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Studio sul tema "Santo Graal"
Un'approfondita analisi storico-letteraria
Sommario
Introduzione
Il poema di Chrétien
Il romanzo di Robert de Boron
L'influsso celtico
Il leggendario Re Artù
L'influsso cristiano
L'abbazia di Glastonbury
L'opera di von Eschenbach
Perceval e Parzival: un'analisi comparata
I cavalieri del Graal
Il castello del Graal
L'eresia catara
Il misticismo del Graal
Il Graal degli alchimisti
Il Graal di Don Chisciotte
La musica del Graal
Il Graal oggi
Introduzione
A partire dal Medio Evo la leggenda del Graal ha ispirato poeti, scrittori e musicisti. Il primo a parlarne fu Chrètien de Troyes, all'inizio del XII secolo, in un lungo poema intitolato Perceval o il racconto del Graal, che in particolare era ambientato alla corte di re Artù. Questa leggenda adombra una realtà storica oppure è soltanto frutto di un'invenzione letteraria? Dov'è nata: in Europa, in Arabia o in Asia? Ma, innanzi tutto, che cos'è il Graal? La coppa che servì a Gesù Cristo per la Cena la sera del Giovedì Santo, oppure il vaso nel quale trovare la pietra filosofale? Il simbolo della Grazia concessa ai penitenti, o il simbolo della Conoscenza, prima tappa verso la dominazione del mondo? Quest'ultima ipotesi poggia sulla leggenda del mistero dei Templari.Fra tutte le leggende che ancora alimentano la nostra fantasia, quella del Graal è una delle più vive. Come gli appassionati degli abissi tumultuosi amati da Wagner possono sprofondarsi in Parsifal, così altri si sentono spiritualmente più vicini alla lunga e dolorosa ricerca del cavaliere, la cui speranza tende verso i tesori fuggitivi della purezza. Poiché l'umanità, da quando esiste, ha sempre conosciuto due nostalgie: quella del Paradiso perduto, illuminato dallo splendore del Bene e del Bello, e la scoperta dei mezzi che le permetteranno, dopo aver pagato una pena severa per redimersi, di rivivere nella luce della verità. Caratteristica comune a complessi sistemi filosofici, a cantilene ingenue, a leggende misteriose è sempre il vagabondare dell'uomo in un mondo in cui egli, perso dietro il suo profondo ideale, procede tentoni come un cieco. Di fronte a questa sete inestinguibile non esistono più continenti. Così accade per il Graal, che certamente appartiene al patrimonio intellettuale e spirituale europeo; ma sembra che i suoi incanti dolorosi abbiano conquistato anche i poeti arabi che n’avevano raccolto le delizie dalla lontana Asia. Né la radice ancestrale di questa leggenda appartiene al solo cristianesimo o agli Arabi troppo compenetrati dall'Islam, Benché coloro che si propongono di esaltare la difficile conquista della felicità, non si sforzino di far rientrare anche la leggenda pagana nel rigido ambito delle religioni rivelate. Il Graal... parola che vive nella spiritualità di questo Medio Evo costruttore di cattedrali. Si parla con una specie di sacro terrore di questa coppa che, la sera del Giovedì santo, era servita a Cristo per annunciare il mistero della redenzione; questo vaso, infatti, aveva contenuto il pane e il vino che dovevano diventare carne e sangue di colui che stava per morire sul Golgota. Si dice anche che nel Graal Giuseppe d'Arimatea ha raccolto il sangue di Cristo, che era sgorgato dal fianco di Gesù, trapassato dalla lancia del centurione Longino. Attraverso vie misteriose, custodito da mani prudenti e pie, il Graal sarebbe giunto in possesso dei Genovesi i quali lo esposero nella loro città dopo la presa di Cesarea. Vaso cristiano consacrato? Forse. Ma la leggenda abbellirà ciò che la storia non permette di stabilire con esattezza. Perché si dirà anche che il Graal sia una pietra venuta dal cielo; altri affermeranno che si tratta del perduto vangelo di San Giovanni. A poco a poco tutto si confonderà: la tradizione cristiana, l'umanesimo germanico nascente, e persino i miti orientali trasferiti in Europa dai Crociati. Quante sedimentazioni si sono depositate nel corso degli anni sulla primitiva storia del Graal! Quanti poeti famosi ed oscuri rimatori hanno ampliato ed arricchito la versione primitiva, come se ad ognuno di loro importasse non tanto rivolgersi ai posteri quanto liberarsi dalla propria angoscia davanti al mistero che pesava sull'antica storia! Sembra che il primo a raccontare la leggenda del Graal sia Chrètien de Troyes. Ha scritto il poema intitolato: Perceval il racconto del Graal, probabilmente fra il 1180 e il 1183. L'opera è stata concepita per richiesta del suo protettore Filippo di Fiandra, fidanzato di Maria di Champagne. Chrètien de Troyes è uno di quei poeti che le dame tenevano volentieri al loro seguito per alimentare i vagabondaggi della fantasia che rallegravano la vita piuttosto monotona dei castelli. Chrètien de Troyes afferma umilmente che l'idea più originale del suo racconto non gli appartiene, perché l'ha trovata in un libro avuto in prestito da Filippo di Fiandra. L'opera del poeta della Champagne è composta di diecimila e sessantun versi. Ebbe un tale successo, la sua risonanza fu tanto notevole che Chrètien de Troyes ebbe quattordici continuatori, ed alla fine il racconto delle avventure e delle sventure di Perceval occuperà più di sessantamila versi.
Il poema di Chrétien
Ecco dunque questa storia. Durante la sua giovinezza Perceval ha vissuto praticamente allo stato selvaggio. Sua madre, una vedova che ha perduto i primi due figli, vuole salvare l'ultimo bimbo che le resta dai pericoli rappresentati ai suoi occhi dalla cavalleria, i cui membri altro non sognano che di battaglie e spedizioni lontane, dunque di morte. Per questo motivo Perceval è cresciuto ignorante di tutto e di tutti, nel cuore della Gast Forest, della Foresta ospitale. Ma un giorno di primavera ecco che appare un corteo d’abbagliante bellezza: tutto splendente d'oro, d'azzurro e d'argento. Il giovane interroga avidamente i cavalieri; la sua decisione è presa: li seguirà. Sua madre, non potendo ostacolare quest’improvvisa vocazione, moltiplica i consigli a Perceval; nulla dimentica, né le preghiere che occorre fare nelle chiese, né il comportamento da tenere nei confronti delle donne. Ecco il giovane lanciato sulle strade dell'avventura, senza uno sguardo per sua madre, che morirà per il dolore di questo distacco. Le nuove esperienze hanno un inizio burrascoso: corteggia brutalmente, molto brutalmente, la prima fanciulla che incontra, e s’impadronisce dell'anello che le orna il dito. Scambia una tenda militare per una cappella, e qui si comporta con disinvoltura. Eccolo al castello di Re Artù. Perceval, cafonescamente, entra a cavallo nel salone dove siede il sovrano; questi è muto per il dolore, perché è stato offeso in modo grossolano dal cavaliere Vermeil. Benché non sia ancora stato investito cavaliere e non abbia quindi nessun diritto di sfidare Vermeil, Perceval tuttavia si batte contro di colui che ha umiliato Artù gettandogli una coppa di vino in faccia e lo uccide con un colpo di giavellotto. Gornemant, un vecchio cavaliere, si prende cura dell'educazione di Perceval. Gli insegna non soltanto a battersi, ma anche ad usare i più elementari principi di cortesia, che non tarderanno ad esser messi in pratica; armato cavaliere, Perceval si precipita in aiuto dell'onesta Biancofiore, assediata in un castello dal malvagio Anguingueron. Liberata, la fanciulla non rifiuterà il suo cuore al salvatore. E fin qui il poema di Chrètien de Troyes non presenta nulla di particolarmente originale. Nella piccola corte di Maria di Champagne probabilmente si ironizzava sui giovani un po' rozzi e grossolani che bisognava a poco a poco rendere più raffinati. Insomma, la prima parte del Perceval non è che il racconto dell'iniziazione di un giovane selvaggio al codice della cavalleria e dell'amore. Ma ecco che bruscamente l'opera ha una svolta. Cavalcando in cerca d’avventure, che è la sorte naturale dei cavalieri, una sera Perceval giunge sulle rive di un fiume così ampio che non può attraversarlo. Scorge una barca con due uomini, uno dei quali sta pescando e che gli offre ospitalità per la notte. Appena arrivato al castello del Re-Pescatore, poiché questo è il nome del suo ospite, Perceval è vestito con un mantello scarlatto. Il Re-Pescatore è sdraiato su di un letto. E a questo punto si svolge una scena fondamentale nell'opera di Chrètien de Troyes. Un cavaliere armato di una lancia di un biancore scintillante appare nella sala. Una goccia di sangue scorre lungo l'asta, fino alla mano dello scudiero. Alle sue spalle due giovinetti bellissimi portano un candelabro d'oro ciascuno, sovraccarico di candele. Infine avanza una fanciulla riccamente vestita, dal portamento nobile, dal viso angelico, che tiene fra le mani un vaso, o Graal, da cui emana un chiarore folgorante, e che è seguita a sua volta da un'altra fanciulla, che porta un piatto d'argento. Perceval ‚ accecato dal Graal ricco di pietre preziose: di un tale splendore che invano se ne cercherebbero d’eguali. Numerosi sono gli interrogativi che vengono in mente al giovane cavaliere, ma egli non osa esprimerli. E’ poi invitato ad un banchetto sontuoso, e ad ogni portata il Graal attraversa di nuovo la sala. L'indomani mattina Perceval vuole porre finalmente le domande che gli bruciano le labbra, ma non trova interlocutori; il castello sembra deserto, fuori del mondo. Si viene poi a sapere che il silenzio in cui Perceval si è rinchiuso fin dal primo momento dell'apparizione del Graal avrà terribili conseguenze. Se egli avesse posto le due domande, una sulla lancia che sanguinava, e la seconda sul Graal, con le sue parole avrebbe guarito il Re-ferito, che aveva ricevuto cioè una ferita tale da non poter mai più essere uomo. Inoltre il reame di Re Artù sarebbe stato liberato dai mali che l'opprimevano. Dopo una lunga serie d’avventure, un Venerdì Santo Perceval si imbatte in due cavalieri che gli rammentano le parole del credo. Sconvolto, il giovane corre a gettarsi ai piedi di un eremita che, guarda caso, era suo zio. Il religioso esorta il nipote a vivere secondo le leggi della morale e della religione, e Perceval riceverà l'Eucaristia la domenica di Pasqua, non senza aver raccolto dalla bocca dell'eremita qualche lume sulla natura del Graal. Egli non era riuscito a porre domande perché si trovava in stato di peccato, condizione che gli impediva sia di fare un gesto che di aprir bocca. Per quel che riguarda la lancia che sanguinava Chrètien de Troyes non propone nessuna spiegazione. Questo è un enigma, ma non l'unico. Perché è una donna a portare il Graal, contrariamente a tutta la liturgia dell'epoca? Perché i presenti non manifestano nessun segno particolare di raccoglimento al passaggio del vaso sacro? Forse la morte ha impedito al poeta della Champagne di fornire i chiarimenti che si proponeva di dare? Oppure non è riuscito a padroneggiare abbastanza tutte le leggende di cui si è servito per imbastire il suo poema?
Il romanzo di Robert de Boron
E' ad un altro poeta che siamo debitori di qualche lume sulla natura del Graal. Qualche decina d'anni dopo la morte di Chrètien de Troyes, un altro scrittore, questa volta originario della Franca Contea, pubblica tremilacinquecentoquattordici versi che intitola: Le Roman de l'Estoire du Graal (Il Romanzo della Storia del Graal). Robert de Boron pone in rilievo l'aspetto cristiano di questa storia. In effetti per lui il Graal sarebbe servito all'ultima cena di Gesù coi suoi discepoli, la sera del Giovedì santo. Preso dai rimorsi, dopo essersi lavate le mani del sangue di questo giusto, Ponzio Pilato avrebbe consegnato il recipiente a Giuseppe d'Arimatea il quale ha potuto raccogliervi il sangue di Cristo, una volta staccato dalla croce. Imprigionato, privo di cibo, Giuseppe d'Arimatea dovrà la vita alla sola contemplazione del Graal. Più ricco d'immaginazione che non Chrètien de Troyes, Robert de Boron narra poi una serie d’avventure favolose. Il poeta dà una sorella a Giuseppe d'Arimatea, Enygeus, moglie di Hebron, la quale avrà dodici figli di cui uno, stranamente, con un nome d’origine celtica: Alain. Quanto a Giuseppe, accompagnato da una piccola schiera di cristiani, si è inoltrato nel più profondo dell'Oriente. Ma il peccato si abbatte sulla piccola comunità. Dio ordina a Giuseppe d'Arimatea di costruire un tavolo identico a quello dell'ultima Cena. Nel centro risplende il vaso, ossia il Graal. Ai suoi lati un pesce pescato da Hebron. Intorno al tavolo soltanto un posto rimane vuoto: quello del nuovo Giuda, responsabile dell'apparire del peccato nella comunità. Moyset, uno dei suoi membri vi si siede: immediatamente è inghiottito dalla terra. E quotidianamente la rievocazione della Cena avrà luogo: Robert de Boron lo chiama: il servizio del Graal. Il poeta della Franca-Contea è il primo ad attribuire a questo Graal dei poteri soprannaturali: poiché a colui che possiede il Graal, e a lui solo, Dio rivela i suoi segreti. E mentre Giuseppe morirà in Oriente, Hebron che è soprannominato Ricco Pescatore, raggiunge l'Occidente; un giorno suo nipote gli succederà come signore del Graal. Quanto al personaggio di Perceval, Robert de Boron lo fa rivivere in un testo in prosa, il Didot-Perceval. Naturalmente vi si ritrova la scena che si svolge al castello del Re-Pescatore, come in Chrètien de Troyes, ma mentre quest'ultimo non aveva proprio immerso questa scena in un'atmosfera di religiosità, la cosa va altrimenti nel racconto del suo emulo della Franca-Contea. La lancia che appare alla testa del corteo è quella che servì al centurione Longino per trafiggere il fianco del Cristo; all'apparire del Graal (portato da un valletto, e non più da una fanciulla, come in Chrètien de Troyes) il Re e la sua corte manifestano il raccoglimento più profondo. Infine, colui che vuole sedersi sul Seggio Periglioso (analogo a quello posto davanti al Tavolo santo di Giuseppe d'Arimatea) è Perceval: il suolo si apre sotto i suoi piedi e la terra è oscurata dalle tenebre. Solo allora il Re-Pescatore si ammala e non potrà guarire finché un cavaliere non avrà riscoperto il Graal. Queste sono le due opere principali che fiorirono all'inizio del XIII secolo, uno dei periodi più intensamente segnati dalla cristianità. Ed è proprio a partire dai poemi di Chrètien de Troyes e di Robert de Boron che nascerà tutta una letteratura i cui incanti, ancor oggi, sono lungi dall'esser esauriti.
