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IL VIAGGIO DI ULISSE E QUELLO DI ABRAMO
I- Perchè Abramo e Ulisse?
La storia dell’Europa ha come fondamento la cultura classica e la cultura ebraica: due mondi, due civiltà diverse che, attraverso Roma e il Cristianesimo, sono venute a contatto, pur conservando radicali differenze: su questi due mondi noi poggiamo; quindi è giusto, per sapere chi siamo - ed è la cosa più importante della vita - ricercare chi siano i personaggi fondatori, Abramo e Odisseo, accomunati dall’esperienza del viaggio: il viaggio fiabesco e mitico di Ulisse e il viaggio storico e mistico di Abramo.
L’uomo si muove secondo due coordinate: la storia e il mito; con la storia l’uomo ricorda le tappe del suo avanzare nel mondo, la sua genealogia, i luoghi che ha percorso (la geografia è parte della storia), le avversità, le lotte e le conquiste che hanno segnato il suo cammino; nel mito, mythos, “parola fondante”, trova le sue radici, il fondo di se stesso; “vive” il mito e intanto cerca se stesso, i suoi perchè più arcani, le sue tensioni. Il mito non è soltanto narrazione, ma esperienza, è rispecchiamento, ritrovamento di noi stessi. Leggere il mito è quindi rileggere il passato per vivere il presente, è una forma di ri-conoscimento.
Degli eroi omerici quello che ha lasciato un’impronta più energica nel tempo è Odisseo: non Achille, il più forte dei Greci, non Agamennone, il capo della spedizione. Questo perchè Odisseo è un mito.
Quale mito? il mito più aderente a noi uomini, il mito del viaggio. Viaggio vuol dire staccarsi da un luogo per raggiungerne un altro, è un error, un metaxy, un passaggio, come è passaggio la vita degli uomini, dal non essere all’ essere e poi alla cessazione dell’essere, dalla nascita alla morte; ed è proprio questo carattere di intermedietà, di non-stato, di movimento, e quindi di provvisorietà, che noi sentiamo nell’intimo del nostro vivere. Il viaggio può essere un viaggio di ritorno, nostos, cerchio teso a concludersi, verso i luoghi di cui si soffre la nostalgia, può essere un viaggio nel quale l’uomo si stacca, più o meno volontariamente, dalla sua terra, per muovere verso un ignoto, come freccia che scorda il punto di partenza: o fugge o è spinto da un comando (interiore o esterno, non importa) in cerca di una “terra promessa”.
II- Polytlas dios Odysseus
Precisiamo che ci stiamo occupando dell’Ulisse omerico, Odisseo, non dell’Ulisse dantesco; l’ Odissea si inserisce in quella vasta produzione di Nostoi, “Ritorni” composti nell’antica Grecia, anche pre-omerica, per ripercorrere le vie dei travagliati ritorni in patria degli eroi greci dopo la distruzione di Troia, ed è il nostos per eccellenza. Quando fa il suo ingresso nell’epos, Odisseo è già eroe dell’avventura e del viaggio, se non anche del ritorno, protagonista di una “storia semplice”, come insegna U. Hoelscher1, cioè una forma sub-letteraria, la semplice sequenza di un evento narrativo, riconoscibile dal fatto che ha una propria logica:
ha, come notava già Aristotele, inizio, centro e fine. Storia semplice alla base dell’Odissea è la trama centrale, che è un tema tradizionale assai diffuso: quello del marito che ritorna a casa dopo molti anni, trova la moglie che si è mantenuta fedele nonostante le prove e le tentazioni a cui è stata sottoposta; storie semplici sono i racconti di viaggi e di avventura di Odisseo, i cosiddetti apologhi. “Queste storie, continua Hoelscher, non sono di tipo eroico, ma danno l’impressione di autentiche favole, la cui caratteristica è la forma del cammino, il viaggio nell’ignoto, e il ritorno all’uscita; da ciò il lieto fine”. Il poeta dell’Odissea ha attinto a piene mani, come ha provato D. Page2, da racconti popolari la cui fabula è comune a racconti diffusi in più luoghi (dal bacino del Mediterraneo e dall’Europa medievale all’India, all’Africa e fino alla nuova Zelanda), ma, proprio perchè poeta, se ne è servito come base per creare un’opera che li trascende per densità e complessità di umane risonanze, per sapienza di dettato, per capacità descrittiva e
contemplativa: il viaggio di Odisseo non è solo fiabesco, ma diventa “mitico”.
