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ALIENAZIONE
1. Hegel.
Nel pensiero filosofico sociale moderno la prima vera e propria teoria dell’alienazione è stata elaborata da Hegel: la categoria di alienazione, infatti, è centrale sia nel sistema hegeliano complessivo in quanto categoria logicometafisica, sia nella rappresentazione dialettica che Hegel ha dato della storia moderna.
Naturalmente, le parole Entäusserung (alienazione) ed Entfremdung (estraniazione) che Hegel usa indifferentemente, a parte alcune piccole sfumature sono state usate anche prima di lui. Come ha ricordato Lukács, esse sono infatti la traduzione tedesca della parola alienation, che si trova sia nell’economia politica inglese in riferimento alla vendita della merce, sia nelle teorie giusnaturalistiche in riferimento alla perdita della libertà originaria e al trasferimento di essa alla società politica sorta mediante il contratto sociale. Lukács ritiene che un uso filosofico di ‘alienazione’ sia già presente in Fichte e nel giovane Schelling: si tratta però, come Lukács riconosce, di esperimenti terminologici che non esercitano alcun influsso sui problemi fondamentali dei sistemi di quei pensatori [Lukács 1954, trad. it. pp. 74546].
In realtà Fichte e Schelling sono così lontani dall’elaborare una vera e propria teoria filosofica dell’alienazione, che Hegel, nella prefazione alla Fenomenologia dello spirito, proprio su questo punto polemizza aspramente con loro; a Schelling in particolare Hegel rimprovera di concepire la vita dell’assoluto come «l’intatta uguaglianza e unità con sé, che non è mai seriamente impegnata nell’esseraltro e nell’estraniazione, e neppure nel superamento di questa estraniazione» [1807, trad. it. I, p. 14]
La Fenomenologia dello spirito è l’opera di Hegel che contiene la piú ampia, coerente e impegnativa teorizzazione del concetto di alienazione; essa eserciterà, come vedremo, un influsso fondamentale e sul pensiero di Marx e sulla riflessione filosoficosociale del nostro secolo. È a quest’opera di Hegel, quindi, che bisogna fare riferimento per capire in tutte le sue articolazioni la problematica dell’alienazione sia nel pensiero filosofico sia nelle scienze sociali contemporanei.
Come si è detto, l’alienazione è una categoria centrale della dialettica hegeliana: essa corrisponde infatti al momento della scissione, della particolarità e della determinatezza, del diveniraltro dello spirito. Il sacrificio dello spirito, dice Hegel, «è l’alienazione, in cui lo spirito presenta il suo farsi spirito nella forma del libero, accidentale accadere, intuendo fuori di lui il suo puro Sé come il tempo, e similmente il suo essere come spazio» [ibid., II, p. 304]. L’alienazione dello spirito nello spazio è la natura, nel tempo è la storia.
Se per Hegel l’alienazione o estraniazione è costituita dall’oggettività in quanto tale, naturalemateriale e storicosociale, essa è però anche qualcosa di necessariamente transitorio e, in fondo, apparente, in quanto implicitamente destinata ad essere soppressa e superata dallo spirito. Infatti, se l’alienazione è «ciò che ha riferimento e determinatezza, l’esseraltro e l’esserpersé», tuttavia «in quella determinatezza o nel suo essere fuori di sé [lo spirito] resta in se stesso» [ibid., I, p. 19]. Questo carattere ambiguo del concetto hegeliano di alienazione emerge molto bene nell’ultimo capitolo della Fenomenologia sul «sapere assoluto». L’alienazione, dice Hegel, ha un significato «non solo negativo, ma anche positivo». Infatti nell’alienazione l’autocoscienza spirituale «pone sé come oggetto», ovvero «pone l’oggetto come se stessa». Ma in questo modo essa è «presso di sé nel suo esseraltro come tale», ed essa sa la «nullità dell’oggetto», perché l’oggetto storico naturale, in questa sua autoalienazione, è soltanto una sua provvisoria figura. Ma allora «in quest’atto è contenuto [anche] l’altro momento onde essa ha anche tolto e ripreso in se medesima quell’alienazione e oggettività». In altri termini, l’autocoscienza si aliena sí nell’oggettività storiconaturale, ma, «in forza della inscindibile unità con se stessa», nel suo esseraltro è presso di sé, e quindi l’alienazione è già implicitamente soppressa e superata [ibid., II, pp. 28788]. Se l’alienazione è quindi per Hegel qualcosa di assolutamente necessario, poiché lo spirito è essenzialmente scissione (l’Io, dice Hegel, non può irrigidirsi «nella forma dell’autocoscienza in contrasto alla forma della sostanzialità e del l’oggettività, quasi che abbia paura della sua alienazione»), essa è però anche uno stadio che viene necessariamente soppresso e superato, poiché, se l’Io ha un contenuto ch’esso distingue da sé, questo contenuto è spirituale, è un prodotto dell’Io, è quella medesima pura negatività che è l’Io [ibid., p. 302].
La teoria dell’alienazione in Hegel ha quindi tre caratteristiche centrali che possiamo indicare schematicamente cosí: 1) l’alienazione è il momento della scissione e dell’oggettività in generale (storica ed empirica), poiché nella alienazione lo spirito diviene «oggetto», diviene «a sé un altro, ossia oggetto di se stesso»; 2) il superamento dell’alienazione è il superamento o la soppressione (Aufhebung) dell’oggettività in quanto estranea allo spirito (il «togliere questo esser altro»), onde l’assoluto riconquista l’unità con se stesso; 3) il superamento dell’alienazione è qualcosa che non può non essere, poiché in essa lo spirito è uscito da sé solo apparentemente, mentre in realtà è rimasto in se stesso (tutta la realtà, infatti, è idea o spirito), e quindi lo spirito non può non ricostituire divenendo consapevole, attraverso il «sapere assoluto», che l’oggetto è un prodotto dell’autocoscienza l’unità originaria con se stesso.
Questo è appunto l’impianto logicometafisico della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Il punto di partenza di quest’opera è dato da una tipica situazione di scissione: da un lato c’è la mera coscienza immediata, dall’altro l’oggettività cosí come essa si offre. In questo inizio la coscienza è, come dice Hegel, «sapere di cose oggettive in contrapposizione a se stessa, e di se stessa in contrapposizione a quelle» [ibid., p. 296]. Ma la coscienza non si ferma a questa rigida contrapposizione, e stabilisce un rapporto con l’oggettività «secondo la totalità delle sue determinazioni» [ibid., p. 288]. Si passa cosí dal sensibile, dal dato di fatto nella sua positività immediata ed empirica (che viene superato in questa sua immediatezza, poiché in quanto singolarità si mostra come non vero, e la sua verità è piuttosto l’universale cioè l’essere appreso e mediato dalla coscienza) a figure storiche e ideologiche, ecc. Al termine di questo cammino, quando l’oggettività è stata percorsa nella totalità delle sue determinazioni empiriche e storiche, essa si mostra come una totalità spirituale, ogni figura della quale è nient’altro che un’alienazione dello spirito a se stesso. La autocoscienza, dunque, attinge sì dalla sostanza la sua intera ricchezza, l’intera struttura delle sue essenzialità, ma questo comportamento negativo verso l’oggettività è «altrettanto positivo», cioè è un «porre» [ibid., pp. 28788]. Tutte le determinazioni della sostanza non sono altro che «posizioni» o proiezioni dell’autocoscienza stessa, la quale si era alienata in esse, e ora si recupera dall’alienazione, perché in esse riconosce se stessa. L’autocoscienza ritrova quindi nell’oggetto la sua stessa struttura categoriale, e può quindi appropriarselo nella sua totalità. In questo modo, però, ritrovando e riconoscendo se stessa nell’oggettività, l’autocoscienza sopprime l’opposizione e l’alienazione.
Il complessivo impianto logicometafisico della Fenomenologia mostra bene, quindi, che cosa Hegel intenda per alienazione: essa è data dall’oggettività materiale e storica; il superamento dell’alienazione ha luogo con il superamento di quell’oggettività in quanto estranea allo spirito; tale superamento, infine, non può non essere, perché l’oggettività è qualcosa di «dileguante», è una totalità spirituale posta dall’autocoscienza («l’alienazione dell’autocoscienza, proprio lei pone la cosalità»), e in quanto l’autocoscienza «sa questa nullità dell’oggetto» [ibid., p. 287], l’alienazione è immediatamente soppressa e superata. Hegel dà la seguente caratterizzazione generale dei processo: «Ma a noi lo spirito ha mostrato di non essere né soltanto il ritrarsi dell’autocoscienza nella sua pura interiorità, né il mero calarsi di essa nella sostanza e il nonessere della sua differenza; anzi ha mostrato di essere questo movimento del Sé il quale aliena se stesso e si cala nella sua sostanza, e come soggetto tanto è andato da essa in sé e l’ha resa oggetto e contenuto, quanto toglie questa differenza dell’oggettività e del contenuto» [ibid., p. 301].
Senonché, Hegel non si è limitato a questa generale elaborazione logicometafisica della categoria di alienazione. Se avesse fatto soltanto ciò, probabilmente non avrebbe esercitato l’enorme influsso che ha esercitato su Marx e, attraverso Marx e il marxismo, sul pensiero filosoficosociale del Novecento. In realtà Hegel, come abbiamo detto, si è servito del suo concetto di alienazione per dare una rappresentazione dialettica della storia moderna. In ciò è uno degli aspetti che fanno la novità e la forza della sua filosofia: una intera sezione della Fenomenologia dello spirito («Lo spirito a sé estraniato; la cultura») ricostruisce i principali avvenimenti della civiltà europea, dalla caduta dell’impero romano alla rivoluzione francese, sotto il segno e mediante la categoria dell’alienazione. Dove però alienazione non è piú da intendere precipuamente in senso logicometafisico, bensì in senso storicosociale, poiché la condizione di alienazione o di estraniazione (Entäusserung, Entfremdung) ha un suo inizio storico nell’epoca del tramonto della pòlis ed una connotazione sociale precisa: il venir meno di quell’armonioso rapporto individuocomunità, che era appunto la caratteristica fondamentale dell’eticità greca.
La pòlis costituiva un tutto armonico, coeso e compatto, in cui gli individui non facevano valere le loro volontà e i loro interessi particolari, ma agivano e si sacrificavano per la cosa pubblica, per l’interesse generale e comune. «Nel suo sussistere, dice Hegel, il regno etico è un mondo non macchiato di scissione alcuna» [ibid., p. 21]; qui «lo spirito è la forza dell’intiero, la quale riconduce insieme quelle parti nell’uno negativo, dà loro il sentimento della loro dipendenza e le mantiene nella consapevolezza di avere la loro vita soltanto nell’intiero» [ibid., p. 14]; «l’intiero è un quieto equilibrio di tutte le parti, e ogni parte è uno spirito domestico che non cerca il suo soddisfacimento al di là di sé, ma lo ha in se stesso, perché esso stesso si trova in quell’equilibrio con l’intiero» [ibid., p. 20].
Radicalmente diversa, invece, è la situazione storica successiva, che Hegel chiama dello «spirito estraniatosi». Qui l’intero è divenuto qualcosa di duplice, di separato, di scisso, perché l’autocoscienza non si riconosce piú nel mondo sociale circostante benché esso sia un suo prodotto che le si contrappone come una dura realtà estranea. Qui lo spirito «ha il suo contenuto di contro a sé, come una realtà altrettanto dura; e il mondo ha qui la determinazione di essere un alcunché di esteriore, il negativo dell’autocoscienza»; e sebbene l’esistenza di questo mondo sia opera dell’autocoscienza, essa «è anche una realtà data immediatamente e a lei estranea», nella quale «l’autocoscienza non si riconosce» [ibid., p. 42]. Qui l’estraniazione dell’autocoscienza è un depauperamento di quest’ultima, anzi una vera e propria frattura fra l’autocoscienza e ciò che essa ha prodotto: ovvero, come Hegel dice, una Entwesung, una perdita dell’essenza da parte dell’autocoscienza.