L'influsso celtico
Qualunque impronta personale Chrètien de Troyes e Robert de Boron abbiano dato alle loro rispettive opere, entrambi hanno attinto, per l'essenziale, alla medesima fonte: le leggende celtiche. Queste leggende sono nate da precisi avvenimenti storici: la gloria e la decadenza vissute dai Celti in Gran Bretagna. Per quattro secoli, dopo che Giulio Cesare ebbe conquistato l'isola, i Romani vi mantennero lo stato di pace, spezzando duramente qualunque tentativo d’invasione, dei Pitti e degli Scoti al nord, dei Sassoni al sud. All'ombra della spada di Roma, in questo paese che allora si chiamava Britannia, potè svilupparsi il cristianesimo. Ma all'inizio del V secolo tutto cambia: i Romani si ritirano, abbandonando i Britanni alla loro sorte. Allora i Pitti ritornano in forze, seminando terrore e morte. La fine della pax romana ha un'altra conseguenza: il cristianesimo decade, ritirandosi di fronte ad un ritorno al paganesimo. A questa nuova situazione si aggiunge una spaventosa corruzione dei costumi, tanto che la Bretagna piomba nell'anarchia e nella miseria. Attaccati da ogni parte, i Britanni utilizzano i Sassoni come mercenari per combattere i Pitti. Ma è un'alleanza breve: i Sassoni fanno causa comune coi Pitti e intraprendono la conquista del paese. I Britanni sono perduti. I Sassoni si stanziano solidamente sull'estuario del Tamigi e respingono i Britanni verso occidente. Dalla fine del V secolo i conquistatori occupano definitivamente il Kent e il Sussex ed accrescendo il loro potere creano due nuovi regni: il Wessex e l'Essex. Proprio allora compare un capo prestigioso, che passerà alla leggenda con il nome di Re Arthur o Artù. Sotto il suo comando i Britanni o Bretoni ottengono successi schiaccianti, ma hanno contro di loro il numero e la tenacia. Morto Arthur, i Sassoni continuano la loro marcia in avanti; nel 577 occupano l'estuario della Severn, separando così il paese del Galles dalla Cornovaglia. All'inizio del VII secolo altri regni sassoni occupano la costa del mar dell'Irlanda, isolando i Gallesi dal resto del paese bretone. Praticamente i Celti sopravvissuti sono condannati o a rifugiarsi sulle selvagge montagne dell'ovest, o a passare il mare per stanziarsi nell'Armorica. Popolazione perseguitata, per giunta essa è spaventosamente decimata dai Pitti e dai Sassoni. La Bretagna celuca, due anni prima fiorentissima, è ormai ridotta a qualche povera comunità che tenta di sopravvivere nel Galles, in Cornovaglia, nel Westmoreland, nel Cumberland o presso la foce del Clyde. Ecco la storia, accompagnata dai suoi dolori. Che fertile terreno per la leggenda! Vinto, il popolo bretone va in cerca della spiegazione e della giustificazione delle sue sventure. Il coraggio e la capacità del suoi capi non possono essere messi in dubbio; bisogna dunque trovare una causa soprannaturale di questa decadenza. Ed è perché il popolo bretone ha vissuto in stato di peccato, perché ha offeso Dio, che la maledizione si è abbattuta su di lui. Tuttavia bisogna vivere sperando che un giorno, dopo la remissione dei peccati, l'antica gloria ritorni. Quale può essere dunque il peccato imperdonabile commesso dalla Bretagna? Esso ha un nome: l'eresia pelagiana. Cristiano d’origine bretone, ardente predicatore molto ascoltato, Pelagio va proclamando che l'uomo dispone totalmente del libero arbitrio e che la sua salvezza è una questione personale. Si oppone così direttamente al contemporaneo insegnamento di Sant'Agostino: l'uomo non può salvarsi se la grazia non lo illumina e non lo fortifica. Secondo lui il peccato originale priva della grazia divina tutti coloro che nascono, i quali si trovano così condannati all'ignoranza, al dolore e alla morte. Pelagio al contrario afferma: l'errore d’Adamo è stato un errore suo personale; non riguarda affatto i suoi discendenti, tanto che ciascuno di noi può scegliere liberamente fra il bene e il male. Ma allora che cos'è la grazia? Soltanto l'insieme delle facoltà che Dio ci ha dato e la possibilità di vivere secondo gli insegnamenti di Cristo. All'inizio del V secolo l'eresia pelagiana si è talmente diffusa in Bretagna che il papato si affretta a mandarvi San Germano d’Auxerre, uno dei migliori predicatori del tempo. A forza di controversie appassionate costui riesce a soffocare l'eresia. Il suo successo è totale: i Bretoni infatti ne fanno il vero santo della loro isola. E' così stroncato il peccato bretone: il regno di re Arthur è stato fatto a pezzi per avere ceduto alle attrattive dell'eresia, ma il ritorno alla vera dottrina cristiana gli permetterà di rivivere. Questo ritorno tuttavia non sarà privo d’inconvenienti. Lo spirito celtico è troppo ricco d’immaginazione per non continuare a mescolare fra loro le esigenze della fede cristiana e la leggenda pagana. Mescolanza che si ha l'occasione di trovare, ad esempio, nella personalità di Re Arthur.
Il leggendario Re Artù
Egli compare per la prima volta nella leggenda celtica con il nome di Herla. Eccone la storia: ferito in combattimento, è rimasto imprigionato per tre secoli sotto una montagna (di qui il soprannome di Re della montagna); il suo paese è completamente distrutto. Un giorno, nella sua prigione sotterranea arriva uno straniero che lo interroga a lungo. Ora, questo straniero ha il potere, se lo vuole, di pronunciare le parole che permetteranno a Herla di ritrovare il suo regno. Ma le parole della salvezza non sono pronunciate e il re rimane nella sua prigione. Due sono i temi qui mescolati: quello della redenzione, nelle parole che salvano, e quello della leggenda. Ancora più notevole è il riferimento alle leggende celtiche nell'opera di Chrètien de Troyes e di Robert de Boron, per ciò che riguarda l'episodio del corteo del Graal. E' una strana processione: a questo punto del poema non si conosce esattamente che cosa sia il Graal; né meglio si capisce perché a portarlo, per il poeta della Champagne, debba essere una fanciulla; né si hanno precisazioni sulla lancia scintillante dalla quale scende una goccia di sangue. Questo episodio esprime clamorosamente fino a che punto Chrètien de Troyes fosse diviso tra il desiderio di adattare al gusto francese una vecchia leggenda celtica e la volontà di cristianizzare la storia. Vero è che anche nella sua vita quotidiana alla corte di Maria di Champagne il poeta assisteva ad una specie di confronto tra paganesimo e cristianesimo. Si sa che l'incarico di scrivere il racconto del Graal è stato dato al poeta da Filippo di Fiandra. Ora, il padre di Filippo, Thierry, aveva avuto un ruolo importante nelle crociate, da cui aveva ricondotto l'ampolla contenente il sangue di Cristo (quest'ampolla si trova oggi a Bruges). Imbevuto di racconti favolosi riferiti dai Crociati, Filippo (che morirà in Palestina) ha esercitato dunque un'influenza determinante su Chretien de Troyes. Ma Maria di Champagne, fidanzata di Filippo, aveva, come del resto sua madre, Eleonora d'Aquitania, un vivo interesse per i racconti di Bretagna, ossia per le leggende celtiche. Al poeta, posto nel punto di confluenza di queste due correnti, spettava il compito di riunirle in un unico e identico fiume. Così la famosa scena della processione del Graal, per una grandissima parte non è altro che un richiamo ai riti d'iniziazione e d’investitura del sovrano, come li descrive la mitologia celtica. Ecco, ad esempio, ciò che sta scritto in uno dei più antichi racconti celtici: gli aspiranti alla carica suprema dovevano camminare su questa pietra, la quale indicava il vincitore gettando un grido, come supremo sovrano d'Irlanda. Egli s'imbatte in un cavaliere misterioso che altri non è che il dio Lug; questi invita Conn nel suo palazzo e quivi, seduta su un trono di cristallo, una giovane donna, con il capo cinto da una triplice corona d'oro, tiene presso di sé tre coppe piene di una bevanda divina. Questa giovane donna incarna la sovranità dell'Irlanda. Prima di invitare Conn a bere, domanda a Lug: A chi devo dare la coppa? E Lug indica Conn, poi pronuncia i nomi di tutti i suoi discendenti che, a loro volta, diventeranno re d'Irlanda. Finalmente Lug e la giovane donna scompaiono e Conn rimane solo con la coppa che gli è stata offerta e che è il simbolo del suo potere. La trasposizione operata da Chrètien de Troyes appare chiara: Lug diventa il Re-Pescatore, la giovane donna sarà la portatrice del Graal e Conn si identificherà con Perceval. Questo per il contributo celtico. E l'apporto cristiano?
L'influsso cristiano
Dapprima sembra essere quello di un'eresia: oltre alla pelagiana il nestorianesimo (che in particolare ammette una duplice natura di Cristo, corporale e spirituale), che ebbe un certo successo in Bretagna. In alcune comunità cristiane inoltre le donne erano autorizzate a distribuire la comunione. Il che spiegherebbe come mai, nell'opera del poeta della Champagne, sia una donna a portare il Graal. Ma resta strana l'apparente indifferenza con cui i presenti assistono al passaggio del Graal e della sua processione. Nel 1180, data del racconto del Graal, la dottrina della chiesa nei confronti dell'Eucaristia non è ancora ben definita; lo sarà soltanto trent'anni più tardi, in occasione del concilio Laterano. I fedeli che si comunicavano consumavano in ogni messa tutto il pane e tutto il vino che erano stati consacrati. In questo modo si rievocava esattamente la Cena. Solo nel XII secolo, dopo aspre controversie teologiche, si giunse ad ammettere che Cristo era realmente presente nel pane e nel vino anche indipendentemente dal sacrificio della messa. L'immagine del Graal che ci è offerta da Chrètien de Troyes sembra riprodurre fedelmente l'evoluzione che sta verificandosi nella sua epoca. Siamo a qualche anno di distanza dal concilio Laterano e la nuova concezione dell'Eucaristia sta venendo alla luce, tanto che lo splendore accecante che sembra scaturire dal vaso portato dalla fanciulla prefigura quegli ostensori che ben presto si troveranno sugli altari. Quando Robert de Boron scrive a sua volta Il Santo Graal, la rivoluzione liturgica è praticamente compiuta: la sua descrizione della processione religiosa è infatti già immersa in un’atmosfera di fervore e di raccoglimento. Infine, Chrètien de Troyes si scaglia precisamente contro l'eresia pelagiana. Quando, dopo aver ritrovato il cammino di Dio, Perceval si reca dall'eremita, questi esclama: Il peccato ti ha tagliato la lingua quando vedesti passare davanti a te il ferro che mai si asciugò (allusione alla lancia nel corteo del Graal), e tu non cercasti di conoscerne il motivo. Insomma, il giovane cavaliere si ritrova con una specie d’incapacità morale; non può comandare alla sua volontà, perché è schiacciato sotto il peso di un errore. Incapace d’articolare parola o di muovere un gesto che dimostri il suo interesse nei confronti del Graal, simbolo della fede cristiana, Perceval rappresenta l'impotenza dell'uomo privo dell'aiuto divino. Per guarire il re ferito, per salvare il regno di Re Arthur, infine per provocare un miracolo, a Perceval si chiedeva poco: una semplice prova di buona volontà. Ma, per l'appunto, egli non poteva dare questa prova perché si trovava in stato di peccato. Per salvarsi, e per salvare gli altri, il libero arbitrio non è dunque sufficiente, come pretende di sostenere l'eresia pelagiana. E a questo proposito sia Chrètien de Troyes che Robert de Boron riflettono bene la rigorosa ortodossia cristiana. Ma in confronto al suo predecessore, Robert de Boron ha avuto il vantaggio di soggiornare in Bretagna, molto probabilmente nella celebre abbazia di Glastonbury.
L'abbazia di Glastonbury
Nel Medio Evo quest'abbazia fu uno dei centri più importanti della cultura occidentale. San Dunstan vi ha introdotto la regola benedettina fin dal secolo X; i crociati hanno consegnato ai monaci alcuni testi portati dalla Palestina. L'influenza dell'abbazia sullo spirito celtico si era estesa inoltre con l'invasione dell'Inghilterra da parte di Guglielmo il Conquistatore, il quale diede ai monaci di Glastonbury due priori normanni: Thurstin prima, e Herlewin poi. Importante è stato il contributo di quest'abbazia nel conservare le nostalgie disseminate nel folklore bretone al fine di integrarle nella nascente storia d'Inghilterra. Ed è vero che i monaci sono spinti a farlo anche per ragioni politiche: il re d'Inghilterra, Enrico II Plantageneto si trova ad essere, almeno per i suoi possedimenti francesi, vassallo del Re di Parigi, il cui prestigio è fra l'altro senza pari a causa della tradizione religiosa. Sul piano spirituale chi potrebbe uguagliare Enrico II, sovrano di un regno che possiede la Santa Ampolla a Reims, alcuni santi protettori della Francia e del Regno, celebri santuari, sfolgoranti abbazie a Cluny e a Gateaux? Per dare all'Inghilterra un lustro che non possiede ancora, gli abati di Glastonbury entrano senza esitare nel gioco del loro re. Grazie alla loro opera si forgiano e si rafforzano quelle leggende che daranno agli abitanti una specie di fierezza nazionale. Ed è così che i monaci scoprono la tomba di Re Arthur e di sua moglie Ginevra. La leggenda celtica pretendeva che il sovrano fosse stato trasferito in un'isola misteriosa, Avallon, e che quivi vivesse aspettando di tornare trionfalmente alla guida del suo regno. Ma ecco che i ricercatori di Glastonbury ne portano alla luce la tomba e trono dove? A Glastonburv. Ad Enrico II questa scoperta offre due vantaggi: i Celti non potranno più accarezzare il loro sogno di rivalsa sui loro vincitori, poiché ormai è provato che il loro re non era un eroe leggendario, ma un uomo che, essendo polvere, alla polvere è tornato. In secondo luogo se la sua tomba è stata scoperta a Glastonbury, come non pensare che questa abbazia è il faro della vera fede, la più alta protezione contro le superstizioni e le eresie? I monaci d'altra parte non si sarebbero limitati a questo. Bisognava ancora dimostrare che l'Inghilterra, non meno della Francia, era stata creata dalla mano di Dio. E ancora a Glastonbury nasce la leggenda che, dopo la morte di Cristo, Giuseppe d'Arimatea, il quale ha avuto in consegna il vaso sacro contenente il sangue del martire del Golgota, è andato a rifugiarsi proprio lì. Qui ancora l'operazione comporta un duplice vantaggio: il Graal dei Celti è assimilato dal cristianesimo: la Francia possedeva la Santa Ampolla, l'Inghilterra possiede invece il vaso sacro di Giuseppe d'Arimatea. Robert de Boron trova così la materia della sua opera. D'altra parte, questa presenza di Giuseppe d'Arimatea in Gran Bretagna non si spiega se non ci si sforza di gettare un ponte fra l'Occidente cristiano e la Terra Santa. Certamente questo legame tangibile esiste: sono le Crociate. Esaltati dalla loro avventura, affascinati dalla liberazione della tomba di Cristo, alla quale hanno votato la vita, i Crociati, almeno quelli di questo periodo, sono tornati pieni di racconti straordinari, ma tutti riguardanti, alla fine, episodi della vita di Gesù. Chrètien de Troyes e Robert de Boron hanno operato una trasposizione del più importante di questi episodi: la Comunione.
