la creazione originale di un poeta ben consapevole della sua arte che scelse dei temi poetici per cantare ideali e sentimenti del suo tempo. C’era uno sforzo di propaganda da parte dei chierici a favore dei loro santuari. Nel clima della Crociata qualunque chierico assegnato ad una delle chiese in cui si conservavano reliquie di Orlando (nella stessa Chanson -lassa 267 - si legge che l’olifante è a Saint-Seurin di Boordeaux, e che il suo corpo riposa nella chiesa di Blaye, sulla via dei pellegrinaggi al santuario di Santiago di Campostella), conoscendo la storia della morte di Orlando dalla Vita Karoli, poteva chiedere ad un poeta di comporre un canto su quel tema. Secondo questa ipotesi la Canzone di Orlando così come la leggiamo nel manoscritto di Oxford è l’opera di Turoldo, che l’ha composta senza altri antecedenti poetici . Sul versante opposto altri studiosi interpretano il culto degli eroi legato ai santuari non come l’origine, attraverso una committenza dei medesimi, ma come la conseguenza del grande successo di pubblico ottenuto dalla Chanson de Roland; il popolo cristiano sentiva cantare le gesta e il sacrificio dell’eroe e ne andava a cercare le reliquie. Secondo questa tesi la leggenda di Orlando è contemporanea agli avvenimenti che narra e viene cantata nelle chansons all’intero di una lunga tradizione orale che nasce in epoca carolingia e vive per secoli(nonostante la censura delle fonti ufficiali), finché incontra la scrittura nel testo di Turoldo.
Sembra accertata, da varie testimonianze l’esistenza di canzoni di Orlando prima del poema di Turoldo. Dobbiamo dunque pensare ad una tradizione mista di oralità e scrittura. La comunicazione delle canzoni avveniva attraverso esecuzioni orali, performance di canto, recitazione e gestualità che avevano un carattere teatrale. Ogni esecuzione ricreava il poema che di per sé non esisteva. Il testo non era immutabile, legato ad un autore (come della concezione di oggi), ma era in evoluzione, adeguandosi al variare del gusto, finché un poeta gli diede alla materia una forma scritta che per il suo valore estetico si affermò e divenne canonica.
Orlando personaggio storico ed eroe leggendario, campione nelle armi e nella fede
Orlando (a differenza di altri personaggi del poema) ha realtà storica, come testimonia la Vita Karoli che lo ricorda, col titolo di signore feudale della marca di Bretagna, tra i caduti di Roncisvalle. La sua figura occupa un posto di primo piano nell’immaginario collettivo; certamente era già viva nella precedente tradizione orale, ma acquista in seguito un grande spazio per la forza di suggestione della grande interpretazione poetica consacrata nella Canzone di Orlando. Lo spirito religioso del tempo lo assimila ai martiri cristiani, tanto che in una chiesa di Blaye, sulla via dei pellegrinaggi al santuario di Santiago di Campostella, si venerava il sarcofago di un santo ‘Roland’ (secondo la grafia francese) ucciso dai Saraceni. Anche in Francia sono rintracciabili i segni di un culto di Orlando.
Dalla Canzone di Orlando ebbe origine una vasta fioritura di cantari e poemi orali e scritti, in prosa e in poesia, di registro alto o popolare, di genere eroico o tragicomico diffusa specialmente in area francese, germanica e italiana ed espressa nei vari volgari locali, più o meno influenzati dall’originaria lingua d’oil (il francese antico della Chanson de Roland). La gloriosa e variegata produzione letteraria che ha al centro la guerra di Carlo Magno contro i Mori, i Paladini di Francia e Orlando, modello d’eroismo sovrumano, di chiude con due capolavori della letteratura italiana: L’Orlando Innamorato (1483) di Matteo Maria Boiardo e L’Orlando Furioso (1516) di Ludovico Ariosto.
Approfondimenti
Sul finire dell’VIII secolo la Spagna era quasi completamente sotto il dominio dei Mussulmani che, sbarcati in forze a Gibilterra nel 711, avevano travolto il regno romano-barbarico del Visigoti occupando tutta la penisola iberica, eccetto la regione delle Asturie, dove si era costituito un piccolo regno cristiano. I vincitori già nel 713 erano in grado di proclamare solennemente la sovranità del califfo (imperatore islamico residente a Damasco) sul paese conquistato. Nel 732 Carlo Martello sconfisse a Poiters i Mori che, già padroni di tutta la penisola iberica, tentavano di avanzare oltre i Pirenei; la battaglia Poiters pose fine all’espansione mussulmana nell’Europa occidentale. La situazione dei regni mori della Spaga non era tranquilla. Tra gli Arabi (i conquistatori venuti dall’Arabia a portare la parola di Maometto) e i Berberi (le popolazioni autoctone del nord Africa, ormai completamente islamizzate, ma con lingua e costumi propri) vi erano dissidi anche violenti per la spartizione del potere e delle ricchezze. Inoltre la sottomissione delle popolazioni cristiane generava tensioni non solo tra queste e i dominatori islamici, ma anche tra i cristiani convertiti, i cosiddetti ‘rinnegati’, e quelli rimasti fedeli all’antica fede. Fonte d’instabilità era poi la divisione che la religione islamica pativa per il formasi di correnti diverse, legate a interpretazioni più o meno rigoriste dei testi sacri. La breve spedizione compiuta da Carlo Magno (già re dei Franchi ma non ancora Imperatore) in Spagna si colloca appunto in questo quadro di lotte interne: un governatore mussulmano aveva chiesto il suo aiuto in una contesa che lo opponeva ad altre autorità del nord della Spagna, sue correligionarie, nel quadro di un conflitto dinastico tutto interno al campo islamico.
Le fonti storiche cristiane d’area franca (Vita Karoli di Eginardo, inizio IX secolo, e Annales Regni Francorum, IX secolo) e spagnola (Historia silense, XII secolo) danno scarso rilievo alla notizia, e ne narrano anche l’infausta conclusione: durante la ritirata bande di montanari Baschi (Wascones) attirarono l’esercito in un agguato, nella gola di Roncisvalle, e fecero strage di Franchi. Le fonti arabe parlano invece della battaglia di Roncisvalle come di un importante successo dei Saraceni che avrebbe loro consentito di liberare il governatore di Saragozza Ben Al-Arabi, condotto da Carlo prigioniero in Francia. Carlo era intervenuto in Spagna proprio su invito di Ben Al-Arabi; giunto a Saragozza, si era però trovato di fronte ad un voltafaccia dell’ex alleato e per punirlo lo aveva catturato. Molti indizi attentamente vagliati dai medioevalisti spingono a considerare questa versione più attendibile. Infatti spiega come un fatto che viene riferito come marginale – evidentemente nel tentativo di nascondere uno scacco - fosse poi diventato universalmente conosciuto e celebrato.
Questi dati storici sono stati pesantemente falsati dal poeta de La Canzone di Orlando che trasforma i pochi mesi dell’impresa spagnola in sette lunghi anni; inoltre per garantire un’aura di nobiltà alla vicenda pone come antagonista di Carlo in un primo tempo Marsilio (personaggio senza riscontro nelle fonti, ma presentato come emiro di Saragozza e sovrano di tutta la Spagna mussulmana) e in seguito lo stesso imperatore del Marocco sbarcato in Spagna con un formidabile esercito. Fa poi seguire al racconto della sconfitta pirenaica quello di una grande spedizione punitiva vittoriosamente guidata da Carlo fin nel cuore della Spagna. L’amplificazione e le correzioni sono dovute a fondamentali ragioni ideologiche e storiche che dipendono dalla situazione della Francia, e dell’Europa, alla fine del XI secolo, quando La Canzone di Orlando viene composta. In quei decenni tutto il Mediterraneo occidentale era teatro di guerre tra paesi cristiani e mussulmani. Gli Arabi vennero cacciati dalla Sardegna e dalla Sicilia, mentre la Francia promosse spedizioni contro i territori spagnoli ancora sotto il dominio mussulmano, in appoggio alla lotta di Riconquista senza sosta condotta dai regni cristiani della Spagna settentrionale.
Aspirazioni religiose, alimentate soprattutto dal monachesimo cluniacense (dal monastero benedettino di Cluny), impegnato nella moralizzazione della chiesa e nella predicazione della guerra santa contro gli infedeli, convergevano con gli interessi commerciali di una classe mercantile in forte espansione, desiderosa di garantirsi i ricchi scali mediorientali. Da questa alleanza nasce il progetto e la realizzazione della Prima Crociata bandita da papa Urbano II (1095).
L’autore della Canzone di Orlando, scritta pochi anni prima della crociata (dopo il 1080 ma prima del 1100), falsa i dati storici per proiettare Carlo Magno e i suoi paladini, dominati dalla sovrumana figura di Orlando, in una dimensione epica fortemente enfatizzata e ne fa modelli ideali di comportamento. Il sovrano riceve l’autorità da Dio stesso, che lo assiste attraverso i messaggi dell’arcangelo Gabriele, mentre i suoi paladini, la cui azione eroica è voluta e guidata direttamente da Cristo, esercitano nella guerra e nella strage virtù cristiane, diventando martiri della fede, come proclama il vescovo Turpino: “Martiri santi sarete se morite, \ e avrete i seggi nel più alto Paradiso”. (La Canzone di Orlando, a cura di Mario Bensi, Rizzoli 1085, vv. 1134 – 35).
La Canzone di Orlando è un formidabile strumento di propaganda ideologica e politica. La grandiosa celebrazione di eventi lontani vuole indurre i contemporanei a cercare un esaltante parallelismo di intenti e di comportamenti con quegli antichi personaggi assunti alla dimensione del mito. La dimensione politica de La Canzone di Orlando viene ribadita da un particolare: il personaggio negativo, il traditore Gano è un rappresentante dei grandi vasssalli, titolari di feudi molto estesi, mentre gli eroi positivi sono paladini, conti di palazzo appunto, guerrieri professionisti che mediante la guerra cercano di procurarsi terre e prede, vivono alla corte del re e sono spesso legati a lui da parentela (Orlando è il figlio di sua sorella). Alla fine dell’XI secolo la dinastia dei capetingi sta iniziando il lungo processo di consolidamento del potere centrale, con sede a Parigi, e di reale unificazione del territorio che oggi conosciamo come Francia attraverso il controllo delle spinte autonomistiche dei feudatari e il potenziamento della nobiltà legata alla corte e alla persona del re (anche per vincoli familiari). La fine di Gano è, nella metafora poetica, un episodio di questo processo.
Il testo de La canzone di Orlando
La Canzone di Orlando è la più antica delle chansons de geste. La sua composizione, secondo le testimonianze rintracciate in diverse opere storiche, si colloca dopo il 1080, ma prima del 1100, precedendo di poco la Prima Crociata (1095). Il testo è tramandato da parecchi manoscritti, il più antico del quali (seconda metà del XII secolo) è il cosiddetto Oxfordiano (conservato nella Bodleian Librery di Oxford), il solo che conservi la redazione originale.
La Canzone di Orlando consta di 4002 versi decasillabi organizzati in 290 strofe o lasse di diversa lunghezza. Il testo è caratterizzato dallo stile formulare, che attraverso l’uso di sintagmi cristallizzati e di un repertorio di formule riempitive, offre un aiuto al compositore nelle difficoltà dell’improvvisazione, o al cantore negli improvvisi vuoti di memoria.
Approfondimenti
L’ultimo verso de La Canzone di Orlando recita:”Qui vien meno la gesta che Turoldo declina”. Se diamo a gesta il significato di poema, o quello di impresa narrata, desunta dalle fonti che l’hanno tramandata, il verso conclusivo designa esplicitamente Turoldo come autore della Canzone. Gli studiosi che propendono per quest’interpretazione hanno tentato identificare questo Turoldo con vari personaggi storici di tale nome. La proposta più accreditata è quella che indica un monaco guerriero dell’abbazia normanna di Fécamp. Altri studiosi sono di parere diverso, osservando che l’espressione ‘declinare una gesta ’ può significare, oltre che ‘comporre un poema ’ o ‘svolgere poeticamente la materia di una fonte storica ’ anche ‘rimaneggiare’ o soltanto ‘trascrivere ’ un testo. Secondo questa tesi, che per la maggioranza degli esperti sembra la più attendibile, Turoldo non avrebbe la piena paternità del poema, ma sarebbe una specie di editore o addirittura semplicemente il copista del testo oxfordiano. Non sapremo mai, probabilmente, se Turoldo sia il poeta responsabile del testo tramandato dal manoscritto di Oxford, o solo il copista di tale manoscritto.
