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Cos’è una leggenda?
La leggenda è un tipo di racconto molto antico, come il mito e la fiaba, e fa parte del patrimonio culturale di tutti i popoli, appartiene alla tradizione orale e nella narrazione mescola il reale al meraviglioso.
La parola "leggenda" deriva dal latino legenda che significa "cose che devono essere lette", "degne di essere lette" e con questo termine, un tempo, si voleva indicare il racconto della vita di un santo e soprattutto il racconto dei suoi miracoli.
In seguito la parola acquistò un significato più esteso e oggi la parola leggenda indica qualsiasi racconto che presenti elementi reali ma trasformati dalla fantasia, tramandato per celebrare fatti o personaggi fondamentali per la storia di un popolo, oppure per spiegare qualche caratteristica dell'ambiente naturale e per dare risposta a dei perché.
Le leggende si rivolgono alla collettività, come i miti e spiegano l'origine di qualche aspetto dell'ambiente, le regole e i modelli da seguire, certi avvenimenti storici, o ritenuti tali, allo scopo di rinsaldare i legami d'appartenenza alla comunità.
Le leggende popolari
Le leggende popolari non sono mai inventate da una sola persona, ma alla loro invenzione concorrono sempre più persone che, con il trascorrere del tempo, trasformano un fatto vero in un fatto sempre più leggendario.
Le leggende non raccontano mai dei fatti puramente inventati ma contengono sempre una parte di verità che viene trasformata in fantasia perché gli uomini vogliono scoprire sempre la causa di certi fatti che non conoscono bene e pertanto cercano di spiegarli con l'immaginazione.
Gli uomini dell'antichità, che non usavano ancora i metodi della scienza, vedendo di giorno la luce del sole e di notte il buio, per spiegarsi il fenomeno, collegavano i due fatti con la fantasia immaginando, a volte, che ci fosse qualcuno in cielo che spostasse il carro del sole; in altri casi immaginavano che il sole e la luna fossero dei fratelli litigiosi che non volevano mai incontrarsi.
Ci sono leggende nate per conferire prestigio al proprio paese, come nel caso degli Svizzeri che hanno trasformato Guglielmo Tell, un montanaro probabilmente realmente esistito, in un eroe straordinario e coraggioso.
Anche dalle paure degli uomini sono nate le leggende. Infatti quando gli uomini hanno paura attribuiscono, con la fantasia, dei caratteri spaventosi alle cose che vedono o sentono, come l'ululato di un lupo o del vento, e spesso lo trasformano in un fantasma o in un essere mostruoso.
Le leggende d'autore
Fra le leggende di cui oggi disponiamo ci sono quelle che sono state scritte così come le raccontava il popolo presso cui sono nate, ma ci sono anche quelle che, invece, sono state inventate, o rielaborate, dagli scrittori.
Alcuni scrittori, per scrivere una leggenda, inventano il tema prendendo lo spunto da qualche aspetto della realtà che appare loro interessante, strano, affascinante e, trasformando la curiosità in domanda, usano la fantasia per dare la risposta attraverso una spiegazione fantastica e meravigliosa.
In questo modo sono nati racconti originali e divertenti che costringono il lettore a guardare la realtà con occhi nuovi e a cogliere immagini e significati che l'abitudine ci impedisce di vedere.
A questa categoria appartengono alcune leggende di Rudyard Kipling, come la conosciutissima Perché l'elefante ha la proboscide. Celebre è anche la leggenda della valle addormentata di Washington Irving che pur ispirandosi a luoghi e vicende reali, crea una leggenda di fantasia che diventerà nei decenni successivi cult.
Ci sono poi scrittori che riscrivono con linguaggio moderno delle leggende già note, che costituiscono un importante patrimonio per la comunità, come nel caso della leggenda ligure di Mario Soldati Il polipo della chiesa di Tellaro.
Leggende metropolitane
Le leggende urbane o leggende metropolitane sono quelle storie insolite e curiose raccontate dalla gente, che acquistano credibilità passando di bocca in bocca. Si tratta di ipotetici fatti normalmente presentati come realmente accaduti, ma attribuiti sempre a qualche altra persona. Sono certamente verosimili, ma non sono notizie di cronaca, anche se talvolta (specie nel periodo estivo) sono riferite dai giornali, sempre però in modo piuttosto generico, senza riportare - come fa una vera cronaca - il nome del protagonista e del testimone, il tempo e il luogo precisi in cui i fatti sono avvenuti.
Queste leggende moderne, nate o diffuse nelle città, dimostrerebbero che anche l'uomo d'oggi lavora con la fantasia su aspetti della realtà che lo circonda, che gli fa inventare e raccontare fatti che, spacciati per veri e creduti tali, anche se privi degli elementi fantastici e meravigliosi presenti nelle leggende popolari, soddisfano il bisogno universale di storie e rafforzano l'appartenenza ad un certo ambiente.
