Judith Butler vita e opere

Judith Butler vita e opere

 

 

 

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Judith Butler vita e opere

 

Judith Butler (1956 Cleveland USA)

1. Processi di scoperta/costruzione di sé e mestizia: contesti di riferimento storico
2. Potere e assoggettamento: «… il soggetto è formato nella sottomissione»
3. Formazione delle identificazioni che costituiscono l’io; coscienza, incorporamento, sostituzioni, identità, racconto di sé.
4. Questioni di genere nel binomio natura e cultura
5. La decostruzione (undoing, “disfatta”) delle rigidità di genere e di identità e la nuova società

Opere
Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004
Butler Judith 1993, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996
Butler Judith 1997, La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, Meltemi, Roma 2005
Butler Judith 2004, La disfatta del genere, Meltemi Roma 2006 (disfatta o meglio decostruzione)
Butler Judith 2005, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006

1. Processi di scoperta / costruzione di sé e mestizia: contesti di riferimento storico filosofico esplorati da Butler come riferimenti irrinunciabili: Kant, Hegel, Nietzsche, Freud, Adorno, Foucault, Lacan, Althusser…
1.1. Kant: l’isola e il mare
«Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma, questa terra è un’isola, chiusa dalla sua stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!), circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo.» (Kant Critica della ragion pura, 243)
L’assedio del mare e le illusioni, o meglio allucinazioni, create dalla volontà di terraferma, quasi in posizione di difesa nei confronti del mare, indicano in immagine e in metafora l’ansia del definire, del tracciare confini, delimitare aree note e stabilizzate e l’insoddisfazione di fronte alla consapevolezza della precarietà di ogni equilibrio raggiunto e apparentemente conquistato. La stessa volontà di difesa e di conquista tiene desti il timore della fine e la mestizia del conquistare per delimitare ed escludere.