1 U. Hoelscher, L’Odissea. Epos tra fiaba e romanzo, Firenze 1991.
2 Denys Page, Racconti popolari nell’Odissea, trad. it. Napoli, 1983.
Nella sua introduzione ai primi quattro libri dell’Odissea 3 A. Heubeck afferma che quella dell’Odissea è una cultura anti-epica: Odisseo è povero e infelice, “uno che è piccolo, da nulla e debole”, come, deluso, griderà il Ciclope, convinto di essere stato accecato da Outis, Nessuno (Od. IX, 515). Fin dal proemio Odisseo è presentato come un errante (I, v. 2), che molti dolori patì (v. 4), per trovare la via del ritorno in patria (v. 5) e per riabbracciare la moglie (v. 13). E’, sì, l’uomo “dal multiforme ingegno”, polytropos, (v.
1), capace di progettare e di calcolare astutamente, di mascherarsi e di nascondersi4, ma è soprattutto
l’uomo del ritorno. Al concilio degli dei Atena, la dea che protegge Odisseo, chiede a Zeus che cessi l’ira di Posidone e che l’eroe possa tornare a casa, e così lo presenta (I, 49):
“l’infelice, che patisce dolori, lontano dai suoi”, che, trattenuto da Calipso, piange e brama (I, 58 s.):
“vedere almeno il fumo levarsi / dalla sua terra”:
la casa, e quello che, della casa, è il simbolo più nostalgico, il fumo. Sull’isola incantata di Ogigia, dove Calipso lo ama e gli promette immortalità senza vecchiaia, Odisseo si strugge, seduto sul lido (V, 157 s.): “lacerandosi l’animo con lacrime, lamenti e dolori,
guardava piangendo il mare infecondo” .
Se vi è grandezza nell’ Odisseo omerico, questa non deve, nei primi dodici libri dell’Odissea, i libri del ritorno, essere ricercata in gesta epiche: Odisseo è grande perchè piange, perchè desidera la sua casa e la sua donna: egli antepone alla bellezza divina di Calipso, al dono della immortalità e dell’eterna giovinezza, la moglie che lo attende da vent’anni, dalla bellezza sfiorita (IX, 216 ss.):
“Dea possente, non ti adirare per questo con me: lo so bene anche io, che la saggia Penelope
a vederla è inferiore a te per beltà e statura:
lei infatti è mortale, tu immortale e senza vecchiaia. Ma anche così, desidero e voglio ogni giorno giungere a casa e vedere il dì del ritorno”.
“Anche così”: sta qui la grandezza antiepica (o forse, appartenente a un’epica diversa, più vicina a noi) dell’eroe, la grandezza della rinuncia, il senso umano del limite; rifiutando l’amore della dea e il dono dell’immortalità senza vecchiaia, Odisseo - scrive P. Boitani - “è esempio di accettata caducità, di desiderata transitorietà terrena”5. E nel mito dell’accettazione del limite chi di noi non rivive la propria
esperienza?