Questa lacerazione o scissione si articola in varie opposizioni dialettiche, che è opportuno vedere nelle loro linee essenziali.
La prima opposizione è fra Stato e Ricchezza. Entrambe queste potenze spirituali esprimono la sostanza dell’autocoscienza, il suo contenuto e il suo fine: lo Stato costituisce infatti l’essenza degli individui, ed esprime la loro universalità; la Ricchezza, a sua volta, è il risultato, che incessantemente diviene, del lavoro e del fare di tutti, che promuove il godimento di tutti e si risolve in esso. Risuonano, nella caratterizzazione che Hegel dà della Ricchezza, precisi echi smithiani, che accentuano il significato moderno dell’opposizione StatoRicchezza. Di quest’ultima, infatti, Hegel dice che, producendola e godendola, ogni singolo ritiene di agire egoisticamente, ma che, in realtà, nel suo godimento ciascuno dà da godere a tutti, cosí come nel lavoro ciascuno lavora per tutti e tutti per lui.
In un primo tempo, quindi, l’autocoscienza si riconosce tanto nello Stato quanto nella Ricchezza. Ma l’autocoscienza non può fermarsi qui, e deve dare un giudizio dialettico su quelle due potenze o determinazioni, le quali appariranno cosí reciprocamente estraniate. E infatti la coscienza trova disuguale a sé, e quindi cattivo, lo Stato, poiché in esso trova «negato e soggiogato» l’operare come operare singolo; e trova uguale a sé, quindi buona, la Ricchezza, poiché è un universale che può essere goduto da tutti gli individui. Ma al tempo stesso l’autocoscienza trova buono lo Stato, poiché esso «ordina i singoli momenti dell’operare universale» ed esprime, organizza e rende attivi il fondamento e l’essenza dell’individuo; e trova cattiva la Ricchezza, che non ha universalità perché essa rende possibile soltanto «il godimento di sé come singolarità» [ibid., pp. 5455]
Si è cosí di fronte «a un duplice trovar eguale e a un duplice trovar diseguale»: ora lo Stato è il cattivo e la Ricchezza è il buono, ora lo Stato è il buono e la Ricchezza il cattivo. Ciò realizza il passaggio alla Coscienza nobile e alla Coscienza ignobile. La prima è soddisfatta dell’ordine sociopolitico esistente, e dunque è conservatrice; essa si riconosce nel potere pubblico, trova nello Stato la propria essenza e ubbidisce ad esso, cosí come si riconosce nella Ricchezza e «riconosce come benefattore colui che gliene ha procurato il godimento, ritenendosi obbligata a gratitudine». La Coscienza ignobile, al contrario, è insoddisfatta dell’ordine sociopolitico esistente ed è sovvertitrice; essa vede nel potere statale una catena e un’oppressione, e «obbedisce con malizia sempre pronta alla ribellione», cosí come non si riconosce nella Ricchezza, che ama ma che disprezza [ibid., pp. 5657].
Non possiamo seguire qui nei dettagli la complessa dialettica che vede un movimento di alienazione reciproca fra la Coscienza nobile e il potere statale, e il dileguare di ogni differenza fra Coscienza nobile e Coscienza ignobile. Basti rilevare che anche in questa fase la Coscienza non può ritrovarsi nella Ricchezza perché questa è essenza alienata. Nella Ricchezza la coscienza «trova estraniato il suo Stesso come tale», e poiché la Ricchezza non è in suo potere e deve esserle concessa da un altro, la coscienza si trova a ricevere se stessa da un altro. La coscienza vede cosí «la sua personalità come tale dipendente dalla personalità accidentale di un altro, dal caso di un istante, di un arbitrio, o, comunque sia, della piú indifferente circostanza» [ibid.].
Il sentimento della coscienza verso chi le concede la Ricchezza «è il sentimento sia di questa profonda abiezione, sia anche della piú profonda rivolta», e poiché l’Io «si intuisce fuori di sé e disgregato, in tale disgregatezza tutto ciò che ha continuità e universalità, che si chiama legge, bene, diritto, è parimenti sconnesso e andato a fondo» [ibid., p. 68]. Ma la Ricchezza non produce solo rivolta, bensì anche tracotanza: è la tracotanza di chi «crede di aver conquistato con un pezzo di pane un altrui Io stesso e che opina di aver con ciò ottenuto l’assoggettamento dell’essenza piú intima di lui»; ma «in questa superbia la Ricchezza non tiene conto dell’intima indignazione dell’altro, non tiene conto dei pieno rifiuto di tutte le catene, non tiene conto di quella pura disgregatezza alla quale... è disgregata ogni eguaglianza, ogni sussistenza, e la quale disgrega fino in fondo l’opinione e l’intendimento del benefattore» [ibid., p. 69]. La Ricchezza, insomma, è la categoria centrale della condizione estraniata del mondo moderno, e coinvolge sia chi la riceve sia chi la dà, sia chi la possiede sia chi non la possiede.
Da questa situazione prodotta dalla Ricchezza nasce quello che Hegel chiama il «linguaggio della disgregatezza», che si esprime attraverso i paradossi, brillanti e cinici, del Neveu de Rameau di Diderot. Tale linguaggio inverte tutti i concetti e tutti i momenti l’uno nell’altro, e mostra che ciascuno è il contrario di se stesso: ciò che è buono è anche cattivo, il positivo è anche negativo e viceversa. Esso esprime la profonda crisi sociale e spirituale che culminerà nella grande rivoluzione: demolisce ogni certezza acquisita e tradizionale, e di ciascuna mostra l’instabilità e la falsità, e il rovesciarsi nel suo opposto. In questo modo però ogni contenuto è diventato un negativo, che non può piú essere colto positivamente; l’oggetto è ormai soltanto «puro Io».
Ciò dà luogo a un’altra opposizione: se infatti lo spirito è divenuto «puro Io» che «tutto riduce a concetto», e dunque è divenuto illuminismo, ad esso si oppone la fede. L’illuminismo considera la fede come espressione dell’alienazione, e la fede considera l’illuminismo nello stesso modo. In realtà, secondo Hegel, illuminismo e fede, essendo i due lati nei quali si manifesta la scissione dello spirito, sono entrambi espressione dell’alienazione o estraniazione. L’interesse di Hegel è volto a mostrare che entrambi, essendo i due lati dell’unica e medesima coscienza, si convertono necessariamente l’uno nell’altro, che l’uno è la verità dell’altro. Ciò non toglie però che anche qui Hegel, servendosi della categoria dell’alienazione, colga delle determinazioni profonde: l’illuminismo, egli dice, considera la fede come una forma di coscienza estraniata «poiché esso dice di lei che ciò che le è l’essenza assoluta è un essere della sua propria coscienza, un suo proprio pensiero, un alcunché prodotto dalla coscienza» [ibid., p. 95]. È vero che Hegel rifiuta questo punto di vista, perché a suo avviso esso è astratto e unilaterale (in realtà, egli dice, l’essenza assoluta della fede non è qualcosa di astratto che stia al di là della coscienza credente, bensì si incarna nello spirito della comunità). Ma è evidente che anche qui egli ha avuto un’intuizione (la fede come alienazione in quanto scissione della coscienza) destinata a importantissimi sviluppi nel pensiero filosofico sociale successivo (si pensi a Feuerbach e a Marx).
In generale, ciò che fa la forza e l’importanza di queste pagine della Fenomenologia sullo «spirito estraniatosi», al di là degli arbitri e delle forzature di carattere speculativo che caratterizzano i vari passaggi della deduzione dialettica, è il fatto che tutta la storia moderna (che è appunto «spirito estraniatosi») è rappresentata attraverso la categoria dell’alienazione, e le sue singole contraddizioni e scissioni sono parimenti evidenziate e descritte attraverso quella categoria. Il punto di partenza dell’«estraniazione», che costituisce poi il motore di tutto il processo storicodialettico dello spirito estraniato, è la scissione fra individuo e comunità, fra individuo e genere: mentre nella pòlis individuo e comunità sono immediatamente conciliati e in equilibrio, poiché l’individuo non fa valere la propria volontà singola e i propri interessi particolari, bensì l’essenziale per lui è l’universalità sostanziale del diritto, gli affari dello Stato, l’interesse generale; nel mondo successivo al tramonto della pòlis invece, questo equilibrio fra individuo e comunità, fra individuo e genere va perduto, e subentra la scissione. L’individuo non si riconosce piú nella comunità, il suo fine non è piú l’interesse generale bensì l’interesse particolare: Hegel dice che la persona è divenuta un’«esistenza accidentale», «un muovere e operare privi di essenza», caratterizzati da «un sussistere molteplice e vario, il possesso [Besitz] », che si chiama «proprietà [Eigentum]» [ibid., p. 38]. Ciò produce una lacerazione profonda fra particolare e universale: al punto che l’individuo non si riconosce piú nel mondo sociale circostante che pure è un suo prodotto che gli diventa una realtà estranea e nemica: qui la realtà, dice Hegel, «è anche immediatamente inversione [Verkehrung]», «perdita dell’essenza» da parte dell’autocoscienza [ibid., p.41]. Questa scissione fondamentale che, naturalmente, è storicamente necessaria secondo Hegel, ma che parimenti deve essere superata fra individuo e genere, fra particolare e universale, fra coscienza e mondo sociale, determina il ritmo dialettico di tutta la storia moderna, e si esprime e si articola di volta in volta in singole opposizioni o scissioni. Hegel può cosí disarticolare e ordinare tutta quella storia sulla base di alcuni temi e avvenimenti essenziali: la nascita del mondo borghese, il problema del lavoro e della ricchezza, il rapporto fra Stato e Ricchezza e la contraddizione fra Coscienza nobile e Coscienza ignobile, l’opposizione fra illuminismo e fede in quanto alienazione della coscienza.
È impossibile sottovalutare l’importanza di tutto ciò nella storia del pensiero filosoficosociale moderno e non riconoscere che il grandioso impianto storicodialettico di Hegel costituisce un punto di svolta decisivo, poiché per un verso riprende e sviluppa alcuni temi centrali della riflessione storica di Rousseau (l’organicismo della città antica, la coincidenza in essa di vita pubblica e di vita privata, di individuo e comunità, l’azione dissolvente su tutto ciò del commercio, del denaro, dell’accumularsi della ricchezza), e quindi individua il dramma del mondo moderno nella scissione fra individuo e genere, e per un altro verso articola tale scissione nella contraddizione fra Stato e Ricchezza, fra Coscienza nobile e Coscienza ignobile, fra illuminismo e fede, ponendo cosí le premesse metodologiche e concettuali della riflessione di Feuerbach e di Marx.