1.2. Hegel: formazione (Bildung) e mestizia nel viaggio dell’anima verso l’Assoluto
[Butler racconta che trascorreva le giornate della sua giovinezza a leggere Hegel (certo non solo quello e spesso al bar) Butler Judith 2004 La disfatta del genere, Meltemi Roma 2006, 245; eloquente questa valutazione generale da lei espressa sulla filosofia di Hegel: «C’è indubbiamente molta luce nella stanza di Hegel, e gli specchi hanno la fortunata coincidenza di essere generalmente anche delle finestre.» (Butler Judith 2005, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, 59) Osserva Giulia Gigante: «Come il sogno, infatti, lo specchio ha una funzione di disvelamento e rappresenta il varco verso un’altra realtà in cui i desideri repressi, talora inconfessabili, possono essere realizzati» (in presentazione di Cajanov Aleksandr, Lo specchio veneziano, Elliot Lit edizioni, Roma 2013, 6).
La Fenomenologia dello Spirito, pubblicata nel 1807, è un romanzo di formazione (un Bildungsroman) di carattere filosofico per lo stile, il linguaggio, il tema, lo scopo e il risultato. L’opera racconta «la storia particolareggiata della formazione (Bildung) della coscienza stessa a scienza» e «La scienza di questo itinerario è scienza dell’esperienza che la coscienza fa». (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Prefazione, 36 [pagine riferite al testo tedesco, riportate in ed. La nuova Italia, Firenze 1985]). L’impianto dell’opera richiama quei «romanzi di formazione dell’anima» (i Bildungsromane) (composti tra la fine del ‘700 e i primi anni dell’800, in piena stagione detta romantica) nei quali soggetti eroici, passando attraverso drammatiche esperienze sentimentali ed esistenziali, maturano nella sofferenza una piena consapevolezza di sé e della condizione umana; si tratta qui di una iniziazione alla filosofia come sistema scientifico ed è la presentazione di come un genere nuovo di scrittura filosofica, la fenomenologia della coscienza, apra al sapere assoluto. «Il compito di accompagnare l’individuo dalla sua posizione incolta fino al sapere, era da intendersi nel suo senso generale, e consisteva nel considerare l’individuo universale, lo spirito autocosciente nel suo processo di formazione.» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Prefazione, 28) «Nello studio della scienza tutto sta quindi nel prendere su di sé la fatica del concetto» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Prefazione, 58)
1.2.1. Nella Fenomenologia dello Spirito Hegel ricostruisce infatti la via che la coscienza percorre per giungere alla piena autocoscienza e al principio razionale e sistematico dell’intera realtà, lo Spirito, l’Assoluto. L’intreccio è serrato, costruito intorno al percorso contemporaneo di tre soggetti: la coscienza (l’individuo), l’umanità (la storia), lo Spirito (il principio): nel percorso della sua formazione (ontogenesi) la coscienza percorre l’intero arco delle tappe culturali dell’umanità (filogenesi), tappe che, nella consapevolezza finale, risultano essere fin dal principio espressione, manifestazione e realizzazione storica (manifestazione-deduzione) dello Spirito Assoluto.
1.2.2. Si tratta di un racconto che narra un cammino formato da rivolgimenti e conversioni, superamenti e ravvedimenti; una vera e propria conversione del soggetto e dell’umanità alla filosofia esposto in una fenomenologia della coscienza. «…questa presentazione… può venir considerata come l’itinerario della coscienza naturale, la quale urge verso il sapere; o come l’itinerario dell’anima percorrente la serie delle sue figurazioni quali stazioni prescrittele dalla sua natura perché si rischiari a spirito e, mediante la piena esperienza di se stessa, giunga alla conoscenza di quello che essa è in se stessa…» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 5)
1.2.3. Gli ostacoli, i pericoli, gli inganni e i blocchi che la coscienza deve superare (mestizia fenomenologica e il suo destino).
1.2.3.1. Superare il proprio sentirsi perennemente estranei, esterni; sensazione consegnata alla tradizionale opposizione tra coscienza e Assoluto, e ratificata nella paura che di fatto tale opposizione nutre e nasconde: «una tale paura [di errare] presuppone rappresentazioni del conoscere, inteso come strumento e mezzo… ma, sopra tutto, presuppone che l’Assoluto se ne stia da una parte e il conoscere dall’altra»; è necessario interrompere «inutili immaginazioni e chiacchiere di un conoscere separato dall’Assoluto e di un Assoluto separato dal conoscere.» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 2)
1.2.3.2. Si tratta del dramma, della disperazione della coscienza nello scoprirsi come sapere non reale: «…la coscienza naturale mostrerà di essere soltanto concetto del sapere, ossia sapere non reale. Ma giacché quella ritiene sé, immediatamente, il sapere reale, questo itinerario ha per lei significato negativo e, rispetto a lei, ciò che è realizzazione del concetto vale più tosto come perdita di se stessa. In questo itinerario, infatti, tale coscienza perde la sua verità.» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 6) L’ingresso nel vero o il primo incontro con esso (in generale, con una nuova situazione esterna) è vissuto come perdita di sé e non ritrovamento di sé nel vero; il sapere è in tal modo esterno alla coscienza e il cammino si arresta nel dubbio. La scoperta e constatazione del proprio sapere apparente viene vissuta come esperienza del dubbio, anzi della disperazione: il dubbio infatti non è esteso a questa o quella verità, ma è totale (come ricostruito nelle Meditazioni filosofiche di Descartes). Tuttavia proprio in questa estensione non è fine ma inizio: «soltanto lo scetticismo rivolgentesi all’intero ambito della coscienza apparente, rende capace lo spirito di esaminare che cosa sia la verità, inducendo a disperare delle così dette rappresentazioni…» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 6)
Hegel assume l’apparire, momento iniziale del sapere, rispettandolo nella sua dimensione aconcettuale e collocandolo come momento autonomo e irrinunciabile in un percorso dialettico verso il sapere concettuale. In tale contesto e a questo scopo svolge un ruolo determinante il dubbio inteso non nella sua dimensione determinata circa un sapere parziale ma nella sua procedura totale così come la tradizione scettica lo ha collocato nella filosofia. Esso tuttavia, in questa veste, non attua una crisi del sapere e della certezza che lo accompagna, ma ne è mentore e propedeutica.
1.2.3.3. In realtà vi è il fondato sospetto che «una tale paura di errare non sia già essa stessa l’errore» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 2); il vero errore è la paura di sbagliare quando questa si traduce in scetticismo fine a sé; anche perché una simile situazione posta a non riconoscere il ruolo di un sapere apparente, dell’apparire, nel cammino della coscienza. Vista dal cammino, quindi in divenire, e dall’esito, quella disperazione è solo un trapasso e un momento, ed esprime il vero ruolo del dubbio: il dubbio è il «consapevole discernimento della non verità del sapere apparente» e si trasforma in «storia particolareggiata della formazione stessa della coscienza a scienza» (in fenomenologia); «la presentazione della coscienza non verace nella sua non verità non è un movimento meramente negativo, qual è invece secondo il modo di vedere unilaterale della coscienza naturale; e un sapere che di tale unilateralità faccia la propria essenza, è una delle figure della coscienza imperfetta e, come tale, rientra a sua volta nel corso di tale itinerario, e ivi verrà a mostrarsi.»
«Ma la coscienza è per se stessa il suo concetto, ed è quindi, immediatamente, l’atto di sorpassare il limitato, e, poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare se stessa. […] La coscienza subisce quindi da lei medesima la violenza del guastarsi ogni appagamento limitato. Nel sentimento di tale violenza, l’angoscia avrà un bell’arretrare di fronte alla verità, per tentar di salvare a sé ciò, la cui perdita incombe; ma l’angoscia non potrà trovar pace, sia che essa voglia adagiarsi in un’obliosa inerzia, — il pensiero guasta la festa al torpore mentale e la sua inquietudine guasta l’inerzia, — sia ch’essa si corrobori in una sensitività la quale assicura di trovare che tutto è buono, a modo suo; ma tale assicurazione viene inficiata dalla ragione, la quale intanto trova che qualcosa non è buono, in quanto esso è un modo. Ossia la paura della verità potrà ben occultarsi a sé e agli altri dietro la finzione che l’ardente zelo per la verità stessa le renda difficile, anzi impossibile, trovare un’altra verità al di fuori di quella unica della vanità d’esser sempre più intelligente di qualsivoglia pensiero, provenga esso da se stesso o da altri; questa vanità che è capace di vanificare ogni verità per tornarsene poi in se stessa, e che si pasce del suo proprio intelletto il quale, dissolvendo ogni pensiero, non sa ritrovare un contenuto, ma soltanto l’arido Io, questa vanità è una soddisfazione che deve venir lasciata solo a se stessa; essa, infatti, fugge l’universale e cerca soltanto l’esser-per-sé.» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 8) Affermare la difficoltà del vero è pretesto (magari inconsapevole) per nascondere altro e magari giustificarlo o nutrirlo: la paura, la vanità e il loro reciproco alimentarsi
1.2.3.4. i termini della fenomenologia (presentazione della coscienza che si apre al vero) diventano i termini del Sistema, o della scienza piena dispiegata in concetto. L’innovazione che la fenomenologia porta con sé quando si presenta come filosofia consiste nella consapevolezza che il cammino, il mutamento e gli stati di tensione e ansia che lo caratterizzano, le tappe e le stesse soste, gli arretramenti… non sono considerati come momenti esterni allo Spirito, superati e da abbandonare a traguardo raggiunto. Il fine e il traguardo sarebbero in tal caso situazione di vuotezza e di nulla; l’intera concretezza delle vicende di formazione, rimosse e dimenticate, darebbero vita a un sapere vuoto o meglio a un non sapere, la vita alla fine è un freddo cadavere; si tratta di un sapere dogmatico inefficace; la vera natura del dogmatismo è la paura della verità.
Al contrario è nei momenti e nelle manifestazioni dinamiche e tormentate dell’Assoluto, quindi nella propria storia, che l’Assoluto, attraverso la ricostruita consapevolezza del proprio sviluppo, trova la sua pienezza e concretezza. «… infatti la cosa stessa non è esaurita nel suo fine bensì nella sua attuazione; né il risultato è Intiero effettuale, anzi questo è il risultato con il suo divenire»
I termini usati per indicare il “cammino” della coscienza, presentata nelle sue figure (processo, concatenazione, movimento, cammino, itinerario, formazione [Bildung]) e per indicare l’esito del cammino, sbocciato, aperto, oltre se stesso… diventano i termini di un sapere completo che non ha bisogno di andare oltre se stesso: sia gnoseologicamente: «ma al sapere è di necessità inerente non meno la meta che la serie del processo […] la meta è là dove il sapere non ha bisogno di andare oltre se stesso», sia ontologicamente «dove il concetto corrisponde all’oggetto e l’oggetto al concetto.» (le citazioni sono da Hegel, Fenomenologia dello Spirito, La Nuova Italia editrice, Firenze 1973, pp.65-78 passim)
1.2.4. l’essere determinato e il suo destino: la finitudine e il suo destino o la mestizia della determinazione logica (mestizia logica e il suo destino); l’essere e il nulla, l’analisi della relazione con l’altro; processo e realtà logica presentati in quattro movimenti sullo sfondo di una consapevolezza generale: «Dal divenire sorge l’essere determinato. L’essere determinato è il semplice essere uno dell’essere e del nulla. […] L’esserci o l’esser determinato è in generale, conformemente al suo divenire, un essere con un non essere.» (Hegel Logica 103). Dunque, il finito e la dialettica del determinato nella concretezza della relazione con l’altro: «LA FINITÀ Qualcosa e un altro» in quattro movimenti (individuati per selezione e sintesi).
[1.] Qualcosa ed altro son tutti e due in primo luogo degli esserci che sono o dei qualcosa.
[2.] In secondo luogo ciascun de’ due è anche un altro. È indifferente quale dei due si chiami per il primo, e solo per ciò, qualcosa […] Tutti e due sono in pari maniera altri. […]
[3.] Tutti e due son determinati tanto come qualcosa quanto come altro. […] Questa medesimezza delle determinazioni cade però anch’essa soltanto nella riflessione esterna, nel confronto delle due…
[4.] Il qualcosa si conserva nel suo non essere; è essenzialmente uno con cotesto non essere, e essenzialmente non uno con esso. Sta dunque in relazione col suo esser altro; non è puramente il suo esser altro. L’esser altro è in pari tempo contenuto in lui, e in pari tempo ancora da lui separato; è esser per altro. […] L’esser per altro e l’essere in sé costituiscono i due momenti del qualcosa. […] L’essere e il nulla nella loro unità, che è l’esser determinato o l’esserci, non son più come essere e nulla. Non son così che fuori della loro unità. Così nella loro unità inquieta, nel divenire, 1’essere e il nulla sono il nascere e il perire. (citazioni da Hegel Logica 112-115,passim).
In sintesi: «Da prima la determinatezza sembra essere tale soltanto perché si riferisca ad altro, e il suo movimento sembra impostole da una violenza estranea; ma già in quella semplicità del pensiero è implicito che la determinatezza ha in se stessa il suo esser-altro e che è automovimento» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Prefazione, 55)
1.2.5. La mestizia del finire (la struggente e dolce mestizia) e il destino di fine dello stesso finito, dunque una singolare infinità.
«La finità. L’esserci è determinato. Il qualcosa ha una qualità, e in questa qualità non è soltanto determinato, ma ha un limite. La sua qualità è il suo limite, come affetto dal quale esso riman dapprima un esserci affermativo, quieto. Ma …[…] Quando delle cose diciamo che son finite, con ciò s’intende che non solo hanno una determinatezza … ma che anzi la lor natura, il loro essere, è costituito dal non essere. Le cose finite sono, ma la lor relazione a se stesse è che si riferiscono a se stesse come negative, che appunto in questa relazione a sé si mandano al di là di se stesse, al di là del loro essere. […]
Il pensiero della finità delle cose porta con sé questa mestizia … perché alle cose nella semplicità di cotesta determinazione, non è più lasciato un essere affermativo distinto dalla lor destinazione a perire. […]
Se non che tutto sta a vedere se in questo modo ci si ferma all’essere della finitezza, se la caducità, cioè, persiste, oppure se la caducità e il perire perisce. […] Questo è da portare alla coscienza; e lo sviluppo del finito fa vedere che, essendo questa contraddizione, il finito si distrugge in sé, ma risolve effettivamente la contraddizione, non già ch’esso sia soltanto caduco e che perisca, ma che il perire, il nulla, non è l’ultimo, ossia il definitivo, ma perisce.» (Hegel Logica 128-130 passim)
1.2.5.1. Inteso filosoficamente il perire della finitezza è il movimento di negazione della separatezza e presunta indipendenza del finito ed è movimento che dà avvio al conservarsi del finito, del determinato nella concretezza dialettica del concetto e del sistema, come dunque un suo logico momento; entra nel mondo delle determinazioni del sistema diventando realtà effettuale e non solo realtà pensata, cioè isolata e astratta. Questa situazione implica e fornisce un corretto concetto di universale e di sistema: un universale concreto. Infatti, non è all’esterno delle determinazioni o del finito, non è a prescindere da esse con un semplice moto di negazione, che si raggiunge l’universale o il concetto; uscendo dalle determinazioni non resta che il nulla; l’essere inteso nella sua assoluta e astratta universalità, unità dimentica della determinazioni o che da esse astrae, coincide con il nulla (l’assenza delle determinazioni). «… chi ha occhi non vede né nella pura luce né nella pura tenebra, proprio come il cieco non vedrebbe il tesoro in mezzo a cui si trovasse» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Coscienza, 57). È nella finitezza che si vive, con immediatezza, l’assoluto reale e l’infinito perché il finito ha nel proprio essere determinato anche il proprio estinguersi; e l’estinguersi del finito è un infinito inteso come movimento e divenire. Qui si colloca la vita dialettica della coscienza [come già citato]: «… la coscienza è per se stessa il suo concetto, ed è quindi, immediatamente, l’atto di sorpassare il limitato, e, poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare se stessa.» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 8)
1.2.5.2. La mestizia del finito nel perire dei suoi momenti e nel suo stesso estinguersi, seguendo il destino e la nozione di finito, è dunque però togliersi del finito per stare nel movimento dell’infinito dall’interno stesso della finitudine, tendere all’Infinito con struggente (romantica e logica) mestizia.
«L’infinità o quell’assoluta inquietudine del puro automovimento per cui ciò che è in qualche guisa determinato, per es. come essere, è piuttosto il contrario di tale determinatezza, è invero l’anima di tutto ciò che finora è stato; ma soltanto nell’interno quest’anima è alfine liberamente sbocciata.» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Coscienza, 74)
La logica che Hegel mette in narrazione quando discorre della coscienza e del suo passaggio all’autocoscienza è la logica di un continuo sdoppiamento tra sé e altro, altro riconosciuto come sé … e queste scissioni e lacerazioni sono luogo di mestizia e anche sede di anelito e cammino per una conciliazione di unificazione densa e non astratta dal cammino stesso e dalla sofferenza che lo accompagna; sembra qui prender forma anche la situazione e il sentimento della “forclusione”, termine certamente non hegeliano (anzi se per forclusione si intende il riferimento a un vissuto mancato o negato di cui rimuoviamo la rimozione e di cui non è possibile esplicitare il rimpianto, questo, nel progetto, nei termini e nella logica, sembra estraneo alla filosofia sistematica di Hegel che si presenta come il regno della logica, di carattere dialettico in forza del negativo ma dalla piena esplicitazione razionale e conservazione logica del negativo stesso).
1.2.6. il movimento di “forclusione” (applicando e anticipando il termine psicanalitico) della “coscienza infelice”; «singolarità come contraddizione inconsapevole, la quale si esplica in un movimento senza sosta» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Autocoscienza, 51). L’ansia del vero e la struggente mestizia che accompagna il cammino, l’anelito e lo struggimento della coscienza verso di esso (dall’interno stesso della coscienza e a partire dalla sua dialettica: «essa è in lei uno per un altro» Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 12), danno vita alla dimenticanza di ciò da cui ci si sta allontanando per desiderio di oltrepassamento. Il primo sentire dell’esperienza e della coscienza di sé, pieno e indistinto, viene quindi e progressivamente consegnato all’apparenza (all’apparire e quindi anche per definizione, cioè in quanto mera apparenza, al suo inevitabile scomparire) e da esso la coscienza si allontana senza vivere questo allontanamento come una perdita, come un lutto, perché ciò che attrae e che rappresenterà la vera tragica perdita è quel vero e quel tutto sistematico verso cui essenzialmente anela. Svanisce dalla consapevolezza quel primo apparire e accadere del vero nella coscienza, ma resta tuttavia un ineliminabile e insopprimibile “primo apparire” (esperienza prima) da cui la coscienza, pur non avvertendone la perdita, non potrà mai prescindere come dalla sua prima singolare universalità. A seguito di quella scomparsa del primo apparire, pur non compianta e proprio per questo, resta al centro dell’esperienza della coscienza (“infelice”) un senso di vuoto inconsapevole, non afferrabile, inconscio ma attivo, per ciò che non si avverte come perdita ma che resta perdita primaria; vuoto, sepolcro inconsapevole e cancellazione che, nelle tappe descritte da Hegel, attende di essere cancellato (la cancellazione della cancellazione) per fare spazio alla presenza di una piena coscienza di sé. Per intanto si posiziona progressivamente al centro della coscienza la melanconia o il senso di distanza e perdita che accompagna il perdurante riferimento alla totalità vissuto nell’oblio del sorgere primo della coscienza stessa, di quel denso e originario apparire che ora è dimenticato, non compianto. Malinconia, dunque, in due direzioni o in tensione: per quel vuoto non avvertito o negato, per l’astratta totalità verso cui si anela, lontana e trascendente. L’anelito verso di essa è melanconia struggente in quanto la coscienza non mette in conto, nel viverne la distanza e, in realtà, la perdita, l’astrattezza e perciò la non-realtà di quella trascendente totalità; non avverte l’impossibilità di quella perdita che rappresenterebbe l’unico modo per sopire la melanconia della perdita se, appunto, colta come perdita impossibile.
1.2.6.1. il «movimento di infinita nostalgia»: «Si presenta così l’interiore movimento del puro animo che sente bensì se stesso, ma si sente dolorosamente come scissione; movimento di una infinita nostalgia la quale ha la certezza di avere a propria essenza un siffatto puro animo, — puro pensare pensantesi come singolarità, — da venir conosciuta e riconosciuta da quell’oggetto, proprio perché quell’oggetto stesso pensa sé come singolarità. Ma nello stesso tempo siffatta essenza è l’irraggiungibile al di là che sfugge, anzi è già sfuggito nell'atto in cui si tenta d’afferrarlo. È già sfuggito: infatti esso è da una parte l’intrasmutabile che pensa sé come singolarità…» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Autocoscienza, 52) (la non narrabilità di sé, l’incapacità di dar conto di sé, cfr. Butler)
1.2.6.2. un prima e un poi perché il mondo diventi verità effettuale per la coscienza in piena esperienza di sé, «soltanto … quando il sepolcro della sua verità è andato perduto, quando anche il cancellare la sua effettualità è esso stesso cancellato» (“forclusione”): «Intendendosi a questo modo, quella autocoscienza viene a trovarsi in tal condizione come se il mondo le si presentasse ora per la prima volta. Per lo innanzi non lo intende, ma lo desidera ed elabora; essa ritraesi da quello in se stessa, e lo cancella per sé; e cancella anche se stessa come coscienza, — come coscienza di quel mondo quale essenza, nonché come coscienza della nullità di esso. Soltanto di poi, quando il sepolcro della sua verità è andato perduto, quando anche il cancellare la sua effettualità è esso stesso cancellato, e quando a lei la singolarità della coscienza è in sé essenza assoluta, essa coscienza scoprirà quel mondo come suo nuovo mondo effettuale che per lei ha interesse nel suo restare, mentre prima lo aveva soltanto nel suo dileguare; il sussistere del mondo le diviene infatti una verità e una presenzialità sua propria; la coscienza è certa che qui farà esperienza soltanto di sé.» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Ragione, 2)
1.2.7. la perdita del negativo. Ciò che è in atto nella forclusione è la perdita del negativo attraverso il suo travisamento e (paradossalmente) attraverso la sua negazione o dimenticanza rimossa. È in atto qui una terribile confusione tra risultato e processo, imputabile al “cattivo” scetticismo. Il nulla o il fallimento di un risultato in rapporto al sapere è sempre un nulla relativo, rivolto all’oggetto; il nulla, invece, il non-essere, è un modo di essere tanto del pensiero quanto della realtà se si vuole un sapere determinato, che definisca una realtà in forza del limite, del suo non essere, del suo rapportarsi all’altro; concretezza che porta a concetto la realtà se non ci si accontenta delle astrazioni di un universale che si ferma al primo momento del suo cammino, quello che consiste nel prendere le distanze dalla realtà particolare allo scopo di coglierla, poi, con un universale che ne indichi l’essenza. Il negativo invece, come negativo “in assoluto”, come l’altro in assoluto (o come genere, così come lo presentava Platone), indica e supporta la capacità logica di definizione e di oltrepassamento di ogni determinazione possibile, oltrepassamento a cui il pensiero deve la propria concretezza, la propria vita e il proprio essere dinamicamente tutto, a cui deve quindi la propria infinità oltre il suo ricorrente parziale arresto. Il “cattivo” scetticismo disprezza e nega la ragione quando avverte la negatività dei suoi risultati, l’impossibilità a definirli con verità assoluta, ma così non coglie la funzione logica del negativo e della stessa ragione, riferisce il negativo agli oggetti, alle cose e lo pone con ciò all’esterno del pensiero, fino ad immaginare uno pseudo oggetto come il non vero, il non essere, privando la ragione del vero e della concretezza e bloccandone il movimento. Qui lo scetticismo, nel tentativo di nasconderla, consacra la paura di errare («che una tale paura di errare non sia già essa stessa l’errore» Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 2), solidifica il pensare e si fa dogmatismo, consegna la coscienza e la mente al mutevole empirismo bloccando il pensiero. «Ma la coscienza è per se stessa il suo concetto, ed è quindi, immediatamente, l’atto di sorpassare il limitato, e, poiché questo limitato le appartiene, del sorpassare se stessa.» (Hegel 1807 Fenomenologia dello spirito, Introduzione, 8)
Lo stesso accade nella esclusione del negativo, nella negazione della negazione (nella forclusione). L’oggettivazione del negativo e la sua conseguente estromissione dalla coscienza, la sua alienazione / estraneazione, cioè la sua oggettivazione alienata, è anche la perdita del negativo da parte della coscienza, e la perdita della negazione è contemporaneamente il blocco del movimento proprio della coscienza nella sua dialettica singolarità universale e nel suo cammino di pensiero e di conoscenza verso il vero e il reale a partire dal principio di razionalità che lo costituisce. La gravità sta nel fatto che la perdita del negativo non viene avvertita come una perdita ma come un successo, proprio perché ciò che si perde o da cui ci si allontana è il negativo; e quindi si tratta di una perdita non vissuta come tale, di un lutto non avvertito, non compianto, non elaborato, non accolto, destinato a creare un vuoto tanto più fonte di malinconia quanto più è destinato a restare nella non consapevolezza e non ammissione della sua perdita e della sua inconsapevole rimozione.
1.2.7.1. Un sospetto (probabilmente da fugare): che anche in Hegel si passi dalla mestizia dell’essere determinato alla forclusione. Sembra comparire, nei due ambiti, una stessa logica dialettica operativa che fa sorgere il sospetto che il sistema di Hegel viva di forclusione: è possibile dedurre, nel sistema della filosofia, il finito, il determinato, ciò che è singolare e individuale dall’Assoluto come un suo momento o una sua determinazione solo se si è rimosso il determinato nella sua assoluta e originaria singolarità e si è rimossa questa stessa rimozione, questo abbandono e questa negazione di cui non si rischia ora di conservare realmente alcuna rilevante consapevolezza e per la quale non vi è alcuna elaborazione del lutto o della perdita. Saremmo allora di fronte ad un sistema segnato da una doppia mestizia o meglio melanconia: dell’Assoluto, non raggiunto, del finito, perso. Non è un caso che la filosofia dopo Hegel gli rimproveri di aver parlato tanto di alterità ma di avere soltanto il pensiero dell’alterità non il reale altro (Feuerbach) (è un altro dedotto logicamente; è il reale logico, non il reale che accade e resta unico nella sua singolarità), e che prenda corpo ripetutamente (e ossessivamente) l’ipotesi di rovesciamento dell’impostazione di Hegel e di uscita dal sistema. Il come uscire dal sistema diventa esplorazione delle autonegazioni e soprattutto delle negazioni dimenticate fonte di una mestizia tanto più profonda quanto meno avvertita.