III- Il nostos
Il viaggio di Odisseo è il più famoso “viaggio di ritorno”, e subito si differenzia dal viaggio di Abramo: il ricco patriarca abbandona Ur dei Caldei perchè JHWH gli appare, gli impone di lasciare la patria e dirigersi verso quella terra che Lui gli darà: “Alzati! percorri il paese in lungo e in largo, perchè io lo darò a te”6. Nessuna nostalgia, nessun “dolore del ritorno”, ma ubbidienza a un progetto che spinge a guardare avanti: Dio è il protagonista, la guida, l’alleato. Odisseo cerca di tornare a casa: ha perduto tutti i compagni, è solo e miserabile, perseguitato dall’ira di Posidone. Il viaggio di Abramo segue una traccia precisa: le località geografiche sono tuttora riconoscibili, mentre è inutile cercare una traccia nel viaggio di Odisseo, un viaggio “mitico” che proprio per questo non ha luoghi identificabili, tranne Troia e Itaca, l’occidente e
3 Omero, Odissea, a c. di A. Heubeck e S. West, Fondazione Lorenzo Valla, Milano 1981, vol. I, p. XXXIII.
4 Frequenti sono, nell’Odissea, gli elogi alla metis di Ulisse, alla sua intelligenza astuta (cfr., per esempio, I, 203, polymechanos, “l’uomo dai molti espedienti”, VII, 168, daiphrona poikilometen, “dalla mente animosa, dall’astuzia screziata”), capace di inganni (IX, 422, pantas dolous kai metin hyphainon, “ogni sorta di inganni e di astuzie io tessevo”).
5 P. Boitani, op. cit. p. 94.
6 Genesi, 13, 17.
l’oriente: “ma quando i Greci doppiano il capo Malea - scrive J.P. Vernant7 - una tempesta improvvisa si abbatte su di loro. (...) D’ora in avanti, Ulisse non saprà più dove si trova, non incontrerà più popolazioni come i Ciconi, combattenti ostili o comunque simili a lui. L’eroe esce in qualche modo dalle frontiere del mondo conosciuto, dalla oikoumene umana, per essere trasportato in uno spazio di non-umanità, un mondo dell’altrove. Da questo momento U. incontrerà esseri di natura quasi divina, come Circe e Calipso, oppure esseri subumani”.
E’, quello di Odisseo, un vero e proprio error, un vagare senza poter raggiungere la meta, la desiderata Itaca da cui, spesso quasi raggiunta, sempre lo respinge l’ira di Posidone, il dio nemico: è un “doloroso ritorno” (IX, 37).
La struttura narrativa del viaggio è ideata da Omero con estrema sapienza: l’io narrante passa dal viaggio “vissuto” al viaggio “rammemorato”, dalla tecnica narrativa alla tecnica del flash back. (a differenza della narrazione lineare, in terza persona, del viaggio di Abramo). In posizione di snodo è Scheria, l’isola dei Feaci, alla quale Odisseo approda stremato dall’isola di Calipso, e dalla quale sarà ricondotto a Itaca, dopo di aver narrato al re Alcinoo e alla sua corte le peripezie affrontate nel lungo viaggio da Troia a Ogigia.
a) da Ogigia all’isola dei Feaci
Il viaggio da Ogigia all’isola dei Feaci (ultima in ordine di tempo e prima nella struttura narrativa) è dominato dall’ira di Posidone, anzichè dalla guida provvidente di JHWH: contrastando il volere degli dei che, riuniti in assemblea, hanno decretato la fine dei travagli di Odisseo, il dio del mare si impegna a rendergli amaro il ritorno: “Ma penso di ricacciarlo in fondo alla sventura” (V, 290). Tutti i tentativi di reggersi alla zattera sono frustrati in una gara ad armi impari, che vede Odisseo sempre soccombente. Si susseguono immagini di furia spaventosa che mettono a fronte Odisseo, con la sua umana amechania, e il mare protagonista: L’eroe omerico è sospinto, non guidato.