Inoltre è importante rilevare che, come l’alienazione ha nella sezione della Fenomenologia sullo «spirito estraniatosi» una precisa origine storicosociale, col dissolversi del legame individuocomunità che caratterizza la pòlis e dunque coi fatto che l’individuo non si riconosce piú nel mondo sociale che egli stesso ha prodotto, mondo che gli diventa perciò una «realtà data immediatamente» e a lui «estranea», cosí il superamento dell’alienazione o estraniazione ha luogo anch’esso sul piano storicosociale, con la rivoluzione francese. E la grande rivoluzione, infatti, che produce la «libertà assoluta» e la «volontà universale»; nella rivoluzione l’autocoscienza «abbraccia se stessa», «il mondo alla coscienza è senz’altro la sua volontà, e questa è volontà universale», e «ciò che mostrasi come operare dell’intiero, è l’immediato e cosciente operare di ciascuno» [ibid., pp. 12526]. Qui Hegel ha presenti sia gli aspetti sociali, sia gli aspetti ideologici della rivoluzione: e cioè, per un verso, egli sottolinea il crollo di un intero sistema sociale (feudale), crollo che sopprime il carattere politico della società civile e restituisce il singolo alla totalità politica, e per un altro verso sottolinea l’ideologia democraticorousseauiana con cui tale crollo è promosso, accompagnato e vissuto (l’individuo non è piú un uomo privato, bensì un cittadino).
Ecco perché l’estraniazione è superata: perché è superata ormai ogni contrapposizione fra l’individuo, la coscienza singola, e il mondo sociopolitico circostante, perché la coscienza singola «è altrettanto immediatamente consapevole di se stessa come di volontà universale; essa è consapevole che il suo oggetto è legge da lei data e opera da lei compiuta; e passando all’attività e creando oggettività non fa dunque niente di singolo, ma solo leggi e azioni di Stato» [ibid., pp. 12728]. La coscienza, dunque, non separa piú qualcosa da sé che le diventi estraneo e nel quale essa non si riconosca, bensí produce ora il suo mondo (sociopolitico), e si riconosce in esso perché è opera sua. È cosí superata la sfera dello «spirito estraniato». Naturalmente Hegel è consapevole che tutto questo è vero solo in parte, e in parte è illusione dell’ideologia democratico rousseauiana dei rivoluzionari (la libertà universale della rivoluzione finirà col produrre «nessun’opera né operazione positiva; ad essa resta soltanto l’operare negativo; essa è solo la furia del dileguare» [ibid., p. 129]); ma quello che qui va sottolineato è che l’alienazione o estraniazione, sorta nella Fenomenologia nel corso della storia come una precisa figura sociopolitica, viene superata con un’altrettanto precisa figura sociopolitica.
Hegel, dunque, ha elaborato una teoria dell’alienazione e come categoria logicometafisica e come categoria centrale del mondo moderno, capace di coglierne e di evidenziarne lo sviluppo e le contraddizioni. È difficile, anzi impossibile sopravvalutare, per questo aspetto, l’influsso della Fenomenologia hegeliana su Marx e il marxismo. Infatti, nei Manoscritti economicofilosofici [1844a] Marx che definisce la Fenomenologia, in modo assai significativo, come «luogo d’origine della filosofia hegeliana» (trad. it. p. 164) prende sí le distanze dal concetto hegeliano di alienazione come categoria logicometafisica, ma riconosce tutto il suo debito verso il concetto hegeliano di alienazione come categoria centrale del mondo moderno. «La Fenomenologia, scrive infatti Marx, è perciò la critica nascosta, non ancora chiara a se stessa, e mistificatrice; ma nella misura in cui essa tien ferma l’estraniazione dell’uomo anche se l’uomo vi appare soltanto nella forma dello spirito , tutti gli elementi della critica si trovano in essa nascosti e spesso già preparati ed elaborati in un modo che va assai al di là del punto di vista di Hegel. La ‘coscienza infelice’, la ‘coscienza nobile’, la lotta tra la coscienza nobile e quella ignobile, ecc., questi singoli capitoli contengono gli elementi critici se pure ancora in una forma estraniata di interi settori, come la religione, lo Stato, la vita civile [Urgerlich], ecc. » [ibid., p. 166]. Riconoscimento che significa, appunto, che nella sua rappresentazione dialettica dei mondo moderno Hegel ha fatto un uso storico della categoria dell’estraniazione, e ha potuto cogliere cosí elementi essenziali della condizione estraniata dell’uomo (anche se questo è visto solo come spirito) nell’epoca del costituirsi delle condizioni che renderanno possibile la società borghese, e poi nell’epoca del pieno dispiegarsi di quest’ultima. Se, quindi, come categoria logicometafisica l’alienazione hegeliana deve, secondo Marx, essere criticata e respinta, come categoria storica può diventare invece uno strumento concettuale di prim’ordine per una critica dell’economia, della politica e dell’ideologia moderne, anche se, certo, essa dovrà essere liberata da ogni scoria speculativa e spiritualistica. E ciò avverrà, da parte di Marx, con il contributo e la mediazione decisivi di Feuerbach.
2. Da Feuerbach al giovane Marx.
Il concetto di alienazione mostra tutta la sua forza e la sua fecondità nel fatto che esso, anche se aspramente criticato da Feuerbach nella sua formulazione hegeliana, viene però da lui non solo ripreso, ma diventa il momento centrale della sua critica della religione cristiana e della stessa filosofia di Hegel.
Secondo Feuerbach, il cristianesimo separa dall’uomo i suoi predicati piú essenziali e li attribuisce a un ente fantastico, Dio, che in questo modo diventa il vero soggetto, dal quale l’uomo viene a dipendere (in quanto egli si concepisce come posto o creato da Dio). La religione si basa dunque su una scissione che è astrazione: l’essenza dell’uomo (l’intelligenza, la spiritualità, ecc.) viene separata dall’uomo sensibile e finito e concepita come un ente per sé stante, mentre l’uomo sensibile e finito scade a prodotto o creatura della propria essenza ipostatizzata o sostantificata, cioè scade a predicato del proprio predicato. Questo capovolgimento o inversione, dove ciò che è primo diventa secondo e ciò che è secondo diventa primo, è appunto l’alienazione religiosa. Compito principale della filosofia è quello di mostrare il carattere puramente umano della religione e di restituire all’uomo ciò che egli ha alienato in Dio.
La filosofia idealistica, d’altra parte, si fonda sulla stessa alienazione o scissione. Anche la filosofia idealistica, infatti, ha fissato teoreticamente la scissione delle qualità essenziali dell’uomo dall’uomo stesso e le ha divinizzate come essenze per sé stanti: il pensiero è divenuto cosí un soggetto universale da cui tutto il resto viene a dipendere. In questo senso anche la logica di Hegel è una teologia, sia pure razionalizzata: perché, come l’essere della teologia è l’essere trascendente, l’essere dell’uomo posto al di fuori dell’uomo, cosí l’essere della logica di Hegel è il pensiero trascendente, il pensiero dell’uomo posto al di fuori dell’uomo. Filosofia speculativa e religione si fondano dunque secondo Feuerbach sullo stesso processo di astrazione, sulla stessa alienazione. «Astrarre, egli scrive [1843], vuol dire porre l’essenza della natura al di fuori della natura, l’essenza dell’uomo al di fuori dell’uomo, l’essenza del pensiero al di fuori dell’atto del pensiero. La filosofia di Hegel ha estraniato l’uomo da se stesso, avendo fatto poggiare tutto il sistema su questi atti di astrazione» (trad. it. p. 53).
È evidente, in questa impostazione, quanto Feuerbach debba a Hegel e quanto al tempo stesso ne sia lontano: l’alienazione è scissione e separazione; essa postula quindi una riappropriazione (Wiederaneignung), cioè l’uomo deve riprendere in sé ciò che ha alienato, ovvero separato arbitrariamente da sé. E tuttavia, se questo impianto è tipicamente hegeliano, è anche vero che Feuerbach, per altro verso, trasforma completamente il carattere e il significato dell’alienazione. Essa non è piú, come in Hegel, oggettivazione, oggettività storicomateriale in quanto tale, perché l’oggettività, lungi dall’essere qualcosa di ‘secondo’, di prodotto, nel senso di ‘posto’, è il primo reale nel quale l’uomo si inscrive in quanto ente finito. La concezione feuerbachiana dell’alienazione è quindi tutta incentrata su una nuova concezione materialistica dell’uomo e dell’oggettività. Feuerbach scardina fin dalle fondamenta la concezione dell’alienazione come oggettività, perché rinuncia all’ipostasi dell’autocoscienza e alla relativa Entäusserung che costituisce il motivo centrale dell’impianto logicometafisico della Fenomenologia dello spirito, e perché rinuncia quindi alla concezione dell’oggettività come creazione o posizione dell’idea. L’alienazione, lungi dall’essere costituita dalla ‘cosalità’ (Dingheit) e dal mondo della finitezza e della determinatezza, consiste invece nell’astrazione da quel mondo. Consiste, cioè, in quel complesso di ipostasi che, tanto nella religione quanto nella filosofia speculativa, sottraggono all’uomo la sua essenza. In questo modo Feuerbach ha radicalmente trasformato, rispetto a Hegel, il senso e la natura dell’alienazione. Essa non è piú, infatti, un atto creatore attraverso il quale Dio o lo spirito assoluto esteriorizza la sua sostanza nel mondo per riprenderla in sé e arricchirsi di tutto ciò che essa conteneva; l’alienazione è, al contrario, un atto distruttore, nel senso che spoglia l’uomo della sua essenza, della sua natura, e lo rende estraneo a se stesso. L’alienazione perde cosí quel carattere ‘positivo’ che aveva in Hegel (per il quale «l’alienazione ha significato non solo negativo, ma anche positivo», in quanto «l’alienazione dell’autocoscienza, proprio lei pone la cosalità» [1807, trad. it. II, p. 287]), dovuto al fatto che lo spirito assoluto non giunge alla piena coscienza di sé se non attraverso l’alienazione o oggettivazione di ciò che costituisce la sua essenza (e dunque riconoscendosi nell’oggettività); in Feuerbach l’alienazione assume un carattere unicamente negativo, in quanto ha per effetto un impoverimento profondo dell’uomo, dovuto alla perdita dei suoi attributi essenziali. Il superamento dell’alienazione si configura quindi come un ritorno dell’uomo a se stesso, e non come un superamento o una soppressione dell’oggettività materiale.
Questa impostazione materialistica del problema dell’alienazione esercita un influsso profondo sul giovane Marx. Questi accetta infatti la valutazione della filosofia di Hegel come alienazione dell’ente umano. «Il grande contributo di Feuerbach, scrive Marx nei Manoscritti economicofilosofici, consiste [ ... ] nell’aver dimostrato che la filosofia non è altro che la religione ridotta in pensieri e svolta col pensiero; e che quindi bisogna parimenti condannarla, essendo una nuova forma, un nuovo modo di presentarsi dell’estraniazione dell’essere umano» [1844a, trad. it. p. 161]. E Marx ribadisce piú volte che Hegel «prende le mosse dall’estraniazione (logicamente, dall’infinito, dall’universale astratto) della sostanza, dalla astrazione assoluta e fissata; vale a dire, con espressione popolare, dalla religione e dalla teologia» [ibid.]; che la logica hegeliana è «il valore speculativo ideale dell’uomo e della natura», è «il pensiero alienato, e che perciò astrae dalla natura e dall’uomo reale», cioè è in certo modo il «denaro dello spirito» [ibid., p. 164]: nel senso che, come il denaro è l’espressione materiale, tangibile, del valore delle cose, separato dalle cose stesse, cosí la logica è l’essenza dell’uomo e delle cose, separata e astratta, cioè alienata, da essi.