L'opera di von Eschenbach
Ad un altro narratore del Graal toccherà il compito di spingersi oltre, introducendo nella letteratura occidentale le prime influenze arabe. Nel 120 grazie al più grande poeta dell'epoca, Wolfram von Eschenbach compare in Germania un Parzival. Il poema, la cui espressione poetica possiede una leggerezza e una bellezza straordinarie, è probabilmente una delle vette di quella che l'Occidente conobbe come civiltà cortese e cavalleresca. Infatti l'eroe di Wolfram von Eschenbach incarna proprio questa civiltà: la sua è la storia di un lento e faticoso cammino verso una realizzazione totale nella fede cristiana, concessa agli ideali di una cavalleria completamente votata al culto della bellezza e dell'onore. Eletto dal Signore, Parzival si sente così definire da Kundrie, la messaggera del Graal: Tu hai conquistato la pace dell'anima e hai atteso la pace del corpo con un fedele desiderio. Poiché Parzival ha sempre vissuto sotto il vincolo di una duplice fedeltà: a Dio e a sua moglie Kundwiramus. Il poema tedesco si conclude con l'esaltazione dello scopo raggiunto: Chi termina la propria vita in modo che, per colpa del corpo, Dio non perda i suoi diritti sull'anima, e malgrado questo riesca a conservare il favore del mondo e dei suoi pari: ecco una persona ricca dei frutti di uno sforzo ardente. Ma, per giungere a tale realizzazione, occorre l'aiuto della grazia divina, che attraverso il Graal è distribuita a chi ne è degno. Per il poeta tedesco il Graal è una pietra, dotata delle virtù più straordinarie. Ha tre tipi di funzioni: Fornisce nutrimento e bevande a coloro che la custodiscono e ridona loro bellezza e gioventù. Soltanto chi conosce la purezza morale può sollevarla e trasportarla. Ogni anno il potere del Graal è come rinnovato; quel giorno una colomba vola a deporre su di esso un'ostia meravigliosamente luminosa. Solo gli eletti di Dio beneficiano dei doni meravigliosi che il Graal distribuisce. Il Re del Graal è scelto da Dio stesso, e chiunque non sia in pace con il Re del Cielo e della Terra non può pretendere di diventarlo. Parzival non sfugge a questa regola; riesce infatti a raggiungere il Graal solo dopo aver compreso le parole dell'eremita Trevrizent: E' per gli uomini che Cristo è morto sulla croce; allora, sconvolto da questo atto d'amore, Parzival si abbandona a Dio, ponendo irrevocabilmente fine ad un lungo periodo di errori e di peccati.
Perceval e Parzival: un'analisi comparata
Fra la concezione del Graal in Chrètien de Troyes e in Wolfram von Eschenbach esistono profonde differenze; per il poeta della Champagne il Graal risplende di pietre preziose ed è custodito da angeli neutrali, quelli cioè che non hanno partecipato alla rivolta di Lucifero contro Dio. Avevano agito per rinunzia? No, erano stati mossi dall'orgoglio, credendo che la sola intelligenza avrebbe permesso loro di distinguere il Bene dal Male. Il Graal è promesso a coloro che si inchinano alla volontà di Dio, sapendo che tutto discende da Lui, ma che non rinunciano per questo ad affermare la loro personalità. Il Perceval del poeta francese non ha niente di umile. Ben diverso il Parzival del poeta tedesco. Nella sua opera il Graal è solo una pietra grigia, umile. Ed essenzialmente è l'umiltà che si richiede a coloro che vogliono conquistarla. Divenuto re del Graal, Parzival è accolto da Trevrizent con queste parole: Hai conquistato il sommo bene! Ora volgiti verso l'umiltà. In fin dei conti, l'opera del poeta tedesco non sarebbe che l'adattamento impregnato di sentimenti cristiani di una leggenda già molto nota e molto sfruttata, se un vero enigma non rimanesse aperto: in quale modo Wolfram von Eschenbach ha potuto avere dei contatti con la filosofia araba? Il poeta, in realtà, non pretende di aver composto un'opera originale. Egli dice: Il ben noto maestro Kyot trovò a Toledo, in mezzo ai manoscritti abbandonati, la materia di questa avventura, scritta in caratteri arabi. Prima dovette imparare a decifrare la scrittura (ma non cercò di iniziarsi alla magia nera); fu un gran vantaggio che egli avesse ricevuto il battesimo, perché altrimenti questa storia sarebbe rimasta sconosciuta. Non esiste infatti nessun pagano abbastanza saggio da poterci rivelare la natura del Graal e le sue segrete virtù. Un pagano (arabo), un certo Flegetanis, era molto famoso per il suo sapere. E' lui che scrisse l'avventura del Graal. Il pagano Flegetanis era in grado di predire il declino di ogni stella e il momento del suo ritorno. Esaminando le costellazioni scoprì misteri profondi di cui parlava tremando. Si trattava, diceva, di un oggetto che si chiama il Graal. Ne aveva letto chiaramente il nome nelle stelle. Un gruppo di angeli l'aveva deposto sulla terra e poi era volato via, al di là delle stelle. Da allora solo degli uomini diventati cristiani con il battesimo, puri come angeli, avrebbero dovuto prenderne cura. Il poeta tedesco conclude: Così scrisse Flegetanis. Kyot, il saggio, cercò nei libri latini dove mai potesse vivere un popolo abbastanza puro e incline a una vita di rinunce per diventare custode del Graal. Lesse le cronache dei regni di Francia, di Bretagna e d'Irlanda, finché, in Anjou, trovò quel che cercava. Chi era dunque Kyot, il saggio maestro? In Provenza non si è trovato nessuno scrittore, né trovatore che portasse questo nome. Ma si può ragionevolmente supporre che sia lo pseudonimo scelto da uno di quei poeti girovaghi che fiorivano in quell'epoca e che raccoglievano e utilizzavano tanto le leggende quanto gli eventi di cui erano testimoni o che erano loro raccontati. Poco importa, del resto, che Kyot sia esistito o no o che in realtà si chiamasse Guyot; l'essenziale è sapere se in Provenza era presente una storia del Graal, notevolmente diversa da quella che circolava nell'Europa settentrionale. La Provenza del XII secolo si estende fino a Tolosa, su di un territorio a lungo rimasto sotto il dominio della Spagna araba e che è stato fortemente penetrato dalla civiltà dei conquistatori. Per molto tempo si è creduto che questa civiltà fosse superiore a quella dell'Occidente. Non erano forse gli Arabi bravissimi specialisti in materia di stoffe, di armi, di cavalli, per non parlare della loro capacità nel costruire fortezze e torri? D'altra parte, spesso ripetevano questi soufis, racconti brevi di avventure favolose. Anche dopo essere stati cacciati, gli Arabi dovevano continuare a manifestare in Provenza la loro influenza culturale, influenza che passava attraverso i maestri ebrei già presenti nel paese, che si recavano spesso in Spagna per consultare i pensatori e i saggi mussulmani. Anche gli Arabi avevano una specie di leggenda del Graal, tra i cui protagonisti c'è quel Flegetanis che è poi citato da Wolfram von Eschenbach. Flegetanis infatti è la traduzione del titolo di un libro arabo, Felek-Thani (la seconda sfera). In quest'opera, come in quella celebre di Mohvddin Ihn Arabi: I Catoni della sapienza, si parla di sette pietre che rappresentano le sette possibili forme di saggezza. Queste pietre possono scendere fra gli uomini per risuonare come un richiamo. La Pietra Suprema, quella della saggezza universale, si incarna in colui che l'Islam considera: il marchio della santità degli inviati e dei profeti, il Cristo. Dopo la morte di Cristo questa pietra è stata affidata alla custodia di cavalieri celesti. Ecco il materiale di cui il poeta tedesco si servirà per scrivere il suo Parzival; beninteso egli si riferirà in alcune parti alla leggenda celtica e impregnerà la sua opera di dottrina cristiana, ma il punto di partenza è senza dubbio l'opera attribuita a Kyot, e di quest'opera, in particolare, il suo carattere esotico. Per cogliere ciò che Parzival deve all'Islam, bisogna richiamare i simboli più importanti utilizzati da Wolfram von Eschenbach. Innanzitutto Montsalvage, il castello dove il Graal è custodito da cavalieri puri come angeli. Quest'idea del castello, quasi irreale, appartiene certamente al fondo comune della leggenda: è la Thulè celtica, il Meru indù, la Luz ebraica. Nel mondo islamico è la montagna Qaf, che si erge su di un'isola che non si può raggiungere né per terra, né per mare. Il simbolismo di questa immagine è chiaro! Qaf è il luogo di passaggio fra il mondo materiale e il mondo spirituale una specie di frontiera fra il visibile e l'invisibile. Mohyddin Ihn Arabi pretende che quest'isola sia stata fatta con gli avanzi dell'argilla usata per modellare Adamo. Infatti è il paradiso terrestre, testimone della decadenza umana, cui si aspira tuttavia come oggetto di riconquista. Come un Mussulmano può sperare di raggiungere un giorno le rive dal Qaf, così l'occidentale può sognare il momento in cui, a forza di ascesa e di saggezza, sarà invitato ad entrare nel castello dove il Graal lo attende nel suo splendore immortale. E in più di un tratto Montsalvage ricorda il Qaf, il castello non è l'unica trasposizione che si nota nel poema tedesco. Rivolgendosi a Parzival, e parlandogli di un uccello favoloso, la Fenice, Trevrizent gli dice: Per la virtù di questa pietra (il Graal), la Fenice si consuma e diventa cenere, ma da queste ceneri rinasce la vita; grazie a questa pietra la Fenice compie la sua metamorfosi per ricomparire più bella che mai, in tutto il suo splendore. Ora, la Fenice è un simbolo tipico della mitologia araba. Tutte le leggende del Medio Oriente affermano che l'uccello rosso non si posa mai sulla terra, se non sulla vetta del monte Qaf. Raccontando la storia di questo uccello favoloso Erodoto osserva che la sua patria è l'Arabia, che ogni 100 anni vola ad Eliopoli, la città del sole, e qui seppellisce allora le spoglie di suo padre, le spoglie da cui è nato. Nel poema di Wolfram von Eschenbach è chiaramente la colomba che impersona, ma in senso cristiano, il ruolo che nella mitologia araba spetta alla Fenice. Ogni anno, il venerdì santo, torna a deporre un'ostia sul Graal. Poi scompare. Ma sia che si tratti dell'uccello rosso, sia della colomba, in fondo il simbolismo è identico e, d'altra parte, è un simbolismo comune a tutte le leggende indo-europee: si tratta della lotta fra la luce e le tenebre; della vittoria, sempre da rinnovare, della primavera sull'inverno e, sul piano spirituale, del trionfo della resurrezione sulla morte. Infine, ed è il punto essenziale, c'è il Graal stesso descritto nel suo aspetto esteriore come una pietra stretta e umile. La frattura fra Wolfram von Eschenbach e i suoi predecessori Chrètien de Troyes e Robert de Boron è dunque totale. Certo il poeta tedesco attribuirà a questa pietra alcune particolari virtù fino a quel momento legate al vaso sacro, immagine del ciborio, ma parla pur sempre di una pietra. E questa concezione minerale, deriva direttamente dalla teologia araba. Sembra che questa, a sua volta, prendesse la nozione di pietra sacra dalla filosofia indù la quale nelle sue opere principali, parla del Cintamani, il gioiello del desiderio. Meglio ancora: certe pitture di ispirazione buddista rappresentano una vergine che porta il gioiello del desiderio, quello che dispensa gioia. Ora, nell'opera tedesca esiste una certa Repanse di Schoye, portatrice del Graal. Per Wolfram von Eschenbach, il Graal è stato portato sulla terra da angeli. Principio eucaristico, esso rafforza la fede degli eletti; fonte di ogni bene, assicura agli uomini il pane e il vino e li protegge dalle malattie e dalla morte. Un giorno la pietra sacra tornerà alle Indie (dove allora si poneva il paradiso terrestre). Che cos'è nella religione islamica la pietra della Kaaba, mano destra di Dio sulla terra? E' stata portata da Jibrailn, l'angelo Gabriele. Guarisce da ogni male coloro che la toccano, purché abbiano il cuore puro. E l'ultimo giorno parlerà per dare testimonianza. Se dunque le analogie fra il racconto del poeta tedesco e la teologia araba presentano somiglianze sbalorditive, ne esiste un'altra, ancora più diretta. Secondo Wolfram von Eschenbach, il Graal è innanzitutto il simbolo della compassione e dell'umiltà. Qual