1.3. Nietzsche Genealogia della morale
«abbiamo bisogno di una critica dei valori morali, di porre in questione finalmente proprio il valore di questi valori, e per fare ciò abbiamo bisogno di una conoscenza delle condizioni e delle circostanze da cui sono stati prodotti, in cui si sono sviluppati e modificati, conoscenza che fino a oggi non solo non è esistita, ma non è stata nemmeno mai auspicata» (P,6). «Qualcuno vuole forse sondare un po' il mistero delle modalità con cui sulla terra si fabbricano gli ideali? chi ne ha il coraggio?» (I,14). «ogni concetto, in cui si concentri semioticamente tutto un processo, si sottrae alla definizione; è definibile solo ciò che non ha storia» (II,13).
L'analisi critica genealogica della morale ne mette in evidenza le radici e il ribaltamento in atto, la mistificazione e l’inganno: la genesi sociale, psicologica, economico-giuridica, linguistica, religiosa, epistemologica, a partire dagli effetti.
1.3.1. In tutte le analisi prende forma una storia di ri-voltamento: gli sconfitti e la loro morale diventano il potere; gli istinti naturali sono condannati come vizi; il vivere stesso si presenta come sofferenza ed espiazione; il Dio creato dall’uomo lo domina da una lontana trascendenza… «Quelli che fin dall'inizio sono stati colpiti dalla sventura, i prostrati, i distrutti, i più deboli, sono quelli che più degli altri minano la vita tra gli uomini, che avvelenano e problematizzano, nella maniera più pericolosa, la nostra fede nella vita, nell'uomo, in noi stessi.» (III,14)
1.3.2. Si impone un ribaltamento: se la filosofia ha un ruolo essa diventa ermeneutica, critica, smascheramento, chiarificazione «Poiché non dobbiamo ingannarci a questo proposito: ciò che costituisce il segno distintivo più tipico delle anime moderne, del libri moderni, non è la menzogna, ma l'innocenza incorporata nella mendacia moralistica. Dover mette¬re ovunque allo scoperto questa innocenza, ciò costituisce forse la parte più disgustosa del nostro lavoro di tutto quel lavoro in sé non trascurabile, cui oggi deve sobbarcarsi uno psicologo.»(III,19).
«Tutte le grandi cose si annientano da sole, con un atto di autoeliminazione: così vuole la legge di natura, la legge del necessario 'autooltrepassamento' nell'essenza della vita... Così è crollato il cristianesimo come dogma, a causa della sua stessa morale; così anche il cristianesimo come morale deve ancora andare in rovina: noi siamo alle porte di questo avvenimento» (III,27) (Nietzsche Friedrich 1887 Genealogia della morale)