I versi sono decasillabi epici raggruppati in lasse assonanzate, forma metrica tipica dell’antica poesia epica francese (e castigliana). La lassa assonanzata è una frase musicale formata da un numero variabile di versi legati fra loro da assonanza, cioè dalla somiglianza di suono tra le sillabe finali di due parole, in cui sono uguali le vocali ma non le consonanti (e in questo l’assonanza si differenzia dalla rima, che lega due parole identiche a partire dell’ultima vocale tonica). Le lasse sono legate tra loro anche dalla ripetizione di versi identici.
Caratteristico della forma epica è lo stile formulare, cioè l’uso di formule fisse per raccontare situazioni analoghe (nella descrizione di battaglie o di banchetti, nella scansione del tempo in albe e tramonti, nell’espressione dell’allegria o del dolore, ecc.), e di epiteti (cioè un aggettivo, un nome o una locuzione che sottolinea una caratteristica dell’eroe e ne accompagna o ne sostituisce il nome). Lo stile formulare si pone dunque sul piano del contenuto, poiché offre un aiuto al compositore nelle difficoltà dell’improvvisazione, o al cantore nei vuoti di memoria, garantendo la continuità della narrazione ed evitando salti logici ed interruzioni; è un tratto arcaico in un testo dell’XI secolo, ma continua ad essere usato nelle produzioni epiche come richiamo alla tradizione orale del genere, anche quando si è imposto l’uso della scrittura.
Nella Canzone di Orlando il poeta , accanto a stilemi propri dello stile formulare usa un procedimento che può apparire simile, ma è in realtà assai più raffinato e che uno studioso di quest’opera, Cesare Segre, ha chiamato di ripetizione\variazione. Nel procedimento di ripetizione\variazione le scene autonome, contenute nelle singole lasse, vengono allineate in successione e poi organizzate in sequenze narrative attraverso i richiami formali. Il procedimento di ripetizione\variazione si realizza soprattutto nelle cosiddette lasse similari. Uno stesso tema viene riproposto con moduli espressivi simili ma leggermente variati da un spostamento di accentuazione o di prospettiva, come se la stessa scena, o più scene analoghe, fossero girate da una camera mobile che cambia l’angolazione di ripresa e la distanza. L’effetto è una reciproca sottolineatura delle varie riprese che concorrono tutte al raggiungimento del climax. Il procedimento di ripetizione\variazione non riempie i vuoti della narrazione, come il semplice stile formulare, ma è una tecnica squisitamente formale: l’effetto è ottenuto dal calcolato rapporto tra l’identico e il mutato, e ogni spostamento è attentamente misurato nell’economia dell’intera sequenza. Per costruire un testo con tali caratteristiche l’autore ha bisogno di operare con la scrittura, perché deve poter confrontare la parte con il tutto, tornare indietro sul già fatto, mentre procede in avanti nella creazione, e operare le necessarie correzioni. Certamente la fruizione avveniva invece per via orale, come esecuzione del testo scritto da parte di un cantore professionista.
La vicenda narrata
Nella deformazione della realtà storica operata del poema, la breve spedizione di Carlo Magno in Spagna del 778 è diventata una guerra settennale cha ha conquistato alla cristianità tutta la Spagna, eccetto la sola città di Saragozza, dove è asserragliato il re Marsilio (personaggio non storico, presentato come emiro di Saragozza e sovrano di tutta la Spagna mussulmana). Il contenuto narrativo si divide nettamente in tre parti e pone la morte dell’eroe esattamente a metà.
La prima parte è l’antefatto: consiglio nel campo di Carlo Magno e di Marsilio, la seconda è la cronaca dell’agguato dei Mori a Roncisvalle, la terza la vendetta di Carlo e il ritorno dell’esercito franco in Francia.
Approfondimenti
Riassumiamo in modo puntuale la vicenda narrata nel poema.
La prima parte racconta i due consigli di guerra, quello del campo mussulmano convocato da Marsilio e quello del campo cristiano convocato da Carlo Magno (assurdamente nel primo verso chiamato “il nostro imperatore”: lo diverrà solo due anni dopo). L’uno e l’altro decidono l’invio di un’ambasceria: Marsilio manda Biancardino ad offrire la pace a Carlo, accettando di divenire suo vassallo, e Carlo incarica Gano, un barone franco nemico di Orlando di cui è patrigno, di recare la risposta al re moro. Giunto a Saragozza, Gano perfeziona l’accordo secondo il quale Carlo deve ricondurre il suo esercito al di là dei Pirenei, ma tradisce la fedeltà al suo sovrano accodandosi segretamente, in cambio di molto denaro, con Marsilio per un attacco dei Mori alla retroguardia. La motivazione profonda del tradimento di Gano è l’avidità d’oro, ma soprattutto l’odio per Orlando, che è destinato a guidare la retroguardia ed è pertanto condannato a morte sicura.
La seconda parte è la cronaca della battaglia di Roncisvalle. Orlando con i suoi dodici pari e ventimila cavalieri che formano la retroguardia viene attaccato da soverchianti forze saracene. Muoiono tutti i Franchi e un gran numero di Mori. Per smisurato orgoglio Orlando si rifiuta di suonare il corno per chiedere aiuto all’esercito di Carlo che li precede verso la Francia: lo farà solo in punto di morte. Marsilio ferito si rifugia a Saragozza dove morirà.
La terza parte racconta la vendetta di Carlo che, richiamato dal suono del corno, torna indietro e sbaraglia quanto è rimasto delle truppe nemiche. Successivamente affronta l’esercito del re del Marocco Baligante giunto in soccorso dall’Africa. Rientrato ad Aquisgrana, Carlo processa per tradimento Gano, ma questi trova efficaci difensori tra i suoi parenti. Molti chiedono per lui il perdono di Carlo che con gran tristezza sta per concederlo, poiché nemmeno lui può opporsi al parere dell’assemblea. A questo punto si fa strada la possibilità di un duello giudiziario tra un campione difensore di Gano e un campione che si batte in memoria di Orlando. E naturalmente vince.
I temi
Il dipanarsi della vicenda evidenzia bene alcuni temi fondamentali, che sono i cardini della visione del mondo del suo autore e della mentalità di quell’epoca, cioè gli anni che precedono la Prima Crociata, quando il concorrere di aspirazioni ideali e di interessi economici rendono possibile la sua organizzazione. Altri temi rimandano al clima della corte di Carlo Magno e in generale alle caratteristiche della classe feudale francese ed europea. I temi più importanti sono: la contrapposizione tra fedeli (cristiani) e infedeli; i principi e i modelli di comportamento propugnati dal cristianesimo; il trattamento antirealistico dello spazio e del tempo, in modo che sulle esigenze della storia e della cronaca prevalga un’atmosfera di miracolo perenne dove il divino interviene direttamente nelle vicende umane; la tensione super-umana delle virtù eroiche di cui Orlando è il modello.
Approfondimenti
La frontiera: fedeli e infedeli. Nel mondo de La Canzone di Orlando una frontiera netta ma non invalicabile separa il mondo cristiano da quello mussulmano. La divisione non è basata su principi morali, poiché vi sono buoni e cattivi nell’uno e nell’altro campo. Lealtà verso il proprio signore, eroismo in guerra, avvedutezza nelle assemblee, eleganza nei vestiti e negli arredi, liberalità nelle donazioni, come pure i vizi che di tali virtù sono l’opposto, sono prerogativa sia dei cavalieri cristiani, sia di quelli mori, anche se ovviamente i picchi di eccellenza sono riservati ai Franchi: la regalità di Carlo o il valore di Orlando sono senza paragoni. La frontiera è un a priori rispetto ai comportamenti, proprio come la linea di confine tra due stati che attribuisce due diverse cittadinanze. Nulla che sia sotto il segno dell’Islam potrà mai essere buono abbastanza da passare la frontiera, cioè essere gradito a Dio e garantire la salvezza dell’anima e l’ascesa al Paradiso. Anzi la guerra con i Mussulmani è la guerra contro i nemici di Dio; perciò il vescovo guerriero Turpino garantirà i seggi più alti dell’Empireo a quei cavalieri che avranno ucciso il maggior numero di infedeli (versi 1143 – 1135). La frontiera può essere attraversata solo per mezzo della conversione, con un rovesciamento improvviso e netto della condizione di partenza senza stadi intermedi o incertezze. Il riconoscimento di valori positivi ai nemici non esclude a tratti il ricorso ad un linguaggio apertamente razzista, specie con l’attribuzione di caratteri fisici deformi alla “gente nera” (vedi vv.1916 - 1919).
La religione: modelli e riferimenti. Ne La Canzone di Orlando, che per la tematica e per il genere si colloca al di fuori della letteratura strettamente religiosa, alla narrazione storia ed epica si intreccia una fitta trama di rimandi al piano metastorico del soprannaturale. Il poema presenta tratti di similarità con la contemporanea produzione agiografica, sia in latino sia in volgare. La struttura richiama quella della vita dei santi, che sviluppano sempre una stessa fabula, sull’esempio della vita di Cristo: la chiamata divina, la manifestazione di eccezionali virtù, la prova cui il santo è sottoposto per colpa di un persecutore, il martirio e l’assunzione in cielo. Qui il santo è Orlando, primo campione della fede, tradito da Gano (Giuda), vittima dell’agguato dei Mori, eroico combattente in un’impari lotta già perduta in partenza ed infine martire nella guerra santa. Nella morte-martirio è ritualmente proclamata la sua santità: infatti due arcangeli e un cherubino sono pronti a raccogliere la sia anima per portarla in Paradiso (versi 2390 – 2396). Inoltre la valenza religiosa dell’opera è fortemente richiamata dalla presenza del soprannaturale che concorre anche allo svolgimento della trama. Il poeta inserisce nella narrazione un sistema di premonizioni, che riguardano soprattutto Carlo Magno, designato nella sua funzione imperiale ad incarnare l’autorità e in qualche modo a rappresentare Dio stesso. Carlo prevede il tradimento di Gano e la sciagura incombente, e interpreta correttamente il significato dei sogni e dei segni funesti, ma non fa nulla per mutare il corso degli avvenimenti e ratifica decisioni destinate risolversi in sciagura. La sua impotenza, giustificata sul piano della storia dalla giurisdizione vigente (il potere regale è subordinato a quello dell’assemblea dei nobili), è un significativo rimando al piano della verità metastorica e serve per inserire la vicenda nel disegno provvidenziale, dandole un carattere di ineluttabilità e quasi di sacralità. E’ la volontà di Dio che si compie.
Il trattamento dello spazio e del tempo. Tutta la narrazione, anche quando non ricorre esplicitamente alla dimensione del soprannaturale, adotta un’ottica assolutamente antirealistica, in particolare nel trattamento dello spazio e del tempo. Lo spazio, che negli espliciti riferimenti geografici va dalle coste dell’Africa ad Aquisgrana, passando per Saragozza, la valle dell’Ebro e i Pirenei, perde la propria consistenza. Le distanze vengono annullate, come se la vicenda non si svolgesse nel mondo reale, ma su una mappa aperta su di un tavolo davanti al poeta, e al lettore, in un quadro puramente mentale. In modo complementare, il tempo è dilatato secondo le necessità della periodizzazione simbolica: tutta la vicenda deve essere contenuta nella successione di sei giorni, quanti ne servirono per la creazione. Le azioni vengono accelerate e concentrate nel contenitore predisposto, senza che la narrazione perda un ritmo per così dire naturale. Per fare un esempio, in un solo giorno, il quarto, si affollano la battaglia di Roncisvalle tra i Mori e la retroguardia d’Orlando, la morte di tutti i Franchi, il ritorno di Carlo sul luogo della strage, richiamato del suono del corno, e la contemporanea fuga di Marsilio ferito (che riesce ad arrivare da Roncisvalle a Saragozza prima di notte). La verosimiglianza non ha alcuna funzione nella costruzione dell’opera; c’è una consanguineità tra cielo e terra, tanto che il miracolo esplicitamente rappresentato appare non come una rottura dell’ordine consueto, ma piuttosto come una manifestazione diretta del divino perennemente implicito. Al termine di quella straordinaria quarta giornata “Un gran prodigio fa Dio per Carlomagno,\ ché il sole in cielo immobile rimane.” (versi 2458-2459), concedendo così all’imperatore il tempo di “vendicar[si] della razza malvagia” (verso 2456).