Marx, dunque, riprende e sviluppa la valutazione feuerbachiana della filosofia di Hegel e della sua logica come estraniazione dell’ente umano. Ed egli può fare ciò, in quanto accetta il presupposto della concezione feuerbachiana: l’uomo come ente sensibilefinito. Senonché, per Marx l’uomo non è solo ente sensibilefinito, ma è anche ente sociale; non è solo ente naturale, ma è anche ente naturale umano, e dunque tale che, se è un prodotto della natura e si inscrive in essa, la modifica però continuamente attraverso il lavoro e la produzione, cioè attraverso la prassi sociale: se quindi l’uomo è un prodotto della natura, anche la natura è un prodotto dell’uomo. È questa prospettiva materialisticostorica, già presente negli scritti giovanili di Marx, che gli permette per un verso di accogliere alcuni dei motivi essenziali della critica feuerbachiana al concetto hegeliano di alienazione, e per un altro verso di andare molto al di là di Feuerbach, elaborando un proprio concetto di alienazione rigorosamente storicosociologico e funzionalizzato a una particolare formazione economicosociale: quella borghese moderna.
Secondo Marx, infatti, il concetto hegeliano logicometafisico di alienazione ha due difetti essenziali, che sono entrambi il risultato di uno stesso presupposto idealistico e che al limite si identificano: una sostanziale destorificazione e un positivismo acritico. Destorificazione, perché avendo identificato l’alienazione con l’oggettivarsi della coscienza, con il suo produrre il mondo naturale e storicosociale, Hegel ha di fatto identificato l’alienazione con il lavoro, con l’oggettivazione in quanto tale. Con ciò Hegel si è precluso un uso rigorosamente storico della categoria di alienazione (nonostante alcune sue importanti intuizioni in merito), e ha posto le premesse per una concezione idealisticoromantica e spiritualistica, che prescinde dalle particolari situazioni economicosociali e individua l’alienazione nel lavoro in quanto tale, dunque nel rapporto soggettooggetto, nel rapporto sociale uomonatura. Per una concezione di questo tipo, lo «scandalo», dice Marx [1844a], non consiste in una particolare organizzazione della società, ma nel fatto che ci sia un mondo: ovvero, «ciò che vi è di scandaloso nell’estraniazione non è il carattere determinato dell’oggetto, ma il suo carattere oggettivo» (trad. it. p. 175). Positivismo acritico perché, essendo la coscienza nel suo esseraltro come tale presso di sé, riconoscendo se stessa in tutto ciò che ha posto o alienato, e superando proprio in questo modo l’alienazione, essa accetta e giustifica e spaccia come sua espressione assolutamente necessaria ciò che in un primo tempo sembrava negarla e contraddirla. Sicché la coscienza, dopo aver riconosciuto di condurre nel diritto, nella politica, ecc., una vita alienata, riconosce poi di condurre in questa vita alienata la sua vera vita umana; dopo aver riconosciuto la religione come un prodotto dell’autoalienazione, si trova poi riconfermata nella religione come religione.
Una volta individuate in questo modo le caratteristiche essenziali della teoria hegeliana logicometafisica dell’alienazione, si capisce che l’esigenza di Marx è quella di elaborare una teoria rigorosamente materialisticostorica di quel concetto: materialistica perché funzionalizzata all’uomo non in quanto mera ente ideale ovvero autocoscienza, ma all’uomo in quanto ente naturalesociale; storica, perché funzionalizzata a una particolare formazione storica, la società borghese moderna (e qui trovano il loro sviluppo e il loro inveramento molte delle intuizioni storiche di Hegel). Questo fa Marx sin dai suoi primi scritti.
Nel Problema ebraico troviamo un uso essenzialmente politico del concetto di alienazione (espresso terminologicamente in modi diversi: Veräusserung, Entfremdung, Entäusserung). Marx dice che la democrazia politica moderna, prodotta dalla rivoluzione borghese, è «cristiana» perché realizza l’emancipazione soltanto nel cielo dello «Stato politico» (dove tutti gli uomini sono uguali e ogni uomo vale come sovrano), e non nella realtà terrena della ‘società civile’, dove tutti gli uomini sono disuguali. L’emancipazione politica, certo importantissima, diventa cosí un involucro esterno che ha come contenuto reale la società borghese; il citoyen ha come proprio presupposto e contenuto l’homme. Ma si tratta aggiunge subito Marx dell’uomo nella sua manifestazione selvaggia e insociale, «come si è guastato, perduto, alienato [verdussert] attraverso l’intera organizzazione della nostra società, sotto il dominio di rapporti ed elementi inumani». «La rappresentazione fantastica, continua Marx, sogno, il postulato del cristianesimo, l’uomo sovrano, ma in quanto ente estraneo [als fremden Wesen], distinto dall’uomo effettivo, diventa nella democrazia la realtà sensibile, il presente, la norma mondana» [1844b, trad. it. p. 373].
Qui, come si vede, Marx presenta come ‘alienati’ come situazioni di alienazione, entrambi i lati che risultano dalla scissione o dualismo che lacera l’uomo moderno. Se questi in quanto membro della società civile è l’uomo nella sua manifestazione selvaggia e insociale, come si è perduto e alienato attraverso l’intera organizzazione della nostra società; altrettanto alienato è l’uomo ‘sovrano’, il cittadino, perché in questa determinazione è un ente estraneo, distinto e separato, in una parola scisso dall’uomo effettivo, reale. Alienato insomma, è l’uomo sia in quanto membro della società civile, sia in quanto membro dello Stato politico. Da un lato è «l’uomo perduto a se stesso, alienato», e dall’altro lato è «un ente estraneo». L’alienazione coinvolge entrambi i lati della scissione nella quale l’uomo moderno si trova lacerato e opposto a se stesso; essa consiste, anzi, in questa scissione, in questo dualismo fra la vita dell’individuo e quella del genere, fra la vita della società civile e quella politica, onde l’uomo si rapporta come a sua vera vita alla sfera politicostatuale, ma solo trascendendo la sua vita reale, sociale. Nella società borghese moderna l’uomo è da un lato individuo egoistico indipendente e dall’altro lato astratta persona morale. Il superamento di questa alienazione si avrà col superamento del dualismo o della scissione che ne costituisce il fondamento: quando cioè l’uomo reale avrà riaccolto in sé l’astratto cittadino e organizzato le proprie forze come forze sociali. Soltanto allora, dice Marx, l’uomo non separerà piú da sé la forza sociale nella figura della forza politica.
Inoltre, l’alienazione, individuata qui a livello sociopolitico, ha secondo Marx un’immediata e organica espressione ideologica: il cristianesimo, che ha portato a termine teoricamente l’autoestraniazione umana. Nel cristianesimo, infatti, l’uomo cosí com’è, nella miseria della sua situazione effettiva, l’uomo alienato, vien fatto valere nel cielo religioso come un ente sovrano: ma ciò è strettamente funzionale alla società borghese moderna, cioè ad un tipo di società nella quale ad una uguaglianza formale corrisponde una disuguaglianza reale. Nella società borghese l’uomo è libero solo in contraddizione con se stesso, solo in modo astratto, limitato, parziale: per trasferirsi nell’ambito dell’universalità politica, dello Stato, deve prescindere dalla sua condizione reale, sociale, dal suo posto nella società civile. Con l’emancipazione politica, l’uomo «si libera facendo un giro vizioso e con l’aiuto di un mezzo», cioè attraverso lo Stato; ma in questo modo l’uomo è. «religiosamente vincolato», perché, proprio come nella religione, egli riconosce se stesso solo con un giro vizioso, solo con l’aiuto di un mezzo. Come Cristo è il mediatore a cui l’uomo attribuisce tutta la propria divinità, cosí lo Stato politico è il mediatore in cui l’uomo trasferisce la sovranità e l’uguaglianza. I membri dello Stato politico sono quindi intrinsecamente e oggettivamente religiosi (anche se proclamano laico lo Stato!) «per il dualismo fra la vita individuale e quella del genere, fra la vita della società civile [bügerlich] e la vita politica; religiosi, in quanto l’uomo si rapporta come a sua vera vita alla vita statale, al di là della sua individualità di fatto» [1844b, trad. it. pp. 37273]. Da ciò Marx conclude che il cristianesimo è l’espressione ideologica dell’alienazione individuata a livello sociopolitico. Esso è la religione piú conforme alla società borghese moderna, in quanto unifica in Dio degli uomini divisi fra loro, posti l’un contro l’altro come nemici, e dichiara uguali in cielo uomini che sono disuguali in terra. Per questo verso il cristianesimo è «lo spirito della società civile, della sfera dell’egoismo, del bellum omnium contra omnes», cioè della separazione dell’uomo dagli uomini. Il cristianesimo è, insomma, l’espressione ideologica per eccellenza della condizione estraniata dell’uomo moderno.
Ma è nei Manoscritti economicofilosofici del 1844 che il concetto di alienazione o estraniazione trova l’articolazione piú ampia e piú ricca, e questa volta in un contesto non piú soltanto sociopolitico, ma nel corso dei primo grande confronto di Marx con l’economia classica. E punto di partenza della teoria del lavoro alienato è costituito da «un fatto dell’economia politica, da un fatto presente» [1844a, trad. it. p. 71].
Nel Manoscritti la teoria del lavoro alienato è articolata in quattro punti principali, che si possono indicare schematicamente come segue: 1) Il lavoratore è estraniato dal prodotto della propria attività; «l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto dei lavoro, si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce» [ibid.]. 2) L’estraniazione del lavoratore dal prodotto della sua attività costituisce una estraniazione dall’attività produttiva stessa. Quest’ultima non è piú una manifestazione essenziale dell’uomo, bensí «lavoro forzato», determinato soltanto dalla necessità esterna. Il lavoro non è piú autoconferma, e sviluppo di una libera energia fisica e spirituale, bensí sacrificio di sé e mortificazione. 3) Estraniandosi dall’attività produttiva, il lavoratore si estrania anche dal genere umano. Infatti la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo; la vita produttiva è la vita «generica». Ma nel lavoro alienato la vita produttiva diventa soltanto mezzo di vita. 4) La conseguenza immediata di questa estraniazione del lavoratore dalla vita «generica», dall’umanità, è l’estraniazione dell’uomo dall’uomo. Questa reciproca estraniazione degli uomini ha la sua manifestazione piú tangibile nel rapporto operaiocapitalista. Infatti, se il prodotto del lavoro non appartiene all’operaio, che si trova di fronte ad un potere estraneo, ciò è possibile solo per il fatto che esso appartiene ad un altro uomo estraneo all’operaio; se l’attività dell’operaio è per lui un tormento, è però godimento per un altro e gioia per un altro.
In questa teoria del lavoro alienato, è evidente l’uso di categorie e di strumenti teorici di origine feuerbachiana. Lo schema feuerbachiano dell’alienazione religiosa viene sostanzialmente ripreso da Marx e funzionalizzato alla situazione dell’operaio nella società borghese moderna. L’operaio trasforma la natura, mette negli oggetti il suo lavoro, la sua intelligenza, le sue capacità essenziali. Ma piú produce oggetti e meno ne possiede, e questi sorgono di fronte a lui come enti estranei, come potenze indipendenti, che lo dominano invece di essere da lui posseduti e dominati. Ritroviamo cosí a livello della realtà socioeconomica lo stesso meccanismo dell’alienazione religiosa. L’uomo oggettiva nei prodotti del lavoro, negli oggetti, le sue forze essenziali, ma in quanto i prodotti dei lavoro diventano soggetti indipendenti, incontrollabili, che dominano l’operaio invece di essere da lui dominati e posseduti, l’operaio è divenuto, o piuttosto è scaduto a predicato dei propri predicati.