1.4. Adorno etica e morale: la violenza etica. (Theodor Wiesengrund Adorno in Problemi di Filosofia morale, raccolta di una serie di lezioni tenute nell'estate del 1963 e Minima moralia, ripresi epresentati da Judith Butler )
1.4.1. la violenza etica in prima accezione: la tendenza autoconservativa dell’ethos collettivo. «Ciò che lo [Adorno] disturba è il carattere inevitabilmente conservatore dell'ethos collettivo, fondato in realtà sul postulato di una falsa unità che tenta di sopprimere le contraddizioni e le discontinuità proprie di ogni forma di ethos contemporaneo. Un'ipotetica unità anteriore, infatti, che si sarebbe successivamente disgregata, in realtà non è mai esistita: si trattava solo di un'idealizzazione, nei fatti di una sorta di nazionalismo che oggi non risulta più credibile né è giusto che lo sia. Per questo Adorno mette in guardia dal ricorso all'etica, interpretandolo come una forma di repressione e di violenza. E scrive: «Non vi è nulla di più degenerato del tipo di etica o moralità che sopravvive in forma di rappresentazioni collettive, anche dopo che lo Spirito del Mondo [Weltgeist] ha cessato di abitarle, se mi è concessa un’espressione hegeliana, come in "una stenografia". Non appena lo stato della coscienza umana e lo stato delle forze produttive della società se ne congedano, tali rappresentazioni collettive acquisiscono un carattere repressivo e violento. Ed è proprio questo aspetto costrittivo dei costumi [Sitten], la violenza e il male in essi contenuti — e non qualcosa come il mero decadimento della morale deplorato dai teorici della decadenza — che, mettendoli in contrasto con la moralità [Sittlichkeit] stessa, costringe la filosofia al genere di riflessione che stiamo esprimendo qui.» (PdM, p. 32). […] Adorno chiarisce come l'ethos collettivo, pur non essendo condiviso, e in realtà proprio perché non più condiviso (per cui d'ora in poi lo si dovrebbe sempre citare tra virgolette), possa imporre la propria ipoteca sulla comunità solo ricorrendo a mezzi violenti. In questo senso l'ethos collettivo usa strumentalmente la violenza per conservare l'apparenza del proprio essere collettivo. L’ethos, cioè, si fa violento quando diviene anacronistico. E l'aspetto che da un punto di vista storico — e temporale — risulta anomalo in questa specifica forma di violenza è che, pur divenendo anacronistico, l'ethos non si consegna al passato ma continua a insistere sul presente come anacronismo. Se l'ethos rifiuta di divenire passato, la violenza è il modo in cui si impone sul presente. E non solo, perché l'ethos non si limita a imporsi sul presente, ma tenta pure di eclissarlo — e proprio in questo tentativo consiste uno dei suoi effetti violenti.» (Butler Judith 2005, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, 12-13)
1.4.2. Etica e morale e la violenza etica in seconda accezione: il mancato incontro tra etica e morale.
1.4.2.1. Un accordo preliminare e non definitivo sul significato dei due termini etica e morale. Per etica (alla Hegel Sittlichkeit) si intende (si può intendere) il sistema dominante, considerato normale (normativo), esteriore di massime e regole. Per morale (alla Kant Moral) si intende (si può intendere) l’assunzione individuale di (quelle) norme, in forma personale, interiore e critica.
1.4.2.2. La relazione tra etica e morale a scongiurare la violenza dell’etica. «E nonostante Adorno dia l'impressione di oscillare indiscriminatamente tra etica e moralità, per il suo progetto predilige il termine “morale" — la cui eco riemerge esplicita nei Minima moralia — ritornando con insistenza sul fatto che gli individui debbano potersi appropriare di un insieme di massime o di regole "in maniera vivente [lebendig]", in base cioè alla loro esperienza vissuta (ibid.). Se infatti il ricorso al termine etica si potrebbe riservare ai contorni generali di tali massime e regole, o al rapporto fra i vari sé condizionato da tali regole, Adorno ribadisce tuttavia che una norma etica che non sia in grado di indicare un modo di vivere o che nelle condizioni sociali esistenti finisca per smarrire ogni possibilità di essere fatta propria dagli individui, deve essere sottoposta a una revisione critica (PdM, pp. 35 sgg.). Ogniqualvolta ignora le condizioni sociali esistenti, che sono anche le condizioni per cui ogni etica può esser fatta propria, l’ethos diviene inevitabilmente violento. […] Quando, per cause sociali, un precetto universale non può più essere fatto proprio o quando, sempre per cause sociali, deve essere rigettato, quello stesso precetto diventa luogo di controversia, tema e oggetto di discussione democratica: perde cioè il proprio statuto di precondizione del dibattito democratico. Se infatti operasse in quel contesto come condizione preliminare, come sine qua non della partecipazione stessa, dovrebbe imporre la propria violenza sotto forma di una preclusione escludente. Il che non significa che l'universalità sia per definizione violenta. Non lo è. Esistono però situazioni in cui può tradursi in violenza. Adorno ci aiuta a comprendere come la violenza dell'universalità risieda anche nella sua indifferenza verso le condizioni sociali per cui un’appropriazione “vivente” e spontanea potrebbe rivelarsi possibile. Se non è possibile alcuna appropriazione vivente, sembra allora derivarne che il precetto possa essere subìto solo come una pena capitale, una sofferenza imposta da un'esteriorità siderale e indifferente a danno di ogni libertà e di ogni particolarità.» (Butler Judith 2005, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, 13, 15)
1.4.3. L’io e le norme, per intendere correttamente (se lo si vuole usare) il termine identità individuale.
1.4.3.1. L’impossibile astrazione e isolamento dell’io dal sociale: «Adorno … mette anche in guardia dall’errore in cui si incorrerebbe sostenendo la posizione opposta, quella per cui l'“io" sarebbe comprensibile come assolutamente separato dalle proprie condizioni sociali, come pura immediatezza, accidentale o arbitraria, totalmente impermeabile alle dimensioni storiche e sociali che dopotutto — rappresentano le condizioni generali del suo stesso emergere in quanto “io”. […] non esiste nessun "io" che possa concepirsi come assolutamente separato dalle condizioni sociali del proprio emergere, nessun “io” che non sia implicato in un quadro di norme morali che lo condizionano, che cioè, in quanto norme, possiedono un carattere sociale che eccede ogni significato meramente personale e distintivo.
L’“io" non è un'entità separata dalla matrice predominante delle norme etiche e da quadri morali in conflitto tra loro. In modo tutt'altro che irrilevante, questa matrice è anche condizione di possibilità perché emerga l'“io”, per quanto l’“io” non venga indotto causalmente da tali norme, e quindi non sia lecito desumere che l'“io” sia semplicemente l'effetto o lo strumento di un certo ethos che lo precede o di un certo campo di norme discontinue e in conflitto tra loro. Quando l'“io” cerca di dar conto di sé può anche partire da sé, ma scoprirà che il suo sé è già implicato in una temporalità sociale che eccede le sue stesse capacità di narrazione. In realtà, quando l'“io” tenta di dar conto di sé, quando cioè tenta di restituire un racconto che includa le condizioni del suo stesso emergere, dovrà necessariamente diventare un teorico sociale.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 16)
1.4.3.2. Il pluralismo come diritto dell’individuo nella relazione con il sistema normativo. Forse è il caso di ricordare qui le affermazioni che compaiono nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel (ma è il tratto specifico dell’intera struttura filosofica di Hegel) sulla relazione, relazione che costituisce la logica del determinato; «l’individuo consiste nel conservare sé in relazione ad altro» (Fenomenologia, 16). «La ragione di tutto ciò consiste nel fatto che l'“io" non ha una sua storia che non sia anche la storia di una relazione — o di un quadro di relazioni — con un quadro di norme. E per quanto non manchino voci critiche che leggono questa costitutiva relazionalità come cancellazione di ogni idea di soggetto su cui fondare la capacità di agire moralmente e la responsabilità morale, non è detto che l'esito sia necessariamente questo. L’“io”, in una certa misura, è sempre espropriato delle condizioni sociali del suo stesso emergere [in nota: … allo stesso tempo immerso ed espropriato rispetto alle convenzioni sociali]. Ma questa espropriazione, questa perdita di possesso, non implica lo smarrimento di un fondamento soggettivo dell'etica. Al contrario, può rappresentare la condizione specifica dell'indagine morale, la condizione per cui la moralità stessa emerge. Il fatto che l'“io" non sia tutt'uno con le norme morali significa solo che il soggetto deve deliberare su queste norme e che questa sua facoltà comporterà in parte una comprensione critica della loro genesi e del loro significato sociale. In questo senso, allora, la deliberazione etica è intimamente connessa a un'operazione di critica. E la critica a sua volta appura di non poter procedere senza considerare come il soggetto deliberante sia emerso e come possa vivere in un quadro di norme e appropriarsene. Non solo l'etica si trova coinvolta nel compito della teoria sociale, ma la teoria sociale stessa, se vuole evitare conseguenze violente, deve trovare un posto “vivente” per questo “io".» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 16-17)
Il tema e l’impostazione ricompaiono in Foucault: «In Foucault … Non si dà nessuna costruzione di sé al di fuori delle norme che orchestrano le forme possibili che un soggetto può assumere. La critica allora, in quanto pratica sui generis, espone i limiti di questo ordine storico di cose, l'orizzonte epistemologico e ontologico al cui interno i soggetti sono interamente costituiti. Costruirsi in modo tale da portare alla luce questi limiti significa precisamente impegnarsi in un’estetica del sé che mantiene una relazione critica con le norme esistenti.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 28)
1.4.3.3. La dialettica etica e morale, della costruzione di sé nelle e contro le norme, la relazione all’altro segnata dalla incommensurabilità, la conseguente opacità a se stessi e la difficoltà o impossibilità della narrazione, dell’autonarrazione, del dar conto di sé, l’opacità a se stessi… possono diventare, analiticamente, il contesto della forclusione, della coscienza infelice e della melanconia. «L’opacità del soggetto può avere origine nel suo essere concepito come un essere relazionale, come un essere, cioè, le cui prime e più precoci relazioni non sono sempre recuperabili a una conoscenza consapevole. Momenti di non-conoscenza di sé tendono a emergere nelle relazioni con gli altri, suggerendo come tali relazioni si richiamino a forme primarie di relazionalità che non sempre si lasciano sottoporre a una tematizzazione esplicita e riflessiva. Se davvero siamo formate/i in un contesto di relazioni che risultano parzialmente irreperibili e irreparabili, questa opacità sembra radicarsi nell'atto stesso della nostra formazione e derivare dal nostro status di esseri che si formano in una relazione di dipendenza. […] Più precisamente, se è proprio in virtù delle relazioni con gli altri che si è opachi a se stessi, e se queste relazioni con gli altri sono il luogo della propria responsabilità etica, allora significa che è proprio in virtù dell'opacità verso di sé che il soggetto si espone e accetta alcuni dei più importanti vincoli etici. […] Il corpo singolare cui la narrazione si riferisce non può essere catturato da una narrazione totale, non solo perché quel corpo possiede una storia della propria formazione che resta inaccessibile alla narrazione, ma anche perché le relazioni primarie sono costitutive in modo tale da rendere necessariamente opaca proprio la comprensione di noi stessi.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 31-32)
In sintesi: due fattori determinano il carattere sempre aperto e la narrazione non totale della identità, della costituzione e del dar conto di sé: 1. l’ambivalenza dell’assoggettamento (cfr. le tesi di Foucault), l’opacità del soggetto nella relazione, nelle relazioni con gli altri.
1.4.3.4. L’io plurale e il riconoscimento. « Altre letture di Hegel, tuttavia, insistono sul fatto che la relazione con l'altro sia eminentemente estatica, che l’“io”, cioè, trovi ripetutamente se stesso al di fuori di sé e che nulla possa mettere fine all'impulso ripetuto e continuo di questa esteriorità che è paradossalmente la mia. In un certo senso, io sono sempre altra rispetto a me stessa, e non si dà alcun momento finale in cui possa ritornare me stessa. In realtà, se si dovesse seguire alla lettera la Fenomenologia dello spirito se ne dedurrebbe che l'“io” è costantemente trasformato dagli incontri a cui è sottoposto: il riconoscimento diviene allora il processo irreversibile attraverso cui divento continuamente altro da quello che ero, smettendo così di essere in grado di tornare ciò che ero. Nel processo di riconoscimento vi è quindi una costante perdita, dal momento che l’“io” si trasforma attraverso l’atto di riconoscere.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 41)
«Se l'identità che noi diciamo di essere non può catturarci una volta per tutte, e allude immediatamente a un eccesso e a un'opacità che fuoriescono dalle categorie dell'identità stessa, allora ogni tentativo di “dar conto di sé" dovrà necessariamente fallire per avvicinarsi a una qualche verità. Nella misura in cui chiediamo di conoscere l'altro, o chiediamo che l'altro dica, una volta per tutte e in modo definitivo, chi lui o lei sia, sarà necessario non aspettarsi una risposta che possa davvero soddisfarci. Solo non aspirando a tutti i costi a una risposta esaustiva, e lasciando che la domanda resti aperta, che addirittura continui a insistere noi lasceremo davvero vivere l'altro — dal momento che la vita può essere intesa proprio come ciò che eccede ogni tentativo di dar conto di essa. Se lasciar vivere l'altro è parte essenziale di ogni definizione etica del riconoscimento, allora questa versione del riconoscimento si fonderà meno sulla conoscenza che sulla percezione e l'assunzione consapevole di certi limiti epistemici, di certe pretese di verità.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 61)