Le armi: eroismo e ‘desmesure’(eccesso). Alla visione provvidenziale e fatalistica di Carlo Magno si contrappone quella attivistica dei combattenti e soprattutto di Orlando, che non è mai nemmeno sfiorato da cattivi presentimenti. Non si tratta certo di un’estraneità alla dimensione del soprannaturale, che è presente per altri aspetti, ma della fiducia nella proprie forze e nell’esito positivo delle proprie azioni indispensabile per chi fa di sé stesso strumento per l’affermazione della propria gente e della propria cultura. Anche quando non vi sarà più alcuna speranza di vittoria rimane un qualche margine d’intervento: si tratterà di uccidere quanti più nemici possibile. Nella descrizione della battaglia si confrontano due modelli d’eroismo, quello di Orlando e quello di Oliviero. Oliviero è forte e coraggioso, ma anche saggio. Quando la retroguardia viene assalita a Roncisvalle e appare chiaro che i Mori sono in numero schiacciante, Oliviero suggerisce di suonare il corno: Carlo sentirà il richiamo e con il suo aiuto i Cristiani potranno ancora vincere. Oliviero mette al primo posto il raggiungimento di un risultato utile. Ma Orlando non può chiedere aiuto perché la sua natura è incapace di valutare l’azione in termini di utilità; l’adozione di un qualche relativismo costituirebbe già una macchia per il suo onore. L’orgoglio smisurato, la ‘desmesure’ di Orlando guarda alla propria virtù guerriera come ad un valore assoluto, in qualche modo fine a se stesso, giudicato soltanto sul numero dei nemici uccisi. Al consiglio di Oliviero risponde che “sarebbe agir da lolle! \ Nella mia Francia io perderei il mio nome. \ Di Durlendana or darò grandi colpi: \ l’arrosserò fino all’elsa d’oro. (versi 1053-1059). E ancora: “A Dio non piaccia [...] che mai si dica che per un uom mortale, \ per un pagano, il corno abbia suonato!I miei parenti mai non ne avranno biasimo.” (versi 1073-1076). Quando più tardi i Franchi saranno tutti morti e Orlando annuncerà l’intenzione di suonare il corno, Oliviero gli farà notare con ira quanto la sua pazzia sia stata dannosa alla causa: ha privato Carlo di una vittoria e ha provocato la morte di tanti valenti difensori della fede. Questo eroismo estremo, questa la volontà di affermare di sé stesso indipendentemente dal raggiungimento di un obiettivo, per quanto nobile e santo, stata definita desmesure.
Letture dal testo
Il brano che segue è una parte del racconto della Battaglia di Roncisvalle. L’esercito francese è ormai più avanti sulla via verso la Francia, quando la retroguardia, sotto il comando di Orlando, viene assalita da preponderanti forze saracene. Il traditore Gano si è accordato col re moro Marsilio e ha con lui preparato l’imboscata: ne ha ricavato un forte compenso in oro, ma soprattutto ha la certezza che il figliastro Orlando, che odia per il prestigio di cui gode presso l’imperatore, verrà ucciso. Quando Gano sarà scoperto (terza parte della canzone) e sottoposto a processo davanti a Carlo Magno, si difenderà dicendo di non aver tradito il suo sovrano, il cui esercito era infatti passato indenne, né la Francia. Il suo comportamento aveva come scopo una vendetta privata contro un nemico personale.
Ci troviamo nel mezzo della battaglia: i Francesi sono in numero inferiore, e sanno che l’esito sarà infausto, ma sono ancora in grado di difendersi e di colpire duramente gli avversari. Quello che conta è uccidere quanti più Mori possibile: sono infedeli e avversi alla cristianità e all’Imperatore. Il massimo della ferocia, fino al compiaciuto computo dei nemici morti, convive senza contraddizione con una totale dedizione religiosa. Orlando è il modello del guerriero santo che lascia la battaglia e la strage di infedeli solo per andare incontro ad una morte da martire (qui veramente nel significato etimologico di ‘testimone’) della vera fede.
CXL
Il conte Orlando è ritornato in. campo (1).
1870 Tien Durendala (2), colpisce come un bravo.
Faldron Poggio(3) a mezzo ha già tagliato
e ventiquattro fra tutti i più stimati:
maggior vendetta nessuno mai vorrà!
Come davanti ai cani il cervo scappa,
1875 fuggon innanzi ad Orlando i pagani.
Disse Turpino (4): "È bene quel che fate!
Cosi deve essere un cavaliere bravo (5)
che l'armi porta e sta su un buon cavallo;
forte deve essere e tremendo in battaglia,
1880 o altrimenti non vai quattro denari:
e allora faccia in un convento il frate,
sempre pregando per i nostri peccati..
Risponde Orlando: "Colpite, non fermatevi!”
Allora subito ricominciano i Franchi.
1885 Ma assai gran danno patiscono i cristiani.
CXLI
Quando nessuno far prigionieri vuole (6),
L’uom che combatte si difende da prode:
son fieri i Franchi perciò come leoni.
Ecco Marsilio (7) che ha l'aria d'un barone!
1890 Sta sul cavallo che chiama Guadagnone.
Lo sprona bene e va a colpire Buovo (8),
ch'era signore di Belna e di .Bigione.
Scudo gl'infrange ed usbergo gli rompe,
e giù l'abbatte morto senza altro colpo.
1895 Subito dopo uccide Ivo ed Ivorio,
anche Gerardo, con lor, di Rossiglione (9).
Il conte Orlando non è lontano molto;
dice al pagano (10): 'Ti dia male il Signore!
Ucciso mi hai i miei compagni a torto!
1900 Ne avrai ben, prima di separarci, colpi.
E imparerai della mia spada il nome!" ,
lo va a colpire come un vero barone,
e il pugno destro con un taglio gli tronca;
poi prende il capo a Giurfaretto il biondo:
1905 del re Marsilio era costui figliolo.
“Aiuto” gridano i pagani, "Macone!(11)
Dèi, vendicateci contro l'imperatore!
In questa terra ha portato felloni (12),
che anche a morire non lasceran la lotta".
1910 Dicon loro: "E noi fuggiamo allora! "
E così subito centomila si voltano:
chiami chi vuole, non faran più ritorno.
CXLII
Però a che serve? Se fuggito è Marsilio,
rimasto in campo è il Califfo suo zio (13),
1915 che tien Cartagine, Alfrera, Garmalia (14),
e il maledetto paese degli Etiopi,
la gente nera ha sotto il suo domìnio,
di larghe orecchie e gran nasi fornita (15):
insieme sono più di cinquantamila.
1920 Vanno a cavallo fieramente e con ira,
e il grido innalzano di guerra saracino.
Orlando disse: "Avremo qui il martirio (16).
Ora so bene che non c'è assai da vivere.
Però chi vendersi non saprà caro (17), è un vile.
1925 Date gran colpi con le Spade forbite
e disputate, signori, morte e vita:
la dolce Francia da noi non sia avvilita!
Quando nel campo verrà Carlo, il mio sire";
e dei pagani vedrà il grande castigo,
1930 e per ognuno dei nostri morti quindici,
non mancherà certo di benedirci".
CXLIII
E quando vede tutti quei maledetti
che dell'inchiostro sono ancora più neri
e non han bianco nulla se non i denti,
1935 il conte dice: "Ora so veramente che oggi
morremo, per quello ch'io ne penso.
Colpite, Franchi, che a lottare riprendo!"
Dice Oliviero: "Disgrazia a chi è più lento!!''
Allora i Franchi si buttano nel mezzo.
(......)
CLX
I Saracini fuggono con ira e pena
verso la Spagna cercan d'andare in frétta.
II conte Orlando seguirli non potrebbe,
ché non ha più Vegliantivo, il destriero:
voglia o non voglia, egli è rimasto a piedi.
Va ad aiutare Turpino, l'arcivescovo,
2170 e l'elmo d’oro gli slaccia dalla testa,
l'usbergo bianco e leggero gli sveste,
tutta gli taglia la tunica in più pezzi,
nelle gran piaghe lasciandogliene i lembi;
poi tra le braccia lo tiene contro il petto
2175 e piano sopra l'erba verde lo stende.
Con gran dolcezza così Orlando lo prega:
Nobil signore, ah, datemi congedo!
Or che i compagni, che amammo tanto insieme,
son tutti morti, lasciarli non si deve!
2180 Io voglio andare e cercarli e vederli
e innanzi a voi in ordine poi metterli".
"Fatelo dunque" gli disse l'arcivescovo.
"Grazie al Signore è vostro e mio il terreno!"(18)
(.....)
CLXXV
2375 Il conte Orlando è steso sotto un pino.
Verso la Spagna ha rivolto il suo viso.
A rammentare molte cose comincia:
tutte le terre che furon sua conquista,
la dolce Francia, quelli di sua stirpe
2380 il suo signore, Carlo, che l’ha nutrito:
né può frenare il pianto od i sospiri.
Ma non vuol mettere nemmeno sé in oblio:
le proprie colpe ripete e invoca Dio:
“O tu vero padre, che mai non hai mentito,
2385 tu richiamasti S.Lazzaro alla vita
e fra i leoni Daniele custodisti;
ora tu l’anima salvami dai pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!”
Protende ed offre il guanto destro a Dio: (21)
2390 dalla sua mano S. Gabriele lo piglia.
Sopra il suo braccio or tiene il capo chino:
a mani giunte è andato alla sua fine.
Iddio gli manda l’angelo Cherubino
e S. Michele che guarda dai pericoli.
Con essi insieme S. Gabriele qui arriva.
Portano l’anima del conte in Paradiso.(22)
Note
1. Orlando si era allontanato per contare i morti e confermare con l’amico Olivieri i propositi di resistenza ad oltranza
2. ‘Durendala’ o Durlindana è la spada di Orlando; Dio stesso per tramite di un angelo l’aveva consegnata a Carlo perché la desse ad un suo conte (compagno), e il re l’aveva cinta al fianco del nipote.
3. ‘Faldron Poggio’ è un barone saraceno.
4. ‘Turpino’ è l’arcivescovo guerriero che fino all’ultimo incita i guerrieri franchi a far strage di Mori.
5. ‘Bravo’ = coraggioso.
6. Cioè quando la lotta è all’ultimo sangue.
7. Marsilio nella Canzone è presentato come emiro di Saragozza e sovrano di tutta la Spagna mussulmana, ma è un personaggio senza riscontro nelle fonti.
8. Barone di Carlomagno.
9. I personaggi nominati fanno parte della schiera dei dodici Pari.
10. ‘Pagano’ è propriamente il seguace dell’antica religione politeistica. Il termine deriva dal latino pagus = villaggio e si spiega col fatto che, durante il rapido processo di cristianizzazione dell’impero romano, le aree più arretrate, le compagne, erano rimaste più a lungo estranee alla nuova cultura. Eè evidente una connotazione dispregiativa.
11. ‘Macone’ , variante antica del nome di Maometto.
12. ‘Felloni’: è un insulto. Il termine, probabilmente di origine germanica, ha il significato di traditore, sleale.
13. Nella Canzone ‘Califfo’ è il titolo attribuito per antonomasia ad uno zio di Marsilio, che non è mai chiamato diversamente. Il Califfo subentra a Marsilio nel comando delle truppe more a Roncisvalle, si scontra con Oliviero ed entrambi rimangono uccisi dalle ferite riportate nel duello.
14. ‘Cartagine’ è una città del Nordafrica (oggi Tunisia), e sorge vicino alla città antica; le altre due sono città mussulmane non identificate.