Del resto, Marx mette in rilievo esplicitamente l’analogia fra l’alienazione dei lavoro e l’alienazione religiosa come è stata caratterizzata da Feuerbach: «Quanto piú l’operaio si consuma nel lavoro, tanto piú potente diventa il mondo estraneo oggettivo, che egli si crea dinanzi, tanto piú povero diventa egli stesso, e tanto meno il suo mondo interno gli appartiene. Lo stesso accade nella religione. Quante piú cose l’uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se stesso» [Marx 1844a, trad. it. p. 72]. Affermazione che richiama, perfino nella lettera, Feuerbach, che nell’Essenza del cristianesimo [1841] aveva scritto: «Per arricchire Dio, l’uomo deve impoverirsi; affinché Dio sia tutto, l’uomo deve essere nulla... In breve, l’uomo nega la sua conoscenza, il suo pensiero, per porre la sua conoscenza, il suo pensiero in Dio. L’uomo rinuncia alla sua personalità.... nega la dignità umana, l’Io umano» (trad. it. pp. 5153). E Marx a sua volta: «Come nella religione, l’attività propria della fantasia umana, del cervello umano e del cuore umano influisce sull’individuo indipendentemente dall’individuo, come un’attività estranea, divina o diabolica, cosí l’attività dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad un altro; è la perdita di sé» [1844a, trad. it. p. 75].
Si può dire quindi che la teoria feuerbachiana dell’alienazione religiosa e la teoria marxiana del lavoro alienato ricostruiscono entrambe un processo che presenta lo stesso ‘movimento’, la stessa struttura formale: separazione dei predicato e sua trasformazione in soggetto; scadere dei soggetto reale a predicato del proprio predicato. È evidente dunque la continuità fra le due teorie. Se è vero che l’alienazione resta pur sempre un concetto di origine hegeliana, in quanto denota una situazione di separazione o scissione, è anche vero che, rispetto all’impianto logicometafisico di Hegel, cambia del tutto la natura della scissione di cui qui si tratta, che non è piú l’opposizione soggettooggetto, autocoscienzamondo, ma è la separazione dell’uomo dalla sua attività essenziale e dai prodotti di tale attività (un tipo di separazione che Hegel aveva intravisto nella sua dialettica dello «spirito estraniato»).
Nei Manoscritti economicofilosofici, dunque, l’alienazione non coincide piú, idealisticamente, con l’oggettività in quanto tale, materiale e storica poiché l’alienazione dell’operaio nel suo prodotto, dice Marx, non significa solo che «il suo lavoro diventa un oggetto, qualcosa che esiste all’esterno» [ibid., p. 72], ma che esso esiste «a lui estraneo, e diventa di fronte a lui una potenza per sé stante» bensí consiste in quell’inversione di soggetto e predicato che, scoperta da Feuerbach come il momento teorico centrale della religione e della filosofia speculativa, viene vista da Marx come l’operazione oggettiva realizzata ogni giorno dalla società borghese.
Ma è evidente anche il grande passo in avanti che Marx compie rispetto a Feuerbach: poiché, se è vero che egli si serve di strumenti teorici feuerbachiani per la sua analisi del lavoro estraniato (strumenti che Feuerbach aveva applicato fondamentalmente alle categorie logiche, morali e religiose della società), egli funzionalizza subito questi strumenti all’esame della struttura della società moderna, scoprendo a questo livello tutta la loro forza e fecondità. L’alienazione, l’inversione di soggetto e predicato, diventa cosí il dominio reale del lavoro morto sul lavoro vivo, del capitale sull’operaio, che Marx ricava dalle analisi dell’economia politica. E d’altra parte è proprio l’inversione reale, sociale, operata dalla società borghese, il suo essere un mondo capovolto, a spiegare anche l’inversione teoretica analizzata da Feuerbach.
Di qui il fatto che lo sforzo di Marx nei Manoscritti è sempre teso a mettere in luce la base oggettiva, materiale (cioè strutturale) dell’alienazione rilevata a livello delle ideologie e della religione. La filosofia speculativa, e con essa la religione, non è soltanto, feuerbachianamente, un’alienazione di tipo teoretico, ma è espressione di una alienazione reale, sociale. Se l’uomo della filosofia speculativa è soggetto astratto, dunque scisso da se stesso, estraniato, egli è tale perché l’uomo della società borghese è realmente scisso da se stesso, estraniato. Quando, con la soppressione positiva della proprietà privata, l’uomo si approprierà la propria essenza divenutagli estranea, egli supererà anche tutte le estraniazioni che a livello del pensiero scindono l’uomo, lo alienano da se stesso. E si avrà questo superamento perché l’uomo produrrà l’uomo, produrrà se stesso e l’altro uomo; perché sopprimerà a tutti i livelli la propria autoestraniazione, e quindi si approprierà a tutti i livelli la propria essenza; perché sarà risolto ogni antagonismo tra l’esistenza e l’essenza. La soluzione degli enigmi teorici, dice Marx, è un compito della pratica, e la vera pratica è una condizione di una teoria reale positiva.
3. Il concetto di alienazione nell’opera matura di Marx.
Anche nei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (il primo grande abbozzo del Capitale), il concetto di alienazione ricorre molte volte ed ha una funzione teoricocritica decisiva. Nel rapporto capitale lavoro salariato, scrive ad esempio Marx, il lavoro, l’attività produttiva, appare rispetto alle sue stesse condizioni e al suo stesso prodotto come la forma estrema di estraniazione (Entfremdung). E ancora: «Nell’economia politica borghese, e nell’epoca della produzione cui essa corrisponde questa completa estrinsecazione dell’interiorità umana si presenta come un completo svuotamento, questa universale oggettivazione come estraniazione [Entfremdung] totale, e l’eliminazione di tutti gli scopi unilaterali determinati come sacrificio dello scopo autonomo a uno scopo del tutto esterno» [185758, trad. it. p. 466]. Affermazioni di questo genere sono numerosissime nei Lineamenti. Ma è soprattutto in un gruppo di pagine sul tipo di connessione sociale che si realizza per la prima volta nella società borghese moderna, che troviamo il concetto marxiano di alienazione già sviluppato ed elaborato nella direzione del feticismo [ibid., pp. 88 sgg.].
La dipendenza reciproca e universale degli individui, mentre poi essi sono indifferenti gli uni agli altri, è, dice Marx, la caratteristica dei legami sociali nella società borghese. Questi legami sociali hanno la loro espressione nel valore di scambio, poiché è solo grazie ad esso che l’attività, o il prodotto di ogni individuo, diventa per lui un’attività e un prodotto; l’individuo deve creare quel prodotto generale che è il valore di scambio, o, nella sua forma autonoma e individualizzata, il denaro. Solo in quanto è proprietario di denaro, un uomo esercita il suo potere sull’attività di un altro o sulla ricchezza sociale. «Esso porta con sé, in tasca, il proprio potere sociale, cosí come la sua connessione con la società» [ibid., p. 88]. Il carattere sociale dell’attività e la forma sociale del prodotto, cosí come la partecipazione dell’individuo alla produzione, appaiono qui come qualcosa di estraneo (Fremdes), di oggettualemateriale (Sachliches). I rapporti fra gli uomini esistono indipendentemente da loro e sorgono dall’urto fra individui indifferenti gli uni agli altri. Lo scambio universale delle attività e dei prodotti, che è divenuto condizione di vita e rapporto reciproco di tutti gli individui particolari, si presenta ad essi come una cosa, estranea e indipendente. Nel valore di scambio, i rapporti sociali delle persone sono trasformati in rapporti sociali delle cose; ogni individuo possiede la forza sociale sotto forma di cosa.
Se è vero che le società preborghesi erano caratterizzate da rapporti di dipendenza personale, e che la società borghese costituisce un enorme progresso nella storia umana poiché realizza per la prima volta l’indipendenza delle persone, tale indipendenza, però, è fondata sulla dipendenza verso le cose. Lo scambio mediato dal valore di scambio e dal denaro implica una divisione del lavoro assai avanzata e una dipendenza universale tra i produttori, e al tempo stesso il completo isolamento dei loro interessi privati, la cui unità e la cui integrazione reciproca esistono come un rapporto naturale al di fuori degli individui, indipendente da loro. La necessità di trasformare il prodotto del lavoro in valore di scambio, in denaro, affinché gli uomini possano acquistare e affermare la loro forza sociale in questa forma ‘cosale’, è dovuta al fatto che la produzione non è ancora direttamente sociale, né frutto dell’associazione, e che il lavoro non è ripartito in modo comunitario. Gli individui sono sussunti sotto il lavoro sociale, che pesa su di essi come una fatalità e un potere estraneo; la produzione sociale non è ancora subordinata ad essi, che non possono trattarla come una forza e una capacità comuni. Gli uomini si rapportano gli uni agli altri solo attraverso lo scambio delle merci: cioè non si rapportano immediatamente, ma mediatamente, poiché sono separati e divisi, atomi di una società intimamente scissa e dilacerata e l’espressione tangibile di ciò è il denaro, che rende manifesta l’estraniazione degli uomini fra loro e la reificazione (Versachlichung, Verdinglichung) dei rapporti sociali.
Come si vede, qui Marx sviluppa la sua teoria dell’alienazione nella direzione dei feticismo delle merci. E feticismo è per Marx un fenomeno tipico della società borghese moderna e di essa soltanto. In questa società, infatti, il presupposto della produzione non è piú la comunità, che organizza la divisione del lavoro e distribuisce direttamente i prodotti del lavoro fra i suoi vari membri. Ciò avveniva, per esempio, nella comunità contadina patriarcale, dove filatura e tessitura erano in funzione dei soli bisogni della comunità, e tela e filato venivano ripartiti a seconda dei vari bisogni: qui e i lavori e i prodotti dei lavori erano immediatamente sociali. Nella società borghese, al contrario, la connessione sociale si realizza alle spalle degli individui, senza che essi la guidino consapevolmente. Gli uomini sono qui indipendenti, scissi gli uni dagli altri, e si rapportano gli uni agli altri solo in quanto possessori di merci (sia come possessori dei prodotti del lavoro, sia come possessori dei lavoro stesso, divenuto merce): si rapportano cioè non immediatamente, bensí mediatamente, attraverso lo scambio o il mercato. Qui dunque i rapporti fra gli individui appaiono per quel che sono: non come rapporti immediatamente sociali fra persone, ma come rapporti ‘cosali’, reificati, fra persone, anzi come rapporti sociali fra le cose. Il concetto di feticismo è dunque esprimibile anche con la parola ‘reificazione’: e infatti Marx parla spesso di Versachlichung o di Verdinglichung.
È evidente la profonda affinità fra il concetto di feticismo o reificazione, sviluppato nel Capitale, e il concetto di alienazione sviluppato nei giovanili Manoscritti economicofilosofici. Feticismo o reificazione significa infatti che il rapporto sociale fra i produttori è divenuto «un rapporto sociale fra oggetti esistente al di fuori di essi produttori». Ma poiché le merci si scambiano sulla base di una uguale quantità di sostanza valorante o lavoro astratto contenuto in esse, e d’altra parte le grandezze di valore variano continuamente, «indipendentemente dalla volontà, dalla prescienza e dall’azione dei permutanti», per questi ultimi «il loro proprio movimento sociale assume la forma d’un movimento di cose, sotto il cui controllo essi si trovano, invece che averle sotto il proprio controllo» [Marx 1867, trad. it. pp. 88 e 91]. Gli uomini, dunque, sono dominati dai propri prodotti, sono schiavi di ciò che hanno creato, sono sopraffatti da un mondo sociale che è loro estraneo, anche se è il frutto della loro attività. Come nei Manoscritti, anche qui la reificazione o alienazione è il dominio non semplicemente della cosa sull’uomo, ma dei prodotto del lavoro sull’uomo, onde quest’ultimo è schiavo di se stesso, della propria attività. Il problema quindi, ancora una volta, non è quello dell’oggettività in quanto tale, ma dell’oggettività sociale, sfuggita al controllo consapevole degli uomini e divenuta soggetto per sé stante, che li domina e li asservisce.