è l'errore iniziale commesso da Parzival mentre assiste al passaggio del Graal? Non ha chiesto al re ferito: Qual è il male di cui soffri? Così ha peccato per difetto di umiltà, perché la sorte dei suoi simili non lo preoccupa; ha sbagliato per mancanza di compassione, curandosi poco della sorte di un malato. Occorreranno anni di prove perché Parzival rimedi a questa colpa e, perché possa di nuovo aspirare al possesso del Graal, dovrà vivere amare esperienze prima di giungere a realizzarsi totalmente. L'insegnamento più importante che l'eremita Trevrizent dà a Parzifal riguarda l'umiltà. Poiché raggiunge il Bene supremo solo colui che lo cerca conscio della propria debolezza, e il cui spirito, sapendosi vacillante, ha continuamente bisogno dell'aiuto di Dio. Questo comando di umiltà non è del resto specifico della teologia araba; lo si ritrova negli insegnamenti dello Yoga tibetano, così come anche in certe opere persiane ciascuna delle quali contiene, con diverse sfumature, la formula seguente: Va' a dire ad Alessandro che invano egli cerca il Paradiso; i suoi sforzi saranno assolutamente senza frutto perché la via del Paradiso è la via dell'umiltà, e lui non ne sa nulla. Pare proprio che l'umiltà descritta come la via ideale per raggiungere l'assoluto appartenga al tesoro comune delle leggende indo-europee. L'essere impregnata di arabo, carattere essenziale dell'opera di Wolfram von Eschenbach, è percepibile anche in un altro tema. Nei poemi di Chrètien de Troyes e di Robert de Boron la lancia intravista da Perceval nella processione del Graal è senza dubbio quella di cui il centurione Longino si servì per trafiggere il fianco di Cristo crocifisso. Non possiede nessun potere specifico, se non quello di ricordare il sacrificio del Golgota. Ben diversa la concezione di Wolfram von Eschenbach poiché la lancia appare nella sua opera come lo strumento del castigo divino; è quella infatti che ha ferito il Re-Pescatore privandolo della sua natura di uomo; con quel medesimo colpo l'intero regno del sovrano è stato colpito dalla sventura. Per di più la ferita che essa provoca si risveglia o si placa per influsso delle stelle. Invano si cura il re con i più diversi medicamenti: Dio impedisce che abbiano effetto. Soltanto la lancia, dotata di poteri soprannaturali, può guarire la ferita del sovrano col suo solo contatto. Un'interpretazione strettamente cristiana non basta a spiegare questo simbolismo; anche in questo caso bisogna ricorrere alle leggende orientali e in particolare a quelle nate nel territorio fra il Tigri e l'Eufrate. Secondo le formule misteriose dei narratori e dei maghi si ritiene che la lancia sia come l'asse del mondo, un asse che, con la sua natura verticale, esprime anche il carattere intangibile della giustizia; chi si allontana dunque da questo asse è punito ad opera dell'asse stesso. E' quello che ha fatto il Re, e per questo motivo è stato colpito dalla lancia. Insomma, la ferita reale è un marchio di decadenza. E se il dolore della piaga varia al ritmo delle stagioni, è perché si tratta di una specie di espiazione cosmica: l'inverno si identifica col Male, la primavera e l'estate col Bene. D'altra parte colui che ha ferito il Re è un pagano, Anfortas. E' nato nel paese d'Etfinise, che ‚ quello dove il Tigri esce dal paradiso. Questo pagano era certo che, con il suo solo valore, si sarebbe assicurato la conquista del Graal. Il suo nome era impresso sulla lancia. E, dice Wolfram von Eschenbach, da nient'altro mosso che dalla forza del Graal, attraversava terre e mari. Come una tale leggenda sia stata riferita da Kyot, l'autore provenzale citato da Wolfram von Escheinbach, è un enigma non facilmente risolvibile, perché Kyot abitava in quella Provenza che, forse ancor più delle altre regioni francesi, viveva nella luce delle Crociate, particolarmente della prima, la quale dovette la sua risonanza spirituale alla scoperta della lancia ad opera dei Crociati. Ora, l'unico valore che la santa Lancia, così la si chiamava, poteva avere, per il popolo profondamente cristiano che abitava la Francia medievale, stava nell'aver contribuito alla morte di Cristo. La storia narrata dal poeta tedesco non ha dunque niente a che vedere con le idee allora comunemente accettate in Occidente. Vero è che il Parzival messo in scena da Wolfram von Eschenbach non è un Bretone, e nemmeno un Tedesco. E' figlio di Gahmuret e di Herzeloyde ed è nato a Toledo, uno dei centri più importanti della civiltà araba. Certo il poeta non descrive esattamente la città, ne offre piuttosto un'immagine poetico-mistica, perché la città è piena di luci e gli alberi sono adorni di candele. L'autore tedesco parla anche di Baldac, in cui gli studiosi hanno riconosciuto Bagdad. A colpo sicuro, uno dei personaggi più strani del Parzival è Feirfitz. Feirfitz è un pagano; ma ricco di tante qualità e di animo così nobile che Re Arthur l'ha ammesso a sedere alla Tavola Rotonda, con gli stessi diritti dei cavalieri cristiani. Egli ha libero accesso perfino al castello di Montsalvage, dove si custodisce il Graal. Dopo mille tribolazioni egli sposerà la portatrice del Graal, Repanse de Schoye, insieme con la quale ripartirà per le Indie. E' vero che prima del matrimonio Feirhtz avrà ricevuto il battesimo. Strana avventura! Privilegi singolari concessi a un pagano! Su questo punto Wolfram von Eschenbach propone delle idee rivoluzionarie. Perché il fatto che Feirhtz sia stato ammesso al castello di Montsalvage prima del battesimo, che altro significa se non che l'Islam è un cammino valido quanto il Cristianesimo per giungere alla scoperta del sommo Bene? Tutt'al più il battesimo, condizione indispensabile alla sua unione con la vergine portatrice del Graal, è un modo di imporre, sulle credenze e i riti pagani, almeno la supremazia del rito, se non delle credenze cristiane. Feirhtz d'altronde è il simbolo stesso della natura umana: il poeta tedesco lo descrive col viso metà nero e metà bianco, che è un modo per significare che il Bene e il Male si dividono la nostra anima. Convertito al cristianesimo, sposo di una cristiana, in definitiva Feirhtz è il personaggio più compiuto, ma anche più misterioso, del Parzival. Più che la sintesi, rappresenta la vera e propria fusione fra due fedi e due civiltà: l'occidentale e l'araba. Insomma, per Wolfram von Eschenbach, l'Islam e il Cristianesimo non sono che due aspetti di una medesima opera divina. Nell'epoca in cui il poeta tedesco scrive, una tale concezione stupisce assai poco. Le Crociate e l'occupazione della Spagna hanno originato fruttuosi scambi di pensiero. Si trova perfino una sorta di snobismo arabo in Occidente: si fanno venire le mussole da Mossul, i taffetas dalla Persia, i veli preziosi dall'Egitto, le armi da Damasco. Le chiese sono impreziosite dai tappeti del Caucaso e del Turkestan. Non è forse vero che Riccardo Cuor di Leone ha concepito di dare in moglie la propria sorella a Saladino, il più intrepido avversario delle Crociate? Federico II, imperatore di Germania e il re di Castiglia Alfonso il Saggio, non vivono circondati da maghi e da sapienti arabi? La loro corte, il fasto che accompagna anche la cerimonia meno importante, non ricordano più i palazzi orientali che i rozzi costumi dei castelli in Europa? E nel 1245 chi mai si stupirà di vedere Alberto il Grande, uno dei più grandi filosofi del Medio Evo, insegnare alla Sorbona vestito secondo la moda saracena? Per un istante‚ l'influenza araba nel regno di Francia sarà tale da minacciare perfino i fondamenti del pensiero cristiano. Nel 1252 papa Innocenzo IV vi dovrà inviare in gran fretta San Tommaso d'Aquino, per discutere contro Sigieri di Brabante, un monaco discepolo del massimo pensatore islamico Averroe, il quale aveva conquistato completamente professori e studenti della Sorbona. La civiltà araba non ha conquistato solo la letteratura dell'epoca, ma anche il cuore delle signore. Poiché dai paesi al di là del mare giunge quell'amore cortese che farà sì che lo storico contemporaneo Charles Seignobos dica ai suoi studenti: Signori, l'amore è un'invenzione del XII secolo. Quando si leggono le opere di Chrètien de Troyes o di Robert de Boron vi si trovano molto più resoconti di battaglie e imprese di cavalieri che lamenti amorosi. Con Wolfram von Eschenbach il tono cambia. Lanciato alla conquista del mistico Graal, Parzival non trascura per questo di fare una fiorita corte a colei che diventerà sua moglie: Kundwiramus. Tramite i trovatori provenzali il poeta tedesco viene a conoscenza della civiltà amorosa, che si è insediata nell'Andalusia araba, da Saragozza a Malaga, da Valenza a Lisbona, una civiltà in cui le donne occupano il primo posto. A Cordova la principessa Omayade Ouallada raccoglie intorno a sé un vero e proprio salotto letterario (che prefigura le corti d'amore dell'Occidente cristiano); la figlia e la moglie di Mutamid, emiro di Siviglia, figurano nei primi posti dei grandi poeti del loro tempo. Questi poemi hanno un enorme successo e i signori cristiani se li disputano, così come si disputano coloro che li scrivono o li recitano. Quando don Sancho d'Aragona sposa sua figlia con Raymondo di Catalogna, le nozze hanno luogo nel palazzo del signore arabo che governa Saragozza e sono il pretesto per un vero torneo di poeti e di cantori. Lo stesso succede, con molto più fasto e magnificenza, quando Alfonso VI di Castiglia prende in moglie Mora Zaida, figliastra del sultano di Siviglia. Quali esse siano, da Chrètien de Troyes a Wolfram von Eschenbach, le fonti di ispirazione, celtiche nel primo, arabe nel secondo, ciò che appare, nell'essenza di queste opere, è una ben precisa concezione della cavalleria e della vita mistica. Per il poeta della Champagne e per il suo successore della Franca-Contea, le avventure di Perceval sono senza dubbio delle opere di circostanza. Filippo di Fiandra, protettore di Chrètien de Troyes, era stato incaricato dell'educazione del principe reale Filippo Augusto, di cui era il padrino. Per questo in Perceval si può cogliere qualche rassomiglianza fra il delfino e il cavaliere lanciato alla ricerca del Graal. Entrambi sono giovanissimi, cresciuti in campagna; entrambi hanno un padre infermo (Luigi VII, padre di Filippo Augusto, era gravemente ammalato, tanto che aveva dovuto cedere la guida del regno a Filippo di Fiandra). Perceval si perde spesso nella Foresta Ospitale. Ora, due giorni prima della sua incoronazione, Filippo Augusto si era perso durante una partita a caccia; una notte e un giorno aveva errato nella foresta, prima che un carbonaio lo riconducesse sul giusto cammino. A quell'epoca la cosa fece un gran rumore. Ora, è un carbonaio anche colui che indica a Perceval il cammino per recarsi al castello del Re Pescatore. Il Perceval di Chrètien de Troyes è certamente una specie di trattato di cavalleria, ma soltanto abbozzato. Soltanto nei continuatori del poeta della Champagne, e in particolare in quegli anonimi che hanno narrato le avventure di un altro leggendario eroe celtico, Lancelot l'ideale della cavalleria va poco a poco precisandosi. La Dama del Lago dice a Lancelot: I nobili ottengono privilegi come ricompensa del loro valore. La classe sociale altro non è che la consacrazione del valore morale. Lo scopo ultimo del cavaliere errante, dedito a mille avventure, è di elevarsi al di sopra della media degli uomini. Questo concetto corrisponde a una precisa situazione storica: senza fortuna, il figlio cadetto delle famiglie nobili lottava nei tornei con la speranza di sfruttare i vinti, oppure offre i suoi servigi ai nobili possidenti o parte per le Crociate; talora arriva a saccheggiare. Certo, Lancelot è un modello di virtù, si precipita a soccorrere le fanciulle tenute prigioniere, elimina incanti malefici che opprimono alcune contrade, vince giganti spaventosi. Si vota anche al servizio di una donna, perché è diventato l'amante di Ginevra, la moglie di Re Arthur (il quale, a sua volta, concede i suoi favori all'incantatrice Camilla).