15. L’ ‘Etiopia’ è ‘maledetta’ perché mussulmana ma soprattutto perché i suoi abitanti sono neri e hanno visi deformi. E’ una visione fortemente negativa e razzista dell’altro, visto come l’incarnazione del male. Vedi anche la lassa seguente.
16. ‘Martirio’: viene esplicitamente riconosciuta l’equivalenza tra la morte in guerra (una guerra santa perché contro infedeli) e il martirio, cioè la morte affrontata per testimoniare la fede (dal greco martyrion, testimonianza). E poiché i nemici sono l’incarnazione del male (vedi anche la nota precedente) il combattente cristiano sarà tento più efficace nella lotta contro il male quanto più numerosi saranno i nemici uccisi (vedi i versi che concludono la lassa e la lassa seguente).
17. ‘Caro’: l’aggettivo è usato in senso avverbiale.
18. L’eroe cristiano Orlando, crudele con i nemici infedeli, esprime verso gli amici compagni nelle fede e nella dedizione all’Imperatore una tenera e affettuosa pietà.
19. ‘Olifante’: corno da caccia ricavato dalla zanna dell’elefante. Orlando avrebbe dovuto suonarlo in caso di pericolo per chiedere all’esercito di Carlo, che li precede verso la Francia, di intervenire in soccorso della retroguardia. Spinto dal suo orgoglio, che vedeva nel chiedere aiuto una macchia al suo onore, Orlando si rifiuto di suonarlo, nonostante il consiglio di Olivieri, sollecito della vita dei suoi e dell’utilità di evitare una sconfitta : lo avrebbe fatto solo in punto di morte.
20. ‘Maggese’: terreno agrario tenuto a riposo perché riacquisti la sua fertilità.
21. Offrire un guanto è atto di sottomissione nel rituale cavalleresco.
22. Quella di Orlando è la morte di un santo nella tradizione agiografica.
IL CANTARE DEL CID (Cantar de Mio Cid in castigliano)
Come nasce la leggenda del Cid Campeador e il poema che lo celebra.
‘Cid Campeador’ (dall'arabo sayyd o sìd – signore e dal castigliano campeador, a sua volta dal latino campidoctor, signore della battaglia, campione) è un appellativo con cui si veniva chiamato Rodrigo (o Ruy) Diaz conte di Bivar(1040 circa – 1099), un personaggio storico, entrato nella leggenda per le sue guerre di conquista contro i Mori e per le sue straordinarie doti di coraggio, lealtà e grande umanità.
Nel monastero di S. Pedro de Cardeña, che ospitava la tomba dell’eroe e che aveva ricevuto generose donazioni dalla vedova, si accumularono materiali storici di varia natura, dalla cronache arabe ai racconti agiografici. Si sviluppò ben presto una tradizione leggendaria e un vero culto sepolcrale, alimentato dagli abati che celebravano ogni anno pubbliche esequie per l’anima del defunto Cid, con gran concorso di pellegrini.
In questo ambiente nacquero canti epici e celebrativi dell’eroe, cantati e recitati nelle feste, e trasmessi oralmente da un giullare all’altro, finché un poeta organizzò il materiale nel testo tramandatoci attraverso una redazione scritta di notevole omogeneità linguistica e stilistica.
Approfondimenti
Nell’VIII secolo i Mori, signori del Marocco, avevano conquistato tutta la penisola iberica (eccetto il piccolo regno delle Asturie nel nord-ovest); solo la battaglia di Poitiers pose fine all’espansione musulmana nell'Europa occidentale .Tuttavia il dominio dei Mori in Spagna, pur riducendosi progressivamente per l’azione della Riconquista ad opera dei piccoli regni cristiani formatisi nel nord del paese, durò fino al 1492, quando Isabella di Castiglia e Ferdinando d'Aragona, grazie al loro matrimonio, unificarono i loro possedimenti e costituirono un forte Regno di Spagna. In queste mutate condizioni i due sovrani portarono felicemente a conclusione la Riconquista con la sconfitta dell’ultimo stato mussulmano di Spagna, l’Emirato di Cordoba.
Il potere mussulmano in Spagna, durato sette secoli, non fu sempre compatto, né privo di contraddizioni. In particolare nell’XI secolo si assiste ad un indebolimento del potere centrale, minato da tensioni interne; ciò rende possibile un’autonomia di fatto di signori locali, che intrattengono rapporti di vario tipo, non sempre ostili, con i nascenti regni cristiani. Tale situazione indurrà l’imperatore del Marocco Yúçuf Ben Texufin (1059-1106), fondatore della dinastia degli Almoravidi, ad intervenire in Spagna, non solo per combattere i Cristiani, ma anche per‘moralizzare’ i costumi e le pratiche politiche dei mussulmani spagnoli che tendevano ad allontanarsi dalla purezza dell’ortodossia. Anche gli stati cristiani avevano motivi di debolezza. Erano regni di carattere feudale, soggetti quindi all’instabilità che caratterizza questo sistema per l’assenza di un potere superiore atto a gestire le controversie, per la litigiosità dei vari signori, sempre in caccia di nuove terre (e nuovi tributi) e per la mancanza di regole certe nella successione. Ogni volta che un sovrano riusciva ad allargare i propri domini e a costituire un regno più esteso, questo, anziché divenire la base di una potenza in grado di opporsi efficacemente ai Saraceni, era destinato a sfaldarsi alla morte del sovrano, che per tradizione lo divideva fra i suoi figli maschi. E’ quanto succede anche con la prima grande figura di monarca della Spagna medioevale, Ferdinando I (nato all’inizio dell’XI secolo, morto nel 1065), detto appunto il Grande. Ferdinando, che aveva ereditato dal padre il regno di Castiglia, conquistò con le armi il regno di Leon (cui era unita anche la corona di Galizia) e, combattendo il fratello, erede del regno di Navarra, aggiunse anche questo ai suoi domini: nel 1054 era di fatto il signore di tutta la Spagna cristiana. Ferdinando I°, alla sua morte, divise il suo regno fra i suoi figli. Il maggiore, Sancho II°, ebbe la Castiglia, Alfonso ricevette il Leon con la città di Toledo e l'altro figlio, Garcia, ebbe la Galizia e il Portogallo (la regione nord dell’attuale Portogallo, che Ferdinando I aveva conquistato in una guerra contro i Mori). Poco dopo la morte del padre scoppiò la lotta fra i fratelli. Sancho II°, essendo il figlio maggiore, si considerava il vero erede e cercò di riunificare il regno, anche con l'uso della forza. Dopo aver conquistato la Galizia e il Leon, mandò il fratello Alfonso in esilio a Toledo. Ma nel 1072, quando Sancho II° era al culmine della gloria, venne ucciso da un soldato. A succedergli fu designato il fratello Alfonso richiamato dall'esilio in Toledo, che divenne Alfonso VI.
Al servizio di Sancho II° e poi di Alfonso VI si distinse come capo delle forze armate e grande condottiero Rodrigo (o Ruy), Diaz conte di Bivar, che venne detto il Cid Campeador.
Il Cid Campeador personaggio storico ed eroe leggendario.
Rodrigo (o Ruy) Diaz conte di Bivar, nacque intorno al 1040 a Bivar, un paesino vicino a Burgos nel regno di Castiglia, da una famiglia della piccola nobiltà castigliana. All’epoca la piccola nobiltà si stava caratterizzando come classe energica, dinamica e ambiziosa in urto con l’alta aristocrazia cortigiana e feudale di origine leonese. Capo dell'esercito castigliano a soli 23 anni, fu esiliato per un’accusa ingiusta e, da esule, con un piccolo esercito di fedeli, penetrò nelle terre mussulmane, conquistando borghi e castelli, e infine l’importante città di Valenza. Nonostante gli inevitabili rimaneggiamenti, il cantare racconta le campagne di conquista del Cid su una solida base storica. Frutto di pura invenzione è invece una tematica strettamente intrecciata a quella guerresca, una faida familiare in cui il Cid è il campione della piccola nobiltà, cui appartiene, in lotta contro la grande feudalità. Rodrigo Diaz entrò nella leggenda perché seppe con la sua azione interpretare le grandi vedute politiche e gli audaci piani di conquista del suo sovrano Alfonso VI, impersonando insieme a lui quella idealità eroica che mosse la Spagna nel periodo della Riconquista.
Approfondimenti
Rodrigo Diaz, nato intorno al 1040, crebbe alla corte del Re di Castiglia Ferdinando I, ricevendo una buona educazione; si distinse nella carriera delle armi servendo Sancho (poi re Sancho II°), figlio primogenito di Ferdinando I e divenne, a soli 23 anni, capo dell'esercito castigliano, prendendo parte, con questo grado, alla guerra fratricida. Dopo l’uccisione di Sanchi II passò al servizio di AlfonsoVI, dopo avergli fatto giurare di non avere responsabilità nell’uccisione del fratello. Nel 1081 Ruy fu esiliato da Alfondo VI per l’accusa, probabilmente falsa, d’indebita appropriazione di tributi, ma non esitò a rispondere all’appello del re durante la prima invasione proveniente dal Marocco; tuttavia le calunnie dei nobili di corte fecero sì che fosse ancora allontanato. Una nuova invasione di eserciti marocchini, che stava ottenendo grandi risultati con la conquista di importanti città e castelli, lo spinse ad organizzare con forze autonome un vigoroso contrattacco. Occupò e fortificò le sierre (montagne) a nord della pianura di Valenza (Valencia) e, assicuratosi le spalle, scese verso la città. Valenza era allora città mussulmana, ma il suo signore aveva riconosciuto in qualche modo la sovranità del re di Castiglia, accettando di versargli tributi. La popolazione però si era ribellata a questo stato di cose trucidando il vecchio re. Il Cid cinse d’assedio Valenza e la conquistò nel 1094 dopo una disperata resistenza. In seguito si scontrò anche con l’imperatore del Marocco, Yúçuf Ben Texufin, che voleva unire al suo regno i deboli emirati spagnoli per formare un grande stato musulmano. Fu più volte sconfitto, ma tenne Valenza e vi restaurò l’antico episcopato, propugnando con forza una rinascita cristiana. I successi e le ricchezze che ne derivavano gli permisero di sistemare splendidamente le sue due figlie: la maggiore, Cristina, venne data in moglie al principe di Navarra e Aragona, mentre la seconda, Maria, sposò il conte di Barcellona. Logorato dalle fatiche di tante imprese Ruy conte di Bivar morì in Valenza nel 1099. La moglie ereditò la signoria di Valenza, cercando di difenderla da rinnovati tentativi di aggressione da parte degli Almravidi del Marocco, i quali pochi anni dopo (1102), nonostante l’aiuto di Alfonso VI, riuscirono a riconquistarla e a ripristinarvi il dominio saraceno.
La figura del Cid compare per la prima volta nella Crónica Najerense (1150 circa), e di lui parlano molte croniche medioevali spagnole sia di ambiente cristiano, sia di ambiente arabo, ovviamente in modo assai diverso. Nelle prime è un guerriero audace e saggio che assiste col suo consiglio il giovane re Sancho II e vive, come tanti cavalieri castigliani, un dramma di coscienza prima di giurare fedeltà al suo successore Alfonso VI, sospettato d’avere organizzato l’assassinio del fratello. Nelle seconde appare come una natura spietata, che nell’assedio e nella presa di Valenza infierì contro la popolazione abbandonandola al più feroce saccheggio. Anche studiosi moderni parlano di lui come di un avventuriero, abile a destreggiarsi in una politica di compromessi e di alleanze ora con l’uno ora con l’altro dei signorotti mori di Spagna. Di certo seppe adattarsi alle consuetudini del tempo, alle ambiguità della politica e al feroce diritto di guerra che considerava il saccheggio il naturale premio del vincitore
Il testo del Cantare del Cid.
Il Cantare del Cid (in castigliano, la lingua in cui è scritto, Cantar de mio Cid) è un poema epico di autore anonimo contenuto in un unico manoscritto pubblicato per la prima volta nel 1779 da Tomàs Antonio Sànchez che l’aveva scoperto. Il manoscritto è privo di qualche foglio, tra cui quello iniziale, per cui non è possibile sapere se contenesse un incipit e un titolo. Riporta la data del 1303 e la firma di Peter Abat (probabilmente il copista).