Del resto, che la teoria del feticismo sia una teoria dell’alienazione, è dimostrato anche dalle implicazioni ideologiche che essa ha. In primo luogo essa spiega il persistere della religione nella società moderna. Dice infatti Marx a proposito della «forma fantasmagorica di un rapporto fra cose» che i rapporti fra gli uomini assumono in questa società: «Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa dei mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Cosí, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana» [ibid., p. 88]. In altre parole, proprio perché il feticismo è dominio della cosa sull’uomo, nel senso che l’uomo viene a dipendere da un movimento di cose, di oggetti che ha prodotto lui stesso, esso costituisce il fondamento dell’ideologia religiosa; anche nella religione, infatti, l’uomo viene a dipendere dai propri attributi sostantificati, dalle proprie energie essenziali concepite come enti per sé stanti. Per questo verso, quella ‘falsa coscienza’ o ‘coscienza rovesciata’ della realtà che è la religione non è mera illusione, perché ha un saldo fondamento nella realtà sociale capitalistica, dove l’uomo è costantemente schiavo di se stesso, delle proprie forze oggettivate e incorporate al capitale. La religione è quindi il riflesso religioso del mondo reale, e tale riflesso religioso può scomparire «soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la natura. La figura del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta, come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano» [ibid., p. 97].
Ma il carattere alienante del feticismo, il dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore, non implica solo quella falsa coscienza della realtà che è la religione; esso spiega anche la metafisica dell’economia politica volgare, i continui scambi nei quali essa incorre, onde agli occhi dell’economista «gli elementi materiali del processo lavorativo appaiono per le loro proprietà materiali come capitale» [Marx 186366, trad. it. p. 1224]: cioè i caratteri sociali del processo produttivo capitalistico vengono trasformati in caratteri oggettivi, in proprietà naturali degli strumenti di produzione. Qui si vede molto bene che alienazione e feticismo vengono a coincidere, che sono due facce di uno stesso fenomeno. Infatti, ciò che determina specificamente il carattere complessivo del processo produttivo capitalistico è che in esso il processo lavorativo è diventato mezzo del processo di valorizzazione. Il processo lavorativo crea un prodotto utile, un valore d’uso, cioè trasforma le materie prime in prodotti; il processo di valorizzazione produce valore e plusvalore, valorizza il valore. Nella società capitalistica il processo lavorativo è diventato interno al processo di valorizzazione, cioè è diventato suo mezzo e strumento. E processo lavorativo si è trasformato in processo di valorizzazione, e questo ne altera profondamente i connotati. Infatti, mentre nel processo lavorativo l’operaio, dice Marx, entra in un normale rapporto attivo con i mezzi di produzione, determinato dalla natura e dal fine dei lavoro, cioè l’operaio fa suoi i mezzi di produzione e li tratta come puri e semplici materia e mezzo del suo lavoro, ed essi appaiono quali semplici materie e organi della sua attività creatrice; la situazione cambia radicalmente quando il processo lavorativo è diventato mezzo del processo di valorizzazione, quando esso è diventato processo di valorizzazione. Qui non è piú l’operaio che consuma i mezzi di produzione come puri e semplici mezzi di vita del lavoro, bensí è la materia prima, l’oggetto del lavoro in generale, che assorbe il lavoro dell’operaio, e lo strumento di lavoro serve solo da conduttore, da veicolo, per questo processo di assorbimento. Il capitale consuma la capacità lavorativa dell’operaio, ovvero si appropria il lavoro vivo come sangue vitale del capitale; ma in quanto incorpora la forzalavoro viva nelle sue componenti oggettive, il capitale diventa, dice Marx, un mostro animato, e comincia ad agire come se «avesse l’amore in corpo» [ibid., p. 1224]. Questo dominio del capitale sull’operaio è dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore: non è l’operaio che acquista mezzi di sussistenza e mezzi di produzione, bensí sono i mezzi di sussistenza che acquistano l’operaio per incorporarlo ai mezzi di produzione. I prodotti dell’operaio sono cosí diventati potenze autonome, «estraniate all’operaio», «feticci dotati di volontà e d’anima proprie» [ibid., pp. 121920].
Questo processo, che Marx definisce come l’alienazione della società capitalistica, è il fondamento oggettivo, reale, delle illusioni degli economisti, della loro coscienza feticistica. Infatti, poiché il lavoro vivo viene assorbito dal capitale e questo assume la forma degli specifici mezzi di produzione richiesti per determinati processi lavorativi, ecco allora che all’economista gli elementi materiali del processo lavorativo appaiono per le loro proprietà materiali come capitale. L’economista, insomma, non riesce a distinguere fra l’esistenza materiale dei mezzi di produzione in quanto fattori del processo lavorativo e la proprietà sociale che ne fa capitale; i mezzi di produzione, nella loro materialità, sono già di per se stessi capitale, e il capitale diventa una categoria metastorica, che si identifica coi mezzi di produzione in quanto tali, a prescindere dai contesti storici: qualcosa, dunque, che esiste da sempre. Un rapporto sociale si trasforma cosí in una cosa, e l’economista non riesce a superare questa crosta feticistica. Ma questa ‘illusione’ nasce dalla natura stessa del processo di produzione capitalistico. L’economista è incapace di distinguere fra proprietà sociali e cose, fra rapporti di produzione borghesi e mezzi di produzione, perché lo stesso identico processo lavorativo al quale i mezzi di produzione servono per le loro proprietà materiali come puri mezzi di vita del lavoro, essendo divenuto interno al processo di valorizzazione e suo strumento, trasforma gli stessi mezzi di produzione in puri e semplici mezzi per assorbire lavoro. Il feticismo dell’economista, insomma, è sí un’illusione, ma un’illusione che ha un fondamento nella realtà, nel processo di alienazione del lavoro: infatti, in quanto il processo lavorativo è diventato strumento e mezzo del processo di valorizzazione, il capitale impiega l’operaio, e poiché il capitale è costituito anche da strumenti di produzione, sono le cose che impiegano l’operaio e hanno esistenza autonoma. In virtú di questo rovesciamento, un dato rapporto sociale di produzione, che si rappresenta in oggetti, in cose, e che trasforma gli oggetti, le cose, in soggetti reali, viene scambiato per una proprietà materiale naturale di questi oggetti, di queste cose. Il processo feticistico è cosí compiuto, e il capitale è diventato un elemento naturale immutabile dell’esistenza umana.
Come si vede, nel Capitale teoria dell’alienazione e teoria del feticismo si saldano intimamente, sono due aspetti di uno stesso fenomeno: è l’alienazione del lavoro che spiega l’ideologia feticistica degli economisti. Il concetto di alienazione è dunque centrale non solo nell’opera giovanile di Marx, ma anche nell’opera della maturità: esso è la chiave di volta della critica marxiana della società capitalistica e della sua espressione teorica, l’economia politica.
Se ora, dopo tutto quello che si è visto, ritorniamo al rapporto MarxHegel, è evidente la profonda trasformazione che il concetto hegeliano logicometafisico di alienazione subisce ad opera di Marx. Esso non è piú una categoria coscienzialeidealistica, bensí è una categoria sociologicomaterialistica. Mentre per Hegel l’alienazione in senso logicometafisico è separazione fra soggetto e oggetto, fra coscienza e oggettività storicoempirica, e dunque la critica dell’alienazione è in primo luogo critica dell’intelletto (che divide e separa rigidamente soggetto e oggetto, pensiero e cosa, coscienza e mondo empirico), dell’illuminismo e della scienza; per Marx invece l’alienazione è la separazione dei produttori dai mezzi di produzione, è la scissione tra lavoro salariato e capitale, e dunque la critica dell’alienazione è la critica della società capitalistica e della sua espressione teorica, l’economia politica.
Si potrebbe dire quindi che il concetto marxiano di alienazione, mentre ha ben poco in comune con il concetto hegeliano, logicometafisico, di alienazione (nell’uno e nell’altro si tratta sí di separazione e di scissione, ma diversissimi poi sono gli elementi che si separano o si scindono), presenta invece parecchi aspetti di affinità con il concetto hegeliano storicopolitico di alienazione, cosí come è svolto ed elaborato nella sezione della Fenomenologia sullo «spirito estraniato». Qui infatti l’alienazione consisteva nel fatto che la coscienza non si riconosceva piú nel mondo sociopolitico e ideologico da essa prodotto.
E tuttavia bisogna riconoscere che, anche per quanto riguarda il concetto logicometafisico di alienazione, non viene mai meno un profondo elemento di continuità fra Marx e Hegel. Nell’opera matura di Marx tale elemento di continuità sembra contaminare o piuttosto fondere il concetto logicometafisico di alienazione con quello piú propriamente storico: nel senso che anche per Marx l’alienazione è una categoria centrale e necessaria della storia, qualcosa che non può non verificarsi e che, una volta verificatosi, non può non essere superato (per Hegel viene superato nel «sapere assoluto», per Marx nel comunismo), poiché ha già in sé automaticamente le condizioni che renderanno inevitabile il suo superamento. Per Hegel l’autocoscienza deve alienarsi, cioè deve farsi mondo e storia; ma, una volta che ha riconosciuto la natura spirituale del mondo e della storia, in quanto questi sono suoi prodotti e quindi hanno la sua stessa struttura categoriale, l’autocoscienza è ritornata a sé e ha soppresso l’alienazione. Dice Hegel [1807]: «Ma a noi lo spirito ha mostrato di non essere né soltanto il ritrarsi dell’autocoscienza nella sua pura interiorità, né il mero calarsi di essa nella sostanza e il nonessere della sua differenza; anzi ha mostrato di essere questo movimento del Sé il quale aliena se stesso e si cala nella sua sostanza, e come soggetto tanto è andato da essa in sé e l’ha resa oggetto e contenuto, quanto toglie questa differenza dell’oggettività e del contenuto» (trad. it. 11, P. 301)
Nello stesso modo, in Marx l’alienazione è qualcosa di assolutamente necessario, qualcosa che non può non manifestarsi nel corso della storia umana. «Dal punto di vista storico, egli dice, questa inversione appare come il punto di passaggio obbligatorio per ottenere, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, l’inesorabile sviluppo di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono fornire la base materiale di una libera società umana. Passare attraverso questa forma contraddittoria è necessario... È il processo di alienazione del lavoro» [186366, trad. it. pp. 12045]. D’altra parte se, come in Hegel, l’alienazione è qualcosa di necessario, essa è anche, come in Hegel, qualcosa che, una volta posto, contiene già in sé tutte le condizioni per il suo superamento, il quale è dunque altrettanto inevitabile. Dice infatti Marx a proposito del processo di alienazione del lavoro: «E qui l’operaio si eleva fin dall’inizio al disopra del capitalista, perché quest’ultimo è radicato in un processo di alienazione nel quale trova il suo appagamento assoluto, mentre l’operaio, in quanto ne è la vittima, è a priori con esso in un rapporto di ribellione, lo sente come processo di riduzione in schiavitù» [ibid., p. 1205]. Ma non è solo questione di mancanza di appagamento e quindi di ribellione da parte dell’operaio; questa non è che la premessa soggettiva per il rovesciamento pratico di un modo di produzione che ha in sé contraddizioni oggettive insuperabili, e che porteranno inevitabilmente al suo superamento: come Marx si sforza di mostrare con la sua analisi della caduta tendenziale del tasso di profitto e con la sua previsione della polarizzazione della società capitalistica in due classi sociali soltanto, una numerosissima di proletari e una ristretta di capitalisti, sicché, in questa prospettiva, diverrà inevitabile l’espropriazione degli espropriatori. Che Marx abbia sempre tenuto fermo all’una e all’altra tesi (caduta tendenziale del tasso di profitto e polarizzazione sociale), benché avesse individuato anche le controtendenze che avrebbero potuto annullare la caduta tendenziale del tasso di profitto (che quindi non è affatto una legge), e avesse previsto il sorgere di nuove, numerose classi intermedie con l’avvento del capitalismo delle società per azioni tutto ciò è un riflesso, a nostro avviso, di quello storicismo provvidenzialistico di tipo hegeliano, di cui Marx non si è mai veramente liberato, come dimostra appunto la persistenza nel suo concetto di alienazione di precise caratteristiche mutuate da Hegel (nonostante tutte le differenze). E non può essere senza significato il fatto che il tema dell’alienazione sia quasi del tutto assente nell’analisi economica e nella sociologia successive a Marx e a lui ispirate; mentre è stato ripreso ampiamente da varie «sociologie» e filosofie della società che non nascondono i loro presupposti romantici e la ripresa, profonda e sostanziale, di alcuni temi centrali della filosofia di Hegel.