“mentre diceva così, l’investì un gran flutto, dall’alto,
con impeto terrificante e fece ruotare la zattera” (V, 313-315)
“mentre rifletteva così nella mente e nell’animo,
Posidone che scuote la terra suscitò una grande onda
dolorosa e terribile, inarcata, contro di lui, e lo spinse”. (V, 365- 368)
“la grande onda mugghiava contro la costa
orridamente ruggendo, tutto era avvolto dalla schiuma del mare” (V, 403-404)
“un grande maroso lo spinse sulla costa scogliosa. E lì si sarebbe stracciata la pelle, fracassate le ossa,
se non lo avesse ispirato la dea glaucopide Atena” (V, 426-428).
b)- da Troia a Ogigia
Ad Alcinoo Odisseo fa, in flash back, il racconto delle sue peripezie, in cui riconosciamo e riviviamo miti che afferrano la nostra esistenza: da Troia alla terra dei Ciconi, dai Ciconi al paese dei mangiatori di loto (il mito di chi dimentica il ritorno), ai Ciclopi (la forza della metis), all’isola di Eolo, a Telepilo Lestrigonia, per arrivare a Eea, l’isola di Circe (la malia della carne); per suggerimento di Circe, Odisseo affronta la discesa agli inferi, dove l’indovino Tiresia gli predice l’ultimo viaggio; e poi le Sirene, gli scogli di Scilla e Cariddi, e la terra Trinachia, la Sicilia, dove gli ultimi compagni si cibano empiamente delle vacche del Sole, attirandosi la vendetta sterminatrice di Zeus: Ulisse resta solo:
“Per nove giorni fui trascinato: alla decima notte gli dei mi gettarono sull’isola di Ogigia, dove abita
7 J.P. Vernant, L’universo, gli dei, gli uomini, trad. it. 2000, Torino, p. 95.
Calipso dai riccioli belli, dea tremenda con voce umana
che m’accolse e nutrì. Ma perchè lo racconto?” (XII, 447-450).
Con questo poeticissimo punto interrogativo a sottolineare la vanità di tutti i perché, Odisseo conclude il suo racconto nell’isola dei Feaci.
IV- Il secondo viaggio e l’Ulisse dantesco
Il libro XI dell’Odissea, la Nekya, narra di Odisseo nel regno dei morti, dove, per consiglio di Circe, è disceso a interrogare Tiresia, l’indovino, sulle peripezie che dovrà incontrare prima che il “dolce ritorno” noston meliedéa, si compia. E Tiresia lo mette in guardia dalle insidie che ancora lo attendono, sul mare e nella sua terra: Ulisse ne uscirà vittorioso, ma, dopo di aver sterminato i Proci ed essersi ricongiunto con la moglie, dovrà ripartire dalla sua terra (XI, 119 - 137):
“e quando, nelle tue case, i pretendenti li hai sterminati, con l’inganno o a fronte con l’aguzzo bronzo,
prendi allora il maneggevole remo e va’
finché non arrivi da uomini che non sanno
del mare, che non mangiano cibi conditi col sale, che non conoscono navi dalle gote purpuree
né i maneggevoli remi che sono per le navi le ali. E ti darò un segno chiarissimo: non potrà sfuggirti. Quando un altro viandante, incontrandoti,
dirà che tu hai un ventilabro sull’illustre spalla, allora, confitto a terra il maneggevole remo,
e offerti bei sacrifici a Posidone signore.
un ariete, un toro e un verro che monta le scrofe,
torna a casa e sacrifica sacre ecatombi agli dei immortali che hanno il vasto cielo, a tutti con ordine. Per te la morte verrà
fuori dal mare8, così serenamente da coglierti
consunto da splendente vecchiezza: intorno avrai popoli ricchi. Questo senza errore ti annunzio.
Duplice quindi è il ritorno di Odisseo: riportato a Itaca dai marinai Feaci, ne dovrà ripartire, e il destino del vecchio marinaio sarà, al suo compimento, un destino terrestre: dovrà sacrificare a Posidone (il primo sacrificio in cui Odisseo sarà impegnato) presso uomini che non conoscono il mare nè il sale, che scambiano il remo per un ventilabro; la morte verrà per lui a Itaca, una morte “fuori dal mare”, quando sarà, come Abramo, “consunto da splendente vecchiezza”.