Il poema è diviso in tre cantari, ma la divisione non interrompe l’ordine cronologico della materia; conta complessivamente 3733 versi di diversa lunghezza divisi in 152 strofe, o lasse formate da un numero variabile di versi. La composizione dell’opera è anteriore di molti anni alla data della sua trascrizione nel manoscritto in cui la leggiamo, ma una datazione più precisa ha dato luogo a controversie tra gli studiosi. Infatti la presenza di arcaismi nel lessico e nella fonetica, e la struttura metrica suggeriscono di collocare la composizione del poema verso la metà del XII secolo, cioè circa 60 anni dopo gli avvenimenti narrati, mentre altri indizi, di carattere non linguistico, ma contenutistico, suggeriscono una datazione più recente, intorno al 1200.
Approfondimenti
E’ interessante, anche per precisare meglio il clima culturale e politico in cui viene composto il cantare, vedere più da vicino gli indizi di carattere storico cui abbiamo accennato.
Il primo è relativo all’ira regia: il Cid viene esiliato perché è incorso nell’ira del re. Nel poema si legge una palese ostilità nei confronti dell’assoluta arbitrarietà del re, ostilità che rimanda ai decreti delle cortes di León del 1188 dove è stigmatizzato il carattere di sopruso di tale provvedimento, tanto che Alfonso IX (1171-1230) giurò di non farvi più ricorso senza una preventiva approvazione da parte della sua curia.
Inoltre il Cid, prima di lasciare Burgos affida moglie e figlie all’abbazia di S. Pedro de Cardeña: ora l’affidamento di persone o famiglie ai grandi monasteri (encomienda) è una pratica documentata soprattutto alla fine del secolo XII e nel XIII, quando le istituzioni religiose dovettero ricorrervi per la diminuzione dei lasciti e delle donazioni.
Infine notizie documentarie suggeriscono che il secondo filone della trama (quello relativo alla faida tra la famiglia del Cid e quella degli infanti di Carrión che ne avevano sposato e poi ripudiato le figlie, vedi La vicenda narrata) sia stato elaborato alla fine del XII secolo: infatti un Ordinamento de Nájera, del re Alfonso VII nel 1138 e ancor più le leggi municipali di Cuenca del 1189, per controllare la nascita di fazioni all’interno della nobiltà, stabilivano che ogni contesa dovesse essere preceduta da una pubblica dichiarazione di sfida e da uno svolgimento della medesima sotto il controllo di incaricati del re. Il cantare racconta appunto questo: i campioni del Cid, davanti alle cortes pronunciano la sfida contro gli infanti di Cárrion: “Tu menti Fernando, in tutto quel che hai detto; \ grazie al Campeador voi acquistaste pregio. \ Ma di certi tuoi vezzi ti voglio ora parlare. \ [accuse di viltà a Fernando...] “Io qui ti disfido come malvagio e traditore, \ e saprò sostenere l’accusa davanti al re Alfonso, \ in nome delle cugine mie Donna Elvira e donna Sol. (vv. 3313-14 e 3343-45). L’Ordinamento de Nájera di Alfonso VII risponde al bisogno del re di combattere il sistema delle vendette private, retaggio delle leggi consuetudinarie di ascendenza germanica.
Se anche la composizione del poema nella forma che conosciamo, per le ragioni extralinguistiche ricordate, deve essere collocata intorno al 1200, il testo documenta invece una lingua più arcaica, in un momento di formazione: alcuni fenomeni fonetici che caratterizzano la trasformazione dal latino al castigliano non sono ancora compiuti (per esempio la caduta della e finale in parole come trinidade), e vi è una mescolanza di diversi volgari locali.
La struttura metrica presenta versi di lunghezza variabile (cioè non hanno sempre lo stesso numero di sillabe = anisosillabismo) raggruppati in lasse assonanzate. La lassa assonanzate è una strofa formata da un numero non fisso di versi legati fra loro da assonanza cioè dalla somiglianza di suono tra le sillabe finali di due parole, in cui sono uguali le vocali ma non le consonanti (e in questo l’assonanza si differenzia dalla rima, che lega due parole identiche a partire dell’ultima vocale tonica). Anche la metrica è arcaicizzante, con la gelosa conservazione dell’assonanza, mentre nell’epica francese si nota un graduale passaggio dall’assonanza alla rima.
Densa è la presenza dello stile formulare, caratterizzato dalla ripetizione di formule fisse per raccontare situazioni simili (nella descrizione di battaglie, nella scansione del tempo in albe e tramonti, nell’espressione dell’allegria o del dolore, ecc.), e di epiteti (cioè un aggettivo, un nome o una locuzione che sottolinea una caratteristica dell’eroe e ne accompagna o ne sostituisce il nome). Gli epiteti sono frequenti soprattutto per designare il Cid (quel che nacque alla buon’ora, quel che in buon’ora cinse la spada, quel dalla lunga barba, ecc.), ma ne fruiscono anche altri personaggi. Gli eroi sono definiti senza macchia, lancia ardita, ecc., mentre la moglie e la figlie del Cid sono creature di buon sangue, a sottolinearne la nobile nascita. Queste tecniche retoriche danno un colorito più antico ad un testo del 1200 secolo e servono a richiamare la tradizione orale del genere e i suoi tratti caratteristici; non hanno però, come in altri casi (per esempio ne La Canzone di Orlando), una funzione ritardante o di sottolineatura enfatica; al contrario nel Cantare del Cid la narrazione corre veloce e nei suoi 3733 versi si dà conto di molti avvenimenti e di molti anni.
La vicenda narrata
All’interno del poema si distinguono nettamente due filoni narrativi.
Il primo riguarda la vicenda delle imprese belliche del Cid, ed è il nucleo più antico.
E’ la cronaca degli anni centrali della vita di Ruy, conte di Bivar; sono anche gli anni più significativi per il formarsi in Spagna di quello spirito nazionale, misto di eroismo guerriero e di sentimenti religiosi, che animò la Riconquista dei territori soggetti ai Saraceni e che costituisce, nel bene e nel male, tanta parte dell’identità storica del popolo spagnolo.
Il secondo filone racconta una faida familiare fatta di oltraggi e vendette, e rispecchia il clima di tensione ideale e politica tra la piccola nobiltà e la nobiltà feudale che ha le basi del proprio potere nel feudo di famiglia; questa parte è frutto di pura invenzione.
Il Cantare del Cid è la trasfigurazione poetica di vicende storiche e conflitti sociali della Spagna dei secoli XI e XII; è un cantare di frontiera, in cui si respira l’ansia della Vecchia Castiglia di spostare in avanti il confine tra terre cristiane e terre more che il Cid, con la presa di Valenza, porterà fino al mare.
Approfondimenti
Il Cantare del Cid è diviso in tre parti, ciascuna delle quali è anch’essa chiamata cantare.
Il primo cantare, L’esilio (ottave 1-63), costituisce una sorta di preludio che prepara l’azione principale. Ruy conte di Bivar è costretto all’esilio perché, per motivi non precisati, è incorso nell’ira del re di Castiglia Alfonso VI. Entra nel racconto mentre lascia la sua città insieme ai suoi fedeli. Affida la moglie e le figlie al monastero di S. Pedro de Cardeña, non lontano da Burgos, si procura, con un mezzo inganno, dei soldi e si allontana verso le montagne, entrando poco dopo nel territorio dei Mori. Con astuzia o in campo aperto conquista paesi e castelli e dopo tre settimane è già in grado di mandare un suo fido cavaliere da Alfonso VI con ricchi doni e l’annuncio delle vittorie cristiane. Il re se ne compiace, ma non è ancora pronto a placare la sua ira contro il Cid. Però toglie il bando al cavaliere ambasciatore e lascia tutti coloro che lo vogliano liberi di seguire il Cid nelle sue imprese. Intanto il Cid compie l’azione più importante di questa prima parte: vince e prende prigioniero il conte di Barcellona. La preda più ambita è la spada di questi, Colada.
Il secondo cantare, Le nozze delle figlie del Cid (ottave 64-111), si apre in modo solenne, con un incipit molto significativo: si narrerà qui l’impresa più importante del conte di Bivar, la conquista di Valenza, nonostante che il titolo alluda ad un secondo episodio, le nozze delle figlie: “Qui comincia la gesta del Cid, quel di Vivar.\ I suoi sono così ricchi che non sanno più quanto. \ [...] Verso il mare salato cominciò a dar battaglia \”(vv. 1085-86 e 1090). Completata l’occupazione dei monti e dei castelli, il Cid scende nella piana di Valenza in mano a Mori a lui ostili e si allontana “dalle nobili terre cristiane”(v. 1116). Dopo un accanito assedio, prende la città insieme alle sue immense ricchezze. Una tempestiva ambasceria, carica di doni, annuncerà la conquista ad Alfonso VI e otterrà da lui il permesso per la moglie e le figlie del Cid di lasciare il monastero di S. Pedro de Cardeña e di raggiungere il loro congiunto. Il re consente anche a tutti coloro che lo desiderano di unirsi all’esercito del Cid. Evidentemente le conquiste nella terra dei Mori rivestono una grande importanza militare e politica. Le donne, gli ambasciatori, i doni del re e i nuovi cavalieri arrivano a Valenza poco prima di un’altra grande battaglia: “quel re Yúcef che in Marocco ha dimora.”(v. 1621), preoccupato dei successi del Cid, raduna un esercito e sbarca nei pressi di Valenza. Si tratta di Yúçuf Ben Texufin, 1059-1106, primo imperatore della dinastia degli Almoravidi, grande condottiero. Il Cid sbaraglia il suo esercito e si assicura un favoloso bottino, poi invia una nuova ambasceria ad Alfonso VI e finalmente ottiene, anche grazie ai favolosi doni, il perdono ufficiale del re. Non solo: due esponenti dell’alta nobiltà feudale, gli infanti di Carrión (sono fratelli), chiedono in moglie le figlie del Cid, donna Elvira e donna Sole (le vicende matrimoniali delle due fanciulle non trovano riscontro nella realtà
Il testo del Cantare del Cid.
Il Cantare del Cid (in castigliano, la lingua in cui è scritto, Cantar de mio Cid) è un poema epico di autore anonimo contenuto in un unico manoscritto pubblicato per la prima volta nel 1779 da Tomàs Antonio Sànchez che l’aveva scoperto. Il manoscritto è privo di qualche foglio, tra cui quello iniziale, per cui non è possibile sapere se contenesse un incipit e un titolo. Riporta la data del 1303 e la firma di Peter Abat (probabilmente il copista).
Il poema è diviso in tre cantari, ma la divisione non interrompe l’ordine cronologico della materia; conta complessivamente 3733 versi di diversa lunghezza divisi in 152 strofe, o lasse formate da un numero variabile di versi. La composizione dell’opera è anteriore di molti anni alla data della sua trascrizione nel manoscritto in cui la leggiamo, ma una datazione più precisa ha dato luogo a controversie tra gli studiosi. Infatti la presenza di arcaismi nel lessico e nella fonetica, e la struttura metrica suggeriscono di collocare la composizione del poema verso la metà del XII secolo, cioè circa 60 anni dopo gli avvenimenti narrati, mentre altri indizi, di carattere non linguistico, ma contenutistico, suggeriscono una datazione più recente, intorno al 1200.
Approfondimenti
E’ interessante, anche per precisare meglio il clima culturale e politico in cui viene composto il cantare, vedere più da vicino gli indizi di carattere storico cui abbiamo accennato.
Il primo è relativo all’ira regia: il Cid viene esiliato perché è incorso nell’ira del re. Nel poema si legge una palese ostilità nei confronti dell’assoluta arbitrarietà del re, ostilità che rimanda ai decreti delle cortes di León del 1188 dove è stigmatizzato il carattere di sopruso di tale provvedimento, tanto che Alfonso IX (1171-1230) giurò di non farvi più ricorso senza una preventiva approvazione da parte della sua curia.