Tra le leggende metropolitane si possono collocare anche le "bufale" (hoax) diffuse via e-mail. Si tratta a volte di leggende più antiche adattate e modernizzate. Le leggende urbane possono anche diventare uno strumento di discriminazione, quando attribuiscono a questo o quel gruppo etnico, religioso o d'altro tipo dei fatti o dei comportamenti inesistenti.
Leggende storiche
Sono numerose le leggende credute fatti reali che hanno prodotto rilevanti conseguenze storiche e culturali. Ad esempio:
■ Il mito di Atlantide, che ha alimentato secoli di ricerche, nato dai dialoghi Timeo e Crizia di Platone.
■ Il mito dell'Eldorado, che ha affascinato molti conquistadores.
■ La leggenda medievale del Paese di Cuccagna, utopia popolare, mito collettivo, paradiso terrestre dei rustici, dove ogni cosa piacevole era permessa e in cui, in particolare, regnava una perpetua e confortante abbondanza alimentare: rovesciamento rituale di una realtà, quella dei ceti popolari, dominata dallo spettro dell'indigenza endemica e della carestia. Tetti fatti di prosciutti, fiumi di vino e salsicce, oche che si cuociono e rosolano da sole sono immagini (quasi surreali agli occhi dei moderni), sogni che soltanto l'assillo di una fame atavica e pantagruelica poteva ispirare. Questa leggenda compare nel XII secolo e continua ad arricchirsi per tutto il tardo Medioevo e la prima Età moderna, almeno fino al XVI secolo.
VERDABBIO
LA CAPPELLA DI PIET.
Lungo il sentiero che porta ai Piani di Verdabbio c’è una piccola cappella. Molti anni fa un contadino che si recava ai Piani di Verdabbio per governare le sue mucche incontrò un grosso orso! Che fare? Spaventato e non sapendo che fare salì su di un grosso sasso. Poi si mise a pregare il Signore che l’aiutasse. L’orso dopo aver fiutato a lungo il sasso se ne andò per i fatti suoi.
In segno di riconoscenza il contadino tornato sano e salvo a casa fece poi costruire una piccola cappella proprio sul sasso dove aveva trovato rifugio.
EL SASS DEL DIAVOL.
Al Pian da la Nigia che si trova sopra il paese c’è uno strano sasso. È molto grosso eppure si riesce a farlo dondolare senza troppa fatica.
Si racconta che un giorno il diavolo voleva trasportare il grosso masso a Leggia per distruggere il ponte. Lo portava sulle spalle. Giunto al Pian da la Nigia si fermò per riposare e posò il sasso a terra. Ed ecco arrivare la Madonna che mise la sua mano sul sasso e il diavolo non riuscì più a spostarlo da lì. Sul sasso restò l’impronta della mano della Madonna.
Il pesco di Valdort
A Valdort, frazione di Verdabbio, abitavano due fratelli e una sorella. I primi erano di carattere assai brutale e maltrattavano la sorella minore che era una creatura fragile e tutta mansuetudine. La poveretta doveva accudire ai più duri lavori e la sua vita era un vero martirio. L'unica sua consolazione era quando, per alcuni istanti poteva sedersi sotto il pesco che fioriva davanti alla sua casetta. Ma con la salute malferma e la vita grama che conduceva, la poveretta morì ancora nel fiore degli anni. Il pesco continuò tuttavia a fiorire, ma i frutti si facevano d'anno in anno sempre meno abbondanti.
Un giorno uno dei fratelli disse all'altro:
— Ormai quest'albero non produce che fiori di cui non si sa che farne. Tagliamolo al piede: ci darà almeno un po' di legna.
Ma mentre stava per alzare la scure, una voce flebile come un sospiro si fece improvvisamente udire. E la voce diceva:
— Non siete stati gentili con me, ma lasciate in vita almeno questo pesco che fu la mia unica gioia nella vita ! Questi accenti ebbero il potére di toccare il cuore di pietra dei due valdortesi,e il pesco continuò ancora per molti anni a dare copiosi, rosei fiori in primavera!
LOSTALLO
La leggenda della chiesa di San Giorgio
Si racconta che gli abitanti di Lostallo volessero costruire la chiesa di San Giorgio sul cosiddetto " Mot de Barn ", che si trova sulla sponda sinistra della Moesa.
Uomini, donne e bambini, cominciarono con tanta buona voglia a trasportare il materiale necessario. La fatica non era poca, perché la strada era ripida e stretta.
Dopo alcuni giorni di duro lavoro si resero conto che il materiale portato sul "Mot de Barn" invece di crescere diminuiva.