Con i vv. 135-7 - scrive, nel suo commento, A. Heubeck - viene formulato un ideale che corrisponde al fine interno dell’Odissea e che viene consapevolmente contrapposto a quello dell’Iliade. Lì è il giovane eroe (Achille) che corona il suo splendido eroismo con una morte precoce e gloriosa sul campo di battaglia, qui invece al signore onusto di successi è dato di governare i suoi sudditi, ricchi di ogni bene, con saggezza e giustizia sino a tarda età”.
Centripeto è dunque il viaggio di Odisseo, centrifugo è il viaggio dell’Ulisse dantesco.
8 L’espressione ex halos è molto controversa: la maggior parte degli studiosi concorda nel tradurre “fuori dal mare, lontano dal mare”, in accordo con i versi seguenti, in cui Tiresia profetizza ad Ulisse una vecchiaia e una morte serena, nella sua isola; la tradizione posteriore a Omero, interpretando ex halos come “dal mare”, sviluppò il motivo di Telegono, figlio di Ulisse e di Circe, che, mandato dalla madre alla ricerca di Ulisse, sbarcò sull’isola e, dopo varie venture, uccise il padre.
Dante non conosceva il greco, fortunatamente per noi e per il suo personaggio; aveva letto in Cicerone (Off. III, 26) che Ulisse, riluttante a partire alla volta di Troia, si era finto pazzo, ma che questa astuzia non era onesta: “Non honestum consilium, at utile, ut aliquis fortasse dixerit, regnare et Ithacae vivere otiose com parentibus, cum uxore, cum filio”. Una vita “sanza infamia” , nell’otium della terra patria non si addiceva, secondo Dante, a Ulisse, che, nella Divina Commedia (Inf. XXVI, 94 ss.), neppure torna a Itaca:
“Nè dolcezza di figlio, nè la pièta del vecchio padre, né il debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta, vincer poter dentro da me l’ardore
ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto e delli vizi umani e del valore”.
Ci voleva l’alto ingegno del poeta per trasformare il nostos in avventura senza ritorno, per seguir virtute e canoscenza. La potenza di questa creazione artistica ha fatto sì che, nella nostra cultura, abbia forza esemplare l’Ulisse dantesco anziché l’Odisseo di Omero, nel quale tuttavia troviamo i germi per i successivi sviluppi della figura.
V- La grandezza di Odisseo
Ci possiamo domandare in che cosa consista la grandezza dell’eroe omerico, il non-epico Odisseo: egli è grande perchè è consapevole della debolezza e della finitudine dell’uomo e perché su questa si basa per costruire se stesso: uomo di molte risorse, polymechanos, egli è capace innanzitutto di “sopportare”; non per niente uno dei suoi epiteti più ricorrenti è polytlas: a Calipso che gli prospetta le difficoltà del viaggio in cui ha deciso di avventurarsi per cercare la patria, risponde (V, 220 s.):
“E se un dio mi fa naufragare nel mare scuro come vino,
saprò sopportare, perchè ho un animo paziente nel petto”.
Quando i compagni, nella loro incauta curiosità, sciolgono l’otre dei venti e scatenano la tempesta sul mare, Odisseo resiste (X, 50 - 53):
“.... fui incerto nel mio nobile animo
se uccidermi gettandomi dalla nave nel mare
o sopportare in silenzio e restare ancora tra i vivi. Ma sopportai e restai”.
Anche dopo il ritorno a Itaca sopporta le offese dei proci e così insegna a Telemaco (XVI, 274 s.): “E se dentro casa mi ingiurieranno, il tuo cuore
sopporti nel petto, pur soffrendo io atrocemente.