Inoltre il Cid, prima di lasciare Burgos affida moglie e figlie all’abbazia di S. Pedro de Cardeña: ora l’affidamento di persone o famiglie ai grandi monasteri (encomienda) è una pratica documentata soprattutto alla fine del secolo XII e nel XIII, quando le istituzioni religiose dovettero ricorrervi per la diminuzione dei lasciti e delle donazioni.
Infine notizie documentarie suggeriscono che il secondo filone della trama (quello relativo alla faida tra la famiglia del Cid e quella degli infanti di Carrión che ne avevano sposato e poi ripudiato le figlie, vedi La vicenda narrata) sia stato elaborato alla fine del XII secolo: infatti un Ordinamento de Nájera, del re Alfonso VII nel 1138 e ancor più le leggi municipali di Cuenca del 1189, per controllare la nascita di fazioni all’interno della nobiltà, stabilivano che ogni contesa dovesse essere preceduta da una pubblica dichiarazione di sfida e da uno svolgimento della medesima sotto il controllo di incaricati del re. Il cantare racconta appunto questo: i campioni del Cid, davanti alle cortes pronunciano la sfida contro gli infanti di Cárrion: “Tu menti Fernando, in tutto quel che hai detto; \ grazie al Campeador voi acquistaste pregio. \ Ma di certi tuoi vezzi ti voglio ora parlare. \ [accuse di viltà a Fernando...] “Io qui ti disfido come malvagio e traditore, \ e saprò sostenere l’accusa davanti al re Alfonso, \ in nome delle cugine mie Donna Elvira e donna Sol. (vv. 3313-14 e 3343-45). L’Ordinamento de Nájera di Alfonso VII risponde al bisogno del re di combattere il sistema delle vendette private, retaggio delle leggi consuetudinarie di ascendenza germanica.
Se anche la composizione del poema nella forma che conosciamo, per le ragioni extralinguistiche ricordate, deve essere collocata intorno al 1200, il testo documenta invece una lingua più arcaica, in un momento di formazione: alcuni fenomeni fonetici che caratterizzano la trasformazione dal latino al castigliano non sono ancora compiuti (per esempio la caduta della e finale in parole come trinidade), e vi è una mescolanza di diversi volgari locali.
La struttura metrica presenta versi di lunghezza variabile (cioè non hanno sempre lo stesso numero di sillabe = anisosillabismo) raggruppati in lasse assonanzate. La lassa assonanzate è una strofa formata da un numero non fisso di versi legati fra loro da assonanza cioè dalla somiglianza di suono tra le sillabe finali di due parole, in cui sono uguali le vocali ma non le consonanti (e in questo l’assonanza si differenzia dalla rima, che lega due parole identiche a partire dell’ultima vocale tonica). Anche la metrica è arcaicizzante, con la gelosa conservazione dell’assonanza, mentre nell’epica francese si nota un graduale passaggio dall’assonanza alla rima.
Densa è la presenza dello stile formulare, caratterizzato dalla ripetizione di formule fisse per raccontare situazioni simili (nella descrizione di battaglie, nella scansione del tempo in albe e tramonti, nell’espressione dell’allegria o del dolore, ecc.), e di epiteti (cioè un aggettivo, un nome o una locuzione che sottolinea una caratteristica dell’eroe e ne accompagna o ne sostituisce il nome). Gli epiteti sono frequenti soprattutto per designare il Cid (quel che nacque alla buon’ora, quel che in buon’ora cinse la spada, quel dalla lunga barba, ecc.), ma ne fruiscono anche altri personaggi. Gli eroi sono definiti senza macchia, lancia ardita, ecc., mentre la moglie e la figlie del Cid sono creature di buon sangue, a sottolinearne la nobile nascita. Queste tecniche retoriche danno un colorito più antico ad un testo del 1200 secolo e servono a richiamare la tradizione orale del genere e i suoi tratti caratteristici; non hanno però, come in altri casi (per esempio ne La Canzone di Orlando), una funzione ritardante o di sottolineatura enfatica; al contrario nel Cantare del Cid la narrazione corre veloce e nei suoi 3733 versi si dà conto di molti avvenimenti e di molti anni.
La vicenda narrata
All’interno del poema si distinguono nettamente due filoni narrativi.
Il primo riguarda la vicenda delle imprese belliche del Cid, ed è il nucleo più antico.
E’ la cronaca degli anni centrali della vita di Ruy, conte di Bivar; sono anche gli anni più significativi per il formarsi in Spagna di quello spirito nazionale, misto di eroismo guerriero e di sentimenti religiosi, che animò la Riconquista dei territori soggetti ai Saraceni e che costituisce, nel bene e nel male, tanta parte dell’identità storica del popolo spagnolo.
Il secondo filone racconta una faida familiare fatta di oltraggi e vendette, e rispecchia il clima di tensione ideale e politica tra la piccola nobiltà e la nobiltà feudale che ha le basi del proprio potere nel feudo di famiglia; questa parte è frutto di pura invenzione.
Il Cantare del Cid è la trasfigurazione poetica di vicende storiche e conflitti sociali della Spagna dei secoli XI e XII; è un cantare di frontiera, in cui si respira l’ansia della Vecchia Castiglia di spostare in avanti il confine tra terre cristiane e terre more che il Cid, con la presa di Valenza, porterà fino al mare.
Approfondimenti
Il Cantare del Cid è diviso in tre parti, ciascuna delle quali è anch’essa chiamata cantare.
Il primo cantare, L’esilio (ottave 1-63), costituisce una sorta di preludio che prepara l’azione principale. Ruy conte di Bivar è costretto all’esilio perché, per motivi non precisati, è incorso nell’ira del re di Castiglia Alfonso VI. Entra nel racconto mentre lascia la sua città insieme ai suoi fedeli. Affida la moglie e le figlie al monastero di S. Pedro de Cardeña, non lontano da Burgos, si procura, con un mezzo inganno, dei soldi e si allontana verso le montagne, entrando poco dopo nel territorio dei Mori. Con astuzia o in campo aperto conquista paesi e castelli e dopo tre settimane è già in grado di mandare un suo fido cavaliere da Alfonso VI con ricchi doni e l’annuncio delle vittorie cristiane. Il re se ne compiace, ma non è ancora pronto a placare la sua ira contro il Cid. Però toglie il bando al cavaliere ambasciatore e lascia tutti coloro che lo vogliano liberi di seguire il Cid nelle sue imprese. Intanto il Cid compie l’azione più importante di questa prima parte: vince e prende prigioniero il conte di Barcellona. La preda più ambita è la spada di questi, Colada.
Il secondo cantare, Le nozze delle figlie del Cid (ottave 64-111), si apre in modo solenne, con un incipit molto significativo: si narrerà qui l’impresa più importante del conte di Bivar, la conquista di Valenza, nonostante che il titolo alluda ad un secondo episodio, le nozze delle figlie: “Qui comincia la gesta del Cid, quel di Vivar.\ I suoi sono così ricchi che non sanno più quanto. \ [...] Verso il mare salato cominciò a dar battaglia \”(vv. 1085-86 e 1090). Completata l’occupazione dei monti e dei castelli, il Cid scende nella piana di Valenza in mano a Mori a lui ostili e si allontana “dalle nobili terre cristiane”(v. 1116). Dopo un accanito assedio, prende la città insieme alle sue immense ricchezze. Una tempestiva ambasceria, carica di doni, annuncerà la conquista ad Alfonso VI e otterrà da lui il permesso per la moglie e le figlie del Cid di lasciare il monastero di S. Pedro de Cardeña e di raggiungere il loro congiunto. Il re consente anche a tutti coloro che lo desiderano di unirsi all’esercito del Cid. Evidentemente le conquiste nella terra dei Mori rivestono una grande importanza militare e politica. Le donne, gli ambasciatori, i doni del re e i nuovi cavalieri arrivano a Valenza poco prima di un’altra grande battaglia: “quel re Yúcef che in Marocco ha dimora.”(v. 1621), preoccupato dei successi del Cid, raduna un esercito e sbarca nei pressi di Valenza. Si tratta di Yúçuf Ben Texufin, 1059-1106, primo imperatore della dinastia degli Almoravidi, grande condottiero. Il Cid sbaraglia il suo esercito e si assicura un favoloso bottino, poi invia una nuova ambasceria ad Alfonso VI e finalmente ottiene, anche grazie ai favolosi doni, il perdono ufficiale del re. Non solo: due esponenti dell’alta nobiltà feudale, gli infanti di Carrión (sono fratelli), chiedono in moglie le figlie del Cid, donna Elvira e donna Sole (le vicende matrimoniali delle due fanciulle non trovano riscontro nella realtà storica). Il re ordina anche che il nuovo signore di Valenza (che si è dichiarato suo vassallo) si presenti a lui di persona: l’incontro avviene in un’atmosfera di raffinata eleganza e di grande sfarzo. Il re stesso, a nome del Cid (che non si fida dell’alta nobiltà e richiede una garanzia), concede la mano di donna Elvira e donna Sole agli infanti di Carrión. Dopo la cerimonia due cortei muovono verso Valenza, il primo del Cid, accompagnato da vecchi e nuovi seguaci e dagli invitati alle nozze, il secondo degli infanti di Carrión con i loro parenti ed amici. Quando tutti sono arrivati a Valenza, si celebrano splendide nozze.
Il terzo cantare, L’oltraggio di Corpes (ottave 112-152) ha come argomento principale le disgraziate vicende matrimoniali delle figlie del Cid. I due generi, pur trattati con affetto, mostrano in vari episodi la loro codardia, mettendosi in ridicolo davanti a tutti. Quando scappa un leone, tenuto come curiosità in gabbia nel giardino dell’Alcatraz di Valenza, corrono a nascondersi sotto i mobili, mentre i Cid lo doma con la sola forza dello sguardo; quando sbarca nei pressi di Valenza una seconda spedizione proveniente dal Marocco sotto “il re Búcar”(v. 1314; probabilmente Abu Béker, cognato dell’imperatore Yúçuf menzionato nel secondo cantare) e si torna a combattere contro i Mori, si assicurano una falsa testimonianza per attestare di fronte al Cid il loro valore. Ma intanto il Cid sbaraglia i Saraceni e uccide in duello Búcar, togliendogli la spada Tizón. Il bottino è immenso e i due generi pensano che sia giunto il momento di tornarsene nel loro feudo. Non vedono l’ora, una volta assicuratisi grandi ricchezze, di liberarsi delle mogli le cui origini modeste infangano il gran nome dei Carrión. Così, col pretesto di mostrare alle mogli il loro feudo, chiedono licenza di partire. Straziante il distacco del Cid e della moglie dalle loro creature, e generosissimi i doni, in cavalli, arredi e denaro, ricevuti dai due generi. Il corteo parte dunque verso Carrión, ma la prudente diffidenza del Cid gli consiglia di inviare con le figlie il nipote Félez Múñoz perché vegli su di loro. Giunti nella zona delle sierre, nel roveto di Corpes (località a sud-est di S. Esteban de Gormaz), gli infanti mettono in atto il tradimento: mandano avanti il seguito, piantano le tende in una radura e “stringono tra le braccia le mogli, e fanno all’amore: \ ma come finì male al sorgere del sole!” (vv. 2703-4). Infatti all’alba tolgono alle donne i manti di pelliccia e le ricche vesti, le battono con le cinghie e le abbandonano in sottoveste sfinite ed insanguinate. Fortunatamente Félez Múñoz, contravvenendo agli ordini, si era fermato ad aspettare le cugine. Nascosto, vede arrivare gli infanti che commentano la loro impresa: “Dei nostri matrimoni siamo ora vendicati. \ Non erano degne d’esser nostre mogli, non eran nostre pari; \ Neanche per drude dovevamo prenderle, senza essere pregati.”(vv. 2759-61). E’ l’orgoglio della grande nobiltà. Félez Múñoz venuto così a conoscenza di quanto era successo, torna indietro a cercare la cugine, le soccorre, le conduce a S. Esteban de Gormaz e le affida ad un signore amico perché siano curate. Intanto la notizia dell’oltraggio subito dalle fanciulle si diffonde, poiché gli infanti di Carrión se ne vantano. Sia il re, sia il Cid ne sono informati. Un gruppo di fedeli, incaricati dal Cid di ritrovare le fanciulle, le riconduce al padre; questi manda subito un’ambasceria ad Alfonso VI chiedendo che siano riunite le Cortes (grandi assemblee a carattere politico cui partecipavano solo i dignitari della corte del re, i membri dell’alta nobiltà e dell’alto clero), perché giudichino l’accaduto. Il re risponde con la convocazione delle Cortes a Toledo entro il termine di sette settimane. Ascoltati i fatti, l’assemblea decide che gli infanti di Carrión restituiscano i doni e le ricchezze ricevuti come dote dal Cid. Per lavare l’offesa è però necessaria una pubblica dichiarazione di sfida ed un duello: le Cortes, dopo aver decretato che, entro il termine di tre settimane, i due infanti e un terzo rappresentante dell’alta nobiltà, Ansur Gonzáles, si battano a Carrión contro tre campioni del Cid, si sciolgono. Il Cid torna a Valenza. Il poeta racconta ancora dettagliatamente il duello, che vedrà vincitori tutti e tre i campioni del Cid, e annuncia le nuove nozze di donna Elvira e donna Sole con i principi di Navarra e di Leon, di rango ben più alto dei Carrión. Il cantare termina con l’annuncio della morte del Cid, signore di Valenza, avvenuta nel giorno di Pentecoste (non è precisato quanto tempo dopo gli ultimi avvenimenti). “Passò di questa vita di Valenza il signore \ il d’ di Pentecoste: da Cristo abbia perdono! \ Così sia di tutti noi e giusti e peccatori! \Queste sono le gesta del Cid Campeador, \ e con queste parole finisce la canzone. (vv. 3726-30).