Alcuni abitanti, passando dalle parti della collina posta sulla sponda destra della Moesa, videro con loro meraviglia, ben situato su di uno spiazzo, il materiale mancante sul " Mot de Barn ". La popolazione pensò che fossero stati gli angeli mandati da San Giorgio a fare quel trasporto, perché desideravano che la chiesa fosse costruita sulla collina sovrastante il paese.
E così gli abitanti fecero.
La leggenda di San Carlo Borromeo
Tanti anni fa, a Lostallo arrivò San Carlo Borromeo. Si fermò a dormire nella vecchia casa della famiglia Sala. Gli offrirono la cena e gli diedero da bere il vino da loro prodotto. A San Carlo piacque parecchio il buon vino e chiese alla famiglia Sala di portargli una barbatella (vite) da benedire. I signori Sala pensarono di non sacrificare una barbatella e portarono una pianta di lamponi al Santo. È per questo che a Lostallo crescono tante piante di lamponi.
Sotto il granito di Drenola
(Leggenda integrale)
Tanti e tanti anni fa, il villaggio di Lostallo non esisteva. Al suo posto, ai piedi della montagna, dove ore si trova la zona denominata Drenola, c'era un paese i cui abitanti erano piuttosto numerosi e di religione cattolica. Col passare degli anni questi ultimi avevano raggiunto se non la ricchezza almeno l'agiatezza. Purtroppo gli abitanti di Drenola, invece di governare saggiamente le loro proprietà, si lasciarono trascinare a poco a poco dalla voglia smodata dei piaceri. Senza nemmeno accorgersene, attirati dal miraggio di una vita senza problemi, abbandonarono quasi completamente il lavoro, eseguendo solo l'indispensabile. Si gettarono a capofitto negli svaghi, nei baccanali. Terminata una festa ne incominciavano un'altra. Le notti di baldoria si succedevano l'una all'altra con una velocità incredibile. Il programma di vita degli abitanti di Drenola si poteva riassumere in tre parole, del resto molto simili tra di loro: gozzoviglie, bagordi, stravizi. Tra tutto questo marciume un fiore aveva però saputo mantenere inalterato il suo profumo. Una giovanetta orfana, che abitava sola sola ai margini del bosco, aveva continuato la sua vita tranquilla e ben regolata, da persona saggia. La fanciulla soffriva per il comportamento dei suoi compaesani. Si sentiva disgustata, afflitta e rattristata, cercava di rimettere sulla buona strada almeno i bambini. Ma ogni suo sforzo era inutile. Un giorno, non resistendo più, si presentò al governatore del villaggio. Con le lacrime agli occhi, la voce incrinata dal pianto, lo supplicò, in nome di Dio, di porre fine a quelle orge, di mettere un freno ai loro vizi. L'uomo per tutta risposta, le rise in faccia e la derise, invitando tutti i presenti a fare altrettanto. Quindi cercò di obbligarla a partecipare ad una delle loro feste, ma, furioso per non essere riuscito a piegarla ai suoi voleri, ordinò che venisse decapitata immediatamente. Tutti i « Drenolesi» si recarono sul luogo dove doveva essere attuata la sentenza (un gran prato dove veniva svolta la cerimonia della Centena). Tutti desideravano veder morire la « guastafeste». La giovanetta salì il patibolo con passo sicuro. Il suo sguardo era sereno quando, rivolta alla plebaglia, disse: « Ve ne pentirete, ma sarà troppo tardi!» Poi offrì il suo collo candido alla lama del boia. Due secondi più tardi la sua testa rotolava nella polvere, mentre il sangue, ancora caldo, arrossava l'erba del prato. Quella notte stessa gli abitanti di Drenola perirono tutti quanti sotto una terribile frana. I grossi macigni ricoprirono tutto, non lasciarono la minima traccia. Però nel luogo ove l'erba si era bagnata del sangue innocente della bimba, a partire da quella terribile notte, una volta all'anno, fiorirono degli strani fiori, dalla corolla a forma di goccia e dal colore rosso come il sangue. Mio nonno raccontava che, già da quando era ragazzo, non si ricordava d'aver visto una sola volta un contadino falciare quegli steli. L'erba cadeva tutt'intorno agli arbusti cosparsi di macchie rosse, che i nostri antenati conservavano religiosamente. Purtroppo però, da quando il trattore ha sostituito il falcetto, i semi si sono sparsi. Ecco perché attualmente non possiamo più ammirare gli strani fiori nati, secondo la leggenda, dal sangue di una ragazza gentile e coraggiosa.
Emilia Rosa
La leggenda della galleria sotterranea
Una volta, nella zona di Drenola, a sud - ovest del paese di Lostallo, c’erano delle persone che non erano di fede cattolica. Anche loro desideravano tanto celebrare la loro messa in una chiesa. A loro piaceva in modo particolare la chiesa di San Carlo, situata ai piedi della collina, poco lontana dai grotti.