I cavalieri del Graal
L'immagine del cavaliere, come emerge da questi racconti, è un'immagine rude che rispecchia le condizioni della nobiltà all'inizio del XII secolo. Ma ecco che compare un nuovo tipo di eroe che continuerà tutto questo: si chiama Galaad, ed è proprio il figlio di Lancelot. Alle imprese guerriere ed amorose egli contrapporrà carità, pazienza e castità. E con la pratica di queste virtù riuscirà a raggiungere la felicità somma: l'iniziazione al Graal. La ricerca mistica sostituisce combattimenti e avventure amorose. A giudizio degli studiosi, una parte dei romanzi della Tavola Rotonda, posteriori a Chrètien de Troyes e a Robert de Boron, sono stati scritti da religiosi che volevano reagire alla licenziosità che contraddistingue la loro epoca. Romanzi di cavalleria, certo, perché si adeguano al gusto dell'epoca; ma oltre a divertire, occorre anche insegnare. Per questo, ad ogni svolta delle avventure di Galaad si incontra un pio eremita che conduce una lotta senza quartiere contro la lussuria ed esalta il valore della castità. Sotto queste posizioni è facile indovinare la severa autorità di San Bernardo, fondatore dell'ordine di Gateaux. Alla fine del XII secolo l'ordine conterà 1800 abbazie ed estenderà il suo dominio spirituale su tre degli ordini maggiori della cavalleria: i Templari, i Calatrava e gli Alcantara. San Bernardo ha raggiunto il suo scopo; scrivendo di Lancelot i monaci rispediscono nelle tenebre eterne un cavaliere troppo avido di piaceri terreni, mentre a Galaad concedono la suprema ricompensa, il possesso del Graal, cioè la felicità di Dio. E' una seconda nascita della leggenda del Graal o il suo crepuscolo? La morte di Re Arthur, indicata intorno al 1225, determina comunque la fine del ciclo del Graal. Si tratta dell'ultimo episodio delle avventure dei cavalieri della Tavola Rotonda. Re Arthur assiste a una vera e propria tragedia, che il mago Merlino gli aveva predetto: i suoi compagni sono morti; sua moglie l'ha tradito con il suo miglior amico, Lancelot; i suoi sudditi si ribellano; suo figlio infine lo ferisce a morte. Arthur paga assai cara la sua ascesa spirituale. Certo, compare anche un personaggio pagano: la Fortuna crudele, che è quella che abbatte Arthur. Ma in realtà, gli autori discepoli di san Benedetto si preoccupano poco di questa intrusione, e così come hanno inserito le leggende celtiche in una cornice cristiana egualmente assimilano la Fortuna alla volontà di Dio. Poco importa in effetti quale sia lo strumento di cui Dio si serve per castigare i peccatori e per ricompensare i giusti; quello che conta è la vittoria definitiva dell'Onnipotente. Iniziata nelle profondità fantasiose dell'anima celtica, la leggenda del Graal si compie, in Occidente, con il trionfo dell'ideale cristiano. Tuttavia questo trionfo spirituale non è senza contropartita, perché l'ordine cavalleresco trionfante, quello in cui San Bernardo vede l'archetipo della società cristiana, non è impermeabile alle leggende pagane che circondano la storia del Graal. Quest'ordine è quello dei Templari. Non è per un semplice gioco poetico che Wolfram von Eschenbach identifica, nel Parzival, l'ordine del Tempio con quello del Graal. L'eremita Trevrizent in effetti spiega all'eroe del poema: A Montsalvage, dove si custodisce il Graal, hanno la loro abitazione dei cavalieri valorosi. Sono i Templari, essi cavalcano spesso lontano, in cerca di avventure; vivono di una Pietra, la cui essenza è la purezza assoluta; la si chiama lapsit exillis... presso i cavalieri del Tempio è possibile vedere più di un cuore afflitto: coloro che Titurel (un cavaliere) aveva più d'una volta salvato da terribili prove, quando il suo braccio difendeva cavallerescamente il Graal con loro. Qual è la funzione che il poeta tedesco assegna ai Templari? Mantenere e custodire il Graal sulla terra, e rendere possibile l'effettivo regno di Dio sulla terra dandogli dei sovrani eletti da lui. E' questa la descrizione di una società teocratica retta da un gruppo scelto di iniziati (nel senso mistico del termine) investiti sia del potere spirituale che di quello temporale. Ma tale funzione era stata l'ideale dei signori del Sacro Romano Impero germanico; i Templari non fanno che riprenderne l'eredità. San Bernardo in persona definisce la loro duplice missione: l'ordine è la milizia di Dio, e suoi membri sono i ministri di Cristo. Tuttavia, per il fondatore dell'ordine di Cìteaux, la città dei Templari non è di questo mondo, è la Gerusalemme celeste: Essi abitano davvero il tempio di Gerusalemme, e Benché esso non sia, come edificio, lo stesso antichissimo e veneratissimo Tempio di Salomone, il loro non è certo di gloria inferiore... La bellezza del primo era data da elementi corruttibili; quella dei secondi è la bellezza della Grazia e del culto pio di coloro che la abitano. Non corrisponde forse questa descrizione a quella del castello del Graal, come l'hanno visto non solo i chierici che hanno scritto il Lancelot, ma anche Wolfram von Eschenbach? Vero è che l'ordine dei Templari è anzitutto un ordine simbolico. I suoi membri portano un mantello bianco: E' per distinguersi dalla massa della gente perduta; e papa Innocenzo III afferma che coloro che hanno abbandonato la vita tenebrosa per l'esempio dei bianchi abiti riconoscono di essersi riconciliati con il loro creatore. I santuari costruiti dai Templari presentano tutti la stessa struttura: una piazza centrale di forma rotonda da cui si dipartono delle absidi a raggiera. Questa è la disposizione che si attribuisce al santo sepolcro, ma corrisponde anche alla descrizione del centro del mondo che si trova nelle teologie orientali. Il Gran Maestro dell'ordine è eletto da dodici membri, a immagine della comunità degli apostoli, ed è assistito da due fratelli cavalieri. Si raffigura così il principio della Santa Trinità. Quanto allo stemma dell'ordine esso comprende due cavalieri sulla stessa cavalcatura. In ogni tempo il cavallo è stato considerato il veicolo simbolico dei viaggi fra i mondi, e fu una giumenta, El Boracq, che trasportò Maometto nei suoi viaggio, e su di essa aveva preso posto anche l'angelo Gabriele, compagno di strada del profeta. In Europa l'ordine è onnipotente. Come sovrano si considera superiore ai principi; eletto dai cavalieri, il Gran Maestro non dipende che da Roma, e d'altra parte in modo abbastanza vago. I confessori dell'ordine anch'essi dipendono solo dal papa e sono esonerati da qualunque obbligo di fedeltà nei confronti dei vescovi. Che nessuno, ordina papa Innocenzo III, chierico o laico, osi esigere dal Maestro o dai fratelli della fede omaggi, giuramenti e altre garanzie in uso in questo secolo. Simili privilegi comportano un potere fantastico. I Templari intervengono nella lotta per il trono d'Inghilterra nel 1153, a proposito del conflitto fra Enrico II Plantageneta e l'arcivescovo di Canterbury Thomas Beckett; si rifiutano di sostenere Amaury di Gerusalemme contro il sultano d'Egitto; sono ambasciatori di Innocenzo III presso i signori arabi. L'attività del Tempio in Terra santa è d'altra parte all'origine di tutta la sua potenza. E proprio qui nacquero i rapporti ambigui fra il Tempio e l'Islam. Il ruolo dei Templari nello stabilire stretti rapporti di cordialità con il mondo arabo è stato essenziale. L'emiro Usama, ambasciatore del visir di Damasco, così descrive il calore di questi rapporti: "Quando visitai Gerusalemme entrai nella moschea Al-Aqsa occupata dai miei amici Templari. Di fianco a questa c'era una piccola moschea che i Franchi avevano trasformato in una chiesa. I Templari mi assegnarono questa moschea per recitarvi le mie preghiere. Un giorno, mentre ero immerso nella preghiera, un Franco balzò su di me, mi afferrò e mi girò il viso verso l'oriente dicendo: Ecco come si prega! Un gruppo di Templari si precipitò su di lui e, fattolo prigioniero, lo cacciò. Poi mi dissero: E' uno straniero appena arrivato nel paese dei Franchi; non ha mai visto pregare nessuno che non fosse voltato verso l'oriente." In Terra Santa i Gran Maestri dell'ordine vivono come principi; la maggior parte di essi impara a parlare arabo e accoglie regolarmente gli emiri alla propria tavola. Tali rapporti avranno strane conseguenze: quando gli Arabi cominceranno ad essere perseguitati, numerosi Templari penseranno di passare ai Saraceni. E viceversa alcuni mussulmani sono stati armati cavalieri del Tempio. Così fu del celebre sultano Saladino, posto solennemente sul trono nel 1187 da Ugo di Tabaria, mentre suo fratello Melik lo fu per opera di Riccardo Cuor di Leone in persona. D'altra parte Melik aveva mandato a Riccardo due cavalli, quando questi aveva avuto il suo ucciso durante un combattimento contro gli Arabi. I rapporti tra i Templari e i pagani sono di ordine spirituale, oltre che politico. Il Tempio mantiene in tal modo rapporti assai stretti con alcune sette mussulmane, in particolare con la setta degli Assassini (dall'arabo hassas, che significa guardiano). Come il Tempio, quest'ordine ha il titolo di custode della Terra Santa, i suoi membri vestono come i Templari, col mantello bianco e rosso. I rapporti instaurati sono tanto cordiali che i Templari permettono agli Assassini di costruire delle fortezze nel Libano. D'altra parte la dottrina esoterica dell'ordine arabo doveva ripercuotersi profondamente sul Tempio. Da molto tempo, in effetti, anche gli Arabi avevano la loro ricerca del Graal. Nella filosofia del Medio Oriente si parlava di ricerca dell’Imam, o saggezza suprema, che si ottiene con un sforzo di riflessione personale ma grazie all'aiuto di Dio. Inoltre le preghiere islamiche più antiche confondono la ricerca dell'Imam con la ricerca della pietra celeste di cui, più tardi, parlerà il provenzale Kyot. Si capisce di qui come il tedesco Wolfram von Eschenbach abbia potuto senza difficoltà raffigurare il Graal come una pietra, poiché oltre al testo di Kyot il poeta tedesco possedeva un'altra fonte: i Templari. E' probabile che, stabilendosi in Terra Santa, costoro non siano stati colpiti in un primo momento dall'ampiezza e dalla profondità della teologia araba, ma siano stati invece completamente sedotti da un'altra scoperta: nel Medio Oriente esistevano ordini cavallereschi molto prima che la cavalleria nascesse in Europa. Questi ordini non si fondavano sul valore militare, ma sull'abnegazione e sull'umiltà. D'altra parte i cavalieri arabi non erano solamente investiti da principi temporali ma da autorità spirituali. La cerimonia di investitura infatti è praticamente identica a quella che più tardi sarà descritta nei romanzi cavallereschi europei e ancora più simile a quella in uso presso i Templari: colui che dà l'investitura porta un mantello speciale (il che vale anche per il maestro dell'ordine) e, dopo la cerimonia, si beve in una coppa di cavalleria. Come meravigliarsi dunque che questi riti arabi abbiano più o meno conquistato non solo i semplici cavalieri che partecipavano alle Crociate, ma gli stessi Templari? L'ordine del Tempio è stato fondato alla fine del secolo XI. Ora, questo periodo è caratterizzato da una specie di apogeo dei rapporti fra Crociati e Arabi; lo sottolineano i rapporti cordiali che, dopo feroci combattimenti, si intratterranno fra Riccardo Cuor di Leone e Saladino. Insomma, due universi apparentemente impermeabili, come l'Islam e la Cristianità, erano di fatto perfettamente permeabili l'uno all'altro. Di epoca in epoca, si è posto un enigma, rimasto quasi insoluto fino ai nostri giorni: il segreto dei Templari. Taluni hanno voluto vedere in questo segreto semplicemente un tesoro favoloso nascosto in un luogo sconosciuto, ma sembra che in realtà gli si debba attribuire una natura strettamente spirituale. In alcuni testi medievali, del resto molto oscuri, si parla di un amico di Dio, che parlava a Dio quando voleva, e che era il protettore dell'ordine. Si tratta insomma di un'autorità superiore a quella del maestro del Tempio in persona. Ora, anche parecchi testi arabi accennano ad una potenza chiamata Re del Mondo. Sembra che il segreto dei Templari sia tutto qui: in questa specie di contaminazione che si è operata fra le due dottrine, cristiana e islamica, all'ombra delle Crociate. E questa contaminazione non ha nulla di stupefacente. All'epoca delle Crociate la dottrina cristiana è ancora lungi dall'essere definita nei minimi dettagli. Ne sono fissate solo le linee principali, che costituiscono una specie di struttura all'interno della quale possono farsi strada mille interpretazioni. Esiste in particolare un concetto su cui Cristiani e Arabi potevano facilmente accordarsi: si tratta della Terra Santa. Che le Crociate si siano svolte per motivi che non riguardavano tutti e soltanto l'ossessione di riconquistare la tomba di Cristo è ormai certo. Ma riassumerli nell'espressione: sete di conquiste e di guerre, più o meno mascherati sotto il pretesto di restituire alla cristianità la Tomba di Gesù crocifisso, vorrebbe dire snaturare alquanto i moventi che hanno spinto degli uomini ad abbandonare tutto per recarsi in Palestina. Infatti, questa tomba era un'immagine mitica, tanto quanto una concreta realtà. Il Sepolcro significava anche, e forse soprattutto, la città spirituale; raggiungerlo, con il coraggio mostrato nei combattimenti (ne è un esempio Goffredo di Buglione) o con un desiderio di santità (come San Luigi), vuol dire guadagnarsi la sicurezza del paradiso, scoprire finalmente il Graal. E in questa aspirazione non esistono differenze fondamentali tra il Cristianesimo e l'Islamismo. La filosofia araba e la religione islamica parlano a più riprese della Terra celeste, ossia della città spirituale. Inoltre questa specie di fusione dell'Islamismo e del cristianesimo in una fede comune riferita a una città spirituale che si riconosce centro del mondo trova il suo coronamento nella comune fede in Abramo che raccoglie in sé il fondamento delle tre grandi religioni monoteiste: cristianesimo, islamismo ed ebraismo. I Templari pagheranno cara la loro amicizia con quelli che allora si chiamavano i pagani. Filippo il Bello li manderà al rogo per la continua provocazione che apertamente lanciavano contro il potere del sovrano (il quale voleva in particolare impedire loro di battere moneta, per essere l'unico padrone delle finanze) ma anche accusandoli di eresia. Dal processo dei Templari infatti ha inizio la fondamentale preclusione della Chiesa cristiana nei confronti dell'islamismo. Questa collusione intellettuale e spirituale dei Templari con l'Islam troverà in un certo senso il suo compimento con la strana storia del Prete Giovanni. Nel Titurel (dal nome del primo Re del Graal, nelle leggende celtiche) che è una specie di continuazione di Parsifal, Wolfram von Eschenbach fa sì che finalmente il Graal si fermi nel regno del Prete Giovanni. La leggenda colloca questo regno nelle Indie, e colui che lo guida, il Prete Giovanni, è uno di quei personaggi che hanno appassionato la cristianità per quasi trecento anni. Al termine dell'antichità, il cristianesimo ha posto in Asia delle radici abbastanza profonde ma, di fronte ad un'offensiva massiccia delle religioni autoctone, è costretto a retrocedere notevolmente, anche se conserva importanti piazzeforti in Persia, in Armenia e in Asia Minore. Nel VII secolo un cristiano della Siria, discepolo di Nestor, chiamato dall'imperatore Tai-Tsung, si era stabilito in Cina, e qui, per duecento anni, la dottrina nestoriana si sarebbe sviluppata in tutta libertà. Tanto che solo dopo molte tribolazioni Pechino avrà un arcivescovo cristiano: Giovanni di Montecorvino. Nel 1146 i Kara-Kitai, una popolazione turca dell'Asia, guidata da un capo cristiano, Yi-Lu-Ta-Chi, sconfigge i mussulmani sotto le mura di Samarcanda. Questa notizia apre le più grandi speranze ai Crociati della Terra Santa, i quali considerano la battaglia di Samarcanda un segno di Dio e ritengono molto vicino il tempo in cui l'intero universo confesserà la sua fede cristiana. La personalità di Yi-Lu-Ta-Chi, unita alle voci che circolavano sulla presenza a Pechino dell'arcivescovo Giovanni di Montecorvino, fecero nascere la leggenda del Prete Giovanni, signore di un regno favoloso situato non si sa dove fra la Cina e l'India. Nel 1165 Manuel I, imperatore di Bisanzio, riceve una lettera del Prete Giovanni, il quale così descrive il suo regno: E' il paese degli elefanti, dei dromedari dei cammelli, del leoni bianchi e rossi, dei vampiri, degli uomini con le corna e con un occhio solo, dei cicIopi e delle donne-ciclopi, e dell'uccello. Ogni giorno mangiano alla nostra tavola trecento persone, questa tavola è di prezioso smeraldo e la sostengono quattro colonne di ametista. Cento anni più tardi il Prete Giovanni ricompare ma questa volta corre voce che il suo regno sia in Abissinia, che a quei tempi è chiamata India africana. In realtà, derivata forse da fatti storici, qual è il significato della leggenda del Prete Giovanni? Semplicemente la convinzione che esista una specie di paradiso favoloso sul piano terrestre (presenza dei mostri). D'altronde, ponendo il regno di Re Giovanni in Africa esprimono a modo loro le compenetrazioni che ci sono riportate fra i pensieri dell'Oriente e del mondo arabo. Facendo del Re Giovanni un nipote di Parzival, attribuendo il regno favoloso come ultimo asilo del Graal, facendo scortare dai Templari la pietra sacra durante il viaggio, Wolfram von Eschenbach ha realizzato una straordinaria sintesi fra le aspirazioni dell'Islam e quelle della cristianità. In quel lontano paese, inaccessibile al piede umano sorge un castello che ha nome Montsalvatore come è espresso in versi da Richard Wagner, nel Lohengrin, Montsalvat con il rifugio del Graal. E il lontano paese qual è? L'autore della Tetralogia che, a dire il vero, non si picca di esattezza storica, precisa semplicemente (per chi metterà in scena il Parsifal) che si tratta di una contrada montuosa al Nord della Spagna gotica. E' bastato questo perché l'immaginazione si scatenasse.