Nello svolgersi della narrazione, che procede in modo fluido, grazie all’intervento omogenizzatore di una sola mano, si possono agevolmente distinguere due diversi filoni. Il primo riguarda la vicenda delle imprese belliche del Cid ed è questo il nucleo più antico (vedi sopra, Come nasce la leggenda del Cid).
I due filoni della trama non procedono separatamente, non sono frutto di una meccanica giustapposizione, ma si intrecciano sottilmente, giacché il secondo si insinua nel primo già fin dai fugaci accenni del Cid ad un futuro matrimonio delle figlie (“Piaccia a Dio e a santa Maria \ ch’ io possa un giorno sposare le figlie con questa mano mia”, Primo Cantare, vv. 282-282 bis) e poi con la richiesta, da parte degli infanti di Cárrion, di fidanzarsi con le figlie del Cid ancora prima che al Campeador sia revocato il bando (Secondo Cantare, vv. 1879-1893). L’ organica costruzione dell’intreccio e l’uniformità dello stile suggeriscono l’ipotesi che un poeta abbia lavorato intorno ad un corpus di testi – orali e forse anche scritti – aggiungendo come sua invenzione la storia delle traversie matrimoniale delle due fanciulle. Il risultato è l’elaborazione un testo uniforme in una lingua arcaicizzante rispetto all’epoca sua, come eco dei caratteri tradizionali del genere. Il tema della lotta tra il Cid e gli infanti del Cárrion è l’eco del conflitto tra la grande feudalità e la piccola nobiltà, che perseguiva l’arricchimento attraverso la guerra e l’elevazione sociale attraverso i meriti personali (il Cid da nobile di campagna diventa parente di re).
I temi
Nel Cantare del Cid si individuano alcuni temi fondamentali, in relazione con l’ideologia del suo autore e con i problemi caratterizzanti la mentalità e la struttura sociale dell’epoca e dell’ambiente, la Spagna dell’XI e XII secolo: la figura del cavaliere e le sue caratteristiche di combattente contro gli infedeli e di paladino della religione; l’importanza di virtù mondane come il gusto del bello e la generosità del signore verso i suoi fedeli; la forza dei sentimenti e gli affetti familiari che tratteggiano gli eroi, e prima di tutti il Cid, in una luce di quotidianità e di umanità; gli aspetti pratici ed economici che convivono con gli ideali eroici; i conflitti tra le classi e la mobilità sociale che apre possibilità di ascesa ad elementi della borghesia; aspirazioni e modelli di vita borghesi.
Approfondimenti
Le virtù cavalleresche: armi e religione. Il Cid funge da modello e a lui somigliano i suoi seguaci. Ha in sommo grado le virtù del cavaliere feudale: vassallo fedele e campione della fede, combatte con coraggio e sprezzo del pericolo guidando personalmente le battaglie contro i nemici più pericolosi. Ma non ama uccidere: nel cantare castigliano non c’è il gusto per la strage d’infedeli che caratterizza le Chanson francesi. Solo quando si tratta di un nodo essenziale della vicenda (lo scontro del Cid contro “il re Búcar”del Marocco, i duelli conclusivi), il narratore racconta il corpo a corpo dei contendenti, i colpi delle lance e delle spade che trafiggono e uccidono. Anche il vescovo guerriero don Girolamo, che pure, benedicendo i combattenti alla vigilia della battaglia, assicura: “Colui che qui avrà morte combattendo a faccia a faccia,\ lo assolvo dai peccati e Dio ne abbia l’ anima” (vv.1704-5), è lontano dalla furia, oggi diremmo ‘fondamentalista’ di Turpino ne La Chanson de Roland ( vedi p.e. La Chanson de Roland, lassa CLIV). Analogamente la religione, che è tanta parte (insieme ai rapporti familiari e feudali) dell’identità di ogni cavaliere medioevale, non è settaria né fanatica. Il Cid ha buoni rapporti con alcuni mori di Spagna, che erano divenuti tributari dei regni cristiani, e in particolare ha un fedele aiutante nel moro Abengalbón, buono, avveduto e generoso. La negazione delle virtù cavalleresche è il tradimento, che scaturisce da sentimenti meschini: interessi offesi, invidia gelosa, ottuso orgoglio di classe.
Le virtù mondane: buon gusto e generosità. Selle, bardature, abiti, armi e gioielli (elencati come bottino o come doni che i signori si scambiano nelle varie occasioni) non hanno solo un preciso valore economico, ma sono anche visti come oggetti squisiti, che un artigianato raffinato produce per soddisfare il gusto di una società guerriera ma sensibile al bello. Questa sensibilità è in contiguità con altre virtù mondane: l’eleganza del portamento e degli abiti, lo sfarzo dei riti pubblici (parate militari, cerimonie e assemblee), l’eleganza degli ambienti (arredi, palazzi, giardini). Il buon gusto estetico specularmente richiama il buon gusto del comportamento che consiste prima di tutto nella la generosità del signore (il re, ma anche i potentati locali, come il Cid). Donare con larghezza non solo denaro, ma anche oggetti belli e preziosi ai propri fedeli, facendoli partecipi delle ricchezze ereditata o acquistate in guerra, è tratto distintivo dell’autentica nobiltà. Buon gusto e liberalità sono virtù che si affermano in un mondo feudale in evoluzione, dove l’esercizio delle armi non è più l’unico valore, e comincia a nascere il bisogno di un ingentilimento dei costumi e di un gusto per riunioni sociali di intrattenimento (feste, parte, giochi) cui partecipano anche le donne.
Nello stesso tempo la generosità del principe permette al cavaliere della piccola nobiltà di avere un riconoscimento concreto dei suoi meriti personali e di conquistarsi un posto onorevole nella corte.
La famiglia, gli affetti, la vita quotidiana: umanità dell’eroe. Nel poema entra un motivo del tutto nuovo nell’epica medioevale: la religione della famiglia. Le figure femminili, la moglie e le figlie del Cid, sono inconsistenti sul piano dell’azione e della personalità, ma la loro forza significante sta nei sentimenti di cui sono oggetto. L’eroe non sa dimenticare le sue donne nemmeno nel pieno delle imprese militari e parla di loro sempre con un tono d’ingenua e toccante tenerezza. Se deve separarsene prova profondo dolore, come ‘quando l’unghia si stacca dalla carne ’ (paragone ripetuto più volte), e non saprà perdonare gli aguzzini che hanno tradito e malmenato le figlie. Anche verso i più fedeli seguaci ha parole e gesti d’affetto, e si dispera per la loro morte. Questi sentimenti collocano la sua personalità, che pure incarna nel grado più elevato la sublimità eroica, in una dimensione di umanità; egli non è staccato dagli altri uomini tra i quali vive, sente fortemente le passioni, gli interessi politici, gli affetti familiari. Il poeta non resta nel clima dell’idealità epica, ma scende nella quotidianità, racconta episodi d’intimità domestica, dà conto dei viaggi con tutti i particolari topografici, mette in scena incontri, cerimonie, paesaggi naturali o città desolate dal passaggio della guerra.
Considerazioni economiche. Il Cid e tutti i suoi prodi sono pronti a passare dalla foga della battaglia alla considerazione realistica dei vantaggi economici che grazie alla vittoria si sono garantiti. La difesa di Valenza è anche difesa della ricchezza e del benessere conquistato. Il diritto di preda da parte dei vincitori era regola antica, e l’accumularsi del bottino viene costantemente sottolineato per evidenziare l’incremento della ricchezza nelle mani del Cid e dai suoi. I beni elencati raramente sono prede in natura,eccezion fatta per i cavalli e le loro bardature, o per le armi, che sono beni trasportabili e fatti di materie preziose . Inoltre, soprattutto a partire dalla terza campagna di guerra (contro i Mori di Siviglia), c’è un ossessivo riferimento all’oro e all’argento. Il quadro che ne risulta è quello di un’economia che si avvia ad essere monetaria, mentre precedentemente era di scambio; di fatto nel 1172 che Alfonso VIII cominciò a battere moneta (sappiamo che proprio per indizi extralinguistici di questo tipo la composizione del poema viene collocata intorno al 1200). Siamo di fronte ad un’epoca di decisa trasformazione delle strutture economiche e sociali in senso borghese.
Elementi borghesi dell’ambiente sociale. Nel poema si trovano riferimenti importanti alle tensioni e ai conflitti sociali dell’epoca. Una parte significativa della storia racconta il conflitto tra la piccola nobiltà, che mirava ad arricchirsi con l’esercizio della guerra e ad elevarsi socialmente grazie alle proprie virtù (modello è il Cid da nobile di campagna diventato parente di re) e la grande nobiltà feudale, paladina dei vecchi valori e del rigido privilegio di classe (gli infanti di Cárrion proclamano il loro diritto a maltrattare e ripudiare le mogli, perché di rango inferiore). Viene anche rappresentata una più diffusa mobilità sociale che interessa strati inferiori. Nelle schiere del Cid hanno spazio gli ‘omes buenos’ , ‘uomini per bene, galantuomini ’ diventati cavalieri non per diritto di nascita, ma perché disponevano del patrimonio per l’acquisto di un cavallo e del relativo equipaggiamento, e fanti, che a loro volta sono fatti cavalieri perché, proprio grazie alla spartizione delle prede di guerra, hanno accumulato il denaro sufficiente a garantirsi la promozione. L’aspirazione, e la possibilità, ad avanzare sulla scala sociale comincia a coinvolgere anche la nuova borghesia urbana.
Aspirazioni e modelli di vita borghesi. Il poeta crea un mondo di pacata quotidianità, lontano dall’eroismo tragico e dalla religiosità sublime del martirio presenti nelle chanson francesi. Domina un clima di fiducia dell’avvenire: i personaggi esprimono costantemente un’attesa di felice esito anche quando sono di fronte alle situazioni più difficili e dolorose. Un diffuso sentimento d’ottimismo borghese mette pace negli animi, e accompagna nell’azione facendo pregustare il superamento delle difficoltà, la vittoria sui pericoli e uno scioglimento soddisfacente anche delle vicende più intricate.