Fecero una riunione e decisero di costruire una galleria sotterranea che partendo da Drenola raggiungeva la chiesetta di San Carlo.
Dopo mesi di lungo lavoro, la galleria era finita. Di notte, mentre i Lostallesi dormivano, attraversavano la galleria e una volta entrati in chiesa, celebravano la loro messa.
Nessuno ne venne a conoscenza.
Alcuni dicono che il tunnel c’è ancora, ma nessuno non l’ha ancora scoperto.
La leggenda della mano dell’angelo
Un giorno, tantissimi anni fa, dopo un terribile temporale e tanti giorni d’acqua il nostro riale di San Giorgio cominciò a far franare dei sassi sempre più grossi.
A quei tempi non c’erano tante case e il paese era situato nella zona dei grotti. La gente, vedendo tutti quei sassi, si spaventò e scappò dalle case. Ad un tratto un grosso masso si staccò dalla parete e si diresse verso il paese rischiando di travolgere le case. Ma qualcosa lo fermò prima di investire le prime abitazioni. Si bloccò come se qualcuno o qualcosa lo avesse trattenuto. Dopo alcuni giorni un uomo si arrampicò in cima al masso e vide l’ impronta di una mano.
Pensarono che un angelo avesse trattenuto il grande sasso salvando il paese. Così nacque la leggenda della mano dell’angelo.
MESOCCO
La locandiera del "cason"
A metà strada, tra il pian San Giacomo e San Bernardino, si trova il monte Fiess. I suoi prati e pascoli, bianchi di neve per gran parte dell'anno, si fanno a primavera color smeraldo per rivestirsi poi, durante l'estate, di mille fiori alpini.
SI maggese forma una bella conca nella quale sorgono qua e là dei promontori; fra questi si ergeva in tempi lontani un grande cascinale chiamato «el cason».
Un'ampia stalla e un fienile altrettanto vasto servivano ai contadini per il bestiame; le vacche, i vitelli, le capre ben volentieri pascevano l'erba fine e il fieno profumato del monte Fiess.
Così anche il latte e il burro sapevano di fiori alpini e il formaggio era una vera delizia.
Annessa alla stalla e al fienile c'era la casa (lo dice il nome «el cason»). Un grande locale a pianterreno fungeva da locanda per i viandanti, i mulattieri, i postiglioni, i viaggiatori ricchi e poveri che, prima di passare la montagna o dopo le fatiche del passo, si fermavano al «cason» per rifocillarsi un poco e per scaldarsi piedi e mani spesso intirizziti dal freddo.
Sulla panca, davanti all'ampio camino dalla cappa scura, c'era posto per molti. Qui, alla fiamma di un fuocherello allegro e scoppiettante, si raccontavano straordinarie avventure di caccia, di guerra e d'amore, mentre il buon vino gorgogliava nelle gole avide e secche.
«El cason» era conosciuto da tutti coloro che
spesso, per ragioni d'affari o per altro, dovevano attraversare il passo.
La locandiera era una bella donna dalle spalle larghe e dalle anche possenti; camminava a testa alta e fissava diritto negli occhi i suoi interlocutori, tenendo le mani minacciose sui fianchi, sempre pronta a cacciar fuori senza pietà, magari nella neve, qualche bellimbusto malintenzionato.
Non che le mancasse il senso dell'umorismo, ma aveva innata quella dignità propria della gente di montagna.
Né le «pochettes» al taschino né le cravatte dai colori sgargianti né i capelli impomatati le facevano la minima impressione . . . anzi! . . .
La locandiera, fra i tanti mestieri, faceva anche la cuoca e le sue pietanze nutrienti e gustose attiravano la clientela.
Ma questa non era l'unica attrazione del «cason»; a illuminare la locanda un po' tetra, causa le piccole finestre a inferriate e il pavimento di pietra scura, c'erano tre bellissime fanciulle, le figlie della locandiera.
Due avevano i capelli neri corvini raccolti in trecce attorno al capo e occhioni scuri e vellutati come ciliege mature; la terza era ricciuta e bionda come l'oro e aveva gli occhi color del fiordaliso.
Vestivano semplicemente: una gonna scura di lana filata in casa, un grembiule variopinto e una blusa candida, che ancor più faceva risaltare la loro pelle di pesca.
Quante scarpe si consumarono per le belle del «cason»!
Alla locandiera non sfuggiva nulla. Con l'occhio attento osservava, da una bucarella che dalla cucina dava nella locanda, l'andirivieni degli avventori e ogni mossa delle figlie.