...
tu guarda e sopporta”.
Così si impone di sopportare la vista di proci e schiave infedeli che gozzovigliano insieme: (XX, 18): “Cuore, sopporta! sopportasti ben altra vergogna”.9
Ma la paziente sopportazione non chiude Odisseo nei limiti della meschinità: messo alla prova, l’eroe tenta, esplora, vuole conoscere, usa la sua metis, l’intelligenza accorta che sa valersi anche dell’inganno. Ne sono testimonianza tutte le tappe del viaggio: Odisseo manda i compagni a indagare o indaga di persona, non rinuncia ad ascoltare il canto delle Sirene, non si lascia ingannare da Polifemo, su cui trionfa con un capolavoro di astuzia che lo esalta, come prova il ricco campo semantico afferente alle attività della mente: i ciclopi, chiamati in soccorso da Polifemo, lo abbandonano perché “nessuno” gli ha fatto del male (IX, 413
- 422, passim):
“Dicevano così, e rise il mio cuore,
perchè il nome mio e l’astuzia perfetta l’aveva ingannato.
....
9 Più incisiva e fedele sarebbe la traduzione: “Cuore sopporta! sopportasti altro male più cane”.
forse [il ciclope] sperava che io fossi così sciocco nell’animo. Invece io meditavo quale fosse il piano migliore,
semmai trovassi uno scampo dalla morte ai compagni e a me stesso; e tessevo ogni inganno ed astuzia”.
Terribile nella vendetta, Odisseo è al tempo stesso ricco di umanità: alla nutrice Euriclea, esultante per lo sterminio dei proci, raccomanda moderazione (XXII, 411 s.):
“Vecchia, gioisci nell’animo e frenati, senza gridare!
E’ empio esultare su uomini uccisi”.10
VI- Abramo e Ulisse
Dall’antichità ai nostri giorni il confronto tra la cultura ebraica e la cultura classica si è spesso innestato sulla figura di Odisseo:
Clemente Alessandrino (II sec. d.C.) vede nei vagabondaggi di Odisseo sul mare il parallelo dei vagabondaggi degli Ebrei nel deserto; i filosofi neoplatonici interpretano l’eroe come figura del filosofo, addirittura del mistico che, dopo un faticoso errare, torna alla patria celeste. E già nel primo secolo della nostra èra Filone di Alessandria, il filosofo che si propose il compito di conciliare la teologia ebraica con la dottrina ellenica del neoplatonismo, istituì un interessante confronto tra Abramo e Odisseo: l’apparizione della Trinità ad Abramo, presso la quercia di Mamre, sotto la forma di tre sconosciuti in cerca di ospitalità (Genesi, 18, 1-21) è stata paragonata da Filone al ritorno di Ulisse a Itaca nelle vesti di un mendicante sconosciuto.
Ulisse e Abramo sono messi a confronto da Emanuel Lévinas: il filosofo ebreo francese sostiene che l’intero itinerario del pensiero occidentale “resta quello di Ulisse, la cui avventura nel mondo non è stata che un ritorno alla sua isola natale, une complaisance dans le Meme, une méconnaissance de l’Autre”. Al mito del ritorno di Ulisse Lévinas oppone, come figura del pensiero “nomadico”, che muove dal Meme all’Autre, “la storia di Abramo che lascia per sempre la sua patria per una terra ancora sconosciuta”: Gerusalemme contro Atene.
Riprendendo Filone in modo suggestivo, anche se alquanto forzato, Piero Boitani11 ha raccontato l’incontro
di Abramo, alla quercia di Mamre, non con la Trinità, ma con il mistero di un uomo che, nella calura estiva, appare ora come uno, ora come tre, ed è Odisseo; porta con sè un remo, sconosciuto al patriarca nomade, che non ricorda di aver visto il mare; tra i due si intreccia un discorso ambiguo ed inquietante, che ora avvicina i due ora li allontana fino all’incomprensione, come incomprensibile è, spesso, l’incontro fra le due culture.