1.5. Foucault: ambivalenza dell’assoggettamento.
«La mia riflessione prende le mosse dall'idea foucaultiana che il potere regolativo produce i soggetti che controlla, che il potere non è soltanto imposto dall'esterno, ma opera come il mezzo regolativo e normativo attraverso il quale i soggetti si formano.» (Butler Judith, 1993 Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996, 21)
«individuare le operazioni che producono e nascondono ciò che si qualifica come soggetto»
(Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004, VII, dalla presentazione di G.Giorello). Il concetto di Bildung (costruzione, formazione) utilizzato ampiamente da Hegel, viene ripresa nella tematica sull’assoggettamento, con diversa rilevanza e definizione, nelle opere di Freud, Lacan e Butler.
«Gli ambiti della "rappresentazione" politica e linguistica determinano in anticipo il criterio in base al quale si formano i soggetti, con la conseguenza che la rappresentazione si estende solo a quanto può essere riconosciuto come soggetto. In altre parole, prima di poter estendere la rappresentazione, occorre che siano soddisfatti i requisiti necessari per essere un soggetto. […] Secondo Foucault, i sistemi politici del potere producono i soggetti che in seguito giungono a rappresentare. Per il fatto stesso di essere assoggettati a simili strutture, i soggetti così regolamentati si formano, si definiscono e si riproducono in conformità ai requisiti di quelle strutture. (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,4) Dunque la circolarità e l’ambivalenza: [1.] Concedo il diritto alla rappresentazione [2.] al soggetto che produco, nascondendo la produzione stessa e presentando il soggetto prodotto come ontologicamente primo o naturale, natura; «Il potere giuridico "produce" inevitabilmente quel che sostiene di rappresentare soltanto» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 5; Butler 2005, Critica della violenza etica, 34-39)
1.5.1. Il tema dell’assoggettamento è centrale e ricorrente soprattutto ed esplicitamente nelle analisi di Michel Foucault (ideale maestro di Butler), che ne mette in luce l’irriducibile e essenziale ambivalenza, richiamata: «soggettivizza e assoggetta (in inglese il sostantivo “subjection” rende entrambe le locuzioni), ovvero produce le norme attraverso cui il corpo guadagna un’esistenza sociale e allo stesso tempo, in forza di quelle stesse norme di intelligibilità, assoggetta, sottomette, disciplina il corpo.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo,12)
[può essere utile condividere la differenza tra alcuni termini:
- ambivalenza: es. amore e odio, opposti che agiscono contemporaneamente e in relazione;
- antinomia: es. continuo discontinuo, opposti che non si annullano, entrambi possibili, mai contemporaneamente
- contraddizione: es. c’è, non c’è, opposti dei quali uno è vero e l’altro è falso; l’uno nega l’altro.
- fraintendimenti (e doppio senso) versione debole dell’antinomia: i due significato agiscono contemporaneamente ma si ignorano; in lieve materiale e originaria sovrapposizione generano però campi diversi di senso (es. da Andrea Camilleri e Laura Betti: «non abusate dei luoghi comuni», avviso affisso in un androne di condominio]
- dicotomia: la derivazione per deduzione logica di due soli nuovi concetti che esauriscono l’estensione semantica del concetto da cui derivano