Temeva che esse s'invaghissero di un qualche bellimbusto dai modi fini e la borsa vuota; e voleva ad ogni costo impedire che inseguissero delle chimere, avendo già in cuor suo dei piani segreti e precisi per accasarle con bravi giovani del paese.
Ma come fare?
I passanti erano numerosi e qualche volta «el ca-son» sembrava un alveare, tanto era frequentato dai giovanotti: ce n'erano di belli, ce n'erano di brutti, dal francesino con l'erre moscia e i baffetti neri, all'inglese serio e compassato con la pesante catena d'oro al taschino. Poi c'erano gli italiani «amore amore» e i tedeschi «bei uns, bei uns» . . .
Le figlie accoglievano i complimenti dell'uno e dell'altro ridendo invitanti, senza però pensare seriamente a nessuno.
Ma la locandiera, sempre in agguato, man mano che passava il tempo, vedeva il pericolo aumentare: un bel giorno un forestiero avrebbe sicuramente involato una delle figlie rendendola poi infelice.
Aveva notato, la furba donna, che durante due giorni particolari della settimana la locanda era più frequentata del solito: certi giovanotti stranieri, sempre gli stessi, piantavano addosso alle ragazze due occhi di fuoco, dimenticandosi persino di vuotare il bicchiere. Allora decise uno stratagemma: in quei due giorni della settimana, già di buon mattino, mandava le figlie a Fontana Robbia, una località poco lontana. La strada tra il monte Fiess e Fontana Robbia è piuttosto fangosa, specie in autunno quando le piogge sono frequenti e in primavera, allo sciogliersi delle nevi; cosicché ben si notavano le tracce degli zoccoli delle tre belle del «cason».
Per ordine della mamma esse dovevano ritornare subito, ma camminando all'indietro affinché le tracce degli zoccoli restassero sempre rivolte verso Fontana Robbia.
Le tre ragazze obbedivano, poiché sapevano che con la mamma non si scherzava ma, mentre le due più giovani prendevano la cosa con umorismo, la primogenita, più ribelle, era piena di disappunto.
Pensava al francesino dall'erre moscia che buttava fuori certi «chérie chérie» dolci come caramelle, e all'inglese spilungone che le aveva proposto di portarla lontana e presentarla nell'alta società, e si stizziva.
Ogni tanto, voltandosi rapida, pestava uno zoccolo nel fango facendo schizzare le pillacchere addosso alle sorelle, che a queste mosse repentine, si sbellicavano dalle risa.
Arrivate a casa, le tre belle venivano rinchiuse in una stanza attigua alla locanda a filare, cucire e a sferruzzare.
Ma il lavoro non procedeva affatto, poiché metà del tempo lo passavano a spiare dietro le tende, beffandosi degli spasimanti. I poveretti entravano, si guardavano attorno circospetti: delle belle neppure l'ombra. Allora azzardavano la domanda:
— E le figlie, tutte scappate oggi?
La locandiera, ancor più brusca del solito, rispondeva: — Non ci sono. Guardate i passi sul sentiero, sono andate a Fontana Robbia.
I pretendenti, delusi, vuotavano in fretta il bicchiere e ripartivano come il vento verso Fontana Robbia, mentre l'ostessa furba li seguiva con lo sguardo sorridendo soddisfatta.
Con questo stratagemma ella riuscì a far sì che nessuna delle figlie seguisse un destino ignoto e incerto.
Tutte e tre si accasarono con dei bravi giovani della valle e furono felici.
La locandiera, a ogni matrimonio delle figlie, pareva farsi ancora più maestosa, tanto camminava a testa alta per la felicità.
ROVEREDO
La mamma aveva ragione
In una modesta casetta adiacente alla Collegiata viveva un tempo a San Vittore una povera famiglia. Il babbo era perito miseramente schiacciato sotto un albero mentre lavorava in qualità di boscaiolo sul monte Laura e a tante boccucce da sfamare venne a mancare il sostegno principale. Tutta la famiglia pesava sulle sole braccia della desolata vedova che doveva far miracoli per sostentare gli otto figlioletti che conobbero ben presto la miseria. Ogni volta che la famiglia sedeva a tavola, uno strazio stringeva il cuore della buona mamma che spesso rinunciava anche alla sua razione per porgerla ai piccoli innocenti che chiedevano di tanto in tanto:
Perché mamma il Signore ci ha portato via il babbo, che tanto ci era necessario...; perché tutti gli altri bambini hanno cibo in abbondanza, dolci e giocattoli, mentre noi dobbiamo spesso rinunciare anche alla colazione!