Il castello del Graal
Non è forse un riaccendere e ravvivare la leggenda il tentare di scoprire in quale luogo al mondo è potuto esistere il favoloso castello descritto nei poemi di Chrètien de Troyes, di Robert de Boron, o di Wolfram von Eschenbach? Da parte sua Wagner non ha fatto altro che seguire l'ammirazione che la sua epoca aveva per tutto ciò che era spagnolo. Il viaggiatore, infiammato dalla leggenda del Graal e affascinato dagli incanti wagneriani, come avrebbe potuto non identificare Montsalvat con Montserrat, la fortezza divenuta abbazia che domina la Catalogna dall'alto del picco di 1241 metri su cui è costruita? Tale è il successo della tesi di Richard Wagner, che la prima guida Baedeker sulla Spagna fa propria. Questa tesi aveva ricevuto una notevole garanzia da Goethe il quale, nel 1784, aveva abbozzato a grandi linee un romanzo rimasto incompiuto: I Segreti. Goethe non aveva mai visitato Montserrat, ma grazie a racconti degli amici viaggiatori, e soprattutto al proprio genio, l'autore dei Segreti aveva battezzato la fortezza spagnola un ideale Montsalvat. Ideale Montsalvat... Goethe non fornisce la chiave dell'enigma, ma le sue ragioni. Chrètien de Troyes descrive il castello del Graal in modo molto approssimativo: è semplicemente una bella fortezza, con una torre quadrata, in una valle ridente. Nel Parzival di Wolfram von Eschenbach il termine Montsalvage sembra derivato direttamente dall'espressione latina mons selvaticus, la montagna coperta di boschi. Ora, in Germania esiste il castello di Wildenberg, dove il poeta ha vissuto a lungo, che corrisponde abbastanza bene al Montsalvage idealizzato: dal di fuori è una fortezza massiccia e severa, ma l'interno ha l'opulenza di un'abitazione saracena. La parte principale è una sala da pranzo che contiene comodamente quattrocento convitati. In altre opere, dovute a poeti più o meno sconosciuti, il castello del Graal è una copia fedele della chiesa del Santo Sepolcro a Gerusalemme, costruita dagli uomini durante il giorno e dagli angeli durante la notte. Il soffitto della stanza centrale è uno zaffiro solo le finestre sono costituite da un'unica pietra rara di natura sconosciuta ai mortali, tutte le pareti sono rivestite d'oro. Fra tutti i luoghi dove avrebbe potuto erigersi la mole del castello, quello che solleva le controversie più appassionate è Montsegur, perché per suo tramite si giunge all'eresia catara. E si pone l'interrogativo: i Catari hanno creduto al Graal? Hanno pensato che il possedere la fonte della verità li rendesse autenticamente cristiani, ed è forse questa certezza che spiega lo sconvolgente coraggio con cui hanno affrontato il rogo? Cinquant'anni fa, in una grotta di Vicedessos (Ariège) è venuta alla luce una pittura rupestre del XIII secolo. Questo dipinto raffigura una spada, una lancia da cui cadono gocce di sangue e delle stelle. Ora, nel Parzifal di Wolfram von Eschenbach si parla continuamente di stelle, di lancia e di spada, ingredienti indispensabili della leggenda del Graal. Ariège si trova in pieno territorio cataro.
L'eresia catara
Le concezioni dei catari sono più che una semplice deviazione dal cristianesimo; in realtà rappresentano una sintesi di dottrine e di concezioni molto varie. Sembra che la più evidente fra queste dottrine sia il buddismo, che ha incontestabilmente avuto un'influenza in Europa, fino nel sud della Francia. Non è in questa regione che si è scoperta una testa di Buddha, anteriore alla nostra éra? I sacerdoti catari, al loro apparire, indosseranno degli abiti molto simili a quelli dei bonzi. Quanto al loro insegnamento dottrinale, in più d'un tratto assomiglia alla lezione di Buddha: pessimismo nei confronti del mondo terrestre, ascetismo come strumento per vincere gli appetiti umani, sorgenti del Male; evasione dell'anima verso il regno dello Spirito. I catari pensano di attingere l'essenza del loro insegnamento alle fonti stesse della Bibbia. A loro avviso il mondo, in quanto malvagio, non può essere stato creato da Dio. Dio ha creato semplicemente i principi del mondo, degli esseri e delle cose; è stato Lucifero, un angelo ribelle, a modellare la terra degli uomini, così come i nostri corpi. Per questo l'uomo è un abisso di contraddizioni: fra il suo desiderio di essere una creatura di Dio e l'essere continuamente tormentato da Lucifero che gli infligge mille tentazioni e lo attira verso il peccato. Solo contemplando il cielo questi astronomi appassionati che sono i catari scoprono la Patria delle anime finalmente libere. Nella distinzione posta dai catari fra i Puri e il resto dell'umanità si ritrova il modo di classificare i mortali di cui si servivano i poeti che hanno evocato la ricerca del Graal: chi rispetta alcune regole semplici senza pretendere di giungere alle supreme conquiste dello Spirito; chi pratica l'austerità, ma non per questo appartiene al regno degli Eletti. I Perfetti, i quali con una vita di privazioni e di meditazione diventano i veri compagni di Dio, essi soltanto hanno il diritto di rimettere i peccati ai loro simili che si confessano dei propri errori. I Perfetti sono così sicuri della loro fede, così certi di essere destinati all'eterna felicità, che hanno il diritto di suicidarsi. Prove lunghe e difficili per camminare sulla strada che conduce verso Dio, rifiuto di tutti i beni terrestri, ivi compreso l'amore e il matrimonio; che cos'è questo se non la ricerca del Graal, ma tradotta nei termini di un cristianesimo giunto a una suprema esaltazione e a una rinuncia totale? Giacché come nel Parzifal, la redenzione dell'uomo si ottiene solo nel dolore che purifica; solo la perfezione permette di entrare nel regno dei cieli. I disegni che adornano le grotte del Sabarthez rivelano i legami esistenti fra la religione catara e i poemi del Graal. Vi si trovano: il pescatore, che è certo il simbolo della parola di Cristo: Io farò di voi dei pescatori di uomini, ma che nel Graal diventa il Re-Pescatore, colui che scopre Perceval, il cavaliere che deve partire alla ricerca del Vaso sacro o della pietra dagli innumerevoli poteri; il ponte, che nessuno può attraversare se non è invitato a farlo. Infatti il ponte levatoio che conduce al castello si alza bruscamente davanti a Perceval, quando costui si accinge a passarlo senza esservi invitato; il castello, posto su una montagna, circondato da foreste fittissime che inghiottono il viaggiatore privo di saggezza. Il castello, come nell'avventura di Perceval, è il simbolo della più elevata dimora dello Spirito; lo scrigno sull'altare, che deve suggerire l'idea di un oggetto sacro rinchiuso in un involucro materiale. Come non pensare al Graal, vaso o pietra che sia, il quale esprime anch'esso la presenza dello Spirito fra gli uomini? Presso i catari esiste tutto un simbolismo delle pietre (come nel Parzifal di Wolfram von Eschenbach): la Gerusalemme celeste non è costruita con materiali tangibili, ma ha lo splendore di una pietra preziosa, di una pietra di diaspro cristallino; la città in cui Dio regna sembra un limpido cristallo. I Perfetti proclamano che la supremazia dello Spirito è rappresentata da una pietra caduta dal cielo, che illumina il mondo e lo consola (è pressappoco la tesi di Wolfram von Eschenbach). Non mancherà nemmeno, nella cosmogonia catara, il classico uccello che, come nei poemi del Graal, simboleggia il legame fuggitivo che unisce il mondo visibile con il mondo invisibile. Per i catari quest'uccello è la colomba. Essa, dopo che gli Albigesi saranno stati sterminati dall'esercito regio appoggiato dall'onnipotente autorità del papa, lascerà questa terra e, simbolo dello Spirito, salirà nuovamente al cielo, abbandonando un universo corruttibile, consacrato alla sventura e alla sofferenza. I catari sono morti, persuasi di aver scoperto la Verità e la Vita, convinti di essere stati i veri, gli unici cavalieri ad aver scoperto il Graal. Così il Graal e la sua ricerca hanno illuminato gli spiriti dalle leggende più misteriose alla severa religione dei catari. Perché questa invincibile attrazione? Non solo perché il Graal realizza la più straordinaria sintesi dei miti che occupano il sottofondo dell'anima umana, ma anche perché si trova nel punto di confluenza di quelle correnti magiche che in una parola si possono definire esoteriche.
Il misticismo del Graal
Il romanzo del Graal, dalle premesse, che consistono nella leggenda di Re Arthur, fino alla forma più compiuta, rappresentata dal Parzifal di Wolfram von Eschenbach, costituisce di fatto una specie di memoria collettiva dell'umanità. Vi si ritrova tutto: dall'avvenimento storico, come le sventure dei Bretoni, fino alla fantastica cavalcata degli Arabi in Occidente. Ma, al di là dei fatti storici, abbelliti o più o meno taciuti quando evocano le disgrazie di un popolo, appare evidente il bisogno fondamentale dell'uomo di conferire una coerenza profonda agli avvenimenti di cui è l'attore, il testimone o la vittima. Questo desiderio di conoscere il perché e il come delle cose ha originato quelle molteplici associazioni, sette o ordini che, lungo tutto il corso della storia, hanno preteso di apparire come gruppi privilegiati, dotati di un potere magico, ed essi soli in grado di accedere alla Verità. Questi privilegiati sono gli iniziati. Che cosa cercano gli iniziati? Qualunque sia il paese cui appartengono il loro scopo è identico: penetrare nel mistero della conoscenza di Dio, partecipare della natura divina. Due vie conducono a questo fine: il misticismo (come lo intenderanno ad esempio San Giovanni della Croce e Santa Teresa d'Avila), che è un immenso sforzo di conoscenza diretta di Dio, oppure l'uso di uno strumento nel cammino che conduce alla scoperta della Verità Assoluta. Il Graal è precisamente uno di questi strumenti. In definitiva il Graal pone proprio il problema della conoscenza, ed è questo il motivo per cui poeti e filosofi ne hanno fatto un oggetto sacro. Sembra che questa consacrazione sia antica come il mondo. La si ritrova alle origini stesse dell'umanità. E' così che le popolazioni che adoravano il fuoco avevano stabilito un intimo rapporto, quasi religioso, fra il recipiente che contiene i cibi, il fuoco che permette di cuocerli, il grasso che si getta sulla fiamma per ravvivarla o, più esattamente, per farla rinascere. Così è nato, in questo campo particolare, il concetto di sacro. Il fuoco diventa il simbolo. principale: dapprima si tratta del fuoco materiale, indispensabile alla vita quotidiana poi per estensione, della fiamma interiore che è il simbolo della vita dello Spirito alla ricerca della Verità. Egualmente a poco a poco il recipiente che contiene i cibi non è più considerato semplicemente un oggetto, ma esso partecipa delle virtù di ciò che contiene, cioè di tutto ciò che è necessario alla vita umana. Il cristianesimo assimila e trasforma questi sensi fondamentali alla luce di una dottrina che, potente e splendida qual è, ha facilmente la meglio su alcuni miti mal legati l'uno all'altro. Il Graal diventa il piatto di cui Cristo si serve la sera del Giovedì Santo, o ancora il vaso dove è raccolto il sangue del Crocifisso del Golgota. In entrambi i casi il contenente partecipa del carattere sacro del contenuto. Il dogma della Transustanziazione infatti, fissato nel 1215 dal Concilio Laterano, al di là della sua natura religiosa, esprime il desiderio di fornire un'immagine semplice e precisa del mistero. Si tratta di esprimere sul piano sentimentale l'ascesa dell'uomo verso Dio (ascesa che gli é permessa dall'Eucaristia) e di suggerire il grandissimo potere di Dio, che può incarnarsi sotto la specie del pane e del vino. E' una vera e propria iniziazione al mistero fondamentale del cristianesimo, non più riservata a qualche privilegiato come in alcune sette, ma offerta a tutti, per poco che siano mondi dai loro peccati. Nella prospettiva cristiana l'ostia, in definitiva, è il Graal, perché rappresenta il corpo insanguinato di Cristo morto sulla croce per riscattare gli uomini, perché è il nutrimento che dà la vita eterna, è il segno tangibile dell'amore divino, è l'incarnazione della spirito, è, finalmente, l'incarnazione della storia del mondo, una storia contenuta tutta intera nei limiti rappresentati dall'Incarnazione, dalla Redenzione e dalla Comunione. Infine, la cristianizzazione del mito del Graal fornisce un'altra risposta all'interrogativo dell'uomo: come salvarsi? I primi racconti del Graal, provenienti dai Celti, non risolvono affatto questo problema; tutt'al più indicano, e in modo confuso, quali sono le chiavi per sfuggire alle miserie della condizione carnale. E anche in questo caso le chiavi appartengono solo a qualche iniziato. Inoltre sia la sottomissione della carne all'anima che la devozione alla Donna rappresentano degli strumenti, non dei fini. Il cristianesimo offre per la prima volta un'altra chiave, l'unica valida d'altra parte: è la sottomissione dell'anima allo Spirito divino. Perché questo Graal, che ne è un effetto, permette all'uomo, che dopo la caduta è dilaniato tra le aspirazioni spirituali e gli appetiti materiali, di ritrovare se stesso tutto intero nella luce divina. Per coronare questa costruzione, il Graal si identifica con la Grazia, che permette di salvare anche chi non lo merita. Che cos'è l'ingenuità di Perceval di cui parla Chrètien de Troyes, se non il terreno sul quale potrà agire la Provvidenza? Perché anche l'ignoranza deriva da Dio, ma l'Onnipotente fa scorrere la sua infinita bontà su coloro che vagano nelle tenebre dell'errore e del disconoscimento. L'amore discende da Dio e a Lui risale. In questo modo il ciclo si chiude, con l'avvento del cristianesimo, una dottrina solidamente costruita ha preso il posto, nella ricerca dell'Assoluto, dei desideri e dei sogni del Graal pagano. Questo trionfo del cristianesimo tuttavia non resiste in modo irrevocabile all'usura del tempo, né agli assalti delle nuove idee. Il primo attacco si verifica fra il XIV e il XVII secolo, ossia nel periodo in cui, con l'alchimia, la scienza moderna muove i primi passi. Non si tratta più di cavalieri che percorrono le foreste popolate da mostri, raggiungendo i castelli non si sa dove. Ai cavalieri si sostituiscono medici e maghi. Il castello del Graal è diventato un laboratorio. Ma ciò che si cerca non cambia: si tratta di trovare il modo per giungere alla saggezza suprema. Questo modo ormai si chiama pietra filosofale o elisir. Esso non deve nulla a Dio, tutto alla scienza degli uomini. Gli alchimisti si spingono anche più lontano: riabilitano Lucifero quest'angelo decaduto che, secondo l'esempio del vecchio Faust, essi invocano più volentieri del nome di Dio. La provetta, luogo dove i metalli si trasformano magicamente, ha preso il posto dell'antico vaso sacro contenente il sangue di Cristo. Perceval vagava per degli anni alla ricerca della verità. Gli alchimisti affermano che per scoprire la pietra filosofale occorrono tre, cinque o sette anni. E uno di questi ricercatori dice: Chi è in grado di sublimare filosoficamente la pietra, a giusto, titolo si merita il nome di filosofo, perché conosce il fuoco dei saggi che è l'unico strumento che possa operare questa sublimazione. Insomma l'avventura spirituale della cavalleria cristiana si è laicizzata.