5. Da Marcuse a Sartre.
Il ritorno della concezione hegeliana dell'alienazione è particolarmente chiaro ed evidente nell'opera di Herbert Marcuse, il quale, fin dai suoi primi scritti, individua il fenomeno dell'alienazione nel processo stesso del lavoro in quanto oggettivazione. Non a caso, infatti, il pensatore che secondo Marcuse offre un'interpretazione altamente soddisfacente dei concetto di lavoro, e che presenta implicitamente tutti gli elementi per superare l'impostazione angusta della scienza economica, è Hegel. In lui, dice Marcuse, il lavoro si presenta come un evento fondamentale dell'esistenza umana, come un evento che domina in maniera permanente e continua tutto l'essere dell'uomo, e che involge al contempo anche il mondo dell'uomo. Qui il lavoro non è piú solo una singola e determinata attività umana, ma è invece ciò su cui si basa e a cui torna sempre ogni singola attività: un fare. Piú precisamente, esso è il fare dell'uomo in quanto modo del suo essere nel mondo, solo per mezzo dei quale l'uomo diventa «per sé» ciò che egli è «in sé».
Fissato in questo modo, sulla falsariga di Hegel, il concetto di lavoro come prassi dell'esistenza umana nel mondo, che comprende ogni attività umana, di qualunque genere essa sia, Marcuse approfondisce poi il rapporto fra lavoro e oggettività. Il fare lavorativo, egli dice, è caratterizzato anzitutto da tre momenti: la durata essenziale, la permanenza essenziale, ed il suo carattere essenziale di peso.
La durata del lavoro significa che il compito imposto dal lavoro all'esistenza umana non può essere mai assolto in un singolo processo lavorativo o in vari processi lavorativi singoli; quel compito può essere assolto solo in un perdurante essereallavoro ed esserenellavoro, in un orientamento e in una tensione di tutta l'esistenza verso il lavoro.
La permanenza del lavoro significa che dal lavoro deve «venir fuori» qualcosa che, per il suo senso o la sua funzione, sia piú duratura del singolo atto lavorativo e faccia parte di un accadere «universale». Deve trattarsi di qualcosa che è in sé «permanente», che esiste ancora ed esiste per altri anche dopo la conclusione del singolo atto lavorativo.
Resta, infine, il carattere di peso dei lavoro, che è di gran lunga il piú importante. Esso non va confuso, dice Marcuse, con determinate condizioni presenti nell'esecuzione del lavoro, né con la sua organizzazione tecnicosociale, né con la resistenza dei materiale, ecc. Ancor prima di tutti questi aggravi, dovuti al modo e all'organizzazione del lavoro, il lavoro in quanto tale si presenta come 'peso', poiché sottomette il fare umano ad una legge estranea, alla legge della ‘cosa’ che deve essere realizzata, e che rimane sempre una 'cosa', qualcosa che è altro dalla vita. «Nel lavoro si tratta sempre in primo luogo della cosa stessa e non dei lavoratore, anche quando non abbia ancora avuto luogo una separazione totale tra lavoro e 'prodotto del lavoro'. Nel lavoro l'uomo viene continuamente allontanato dal suo esseresestesso e indirizzato a qualcosa d'altro, è continuamente presso qualcosa d'altro e per altri» [Marcuse 1965, trad. it. p. 159].
L'impostazione non potrebbe essere piú scopertamente spiritualistica. Il lavoro in generale, il lavoro in quanto tale (cioè a prescindere dalle epoche storiche e dai contesti sociali nei quali esso si svolge), è sempre e comunque estraniazione, una sottomissione dell'uomo a ciò che è altro dalla vita, un asservimento alla cosa: «anche quando non abbia ancora avuto luogo una separazione totale tra lavoro e 'prodotto del lavoro'» [ibid.], come Marcuse dice con una evidente allusione polemica ai Manoscritti economicofilosofici di Marx, il quale, come sappiamo, aveva individuato l'estraniazione non nell'oggettivazione, cioè nel lavoro in quanto tale, bensí solo in un particolare tipo di lavoro, nel lavoro salariato, dove l'uomo è veramente separato da se stesso e dal suo oggetto, schiavo delle cose. La repugnanza di Marcuse, invece, si indirizza proprio verso l'oggettività; la sua insofferenza è proprio per l'oggettivazione, per la trasformazione pratica, sensibile, del mondo. Alle esigenze poste dall'oggettività, egli dice, il fare umano risponde con quel regolarsi consapevole sull'oggetto, quel sottomettersi alle sue leggi immanenti, che si rivela in ogni singolo atto lavorativo e che dà alla mediazione tra uomo e oggettività il carattere di un rapporto fra cose. Nel lavoro chi domina è sempre la cosa, sia che l'uomo stia dietro una macchina, sia che progetti dei piani tecnici, sia che prenda delle misure organizzative, sia che studi dei problemi scientifici. Nel suo fare l'uomo si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando sembra dominarla, guidarla o disporne a piacimento. In ogni caso non è «presso di sé», non lascia accadere la propria esistenza, bensí si pone al servizio dell'«altro da se stesso», è presso l'«altro da sé». «Questa alienazione ed estraniazione dell'esistenza, dice Marcuse [1965], questo prendere su di sé la legge della cosa invece di lasciar accadere la propria esistenza, è, per principio, ineliminabile, anche se può sparire durante e dopo il lavoro fino all'oblio completo, e non coincide affatto con la resistenza della 'materia', né cessa con la conclusione del singolo atto lavorativo; l'esistenza è in se stessa rivolta a questa cosalità» (trad. it. p. 170).
Una volta identificata l'alienazione o estraniazione con l'oggettivazione, con il rapporto dell'uomo con l'oggettività in quanto tale, l'alienazione diventa qualcosa di metastorico, una situazione ontologica che affligge inevitabilmente l'esistenza umana e alla quale non si può sfuggire. La negatività, per usare le parole di Marcuse, è radicata nell'essenza stessa dell'esistenza umana, nella struttura stessa dell'essere umano, che non può mai lasciarsi accadere immediatamente nella sua pienezza, ma deve in maniera duratura e permanente 'autoprodursi', 'farsi da sé'.
Il superamento dell'alienazione, quindi, non può essere cercato nel lavoro libero, nell'abolizione dei lavoro salariato, ma, semmai, nel gioco. È, vero che anche nel gioco l'uomo ha a che fare con oggetti; ma l'oggettività ha qui tutt'altro senso e tutt'altra funzione che nel lavoro. Nel gioco l'uomo non si conforma agli oggetti, alla loro immanente regolarità data dalla loro oggettività specifica; al contrario, il gioco sopprime la regolarità oggettiva degli oggetti e mette al suo posto una regolarità diversa, creata dall'uomo stesso e alla quale l'uomo si lega liberamente per volontà propria: le regole del gioco. Qui finalmente l'uomo fa degli oggetti quello che gli pare, si pone al di sopra di essi, è libero da essi. Decisivo è il fatto che in questo porsi al di sopra dell'oggettività l'uomo giunga proprio a se stesso, in una dimensione della sua libertà che gli è negata nel lavoro. Un singolo lancio di palla da parte di un giocatore rappresenta, secondo Marcuse, un trionfo della libertà umana sull'oggettività che è infinitamente maggiore della conquista piú strepitosa del lavoro tecnico.
È sostanzialmente con queste categorie, già elaborate da Marcuse all'inizio degli anni '30, che egli analizza piú tardi le società industriali avanzate. In questa analisi egli ha in primo luogo un obiettivo polemico: la concezione marxiana della base tecnicoeconomica della società, base che, secondo Marcuse, non è affatto di per sé ‘neutrale’ e suscettibile di utilizzazione sia capitalistica che socialista. In realtà, egli dice, la tecnica e l'organizzazione industriale, la meccanizzazione e la razionalizzazione del lavoro determinano un'inclinazione al conformismo piú standardizzato e la puntuale sottomissione alla precisione della macchina, la quale richiede di per sé un atteggiamento passivo, piuttosto che autonomo e spontaneo. Inoltre le esigenze della macchina e l'organizzazione scientifica del lavoro rivestono un carattere totalitario, poiché impegnano tutti gli aspetti dell'esistenza. La perfezione tecnica dell'apparato di lavoro domina parimenti chi guida e chi è guidato; l'autonomia e la spontaneità restano ormai confinate al livello della piú o meno efficiente prestazione entro i limiti di schemi prestabiliti; lo sforzo intellettuale diviene compito soltanto di specialisti tecnici, di esperti, di ingegneri; vita privata e tempo libero vengono strumentalizzati ai fini dell'esigenza dell'apparato, in quanto ridotti al rango di distensione dopo il lavoro e di preparazione ad esso. Cosí ogni atteggiamento dissenziente o non integrato diviene, piú ancora che un crimine politico, una vera e propria aberrazione tecnica, un cattivo uso della macchina se non addirittura un sabotaggio. Qui «la ragione altro non è che la razionalità dell'insieme, l'ininterrotto funzionamento dell'apparato e l'incremento del potenziale produttivo» [Marcuse 1958, trad. it. p. 74].
Siamo cosí entrati nel fulcro del discorso di Marcuse, che caratterizza tutti i suoi lavori piú importanti, da Reason and Revolution a OneDimensional Man: la società contemporanea, a Oriente e a Occidente, è totalitaria perché è industriale, è antidemocratica perché è fondata sull'applicazione generalizzata della scienza ai processi produttivi, è repressiva perché il dominio dell'uomo sulla natura implica il dominio dell'uomo sull'uomo.
Tutto il discorso di Marcuse si fonda su uno scambio per usare nuovamente la terminologia dei Manoscritti economicofilosofici di Marx di alienazione con oggettivazione: e infatti, in Reason and Revolution [1954] egli vede nelle prime tre sezioni della Fenomenologia dello spirito di Hegel, che contengono una dialettica della « certezza sensibile», nella quale questa certezza viene distrutta nella sua singolarità e mostra l'universale come sua verità vede in tutto ciò una critica della reificazione. La distruzione dell'empirico e del finito, operata dalla dialettica della «certezza sensibile», questo inizio di liberazione, mediante una scepsi negativa, dall'oggettività materiale in quanto questa si rivela gradualmente come ideale, sono interpretati da Marcuse nel senso che Hegel dimostra che l'uomo può conoscere la verità solo se supera il suo mondo «reificato». La reificazione, dunque, è l'oggettività materiale, il feticcio è la cosa, l'oggetto naturale. L'alienazione non è l'opposizione lavoro salariato capitale, non è la scissione fra il lavoratore e le condizioni oggettive del suo lavoro che non gli appartengono e che gli si contrappongono estranee e nemiche bensí è l'oggettività esterna alla coscienza dell'uomo. E nella misura in cui le scienze empiriche o naturali assumono quell'oggettività nella sua esteriorità, per farne oggetto di indagine e di trasformazione, esse costituiscono l'espressione per eccellenza dell'alienazione o reificazione.