«Vi sono due sensi della parola ‘soggetto’: soggetto sottomesso all’altro dal controllo e dalla dipendenza, e soggetto reso aderente alla propria identità attraverso la coscienza o la conoscenza di sé. Nei due casi, questa parola suggerisce una forma di potere che soggioga ed assoggetta». (Esposito Roberto 2004 Bìos. Politica e filosofia, Einaudi, Torino, 29) I due significati del termine si legano in un processo reale: la persona nel diventar soggetto si assoggetta, o diventa soggetto attraverso un processo di assoggettamento (sottomissione, adattamento).
Secondo un primo aspetto quindi “assoggettamento” indica il processo di formazione del soggetto (farsi soggetto), la formazione continua della persona come prassi e diritto individuale, ma, in seconda e contemporanea valenza, indica il processo di scoperta, riconoscimento, condivisione, rispetto e sottomissione (l’assoggettarsi) di modelli e regole stabilite come norme e come progetti educativi in svariate sedi. La gestione, semantica e storica, dell’ambivalenza, spinge a cogliere come il legame tra i due significati del termine sia dinamicamente più forte del semplice accostamento di significati in una (apparente) ambiguità: il modello di società, l’ordine del discorso… che Foucault costantemente prende in analisi mette in evidenza come il diventare soggetto della persona si realizzi attraverso un complesso e continuo processo di adattamento, assorbimento, sottomissione, assoggettamento quindi degli individui a quelle istanze (regole, modelli…).
«La riformulazione del concetto di subordinazione di Foucault come ciò che non solo viene imposto al soggetto, ma che al tempo stesso forma il soggetto, ovvero è imposto al soggetto tramite la sua formazione, suggerisce un’ambivalenza nel luogo stesso dal quale emerge il soggetto.» (Butler 1997 La vita psichica, 12)
1.5.2. Nell’opera Butler Judith 1997 La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, Meltemi, Roma 2005, Butler da subito ricorda il doppio significato del termine. «Per un verso l’assoggettamento è l’infeudarsi nella legge e nella norma, il sottomettersi al potere. Per un altro verso, assoggettamento indica il formarsi del soggetto e ciò proprio attraverso quello stesso infeudarsi.» ((Butler Judith 1997 La vie psychique prefazione di Catherine Malabou p. 11) È un tema e un processo, quello dell’assoggettamento, che costituisce l’essenza storica e la funzione plasmatrice della politica nell’ambito del personale e del sociale e, in particolare nella formazione e definizione del genere: il genere, cioè, si definisce attraverso e nei processi di assoggettamento. Vale il viceversa la decostruzione del genere diventa analisi critica del potere nel sociale e nel politico; lo studio della definizione sociale del genere rimanda ad un processo più fondamentale e incisivo nella costruzione delle identità personali e sociali, cioè all’“assoggettamento”.
1.5.3. L’assoggettamento (il diventar soggetto come processo di affermazione e di [nella] sottomissione) fa comparire e fa riferimento al processo della forclusione e al suo peso nell’analisi del sociale e del politico. Si può introdurre analiticamente la tesi attraverso una ricostruzione storica (per richiami interpretativi).
1.5.3.1. Nelle tesi di nascita della teoria moderna della sovranità: nella teoria di Hobbes, lo Stato resta consegnato al proprio atto di nascita naturale contrattuale: la consegna in affidamento e il monopolio della forza e della violenza da volturare in diritto. Un processo di immunizzazione del sociale nei confronti della violenza ma è anche, quella della forza e della violenza, una categoria che resta fondamentale per la definizione dell’essenza del politico.
1.5.3.2. Negli ordinamenti dello Stato la violenza diventa invisibile, si tramuta in legge e in ordine e questa non visibilità della violenza è il mezzo e il segreto del suo successo. La violenza è trasferita nelle forme dell’ordine; i meccanismi che la determinano sono esteticamente occultati nell’apparire garantista del politico nel sociale (come i motori vengono esteticamente occultati nella bellezza [e utilità] della carrozzeria).
1.5.3.3. in questo contesto prendono forma i processi di assoggettamento (nella nota ambiguità del termine, e di forclusione). I contesti di analisi possono essere due. Quello generale della costruzione del sistema politico da applicare al sociale, quello specifico della naturalizzazione del genere, nel processo educativo e nel costume culturale sociale dominante.
1.5.3.3.1. Al primo: la mestizia della libertà e la mestizia delle regole. La mestizia, cioè, di quella libertà che viene legalmente ammessa sullo sfondo di quell’ordine che esprime una violenza nascosta, edulcorata, rimossa e di una rimozione ormai del tutto dimenticata, comunque non riconosciuta e non vissuta e dunque lutto che non può essere rielaborato; fa testo di questa dimenticanza l’insofferenza sociale per forme di libertà che pretendono di mettere in discussione o sotto accusa quell’ordine e che vengono perciò indicate come stranezze, anomalie, anormalità, intemperanze…
1.5.3.3.2. Al secondo: la mestizia di quell’adattamento al genere che definizioni, ruoli, riti e promozioni sociali incoraggiano come unica natura e piena realizzazione della persona e della sua natura e identità; a sostegno di tale libertà nelle forma precostituite e naturalizzate è la fobia e l’attacco (talora criminale) nei confronti di tutto ciò che si discosta dal binarismo del genere considerato naturale, perciò indiscutibile. Comportamenti di realizzazione di sé che si fondano sulla dimenticanza di una rimozione della propria originaria, profonda e aperta possibilità costruttiva di sé come genere; sulla chiusura preliminare alla propria sessualità; sulla negazione negata, occultata, non vissuta. Di qui la latente mestizia del vivere la (cosiddetta) normalità.