Bianca Maria Mariano
10 E’ probabile che nell’Aiace di Sofocle la comprensione umana di Odisseo per Aiace impazzito abbia trovato spunto in questi versi.
11. L’incontro fra Ulisse e Abramo
da P. Boitani, Sulle orme di Ulisse, pp. 77- 85 (passim)
Cosa si direbbero, Abramo e Ulisse? Ecco la storia. Abramo sedeva, presso le grandi querce di Mamre, fuori dalla sua tenda nell’ora più calda del giorno. Il vecchio pastore era lievemente inebetito dall’età, dal calore e dal sonno che coglie tutti in quei momenti. (...) Gli parve, all’improvviso, di vedere davanti a sè tre sconosciuti, ma non ne fu sicuro; avrebbe potuto essere uno solo, tanto era simile a un dio nell’aspetto. (...) L’ospite si era intanto accomodato per terra, conficcandovi il corto remo che aveva portato sulla spalla, e osservava tutto con occhi penetranti. (...) L’uomo mostrava modi sin troppo ospitali, aveva una moglie (chissà se anche lui aveva dovuto difenderla da fastidiosi corteggiatori?), e insomma non pareva costituire una minaccia. (...) Lo straniero incuteva ad Abramo timore e tremore: che potesse essere quel Signore il quale gli aveva comandato di abbandonare la casa dei padri, a Ur dei Caldei? (...) I suoi fratelli Caldei dicevano di aver sentito da genti lontane, a occidente, che gli dèi compaiono spesso così, in vesti di stranieri, quasi di mendicanti. (...) Ulisse si sentiva frustrato: tutte le sue domande ricevevano una risposta ambigua.Non un solo segno era chiaro. E forse il vecchio aveva scambiato il remo per la pala da grano perché di nuovo confuso, come all’inizio. Inoltre, non faceva che parlare di dio, come se fosse il solo ed esclusivamente suo. (...) Abramo si stupiva ascoltando le parole dell’ospite: diceva molte menzogne simili al vero, credeva in tanti dei. Disse: “Straniero, non conosco il mare. Credo, da ciò che tu mi dici del suo infinito sorriso, di averlo visto tremolare lontano, quando scesi in Egitto. Non l’ho mai solcato e non attira né me né il mio popolo”. (...) Ulisse sentì nascersi dentro un’ira sorda. Quel dio, non lo avrebbe riconosciuto, fosse pure più potente di Posidone. (...) “Pastore - disse - ti ringrazio: mi sei stato prezioso al corpo e alla mente, ma non sono d’accordo con te. Il tuo dio non fa per me. A casa, non posso tornare”.(...) Allora, meglio consumare la vecchiaia, sino all’ultima veglia, correndo le acque. Che la morte gli venisse pure dal mare. (...) Abramo ne seguì i passi fino all’uscita dell’accampamento. Pensava: il Signore? Piuttosto il Nemico, costui. Peccato. sembrava un altro viandante, come me. Poi si ricordò che non gli aveva domandato il nome: ma ormai era troppo tardi. (...) Non ho visto nessuno, decise. Nessuno.[è l’incontro, incomprensibile, fra le due culture]
Abramo Odisseo
storia mito
luoghi e tempi definiti luoghi fantastici
prosa poesia
racconto in terza persona io narrante
la tenda la casa
personaggio monolitico personaggio complesso
monoteismo politeismo
Dio guida Posidone perseguita
il viaggio è un progetto il viaggio è un error
A. risponde a una chiamata O. cerca di tornare
Abram > Abraham Odisseo > Outis
Sara, Agar Penelope
entrambi godranno di una vecchiaia felice
Bianca Maria Mariano
Fonte: http://www.liceosarpi.bg.it/wp-content/uploads/2015/01/Vol.IV_.pdf
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