Il Graal degli alchimisti
Il nuovo Graal, quello degli alchimisti, si chiama Aludel, ed è posto su un fornello di nome Athanor. L'Aludel è detto anche l'occhio filosofico e deve essere fatto, affermano coloro che lo usano, di un buon vetro di Lorena, lavorato in ovale o in tondo, chiaro e spesso. Bisogna che sia ermeticamente chiuso. Attraverso la complicata combinazione di nuove sostanze si tenta di ottenere l'oro, simbolo di un potere che non ha nulla a che fare con quello annunciato dai monaci medievali. Su queste operazioni strettamente materiali, sui minuziosi dosaggi di elementi diversi si innesta tutta una filosofia, si sarebbe tentati di dire una filosofia dell'orgoglio umano. Nell'Aludel si svolge l'azione dell'alchimia, la separazione cioè della materia grezza dal principio attivo che è il simbolo dello spirito. Si tratta poi di fonderli di nuovo con il procedimento che ha il nome di nozze chimiche. Da questa fusione nasce il mercurio, considerato un materiale ermafrodita perché è completo, autosufficiente. Quale ebbrezza manipolare un simile materiale solido e liquido nello stesso tempo! E gli alchimisti, identificando gli esperimenti che svolgono nei loro laboratori con una vera e propria messa, si avviano sulla strada del sacrilegio. Non è più Dio il signore dell'universo, né Cristo che si incarica della salvezza degli uomini, bensì coloro che padroneggiano la materia, la scindono e ottengono nuovi corpi: lo spirito dell'uomo può tutto. Le mille avventure, belliche o amorose, di Perceval e Lancelot, sono ormai morte. Lo spirito umano, in primo piano, è invitato a un'avventura affascinante: cogliere le forze misteriose celate nella materia e metterle al servizio del potere dell'individuo umano. Ma come tracciare un limite tra la tecnica e la magia, dal momento che queste forze misteriose altro non sono se non una manifestazione, al livello più basso, dello Spirito che compenetra tutto l'universo? E come farebbe lo spirito umano a non sognare formule misteriose, note ai soli iniziati, che gli permettano, partendo da certi elementi, di combinare la materia secondo la sua volontà fino a creare quei nuovi corpi che garantiranno all'uomo un infinito dominio? Non è più il Verbo di Dio a creare le cose, poiché le parole zampillano da sole dalla bocca dei mortali. Questa presenza universale dello Spirito sbocca naturalmente in una specie di panteismo di cui, nel Rinascimento, Rabelais sarà il cantore geniale. L'autore del Gargantua ha scritto in realtà una specie di Graal, la cui ricerca è un misto di serio e di buffo. Rabelais evoca il Pantagruelione, una strana sostanza che ha la capacità di guarire i mali dello spirito così come le infermità fisiche. E' il simbolo del nutrimento universale, quello stesso contenuto nel vaso sacro dei cavalieri. Che cos'è la Divina Bottiglia se non il Graal di Rabelais, poiché da essa si può bere il vino della verità? Illuminati dalla nobile lanterna, Pantagruel e i suoi compagni giungono all'isola tanto desiderata, un'isola che ricorda moltissimo quella di cui si tratta nei racconti del Graal, quando parlano della dimora perfetta circondata dalle correnti dell'oceano. Qui Pantagruel e i suoi amici scoprono l'Abbondanza, che assomiglia ai paesi della gioventù delle leggende celtiche. Un tempio sotterraneo riporta sul frontone questa formula: Nel vino la verità. E non è sacrilego vedervi un richiamo, forse un po' irrispettoso, alla parola di Cristo: Questo è il mio sangue. Io sono la Verità e la Vita. In questo tempio si trova anche la Lampada Meravigliosa: Su di esso era poggiato un vaso di cristallo; aveva la forma di un cocomero o di un vaso da notte, da cui usciva una gran quantità di liquido infuocato. Come non si può fissare il sole, così era difficile guardare a lungo e con fermezza questa lampada. Al centro della fantastica Fontana si erge un calice trasparente a forma di fiore, da cui emerge un rubino grosso come un uovo di struzzo. Come Pantagruel, i suoi compagni vogliono fissare il calice, ma il suo splendore è tale che per poco non perdono la vista. Come non sottolineare l'analogia tra questa storia e quella di re Mordain, uno degli eroi dei racconti celtici, rimasto cieco per aver guardato all'interno del Graal con l'anima in stato di peccato? Il modo con cui la fontana fantastica lascia scorrere la sua acqua è particolarmente strano: l'acqua scorre attraverso tre tubi posti ai vertici di un triangolo equilatero e formanti una specie di spirale, in modo tale che gli zampilli si dividono in cinque strati mobili luminosissimi, da cui nasce un'armonia che si diffonde fino al mare di questo mondo. Questa fonte è complicata come un labirinto, labirinto caro agli alchimisti (come è evidente dal complicato sistema di tubi che congiunge i loro alambicchi) che rappresenta per loro il vagabondaggio, la difficile ricerca della verità delle cose. Pantagruel e coloro che lo accompagnano assaggiano l'acqua della fontana, e ogni bevitore le attribuisce il sapore del vino che ha sempre sognato. Lo stesso accadeva nelle celtiche leggende del Graal: al passaggio del corteo che accompagnava il vaso sacro, la tavola del castello dell'avventura, quella del re ferito, si copriva immediatamente dei cibi più svariati, e ogni convitato, purché fosse degno di partecipare al mistero che si stava svolgendo, trovava a portata di mano tutti i cibi che desiderava. Non era questa la natura della manna, mandata da Jehovah agli Ebrei nel deserto, la quale a detta delle Scritture mutava sapore secondo la volontà di chi la mangiava? Infine, secondo il racconto di Rabelais, ecco la Divina Bottiglia molto larga nella parte superiore (proprio come un calice). Questo Graal pagano emette una parola: trink (bevi). Pantagruel e i suoi amici bevono: ed eccoli immersi in una specie di estasi, perché questo vino è forza e potenza. Riempie l'anima di luce, di saggezza e di filosofia. E' dunque la fonte della Verità. Una specie di delirio si impossessa di coloro che hanno obbedito all'invito della Divina Bottiglia. Diventano folli e incantati e, spiega Rabelais, là ci sono eternità di bevute e bevute di eternità. Parla allora la sacerdotessa: Non è in mio potere di soddisfarvi qui. Laggiù, nelle regioni circoncentrali, noi poniamo il Bene sovrano, non da prendere e da ricevere, ma da distribuire e da donare; andate amici, sotto la protezione di questa sfera intellettuale che noi chiamiamo Dio: il centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. Quando sarete tornati nel vostro mondo siate testimoni che sotto la terra esistono grandi tesori e meraviglie. I vostri filosofi si lamentano che gli antichi abbiano già scritto tutto, senza lasciare loro nulla di nuovo da inventare. Ma Dio, l'Ascoso, il Nascosto, elargirà loro la conoscenza di sé e delle sue creature; così in tutta sicurezza e piacevolmente è percorso il cammino della conoscenza divina e la ricerca della saggezza.
Il Graal di Don Chisciotte
Meno d'un secolo più tardi la dolce e sorridente filosofia di Rabelais avrebbe reso patetica l'opera di Cervantes. Perché Don Chisciotte è il diretto discendente e il più sconvolgente dei romanzi della Tavola Rotonda e del Graal. Certo Cervantes si è in gran parte ispirato all'Ariosto e al Tasso, ma molto più a Perceval, a Re Arthur e a Lancelot. Lo scrittore spagnolo vive in un'epoca in cui fiorisce una letteratura che si burla della cavalleria con il suo codice d'onore e le sue cerimonie, poiché lo scetticismo mina sordamente l'Occidente cristiano. Don Chisciotte è essenzialmente una reazione di scetticismo ed una riabilitazione del cavaliere. Al di là del suo ridicolo, che tuttavia è insieme e pungente, Don Chiscotte incarna le virtù prime del coraggio, il senso dell'onore, la castità, l'ideale religioso. Non diversamente dal Galaad Eschenbach, il cavaliere spagnolo non è fatto per un mondo di albergatori avidi, di gran signori scellerati, villani un po' sciocchi. E' fatto per la Foresta di Perceval e per il castello dell'avventura. Alla fine delle sue pietose tribolazioni Don Chisciotte tuttavia riceve la suprema consacrazione: porterà il vaso di Mambrino, ossia un catino da barba. E' un attrezzo buffo; ma fatto per muovere al riso? No, perché il catino è molto simile al Graal ed incorona, più di quanto non calzi, non una povera testa ammalata, ma uomo colmo di bontà. Sotto la grande luce di Don Chiscotte è la verità in cammino, che, al di sotto degli scherni, sa che alla fine dai tempi Dio riconoscerà le sue sventure. La conclusione del romanzo di Cervantes evoca una specie di Golgota verso questa Croce che, per il cristiano è l'eterna verità promessa dal Graal.
La musica del Graal
Nell'Austria moderna non uno scrittore, ma un musicista in epoca recente decise di cavalcare i colori del sogno, conducendo i cavalieri alla somma ricerca: questo musicista è Franz Schubert. La musica del compositore viennese è un cammino ardente ininterrotto. Quando si pensa all'ottetto per corde, bassi, coro e clarinetti, compare il castello dalle luci irreali, la dolce dimora dove danzano le compagne di Rosamunda. Il pezzo per due violoncelli, evoca una processione di pretesse, il Duetto dà voce alla fanciulla e alla ricerca del Graal, adatta a un temperamento forte ma minata dall'ossessione della morte e della salvezza, come tutte le leggende costruite intorno al vaso sacro. Bisognerà attendere Richard Wagner per ritrovare i solenni sortilegi del Graal in tutta la loro autenticità. Figlio di Parsifal, Lohengrin è l'immagine stessa del perfetto eroe, uscito contemporaneamente dalle leggende celtiche e dall'immaginazione popolare tedesca. La sua vocazione è di adorare e servire il Graal e di diffondere nel mondo la divina carità. Parsifal cavalca su un cigno; egli stesso del resto è un cigno celeste che vaga sulla strada; questa, agli occhi di Wagner, ha una forma a spirale, simbolo della lenta ascesa verso Dio. Il Graal è stato portato sulla terra da una schiera di angeli che, terminato il loro compito, sono tornati nella patria celeste, lasciando dietro di loro il bianco sigillo della speranza. La Redenzione, per l'autore del Parsifal, si compie essenzialmente attraverso l'amore, perché l'amore rappresenta la più umana e fervida ricerca di Dio. Cavalieri erranti, pellegrini, semplici viaggiatori, avventurieri, tutti gli eroi wagneriani perseguono il medesimo fine: la ricerca del Graal, simbolo della Redenzione. Per l'eterno femminino, rappresentato nel Medio Evo sotto gli amabili tratti della Dama, Richard Wagner si ispira a Goethe. Senta, Elsa, Brunehilde, Elisabeth, Kundry, la bella peccatrice che alla fine sarà salvata, sono tutte il simbolo dell'amore umano, tappa indispensabile da cui gli uomini non possono prescindere per accostarsi alle rive della salvezza. Wagner ha ricavato i temi principali della Tetralogia da Wolfram von Eschenbach, ma cristianizzando la leggenda del Graal. Eschenbach ne ha fatto una pietra preziosa, sull'esempio dei poeti orientali e iraniani, mentre per Wagner il Graal è nuovamente il vaso sacro che contiene il sangue di Cristo. Per questo più che un poema drammatico, in realtà Parsifal è una messa. Tuttavia l'autore della Tetralogia ha dato alla leggende celtiche una forte impronta germanica; alle scene liturgiche che si svolgono nel castello dell'avventura di Montsalvat, si accompagnano gli incanti di Klingsor delle sue figlie-fiori. I cavalieri alla ricerca del Graal sono sottoposti ai sortilegi della maga buona e della malvagia Viviana e Morgana. Kundry, la peccatrice salvata, distribuisce di volta in volta malefici e incanti. Quanto all'eremita Gurnemanz, questo è il suo insegnamento al casto folle che è Parsifal: Nessun sentiero si apre verso i Graal, e nessuno può trovare la strada che non abbia egli stesso tracciato; vedi figlio mio, qui il tempo diventa spazio. Così il tempo, se impiegato con fervore, apre l'accesso a quel sacro spazio al centro del quale si trova il Graal. Wagner è venuto a conoscenza de Il Sangue Prezioso, un'opera scritta da un mistico teologo inglese, Padre Faber. Qui, il sangue di Cristo contenuto nel Vaso sacro è il vero strumento di Redenzione, perciò dispensa coraggio, amore e volontà. E' il fluido universale in cui si immerge l'universo Intero. Wagner traduce esattamente questa concezione quando, sulle labbra di Parsifal chino sul Graal, pone questa frase: Ho visto l'origine e la causa delle cose. Nell'incanto del Venerdì santo, una delle pagine più commoventi del Parsifal, Wagner attribuisce al Graal e al suo sacro contenuto il potere di trasformare il mondo: Hanno i fiori sete della tua grazia? I tuoi pianti sono la rugiada benedetta. Tu piangi, vedi, e tutta la pianura sorride! Al termine della loro ricerca i cuori puri conosceranno l'estasi suprema, ossia l'identificazione con Dio.