Letture dal testo
Le lasse che proponiamo in lettura rappresentano bene il complesso mondo del poema. Un tessuto sociale che registra un’evoluzione nei rapporti di classe e nella gerarchia dei valori, un modello umano che non propone valori assoluti, insofferenti di qualunque compromesso, ma che concilia esigenze diverse. Lontanissimo dall’eccesso eroico, dall’affermazione del proprio orgoglio di guerriero come valore assoluto, insomma dalla ‘desmesure’ di Orlando nell’omonima canzone, il Cid coniuga virtù guerresche e vantaggi economici per sé e per i suoi amici e misura le proprie azioni con il metro dell’utilità pratica e politica oltre che con quello, pur ben presente, degli morali, religiosi ed eroici. Per lui l’amicizia diventa fattiva collaborazione, i consigli lungi dall’essere rigettati come possibile ridimensionamento della propria grandezza (vedi il rapporto tra Orlando e Olivieri), sono richiesti come aiuto per una ponderata decisione. Il mondo epico si apre alla saggezza borghese.
Il brano che segue è tratto dalla parte iniziale del secondo cantare, e si apre con le parole del Cid ai suoi fedeli. Il Cid annuncia il proposito di occupare la grande città di Valenza in mano ai Mori.
SECONDO CANTARE
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1195 Ciò disse il Cid (1), quel che in buon’ora nacque;
poi tornava a Murviedro (2), in terre conquistate.
Andarono gli araldi per tutte le contrade.
Al gusto del guadagno nessuno vuol tardare,
e molte genti accorrono dalla buona cristianità (3).
1200 Crescendo va in ricchezza il Cid, quel di Vivar.
quando vide tante genti riunite si cominciò a rallegrare.
Il Cid Don Rodrigo non volle più tardare:
marciò verso Valenza, la cinge da ogni parte.
La stringe in duro assedio, non vi è guisa di scamparne:
1205 nessuno può più uscire, nessuno può più entrare.
Volando ne van nuove, volando da ogni parte;
più di quanti lo lasciano son quelli che a lui corrono, sappiate (4).
Gli diede una tregua, se mai qualcuno li venisse a aiutare (5).
Per nove mesi cinge d'assedio la città, sappiate.
1210 Quando il decimo fu dovettero capitolare.
Grande fu l'allegrezza che corse da ogni parte
quando il Cid prese Valenza e entrò nella città.
Son fatti cavalieri quelli che erano fanti (6).
L'oro e l'argento, chi mai lo potrebbe contare?
1215 Erano tutte ricche, quelle genti cristiane.
II Cid don Rodrigo si ebbe la quinta parte:
son trentamila marchi in denaro sonante;
ma gli altri beni, chi li potrebbe contare?
Lieto era il Campeador, con le genti cristiane
1220 nel vedere la sua insegna(7) sul castello sventolare.
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.
Già riposava il Cid con tutta la sua armata,
quando al re di Siviglia (8) la notizia arrivava
che è caduta Valenza, nessuno li ha aiutati.
Li vennero ad affrontare con trentamila armati.
1220 Di presso al verziere (9) si diedero battaglia.
Li mise in fuga il Cid, quel della lunga barba (10).
Fin dentro a Jàtiva (11) durò la cavalcata.
Al paesaggio del Jucar (12). avrete visto accozzaglia,
mori lottar con la corrente e costretti a bere acqua.
1230 Quel re del Marocco con tre ferite scampa..
È ritornato il Cid con la preda razziata.
Grande era stata a Valenza, quando la città fu occupata,
ma fu molto più prospera, sappiate, questa sbandata.
Ai minori di tutti cento marchi d'argento toccarono.
1235 Nuove (13) del cavaliere pensate fin dove arrivavano!
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Grande allegria c’è nello stuolo cristiano
Che va appresso al Cid quel che in buon’ ora è nato.
Già gli cresce la barba e gli si sta allungando.
E disse il Cid di sua bocca parlando:
1240 “ Per amore del Re Alfonso che da sua terra mi ha scacciato,
non vi entreranno forbici né un pelo sarà tagliato:
e ne parlino pure il moro e il cristiano”.
Il Cid Don Rodrigo sta a Valenza riposando
Con Minaya Alvar Fanez (14) che non muove dal suo fianco.
1245 Di ricchezze son colmi quelli che le lor terre hanno lasciato.
A tutti ha dato case e beni a Valenza, ed ognuno ne è pago.
Così l’amore del Cid a conoscere imparavano
quanti con lui partirono o dopo che l’ hanno raggiunto,
ed ognuno ne è pago (15).
Si rende conto il, Cid, che i lor beni che hanno guadagnato,
1250 se potessero tornare, lo farebbero di buon grado.
Allora ordinò il Cid, Minaya glielo aveva consigliato,
che chi via andasse senza congedarsi e bacargli la mano,
qualora fosse colto, nella fuga fermato,
perdesse ogni suo avere e fosse appeso a un palo.
1255 Dopo che tutto questo è stato ben pensato,
ecco che con Minaya, si va ancora consigliando:
“Se vi piacesse, Minaya, vorrei aver ragguaglio
di quanti sono qui, che con me han guadagnato.
Li si annoti in una carta, ognuno sia contato,
1260 ché se alcuno fuggisse o venisse a mancarmi,
dovrà rendere il suo avere a me ed ai miei vassalli
che presidiano Valenza e che di ronda vanno”.
Disse allora Minaya: “E’ un proposito saggio”(16):
Note
1. Nella lassa precedente il Cid ha rivolto all’esercito un discorso in in cui annuncia il proposito di conquistare la città di Valenza in mano ai Mori.
2. Murviedro è l’antica città di Sagunto, a nord di Valenza, che ha oggi ripreso il vecchio nome. In realtà il Cid la conquistò solo nel 1098, quattro anni dopo la presa di Valenza.
3. Interessi economici e politico-religiosi sono presentati come motivazioni per aderire all’impresa proposta.
4. Il poeta, attraverso il giullare che recita il cantare, si rivolge al suo uditorio.
5. Il verso allude al comportamento cavalleresco del Cid nei confronti dai nemici. Una cronaca araba riferisce che, dopo un lungo assedio, il Cid concesse ai Mori di Valenza (secondo un uso corrente) quindici giorni di tempo perché potessero ricorrere all’aiuto di emirati amici, a condizione che si arrendessero se dopo quel tempo non fossero riusciti a liberasi dall’assedio.
6. In questo verso, e nei seguenti, è evidente l’interesse dell’autore del Cantare per gli aspetti economici e sociali del mondo che rappresenta. Nelle schiere del Cid i combattenti possono contare su una certa mobilità sociale, in contrasto con la rigida divisione dei ceti caratteristica della società feudale. La ‘promozione di classe ’ fa parte dei premi che il Cid, esponente di una piccola nobiltà anch’essa in cerca di maggior prestigio e potere, elargisce ai suoi fedeli. Subito dopo vengono elencati i vantaggi economici assicurati all’esercito vincitore. La divisione del bottino di guerra era disciplinata, nei secoli XII e XIII da un gran numero di leggi municipali che trovano qui puntuale riscontro.
7. “Insegna” = asta adorna di un drappo che serve da guida in battaglia e viene innalzato sulle terre conquistate. Sul drappo vi è lo stemma di una città o di una famiglia: in questo caso quella del Cid.
8. “Il re di Siviglia”: potrebbe essere il generale Sir ibn Abu Bekr, governatore della città di Siviglia. Non risulta però che costui abbia fatto alcun tentativo per liberare Valenza. Il fatto che il personaggio più sotto (v. 1230) venga denominato “re del Marocco” si spiega col fatto che Siviglia era stata conquistata e annessa all’impero marocchino su cui regnava la dinastia degli Almoravidi. Sir ibn Abu Bekr era governatore in loro nome.
9. “verziere”: termina arcaico per giardino, orto, frutteto.
10. Farsi crescere la barba era segno di lutto fin dell’antichità classica. Il Cid (vedi anche i versi seguenti) ha giurato di non tagliarsela per tutto il tempo che rimarrà esiliato. Tuttavia continuerà a portarla intonsa anche dopo la rvoca del bando, forse perché rimane comunque lontano dalla Castiglia.
11. Cittadina s sud di Valenza.
12. Fiume che sfocia nel Mediterraneo poco a nord della città di Jàtiva.
13. “Nuove”, notizie; l’esclamazione vuole sottolineare che la fama del Cid era grande e diffusa per ogni dove.
14. Άlvar Fáñez, nipote del Cid nel Cantare, è il suo braccio destro, quasi un deuteragonista. La sua esistenza storica è documentata (fu generale al servizio di Alfonso VI e governatore di Toledo che difese da un assedio dei Mori del Marocco), ma non esiste prova che abbia accompagnato il Cid nell’esilio. L’appellativo Minaya, che accompagna o sostituisce il nome, deriva forse dal basco ‘anai’, fratello, con l’anteposizione del possessivo ‘mi’, mio: ‘mi anai’ -->Minaya.
15. Viene ancora sottolineato l’aspetto economico. La generosità del signore nel ripagare i suoi cavalieri dei loro servigi ha contemporaneamente un valore pratico, è cioè il modo per rispettare il contratto che lega il sottoposto al suo capo, e un valore ideale, essendo appunto la liberalità nello spendere una virtù etica e sociale del signore.
16. La saggezza è appunto mediazione tra spinte diverse, ed è una delle virtù positive del Cid e degli altri eroi del Cantare.
Valutazione dell’apprendimento alla conclusione del percorso didattico
1. Quali caratteristiche il poeta epico attribuisce ai suoi personaggi? quale funzione ha nella scelta di queste caratteristiche la ‘distanza epica’?
2. Chi è il ‘giullare’ e quale funzione ha nella tradizione dell’epica medievale?
3. Che cosa s’intende con ‘lingua volgare ’? Precisa quale rapporto hanno le ‘lingue volgari ’ con la scrittura e come tale rapporto si modifica nel tempo.
4. Qual è il significato simbolico del ‘mostro’ o ‘drago’ o ‘orco’nel poema Beowulf?
5. Dopo la rilettura del brano tratto dal Beowulf, sottolinea le parole o le frasi che contengono riferimenti ad un culto pagano non ancora completamente tramontato, e quelle che testimoniano invece l’adesione al cristianesimo.
6. Cerca nel brano del Beowulf metafore e perifrasi; elenca le espressioni di cui il poeta si serve per sostituire il nome di Dio.
7. Che cosa s’intende con chansons de geste? Quali temi tratta la cosiddetta ‘materia di Francia ‘?
8. Che cosa s’intende con Riconquista spagnola?
9. Per quali caratteristiche della personalità e per quali comportamenti si parla della ‘desmesure’ di Orlando?
10. Dopo la lettura del brano tratto da La canzone di Orlando, esponi quale mentalità e quale atteggiamento nei confronti della religione esprimano questi versi. Tieni soprattutto conto delle parole attribuite ad Orlando e all’arcivescovo Turpino e della descrizione della morte di Orlando.
11. Come vengono descritti i Mori? In quali parole e frasi trovi in modo esplicito l’espressione di una mentalità che assimila il nemico e il diverso, identificati da caratteristiche fisiche negative? Per quali valori simbolici ‘nero’ indica una caratteristica fisica negativa, tanto da essere usato come un insulto?
12. Quali motivazione, pratiche e ideali, ha la devozione di Orlando e dei suoi compagni nei confronti dell’imperatore?
13. Quali furono i rapporti storici tra Rodrigo Diaz conte di Bivar (il Cid Campeador) e il suo sovrano Alfonso VI di Castiglia?
14. Come si intrecciano, nella vicenda narrata nel Poema Cantare del mio Cid elementi che hanno riscontro nelle fonti storiche, ed elementi inventati dal poeta?
15. Leggendo il brano tratto dal Cantare del mio Cid sottolinea tutto gli indizi che rimandano ad una cultura e ad una mentalità borghesi.
Bibliografia:
Michel Zink, La letteratura francese del Medioevo, edizione originale Press Universitaire de Nancy 1990, traduzione italiana Il Mulino 1992;
Paul Zumthor, La lettera e la voce, edizione originale Editions du Seuil, Parigi 1987, traduzione italiana Il Mulino 1990;
Beowulf, a cura di L.Koch, Torino, Einaudi, 1987;
La canzone di Orlando, introduzione e testo critico di Cesare Segre, traduzione di Renzo Lo Cascio, premessa al testo, note e indici di Mario Bensi, B:U:R:, 1985;
Cantare del Cid, a cura di Cesare Acutis, Einaudi 1985.

Fonte: http://www.uciimtorino.it/lezione_introduttiva.doc

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