2. Potere e assoggettamento: «il potere forma il soggetto… il soggetto è formato nella sottomissione»; «gli specifici meccanismi attraverso i quali il soggetto è formato nella sottomissione» e la «forma psichica» assunta dal potere.
Alcune citazioni preliminari per il tema: «L’“assoggettamento”, o assujettissement, non è solo una subordinazione ma anche un’assicurazione e un mantenimento. […] Tale azione produce i soggetti che sottomette, cioè li assoggetta attraverso relazioni di potere coercitive che agiscono come principio formativo. […] Secondo Foucault, il potere opera nella costituzione della materialità stessa del soggetto, del principio che simultaneamente informa e regola il "soggetto" della soggettivazione. […] La "materialità" denota un certo effetto del potere, o piuttosto, è il potere nei suoi effetti formativi e costitutivi. […] Quando l'effetto materiale è considerato un punto di partenza epistemologico, un sine qua non di certa discussione politica, si tratta di una mossa del fondazionismo empirista che, accettando l'effetto costituito come dato primario, riesce efficacemente a nascondere e mascherare la genealogia delle relazioni di potere dalle quali è costituito.» (Butler Judith 1993, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996, 29-30)
Come introduzione sintetica alle tesi di Judith Butler espresse in La vita psichica del potere: «Sentirci dominati da un potere esterno a noi è forse una delle esperienze più dolorose, ma anche più comuni. Ciò che invece non è comune, è constatare che siamo noi stessi a intrattenere una relazione molto stretta con quel potere. Per dirla con Foucault, il potere determina le nostre condizioni di vita e di pensiero; dal potere dipende il nostro esistere. In breve: il potere s’impone a noi e noi, a nostra volta, indeboliti dalla sua forza, lo interiorizziamo, o quantomeno ne accettiamo tacitamente le condizioni. Tutto questo ci riporta alla dialettica hegeliana del servo-padrone: il servo è appassionatamente attaccato al padrone poiché è da lui che dipende la sua identità e una possibilità di esistenza sociale. Poco importa che questa esistenza comporta in realtà una sudditanza: mediante la ripetizione del lavoro, il servo assume il potere di cui è intrisa la relazione con il padrone. Il potere produce identità, comportamenti, modi di vivere e di pensare, regimi di verità e falsità. Una difesa? La melancolia. Ovvero l’umore saturnino che gli antichi greci attribuivano all’uomo di genio. Anche per Butler, attraverso la melancolia, l’uomo riemerge...» (Francesca Bolino, Come difendersi dal potere? Con la forza della melanconia, la Repubblica 30.06.2013)
«[1] In quanto forma di potere l’assoggettamento è paradossale. Essere dominati da un potere esterno a noi è una delle forme note e dolorose che il potere assume. Altro è, tuttavia, scoprire che ciò che noi siamo, il nostro stesso costituirci come soggetti, dipende in qualche modo proprio da quel potere. Siamo abituati a pensare al potere come a ciò che si impone al soggetto dall’esterno, a ciò che schiaccia, che spinge in basso e relega a un livello inferiore. Questa è certamente una buona descrizione di parte di ciò che fa il potere. Se però, seguendo Foucault, comprendiamo che il potere forma il soggetto e al contempo delinea le condizioni stesse della sua esistenza e la traiettoria del suo desiderio, allora esso non è più semplicemente ciò cui ci opponiamo, ma anche, in un senso forte, ciò da cui dipendiamo per la nostra esistenza e ciò che accogliamo e proteggiamo nel nostro stesso essere. Il modello abitualmente utilizzato per comprendere questo processo è il seguente: il potere si impone su di noi e noi, indeboliti dalla sua forza, arriviamo a internalizzarlo o ad accettane le condizioni. Questo ragionamento non considera, tuttavia, che “noi” che accettiamo quelle condizioni, ne siamo fondamentalmente dipendenti per la “nostra” stessa esistenza. Non esistono dunque le condizioni discorsive per l’articolazione di un “noi” qualunque? L’assoggettamento consiste esattamente in questa dipendenza fondamentale da un discorso che non scegliamo mai, ma che, paradossalmente, dà inizio e sostegno alla nostra possibilità di azione.
[2] L’“assoggettamento” indica il processo del divenire subordinati al potere tanto quanto il processo del divenire un soggetto. Che sia per interpellazione, nel senso di Althusser, o per produttività discorsiva, nel senso di Foucault, il soggetto è iniziato attraverso una sottomissione primaria al potere. Per quanto Foucault identifichi l’ambivalenza di questa formulazione, egli non approfondisce [2.1] gli specifici meccanismi attraverso i quali il soggetto è formato nella sottomissione. Non solo la sua teoria lascia ampiamente scoperto l’intero dominio della psiche, ma rimane inesplorato anche [2.2] il potere nella sua duplice valenza di subordinazione e produzione. Se, dunque, la sottomissione è una condizione della soggettivazione, è sensato chiedersi quale sia la forma psichica assunta dal potere. Un progetto come questo richiede che si pensi contemporaneamente a una teoria del potere e a una teoria della psiche, compito che è stato evitato sia da autori di ortodossia foucaultiana sia da autori di ortodossia psicoanalitica. Il presente lavoro, per quanto non offra alcuna promessa di una sintesi complessiva, tenta di esplorare le prospettive provvisorie da cui ciascuna teoria illumina l’altra. Tale progetto non inizia né si conclude con Freud e con Foucault; la questione della soggettivazione, di come il soggetto sia formato nella subordinazione, domina il tratto della Fenomenologia dello spirito di Hegel, che delinea l’avvicinarsi dello schiavo alla libertà e la sua delusa caduta nella “coscienza infelice”. Il padrone, che inizialmente sembra essere “esterno” rispetto al servo, riemerge come la coscienza stessa del servo. L’emergente infelicità della coscienza rappresenta il suo stesso auto-rimprovero, l’effetto della trasmutazione del padrone in una realtà psichica. Le auto-mortificazioni che tentano di correggere la corporeità insistente della coscienza di sé fondano la cattiva coscienza. Questa immagine della coscienza ripiegata su se stessa prefigura la descrizione di Nietzsche, in Genealogia della morale, non solo di come la repressione e la regolazione diano forma ai fenomeni sovrapposti della coscienza e della cattiva coscienza, ma anche di come quest’ultima divenga essenziale per la formazione, la persistenza e la continuità del soggetto. In ciascuno dei casi, il potere, che inizialmente appare come esterno, imposto al soggetto, in grado di porre il soggetto in uno stato di subordinazione, assume una forma psichica che costituisce l’identità stessa del soggetto.
La forma di questo potere è inesorabilmente segnata dall’immagine del voltarsi, un ripiegarsi su se stessi o, addirittura, un rivoltarsi contro se stessi. Questa immagine contribuisce alla spiegazione di come un soggetto sia prodotto e non vi è quindi alcun soggetto, a rigor di termini, che metta in atto questo voltarsi. Viceversa, il voltarsi sembra servire come inaugurazione tropologica del soggetto, un momento fondante il cui stato ontologico rimane permanentemente incerto. Appare dunque difficile, se non impossibile, incorporare tale nozione nella descrizione della formazione del soggetto. Di cosa o di chi si dice che si volta, e qual è l’oggetto di un tale voltarsi? Come avviene che il soggetto sia modellato da una forma di contorsione ontologicamente così incerta? Forse, con l’introduzione di questa immagine non siamo più nella condizione di “spiegare la formazione del soggetto”. Ci dobbiamo piuttosto confrontare con la presunzione tropologica posta da una qualsiasi spiegazione di questo tipo, presunzione che facilita la spiegazione, ma, al tempo stesso, ne segna il limite. Nel momento in cui tentiamo di determinare come il potere produca il suo soggetto e come il soggetto accolga il potere dal quale viene inaugurato, entriamo in questo dilemma tropologico. Non possiamo supporre un soggetto che metta in atto un’internalizzazione se la formazione stessa del soggetto deve essere ancora spiegata. L’immagine cui ci riferiamo non ha ancora acquisito lo stato di esistente e non è parte di una spiegazione verificabile, eppure il nostro riferimento continua ancora a produrre un certo qual senso. Il paradosso della soggettivazione implica un paradosso della referenzialità : vale a dire che dobbiamo fare riferimento a qualcosa che ancora non esiste.»
(Butler Judith 1997 La vita psichica del potere. Teorie della soggettivazione e dell’assoggettamento, Meltemi, Roma 2005, 7-10)
Per evidenziare alcuni passaggi analitici della citazione: [1] il potere forma e assoggetta (“produzione” e “subordinazione”); [1.1] le norme rendono naturale, civile e proprio l’assoggettamento; [1.2] diventa intollerabile la diversità (relativamente alle norme, alla “normalità”) perché considerata contro natura; [2] la domanda e la ricerca riguardano: [2.1] da un lato il soggetto: “gli specifici meccanismi attraverso i quali il soggetto è formato nella sottomissione”, [2.2] dall’altro il potere: “il potere nella sua duplice valenza di subordinazione e produzione” («Se, dunque, la sottomissione è una condizione della soggettivazione, è sensato chiedersi quale sia la forma psichica assunta dal potere. Un progetto come questo richiede che si pensi contemporaneamente a una teoria del potere e a una teoria della psiche»); [3] il “ri-voltarsi”: «La forma di questo potere è inesorabilmente segnata dall’immagine del voltarsi, un ripiegarsi su se stessi o, addirittura, un rivoltarsi contro se stessi.» (in progressione o variazione, la dialettica che emerge è quella del ripiegarsi su di sé, del rivolgersi, del volgersi contro, del rivoltarsi contro di sé… con quali effetti?)