Il Graal oggi
Friedrich Nietzsche, che da solo si battezza l'Argonauta dell'Ideale, rifiuta questa pace che è la conclusione dell'opera wagneriana. Ciò che lo affascina non è i raggiungimento del fine, ma il cammino che bisogna percorrere per giungervi. Originariamente l'autore di Al di là del Bene e del Male non rifiuta la via regale che conduce alla conoscenza. Ciò che lo affascina sono le contraddizioni dell'uomo alla ricerca del Graal. Non cerca la Pace suprema, ma la lotta. Ci sono sempre, egli scrive del giardini di Armida, e di conseguenza di sempre nuova e sempre nuove armi del cuore. Bisogna che io sollevi il piede il mio ideale ferito e poiché sono costretto a guardare con tristezza le cose più belle, esse sono riuscite a trattenermi. E' qui la sua genialità, ove tutto il simbolismo passato si tramuta nella pietra, l'acqua, la Donna. E' una delle opere fondamentali del poeta, uno del poemi pagani più stupefacenti che convergono verso il sacro, il Graal, e rappresenta tutto ciò nel corpo della Donna, simbolo di tutti i mutamenti e di tutti i segreti dell'Universo. Attraverso la Donna si raggiunge l'Assoluto. Che si tratti dell'affascinante Clarice o di Annalena, fanciulla di poco conto, entrambe sono un atomo di azzurro nello spazio, una goccia d'acqua scura nell'oceano luminoso dell'amore. Grazie a loro l'uomo combatte e vince la sua fondamentale solitudine, perché al termine dell'esperienza amorosa Milosz può esclamare: Nel mondo intero non esiste solitudine, l'aria che tu respiri è il soffio di un Padre. Compiuta così la prima tappa della ricerca del Graal, come Perceval o Lancelot, il poeta giunge al castello avventuroso: Non sono forse tutte le cose più vicine a te di te stesso? Non senti salire dal tuo cuore l'effervescenza della sorgente dei mondi? Mentre la montagna mi trasportava nel suo volo, all'improvviso io vidi aprirsi dinanzi a me, nell'altro emisfero, la porta d'oro della Memoria, lo sbocco del labirinto. Questo sbocco è l'Amore, è il Graal che concede la sapienza assoluta a chi vi si disseta. Questa magica bevanda è, anch'essa, il Sangue universale, il Sangue di Dio, che con un'unica espressione Milosz chiama l'acqua primordiale. Si instaura così una corrente vivificante fra Dio e l'uomo, e poi fra l'uomo e Dio. Il Sangue è anche l'insieme delle forze spirituali che si trovano nell'universo, quelle forze che, in qualche modo, plasmano la Creazione. Nel cuore del Graal si compie la fusione del Sangue e della Luce, da questa fusione ha origine l'oro incorruttibile e medicamentoso della divina carità, il metallo più prezioso, secrezione della api angeliche. Giunto alla conoscenza suprema, il poeta estasiato può esclamare: O Movimento, o Sangue sgorgato dal Fiat divino! Svegliati Cosmo, diffonditi attraverso i miliardi di Vie Lattee che sono le tue vene! O Magico Sangue sgorgato dal cuore del signore, O Vita, O santa Vita, tu apparivi, immensa e splendida, nella profondità delle Tenebre. Io sono libero, libero! E' come se fossi morto. Salve, Universo, amore mio! Léon Bloy, dal canto suo, vuole insistere sull'aspetto doloroso della ricerca del Graal; egli vuol essere il Pellegrino del Santo Sepolcro. Dura fu la sua vita trascorsa camminando, solo, in una grande colonna di silenzio, nel bel mezzo di questa foresta piena di malefici che è il mondo moderno, popolato di villani, di porci, di ladri, di donne di malaffare. Ma il Graal è promesso a colui che sa chiudere gli occhi su ciò che lo circonda e che, guidato dal Dolore, giunge alla contemplazione di Dio. Se il dolore è il compagno più fedele di Léon Bloy, quello di Charles Peguy si chiama Speranza. Poiché il cammino che conduce al Graal di Péguy, questo Graal che contiene il Sangue e il Sacrificio, è difficile pieno di imboscate e di tradimenti. Ma al fondo di tutta l'opera di Péguy, che è una lunga ricerca della Luce e della Verità, c'è la Speranza che Dio ci ha dato per aiutarci nella ricerca della Vita eterna. Pochi autori, nella letteratura contemporanea, hanno affrontato apertamente i misteri del Graal, ma due ci sono. Innanzitutto il poeta Patrice de La Tour du Pin. La sua Sonntne de poesie, poetica che è una ricerca che si svolge nella dolcezza incantata della foresta celta. Per tentare di giungere alle viole luminose dei mondi, il cuore dell'uomo naviga continuamente in mezzo a sogni e fantasmagorie. Questo viaggio è quello che il poeta chiama la contemplazione errante. Dove ci conduce? A Dio. Ma all'avventura, nel senso secondo cui l'intendevano i cavalieri delle leggende celtiche, se ne sostituisce un'altra, di natura puramente spirituale. In Patrice de La Tour du Pin gli ostacoli che ci si oppongono sono dentro di noi, non provengono dal mondo esterno, e solo la luce della Grazia ci permette di spezzarli di dissipare le nebbie che incombono sulla nostra anima e di raggiungere così il Graal, che è Dio nella sua gloria e nella sua potenza. Julien Gracq è colui che si awicina di più alle leggende celtiche. Il suo Bel Tenebroso in effetti è un diretto discendente del Mago Merlino. Il castello di Argol corrisponde al castello dell'avventura, dove ogni oggetto possiede un potere magico, dove si respira un profumo di cupa foresta e di alte volte. Mondo sottomesso al sortilegio, presagi innumerevoli per chi sa interpretarli, universo d'amore e di morte: l'opera di Julien Gracq discende direttamente dalla tradizione della ricerca del Graal. La differenza è che, per l'autore della Riva delle Sirti, questa ricerca non si compie mai, non c'è nessuna suprema illuminazione, l'uomo è condannato a vagare senza fine. Strano destino quello della Leggenda del Graal: non solo ha ispirato poeti e musicisti, ma è servita anche a giustificare l'evoluzione storica dell'Inghilterra del XIX secolo. Nel 1845 il cardinale anglicano Newman si convertì al cattolicesimo, trascinando dietro di sé un gran numero di fedeli. La cosa si ripercosse clamorosamente in un paese dove, più o meno, si diffida dei papisti. Tennyson, un poeta allora in voga, stava lavorando a un lunghissimo poema: Idylls of the Kigs (Idilli dei Re), che si avvicina abbastanza alla Leggenda di Re Arthur e alla ricerca del Graal. Ma di fronte all'emozione causata dalla conversione del cardinale Newman, il poeta modifica la sua opera tanto da farla apparire una lezione di tolleranza e una dimostrazione di morale vittoriana. Per Tennyson nella ricerca del Graal l'essenziale è la lotta dei Sensi contro l'Anima; i cavalieri partono alla ricerca del vaso sacro che li guarirà dei loro mali li libererà dai vizi ed esaudirà le loro aspirazioni. Ma non tutti giungeranno alla conclusione, perché ciascuno sarà ricompensato secondo il grado della sua purezza. Ciò‚ a dire che ciascuno è libero di credere a seconda di ciò che gli detta il cuore, e anche secondo le sue possibilità. In questo modo Tennyson pensa di poter riconciliare papisti e antipapisti. Per questo ognuno degli eroi immaginati dal poeta ha delle attitudini particolari. Galaad, il più puro dei cavalieri, riesce a vedere il Graal sfolgorante: Ho visto il Santo Graal scendere sull'altare; ho visto come il viso di un bambino comparire nel pane e scomparire. Così Tennyson evoca con un po' di rimpianto coloro che credono nella Transustanziazione, cioè i cattolici. Vi è anche Perceval, abbastanza puro, ma troppo attaccato ai beni materiali; tuttavia, toccato dalla Grazia, terminerà la sua vita in un monastero. Quanto a Lancelot, cavaliere perfetto, egli è colpevole di vivere nell'adulterio, perché ama la moglie di Arthur. Soltanto la fede gli consentirà di spezzare questo legame carnale e di finire in santità. E Tristano ha abbandonato, invece, la ricerca del Graal, ritenendola una prova al di sopra delle sue forze. Disgustato, egli afferma: Noi non siamo degli angeli, che è un modo di far intendere che vive come un pagano. Il monaco Ambrogio non si pone problemi: non ha mai sentito parlare del Graal. La sua filosofia è racchiusa in una formula: Io godo, da uomo semplice, nel mio piccolo Mondo. Tennyson non esprime preferenze fra questi personaggi così diversi; vuol dare una lezione di tolleranza. Che ciascuno pratichi secondo i dettami del cuore, agisca secondo coscienza, non pretenda più di quel che può: ecco l'estrema saggezza. Il poeta accosta così Ambrogio, simbolo di un'Inghilterra empirista che non vuole essere agitata dai grandi problemi religiosi, a Galaad, incarnazione del mistico cardinale Newman. La conversione del cardinale non è il solo colpo che minacci l'Inghilterra in questo periodo. L'evoluzionismo di Lamarck e di Darwin, il positivismo del francese Auguste Comte, le dottrine utilitariste (vero è ciò che è utile), la comparsa del socialismo cristiano: altrettante novità che sembrano assicurare il trionfo della scienza sulla religione. Ancora una volta Tennyson, che si considera un po' il cantore ufficiale della Gran Bretagna, si mette all'opera. Si tratta per lui di dimostrare che solo il cristianesimo, anche se con le dovute modifiche, può salvare l'umanità, e rafforzare una fede due volte necessaria, sia perché è la salvaguardia dell'uomo sia perché, alla fine, l'autorità regale poggia su di essa. La ricerca del Graal ha provocato il naufragio del regno di Re Arthur, spiega il poeta, proprio perché i cavalieri hanno preferito la conquista di un vago ideale al servizio esemplare del loro re e del suo regno. Poiché il buon cristiano non deve mirare all'impossibile, non deve peccare di orgoglio, ma accontentarsi delle facoltà che Dio gli ha dato e servire il Bene con umiltà e rassegnazione. Dal canto suo la scienza non deve svilupparsi più rapidamente della morale, a rischio di sfociare in un disastro come quello toccato al mago Merlino, simbolo della creatura orgogliosa del proprio potere. La lezione di Tennyson ha un effetto rassicurante. La borghesia che allora guida l'Inghilterra affronta con occhio nuovo l'epoca che ha dinanzi. Sarà filantropica, come lo erano i cavalieri puri, perché la natura umana è identica in tutti gli uomini; e accetterà con prudenza che la vita dell'universo sia retta da leggi scientifiche e non più solamente divine. Scienza e religione andranno abbastanza d'accordo, restando inteso però che la morale deve fondarsi sulla religione. Leggenda mai compiuta, che ora sgorga al richiamo dei poeti, ora rimane come assopita, quasi dovesse riprender forza prima di una nuova fuga. Qual è infine il significato del Graal? Innanzitutto il patetico sforzo dell'uomo per essere uno nel corpo e nell'anima. Poco importano le prove che bisogna affrontare per giungere alla Verità, ma non sono sufficienti né il semplice godimento dei beni terreni, né la pura ascesa spirituale. La redenzione, nel cristianesimo o in altre religioni, passa necessariamente attraverso il corpo, perché anch'esso deve essere salvato. Che un asceta ferisca volontariamente il proprio corpo, che i cavalieri affrontino mille prove, che altro significa tutto ciò se non che nessuno ha il diritto di disprezzare o di ignorare l'involucro carnale? In secondo luogo l'unità dell'uomo deve tener conto della presenza di tutti gli altri uomini: finché Parsifal non si cura della sofferenza altrui egli non esiste; è condannato a vagare in un mondo completamente muto. La scoperta della Verità passa dunque attraverso la solidarietà universale che così sarà espressa da Paul Claudel: Siamo tutti montoni della stessa lana. Infine, la conquista della Verità, o di Dio, è una questione personale. Nella misura in cui l'uomo si sente in pace con se stesso, nella misura anche in cui condivide le prove dei suoi simili, egli può aspirare al sommo Bene. Un dono, il Graal? Sì, ma concesso soltanto a coloro che lo vogliono e che si piegano alle leggi morali. Ideale di vita e di perfezione, il Graal non è altro, in definitiva, che lo scopo che ciascuno, a modo suo, assegna al proprio destino.
Il Libeccio
Fonte: http://www.cazzanti.net/bsi/letture/Studio%20sul%20tema%20Santo%20Graal.doc
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