Siamo forse troppo cattivi, noi mamma? —
- No, no bambini — rispondeva angosciosamente la poverina, asciugandosi le lacrime. — Non parlate così, non fate piangere la vostra mamma che vi vuole tanto bene e che vive per voi, solo per voi! E aggiungeva:
Dobbiamo sopportare dolori e privazioni con rassegnazione; verrà il giorno che saremo felici. Il babbo dal cielo ci guarda e non ci abbandonerà.
Intanto però la miseria si faceva sempre più cruda. La scorta di farina era consumata, le patate pure: l'unica vaccherella dava poco latte, le scarpe facevano acqua, gli abiti erano ridotti a brandelli. La mamma per giunta, era caduta ammalata: la rovina completa pendeva irreparabile sulla piccola casa. Da qualche giorno la febbre teneva inchiodata a lette la povera donna che si struggeva nor sapendo che dare da mangiare ai figli Elisa, la figliola maggiore, capiva benissimo quale era la grande preoccupazione che " cruziava " la mamma, comprendevi il perché del suo dolore e del suo spasimo. Ma come avrebbe potuto aiutarla, con le credenze vuote e il fuoco spento? Le venne un'ispirazione. Lungo il greto della Moesa aveva visto dei ciottoli grigi-brunastri che, se si fossero trovati su di un campo sarebbero sicuramente stati scambiati per delle buone patate. — Oh, se fossero state proprio patate! In segreto, senza farsi scorgere dai fratelli, si recò sul posto. Portava sotto il braccio un grande paniere. Povera Elisa! quanta delusione provò dovendosi persuadere che non erano altro che ciottoli pesanti e freddi !..... Eppure, perché non illudere una volta se stessa e i suoi?
Collocò devotamente i tondi sassi nel suo paniere e, giunta a casa li introdusse nella pentola, così come faceva la mamma con i frutti del campo: aggiunse l'acqua e diede vita al fuocherello semi spento con qualche fuscello scovato nella stalla. E mentre era tutta assorta nel suo lavoro, una voce chiese licenza d'entrare. Era un forestiero dall'aspetto stanco, ma buono- Chiese un tozzo di pane. — Ben volentieri glielo darei — rispose, triste la ragazza, e mostrò all'ospite la dispensa vuota, la pentola dei ciottoli e raccontò la triste storia della famiglia.
Allora il forestiero, sorridendo dolcemente, disse — Ebbene, cara bambina: se non hai altro, dammi uno dei tuoi ciottoli, e assaggiane tu pure uno... Vedrai che sarà eccellente.
La ragazzina, incredula, si riavvicinò tuttavia alla pentola: levò il coperchio ed uscì in una esclamazione di gioia. I sassi del greto della Moesa, pesanti e freddi, si erano trasformati in altrettante deliziose patate.
Il Signore buono e generoso l'aveva aiutata! La MAMMA aveva ragione... E per tutto l'inverno, fino al riapparire della bella stagione, il miracolo si ripetè;. La famiglia salva dallo spettro della fame, visse tranquilla.
Max Giudicetti
Santa Elisabetta
Durante una lunga e solatia giornata di luglio d'un estate ormai lontana, i contadini di Lanes, l'ameno monte sulla destra della Val Traversagna presso Rove-redo, avevano portato in stalla quasi tutto il fieno falciato all'alba, dello stesso giorno. Tutti erano soddisfatti del lavoro svolto e già si preparavano a gustare la solita minestra di riso e latte. Solo la vecchia '"Giuseppa " non era riuscita a mettere a sosto il fieno del prato. Nessuno l'aveva favorita di qualsiasi aiuto, perché col suo caratteraccio burbero e vendicativo aveva perso ogni simpatia ed ogni contatto umano.
Intanto grosse nubi nere come l'inchiostro s'addensavano sopra il monte, e la nostra contadina, pregò Santa Elisabetta di risparmiarle il temporale vicino e di concederle il tempo di portare il suo fieno nel fienile. Per il favore che avrebbe ricevuto " Giuseppa " promise a Santa Elisabetta un buon pane di burro. Come d'incanto, infatti, le nubi si ritirarono in buon ordine e il cielo riapparve sereno, mentre il sole si rallegrava di poter avvolgere il montano terrazzo con i suoi ultimi argèntei sprazzi. "Giuseppa" potè così mettere a sosto tutto il fieno del suo monte ed era contenta.
Compiaciuta, prima di prepararsi l'abituale cena, si avvicinò alla stipa del suo fieno profumato, ma ricordandosi improvvisamente della promessa fatta, si oscurò in viso.
Senza nemmeno accorgersi borbottò le seguenti parole:
— Cara la mia Elisabetta, del mio pane e del mio burro non ne mangi e non ne lecchi !
Nel cuore di " Giuseppa ", purtroppo, i cattivi sentimenti, i focolai dei microbi dell'egoismo già avevano soffocato la buona promessa.