Sulla base di questo scambio di alienazione con oggettivazione, Marcuse finisce per convertire completamente la critica dell'alienazione in una critica delle macchine e della tecnologia. «La tecnologia, egli dice, è diventata il maggior veicolo di reificazione di reificazione nella sua forma piú matura ed efficace. Non soltanto la posizione sociale dell'individuo e la sua relazione con gli altri appaiono determinate da qualità e da leggi oggettive, ma queste sembrano perdere il loro carattere misterioso ed incontrollabile, e appaiono come manifestazioni calcolabili della razionalità (scientifica). Il mondo tende a diventare materia di amministrazione totale, che assorbe in sé anche gli amministratori. La tela di ragno del dominio è diventata la tela della Ragione stessa, e la società presente è fatalmente invischiata in essa» [1964, trad. it. p. 181]. Se nella prima parte di questa affermazione «la tecnologia è diventata il maggior veicolo di reificazione» parrebbe implicita, in qualche misura, una distinzione fra reificazione e tecnologia, nella seconda parte di essa Marcuse afferma una concezione diversa: non un uso particolare della tecnologia e delle macchine all'interno di un determinato contesto sociale (capitalistico) fa sí che esse diventino veicoli di reificazione, bensí la posizione sociale dell'individuo e le sue relazioni reificate con gli altri sono prodotti o manifestazioni della razionalità scientifica. Non è, insomma, l'uso capitalistico delle macchine e della tecnologia a trasformarle in veicoli di reificazione; invece, le macchine e la tecnologia in quanto tali sono la reificazione, e determinano i rapporti sociali reificati.
Che questo sia effettivamente il pensiero di Marcuse è provato dall'impianto teorico di uno dei capitoli piú importanti di OneDimensional Man [1964, trad. it. pp. 158 sgg.]: «Dal pensiero negativo al pensiero positivo. La razionalità tecnologica e la logica del dominio». Illustrando la «logica del dominio» che caratterizza la società attuale, Marcuse dice che la sua dinamica è propria di una realtà nella quale il pensiero scientifico ha una parte decisiva nel congiungere la ragione teorica alla ragion pratica. La società riproduce se stessa in un insieme tecnico di oggetti e di relazioni che include anche l'utilizzazione tecnica degli uomini. La lotta per l'esistenza e lo sfruttamento dell'uomo e della natura sono diventati sempre piú scientifici e razionali. In questo contesto la parola 'razionalizzazione' viene ad assumere un doppio significato, poiché per un verso la divisione scientifica del lavoro ha largamente aumentato la produttività delle iniziative economiche, politiche e culturali, e ha permesso un piú alto tenore di vita; per un altro verso e per le stesse ragioni, questa impresa razionale ha prodotto un modo di pensare e di comportarsi che ha giustificato anche le piú funeste ed oppressive conseguenze in essa implicite. «La razionalità scientificotecnica e la manipolazione sono saldate insieme in nuove forme di controllo sociale » [ibid., p. 160]. Si può restare paghi si chiede Marcuse della supposizione che tale esito poco scientifico è il risultato di una specifica applicazione della scienza da parte della società? Si può distinguere fra la scienza e il pensiero scientifico da un lato, con i loro concetti interni e la loro interna verità, e, dall'altro lato, l'uso e l'applicazione della scienza nella realtà sociale? Ovvero, la macchina in quanto tale è indifferente agli usi sociali cui viene assegnata? «lo ritengo, risponde Marcuse, che la direzione in cui [la scienza] è stata generalmente applicata fosse inerente nella scienza pura anche là dove non ci si poneva fini pratici, e che il punto di volta va visto nel momento in cui la Ragione teorica si trasforma in pratica sociale» [ibid.]. Una piú stretta relazione sembra quindi prevalere tra il pensiero scientifico e la sua applicazione, tra l'universo dei discorso scientifico e quello dei discorso e del comportamento ordinari relazione che sussume entrambi sotto la medesima logica e razionalità del dominio. In altri termini, «oggi il dominio si perpetua e si estende non soltanto attraverso la tecnologia ma come tecnologia, e quest'ultima fornisce una superiore legittimazione al potere politico che si espande sino ad assorbire tutte le sfere della cultura... La scienza, in virtú del suo metodo e dei suoi concetti, ha progettato e promosso un universo in cui il dominio della natura è rimasto legato al dominio dell'uomo legame che rischia di essere fatale a questo universo intero » [ibid., pp. 172, 179]. La critica dell'alienazione o reificazione cessa cosí di essere una critica dei rapporti sociali capitalistici e diventa una critica delle macchine e della tecnica in quanto tali.
Quanto questa critica romantica della società industriale sia lontana, tanto nei suoi presupposti che nelle sue conclusioni, da Marx, si può vedere agevolmente dalla distinzione rigorosa che egli istituisce sempre fra uso capitalistico delle macchine e macchine in quanto tali. Le macchine egli dice considerate in sé, abbreviano il tempo di lavoro, mentre adoprate capitalisticamente ne aumentano l'intensità; in sé sono una vittoria dell'uomo sulla forza della
natura, mentre adoprate capitalisticamente aggiogano l'uomo mediante la forza della natura; in sé aumentano la ricchezza del produttore, mentre usate capitalisticamente lo pauperizzano. Ma si tratta di aspetti che devono essere tenuti distinti, se non si vuole commettere la sciocchezza di combattere... le macchine, piuttosto che il loro uso capitalistico. E poco prima, parlando dei movimento dei Ludditi, Marx aveva detto che « ci voglion tempo ed esperienza affinché l'operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a trasferire i suoi attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di sfruttamento di esso » [1867, trad. it. pp. 52425]. Per Marx, insomma, quell'alienazione o 'capovolgimento' che soltanto con le macchine viene ad avere, per usare le sue parole, «una realtà tecnicamente evidente », non è dovuto alle macchine in se stesse, bensí all'uso capitalistico di esse, cioè ai rapporti capitalistici di produzione.
Anche nella Critique de la Raison dialectique di Sartre ritorna un'impostazione sostanzialmente affine alla teoria hegeliana logico metafisica dell'alienazione. Qui, infatti, l'alienazione è intimamente connessa al rapporto fra interiorità ed esteriorità: l'uomo, dice Sartre [1960], «si scopre come Altro nel mondo dell'oggettività; la materia totalizzata, come oggettivazione inerte e che si perpetua come inerzia, è in effetti un nonuomo e anche, se si vuole, un controuomo. Ognuno di noi trascorre la sua vita a incidere sulle cose la propria immagine malefica che lo affascina e lo svia se vuole comprendersi a partire da essa, benché egli non sia altro che il movimento totalizzante che sfocia in questa oggettivazione» (trad. it. I, p. 348). Anche qui, dunque, l'oggettività, l'oggettivazione il rapporto fra l'uomo e il mondo degli altri uomini e delle cose è come tale alterazione e alienazione.
È vero che per Sartre l'alienazione sembra avere una connotazione sociale, in quanto essa è essenzialmente controfinalità, cioè è data dal rapporto dell'uomo con la propria azione la quale diventa altra da ciò che si proponeva di essere: il soggetto si oggettiva nella materia lavorata, e l'altro uomo, oggettivandosi anch'esso, coinvolge la materia lavorata dal primo e ne modifica radicalmente l'intenzione e la finalità. L'alienazione è dunque «furto dello scopo», e per questo verso essa è da cercare nel rapporto dell'uomo con l'uomo, cioè nel rapporto sociale.
Senonché, ad una piú attenta considerazione, appare evidente che due sono gli elementi che determinano l'alienazione: il fatto che l'uomo sia costretto «a incidere sulle cose la propria immagine malefica», cioè sia costretto a oggettivarsi; il fatto che l'uomo sia in rapporto con altri uomini, ognuno dei quali utilizza l'azione dell'altro iscrittasi nel praticoinerte della materia lavorata secondo finalità contrarie.
I due fattori determinanti dell'alienazione sono dunque, nella concezione di Sartre, la materia lavorata e l'alterità interumana. Si tratta di fattori che non hanno una precisa origine sociale, e quindi l'alienazione non è da cercare essenzialmente e soltanto in rapporti sociali storicamente determinati, bensí è da cercare nell'oggettivazione in quanto tale, che obbliga l'uomo «a presentare una totalità organica come la propria realtà oggettiva»; senonché «la materia totalizzata, come oggettivazione inerte e che si perpetua come inerzia », è un controuomo. È, un'impostazione, anche questa, che sarebbe incomprensibile senza l'impianto logicometafisico della Fenomenologia dello spirito di Hegel, e che si inscrive in una tradizione di pensiero idealisticospiritualistica, ispirata, come ha osservato giustamente P. Chiodi [1965], ad una profonda svalutazione per tutto ciò che è collettività, molteplicità, «serialità».
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[185758] Grundrisse der Kritik der politischen Okonomie (Rohentwurf), Dietz, Berlin 19s3 (trad. it. Einaudi, Torino 1976).
[186366] Das Kapital. Erstes Buch, Der Produktionsprozess des Kapitals. Sechstes Kapitel, Resultate des unmittelbaren Produktionsprozesses, Moskva 1933 (trad. it. in Il capitale, libro I, Einaudi, Torino 1975).
1867 Das Kapital, libro I, Meissner, Hamburg (trad. it. Einaudi, Torino 1975).
Sartre, J.P.
1960 Critique de la Raison dialectique, Gallimard, Paris (trad. it. Il Saggiatore, Milano 1963)
Il concetto di alienazione compare in Hegel come oggettivazione dello spirito assoluto nella natura e nella storia, all'origine della scissione tra soggetto e oggetto e delle forme di conflitto intersoggettivo. Queste opposizioni saranno superate da una ricostituzione dell'unità dello spirito. Rappresentazione della storia della società, l'alienazione designa cosí un insieme di contraddizioni di cui la rivoluzione francese segna l'avvio di un superamento, con l'armonizzazione della società civile ad opera di uno stato in cui ogni coscienza individuale si pone come volontà universale. Feuerbach e Marx rovesciano in senso materialistico l'alienazione hegeliana. Per Feuerbach essa consiste nell'oscuramento della natura concreta, finita, sensibile dell'uomo a profitto dell'astrazione della religione. Per Marx tutte le figure dell'alienazione derivano dalla posizione dei soggetti nella società capitalistica divisa in classi. L'alienazione fondamentale è quella del lavoro salariato su cui il capitale preleva un plusvalore. La sua forma piú estrema è rappresentata dalla merce che nel circuito del mercato domina l'uomo. I teorici dell'alienazione del XX secolo tendono, come Hegel, a confonderla con l'oggettivazione. In particolare in Lukács l'alienazione è collegata alla scienza e alla tecnica in genere; per Marcuse il lavoro in sé, indipendentemente dai rapporti di produzione, è per definizione alienato.
Fonte: http://www.vitellaro.it/silvio/Filosofia_143/Alienazione.doc
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