Ma nel corso della notte, il temporale che già aveva preso il largo, riapparve più minaccioso che mai ! D'improvviso la folgore colpì la cascina della contadina, fulminandola e bruciando ogni cosa sin dalle fondamenta.
XAM
SAN VITTORE
La leggenda dell’Alp de Mem
L’alpe di Mem era contesa tra i comuni di San Vittore e di Buseno. Dopo diverse trattative decisero di nominare un arbitro la cui decisione doveva essere inappellabile. Per arbitro venne chiamato un certo cavaliere di Locarno chiamato Mario B. che doveva andare sul posto per decidere se questo terreno dovesse appartenere a San Vittore o a Buseno.
Al comune di San Vittore stava a cuore che fosse di sua proprietà. Così una persona del paese si recò a Locarno per incontrare il cavaliere e gli diede una mancia con l’incarico che decidesse a favore di San Vittore. Il cavaliere accettò e durante la notte prese della terra del cimitero di San Vittore e la mise dentro le sue scarpe, sotto ai suoi piedi. Poi andò con il suo cavallo bianco sull’Alpe di Mem. Erano presenti le autorità del comune di San Vittore e del comune di Buseno. Qui il cavaliere pronunciò la sua sentenza e disse: “Io giuro, davanti a Dio e alla Madonna e le vostre Autorità, che poso i miei piedi sulla terra di San Vittore. Quindi l’Alpe di Mem resta di proprietà del comune di San Vittore!” Forse quel signore di Locarno non aveva il titolo di cavaliere, ma sapeva cavalcare... E pronunciate queste parole, cavallo e cavaliere presero fuoco e velocemente andarono verso il Pizzo Claro scomparendo sulla cima.
Ogni tanto gli alpatori dell’alpe di Mem vedono ancora girare il cavallo con il cavaliere.
La leggenda della signora della montagna
A mezza montagna, sul monte dirimpetto al villaggio, un uomo e una donna facevano una vita così strana selvaggia che tutti ne avevano paura. E si stava alla larga.
Un giorno la donna si ammalò. Il marito scese al villaggio e pregò una signora di andar su a curala.
La signora essendo pratica di medicamenti somministrò alla malata un decotto che in poco tempo la fece guarire. Il marito riconoscente le dà in compenso una certa quantità di grano.
Tornata a casa, con sua lieta sorpresa, la donna si accorge che il grano si è trasformato in un bel gruzzolo di monete sonanti.
ALTRE
Era la vigilia del Santo Natale. I giovani di San Vittore — il villaggio ridente e più meridionale del Moesano — non erano in casa, ma attendevano chi nei ritrovi, chi nelle diverse piazzuole del paese — sfidando il freddo — la messa di mezzanotte. Così come voleva la tradizione, nessuno avrebbe rinunciato alla consueta gara di Natale, per la verità, punto facile. Era dato per certo, infatti, che il giovane che riusciva a fare il giro delle tre fontane del villaggio in cinque minuti, partendo da un punto preciso alle 23.55 e giungeva alla collegiata mentre le campane davano il segnale della mezzanotte, e ancora alle condizioni che nello spazio di soli 120 secondi raggiungesse la propria abitazione, avrebbe visto nello spechio la donna che nel prossimo futuro sarebbe stata la compagna della sua vita.
Proprio in quell'anno era giunta in paese Maria. Era una giovane ragazza sanvittorese puro sangue, bella, bruna, slanciata. Da circa un lustro, terminate le scuole comunali, aveva lasciato familiari ed amici e si era recata all'estero presso dei suoi parenti benestanti, dove aveva acquistato nuova grazia, finezza e leggiadria, che la rendevano ancora più affascinante. Non c'è quindi da stupirsi di tutta l'ammirazione che la ragazza aveva destato in paese e fuori. Si racconta, che i giovani di San Vittore non s'erano mai visti così eleganti...; per le strade non si erano mai incontrati così tanti visi, in parte sconosciuti, provenienti da Roveredo, Lumino, Grono, e... persino da Giova. Si racconta pure che più di uno scontro era avvenuto fra giovani pretendenti del villaggio e del difuori. Insomma, la bella Maria, costituiva un vero problema, che occupava non poco le autorità ed il parroco del villaggio.
Erano risse tremende, individuali, fra giovani terrieri, che diventavano poi amici e formavano un fronte solo e compatto, quando si trattava di difendere la loro ragazza da gente... estranea.
Quante sassaiole, quante lotte, fra la gioventù di San Vittore, da una parte e di Roveredo dall'altra ! Quanti assalti compatti fino al Dazio, al confine Ticino-Grigioni, per tener lontana la sete di conquista dei giovani Luminesi ! E Maria, che faceva, l'affascinante Maria? Viveva tranquilla nella sua casetta nel centro del villaggio: usciva meno che poteva, si soffermava ben poco sulla via. Il suo sorriso, però, spontaneo e naturale, non riusciva a soffocarlo, e ciò bastava per riaccendere nei cuori l'amore forte ed irresistibile. — Ma sapeva la giovinetta che lei, proprio lei, era la causa di tante lotte, di tante gelosie, di tanto odio ? Non possiamo dirvelo con esattezza.
Un giorno venne in casa sua il sindaco e la scongiurò, in nome dell'autorità, di lasciare il paese, di sposarsi, di scegliere finalmente il fidanzato, di fare qualche cosa, insomma, ma di por fine a tanto scompiglio. Che posso io fare ? — rispose Maria. — Non amo nessuno, non disturbo nessuno, non chiedo niente a nessuno...
— Lo so, lo so — rispose il sindaco — che sei brava ed onesta, ma insomma, tu ci hai messo negli impicci...
—- Senti «bambina, facciamo così. Fra alcuni giorni è Natale. Sai certamente dell'usanza che c'è in paese durante la Sacra Notte. Tutti i giovanotti sono convinti che chi sa fare il giro delle tre fontane in cinque minuti ed arriva in chiesa nello spazio di questo breve lasso di tempo, vedrà poi nello specchio la donna che sposerà. Faremo così. Mi prometti che io annunci alla gioventù che il tuo cuore sarà per il pretendente che la sera di Natale sortirà vittorioso dalla gara ? I concorrenti dal canto loro, mi prometteranno che rinunceranno ad ogni... velleità a prova terminata. Sarà molto probabile che nessuno la spunterà, perché tutte le strade sono gelate, ed il percorso quasi impossibile.
Ma, — sospirò la ragazza: — Come vede, signore, io non so che dire: non amo nessuno, io: non ho mai pensato a prendere marito...; mi pare ancora di essere bambina. Se crede però ch'io possa por fine a tante preoccupazioni, faccia pure: ho fiducia in lei.
Grazie, signorina, — disse, soddisfatto e commosso il sindaco. Ed aggiunse subito sorridendo: — Non si preoccupi, Maria: la gara è difficile... ma alla più disperata, creda pure che... il vincitore non sarà che un giovane ardito e gagliardo.
Mancavano dieci minuti alla mezzanotte. L'imponente collegiata di San Vittore, rischiarata a giorno, attendeva i fedeli per la celebrazione del grande evento. La nuova, irresistibile, aveva messo in sussulto i cuori dei giovani. Il sindaco aveva dato il grande annuncio: Maria, il sogno del villaggio, donava il suo cuore al vincitore della consueta gara di Natale !
Partendo dallo stesso punto, ben trentatré giovani prendevano il via, si urtavano, cadevano, si rialzavano, toccavano le fontane di Pala, San Carlo, Cadrobi, si dirigevano verso la chiesa. Fu una lotta breve, spasimante. Ma uno solo, agile, snello, veloce, piantò tutti in asso. Li staccò cinquanta, cento, trecento metri: non si vide più... Giunse in chiesa. Il parroco e i chierichetti uscivano in quell'istante dalla sacrestia e s'inginocchiavano all'altare. Scoccavano in quel punto distinti, sonori, i dodici tocchi della mezzanotte.
Il giovane ardito, fresco, sorridente, si chiamava Vittore. In chiesa si fece il segno della croce ed uscì istantaneamente. La sua casetta non era lontana... La raggiunse in un minuto. Si recò in cucina dove già aveva preparato (come tanti altri), due specchi, l'uno dirimpetto all'altro sulla parete e sul caminetto. La sua sposa, la conosceva ormai, ma perché non ammirare le sue care sembianze nello specchio ? Vittore guardò con avidità. Ecco. Subito apparve una figura nobile, bella, sovrumana, quasi. Era vestita di bianco. Com'era gentile e carina! Si: era lei, era proprio lei, era Maria! Ma perché tutta la graziosa personcina giaceva supina?... Misericordia; Maria era adagiata in una candida bara.
Vittore chiamò: Maria, Maria, che fai? Ma la pallida, nobile figura sparì.
Rimase turbato il giovane, ma non disse nulla.
Nelle strade, nelle piazze, nei ritrovi pubblici, subito dopo la Santa Messa, non si parlava che dì Vittore, il giovane vincitore, che avrebbe sposato' Maria.
Ogni odio, ogni gelosia erano sfumati negli animi dei giovani e tutti i complimenti e gli auguri erano per il trionfatore della notte. Ma Vittore non era felice. La triste visione lo tormentava, lo amareggiava.
Fonte: http://team5sediscienzestoriageografia.weebly.com/uploads/1/2/9/4/12944615/leggende_mesolcina.doc
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