2.1. soggetto in “assoggettamento” e la forma psichica assunta dal potere (vita psichica del potere): una teoria del potere e una teoria della psiche (potere e soggetto)
«il potere, che inizialmente appare come esterno, imposto al soggetto, in grado di porre il soggetto in uno stato di subordinazione, assume una forma psichica che costituisce l’identità stessa del soggetto.» (Butler 1997 La vita psichica, 9)
2.1.1. Attaccamenti appassionati; assumersi rivoltandosi contro di sé. La natura sospetta delle teorie in cui si parla, ripetutamente (dalla filosofia, alla sociologia, alla psicanalisi…) di «attaccamenti appassionati» (passionate attachment) alla propria subordinazione. Assoggettamento come fatale interiorizzazione della subordinazione trasformatasi ormai inesorabilmente nel meccanismo dell’autosubordinazione. Il sospetto è che tali teorie ospitino e alimentino la rassegnazione con cui l’uomo si sottopone al potere fino a condurre «il soggetto, che contemporaneamente viene formato e subordinato» ad ignorare (rimuovere e non notare) il processo di assoggettamento a cui consegna la propria formazione e perciò la natura del potere politico.
«Attaccamenti appassionati L’insistenza sull’affermazione che un soggetto è appassionatamente attaccato alla propria subordinazione è stata invocata criticamente da coloro che cercano di ridimensionare le richieste dei subordinati. Al di là e contrariamente a questa visione, ritengo che l’attaccamento all’assoggettamento venga prodotto tramite le azioni del potere e che l’operato del potere sia parzialmente esemplificato proprio da tale effetto psichico, uno dei più insidiosi tra le sue produzioni. Se, in senso nietzschiano, il soggetto è formato da una volontà che si ripiega su se stessa, assumendo una forma riflessiva, allora il soggetto è la modalità del potere che si volta su se stesso: il soggetto è l’effetto del contraccolpo del potere.» (Butler 1997 La vita psichica, 12)
La ripresa analitica della tesi mette in luce, sotto altra forma, l’ambivalenza dell’assoggettamento e il coinvolgimento inesorabile del soggetto e del potere in questo processo di assoggettamento (esplicito è il richiamo alla dialettica servo / padrone presentata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito).
2.1.1.1. Si tratta, in qualche modo, di una situazione socialmente obbligata: «… nessun soggetto emerge senza un attaccamento appassionato nei confronti di coloro dai quali dipende in maniera fondamentale (anche se tale passione, in senso psicoanalitico, è “negativa”). […] Questa situazione di dipendenza primaria, inoltre, condiziona la formazione politica e la regolazione dei soggetti e diventa tramite della loro soggettivazione. Se non c’è formazione del soggetto al di fuori di un attaccamento appassionato a coloro ai quali si è subordinati, allora la subordinazione si dimostra indispensabile al divenire del soggetto. In quanto condizione necessaria al divenire soggetto, la subordinazione implica uno stato di sottomissione obbligata. Il desiderio di sopravvivere, di “essere”, inoltre, è un desiderio pervasivamente abusabile. Colui che ha in mano la promessa della continuità di un’esistenza gioca con il desiderio di sopravvivenza.» (Butler 1997 La vita psichica, 12-13). Concorrono dunque nel processo di formazione / subordinazione: la relazione primaria dell’uomo e lo stato di dipendenza in cui nasce, la constatazione che il contesto sociale risulta necessario per vivere e operare, l’attaccamento al vivere (“Preferisco esistere in uno stato di subordinazione piuttosto che non esistere”. Butler 1997 La vita psichica, 13).
2.1.1.2. Si tratta di una situazione obbligata ma non univoca, né monodirezionale; [a] se, e questa è la tesi, si utilizza la situazione di dipendenza iniziale e vitale per imprimere un percorso di formazione socialmente e politicamente precostituito e mondirezionale; è qui che il processo di formazione diventa processo di subordinazione; è qui che nasce l’equivoco secondo cui: «un soggetto non solo viene a formarsi nella subordinazione, ma anche che tale subordinazione rappresenta la condizione continuativa di possibilità» (Butler 1997 La vita psichica, 13), cioè di esistenza del soggetto stesso. [b] Ma, nell’assoggettamento e nel diventar soggetto vi è anche una appropriazione del potere e questo può dar luogo anche a forme di resistenza, o può crearne le condizioni materiali. «L’assoggettamento è, sì, un potere esercitato su un soggetto, ma ciononostante è anche un potere assunto dal soggetto, assunzione, questa, che costituisce lo strumento stesso del divenire del soggetto. […] l’atto di appropriazione, viceversa, può comportare un’alterazione del potere tale che il potere assunto operi in contrapposizione al potere che ha reso possibile l’assunzione. Laddove le condizioni della subordinazione rendono possibile quell’assunzione di potere, il potere assunto rimane legato a tali condizioni, ma in maniera ambivalente; il potere assunto, infatti, può al tempo stesso trattenere la subordinazione e resistere a essa.» (Butler 1997 La vita psichica, 17, 18) «In quanto condizione, il potere precede il soggetto. Tuttavia, perde la sua apparente priorità quando viene assunto dal soggetto, situazione questa che dà luogo alla prospettiva inversa per cui il potere è l’effetto del soggetto e il potere è ciò che i soggetti effettuano. […] La nozione del potere all’opera nell’assoggettamento appare dunque in due modalità temporali incommensurabili: innanzitutto, come ciò che precede sempre il soggetto ed è esterno a esso; in secondo luogo, come effetto volontario del soggetto.» (Butler 1997 La vita psichica, 19) «Sebbene il potere sociale stabilisca per quali perdite ci si possa addolorare, non è sempre così efficace come vorrebbe essere. La perdita non può essere interamente negata, ma non appare nemmeno in un modo che possa essere direttamente affermata.» (Butler 1997 La vita psichica, 171) E questo esito configura una nuova sede e un nuovo volto del potere e ciò nelle due unite direzioni: teoria del potere e teoria della psiche. Torna la riserva nei confronti delle analisi di Foucault. Foucault mette in luce la logica del potere nel processo di assoggettamento degli individui ma non in modo altrettanto analitico (a quanto pare) le ripercussioni sul volto del potere (sulla sua dinamica, sulla sua “vita psichica”) come conseguenza dell’assoggettamento in quanto esso è processo di asservimento ma anche di iniziativa con conseguenti ripercussioni in termini di mutamento del volto del potere, così come è del resto indicato e come viene impostato nel passaggio di Hegel su servo e padrone, presentato nella Fenomenologia dello Spirito.
La chiave di comprensione delle opere di Butler, del modo con cui individua il suo campo di indagine e della sfida che lancia nelle sue analisi è da individuare in quello iato e in quello spazio di iniziativa che si individua e si crea nel momento in cui si avverte l’insopprimibile ambivalenza dell’assoggettamento; cioè, più nello specifico di quanto sembri fare Foucault, nella constatazione già riportata secondo cui: «L’assoggettamento è, sì, un potere esercitato su un soggetto, ma ciononostante è anche un potere assunto dal soggetto»; è qui che si definisce, con concretezza, lo spazio di azione e di progetto del soggetto.
2.1.2. In ripresa e approfondendo. Se dunque è vero che l’assoggettamento in quanto dipendenza e formazione del soggetto comporta un incorporamento delle norme, occorre affrontare con maggior serietà e concentrazione il tema di come avvenga questo incorporamento, come incida sulla formazione della psiche o quale topologia della psiche determini, fino a spiegare il tanto sbandierato processo attraverso il quale il soggetto si consegna, esso stesso, alla propria subordinazione (volge l’impulso contro se stesso, come Hegel descrive nella “coscienza infelice”, e come Nietzsche affida al ruolo della coscienza morale presentandone la dinamica in termini di auto-punizione; «Considerato dal punto di vista di Nietzsche e di Hegel, il soggetto si impegna ad auto-ostacolarsi, realizza il proprio assoggettamento, desidera e dà forma alle catene che lo legano e, così facendo, si rivolta contro un desiderio che sa essere — o sapeva essere — il proprio.» (Butler 1997 La vita psichica, 28) e come tale autoconsegna formi un elemento costituente dello stesso cammino di formazione di sé o del diventar soggetto. «Se alcune forme di potere regolatore sono parzialmente sostenute attraverso la formazione di un soggetto e se tale formazione avviene secondo i requisiti del potere e particolarmente tramite l’incorporazione di norme, allora una teoria della formazione del soggetto deve fornire una descrizione di tale processo di incorporazione e la nozione di incorporazione deve essere esaminata per accertare quale topografia psichica essa assuma. Come avviene che la soggettivazione del desiderio richieda e istituisca il desiderio per l’assoggettamento? Pur sostenendo che le norme sociali sono internalizzate, non abbiamo ancora spiegato cosa effettivamente sia l’incorporazione o, più generalmente, l’internalizzazione, né cosa significhi per una norma venire internalizzata o cosa succeda a una norma nel processo di internalizzazione. […] Come possiamo, in particolare, spiegare il desiderio per la norma, e più in generale per l’assoggettamento, in termini di un desiderio pre-esistente per la vita sociale, desiderio sfruttato dal potere regolatore? » (Butler 1997 La vita psichica, 24)
2.1.2.1. Siamo di fronte a una situazione di carattere strutturale. Non vi è una alternativa al sociale, esso forma il contesto unico della nostra formazione all’esistenza. E quel sociale come luogo dal quale non si può prescindere è un sociale storicamente strutturato, non in chiusura totale, né in modo definitivo e immodificabile ma certo non a disposizione del soggetto al suo primo arrivo; egli dunque si caratterizza, nella sua apertura, in termini di fragilità ed è esposto alla vulnerabilità. Questa è la sede in cui la domanda va posta ed è anche la sede in cui si trova una parziale risposta. «Perché il soggetto può essere sfruttato? Perché è vulnerabile a essere soggiogato in virtù della sua stessa formazione? Costretto a cercare la conferma della sua stessa esistenza in categorie, termini e nomi di produzione non sua, il soggetto è alla ricerca di segni della sua esistenza al di fuori di se stesso, in un discorso che è, al tempo stesso, dominante e indifferente. Le categorie sociali sono segno, contemporaneamente, di subordinazione e di esistenza. In altre parole il prezzo dell’esistenza all’interno della soggettivazione è la subordinazione. Il soggetto insegue la promessa di esistenza insita nella subordinazione proprio nel momento in cui la scelta è impossibile. Tale ricerca non è una scelta, ma non è nemmeno una necessità. La soggettivazione sfrutta il desiderio per l’esistenza lì dove l’esistenza è sempre conferita da qualche altro luogo; essa sottolinea una vulnerabilità primaria nei confronti dell’Altro allo scopo di esistere.» (Butler 1997 La vita psichica, 25)
Sul versante del sociale politico l’assoggettamento mette in atto un cammino di formazione in termini di selezione e restrizione: «… la costruzione del soggetto, il principio di regolazione attraverso il quale il soggetto viene formulato o generato. La soggettivazione, così intesa, è una forma di potere che non solo agisce unilateralmente su di un dato individuo come forma di dominazione, ma al tempo stesso attiva o dà forma al soggetto. Il processo di soggettivazione, dunque, non si esaurisce semplicemente nella dominazione di un soggetto, né nella sua generazione, ma indica piuttosto una certa modalità di restrizione nella generazione, una restrizione senza la quale la generazione del soggetto non può avvenire, una restrizione attraverso la quale avviene tale generazione.» (Butler 1997 La vita psichica, 80)
2.1.2.2. Ma, di nuovo e di converso (quasi hegelianamente), si dà il caso che il sociale (il sistema) non resti inalterato e indifferente di fronte al nuovo arrivo; l’esplicazione del potere nella formazione del soggetto, nell’assoggettamento, diventa di fatto anche una trasmissione del potere al soggetto e trasmissione che ha effetti retroattivi tali da chiamare in causa l’assetto di quel potere da cui è partito il cammino di assoggettamento. Le linee del progetto in un passaggio di Butler: «Un’analisi critica della soggettivazione comprende: (1) una descrizione delle modalità con le quali il potere regolatore mantiene i soggetti in uno stato di subordinazione attraverso la produzione e lo sfruttamento del desiderio di continuità, visibilità e posizione (2) il riconoscimento del fatto che il soggetto, pur prodotto come continuo, visibile e localizzato è, ciononostante, tormentato da un residuo inammissibile, una melanconia che segna i confini della soggettivizzazione; (3) una spiegazione dell’iterabilità del soggetto che mostra come l’agency possa consistere esattamente nell’opposizione e nella trasformazione delle condizioni sociali dalle quali è stata generata. Per quanto la prospettiva centrata sul soggetto richieda l’estromissione della prima persona, una sospensione dell’“io” necessaria all’analisi della formazione del soggetto, la riassunzione della prospettiva in prima persona viene però richiesta dalla questione dell’agency. L’analisi della soggettivazione è sempre duplice, e traccia contemporaneamente le condizioni necessarie alla formazione del soggetto e la necessità per il soggetto — e la sua prospettiva — di rivoltarsi contro tali condizioni per poter emergere.» (Butler 1997 La vita psichica, 33)
2.1.3. Dunque il tema centrale: «Se, dunque, la sottomissione è una condizione della soggettivazione, è sensato chiedersi quale sia la forma psichica assunta dal potere. Un progetto come questo richiede che si pensi contemporaneamente a una teoria del potere e a una teoria della psiche» (Butler 1997 La vita psichica, 8) La tesi: «Se le condizioni di potere non producono unilateralmente dei soggetti, qual è allora la forma temporale e logica di tale assunzione di potere? Per chiarire il processo attraverso il quale il potere sociale produce riflessività nel momento stesso in cui limita le forme di socialità, è necessaria una nuova descrizione del dominio della soggettivazione a livello psichico. Si può dire, in altre parole, che le norme che operano come fenomeni psichici, limitando e contemporaneamente producendo desiderio, governino anche la formazione del soggetto e circoscrivano il dominio di una socialità vivibile. L’operazione psichica della norma offre al potere regolatore una strada più insidiosa di quanto non sia la coercizione esplicita, strada il cui successo permette la tacita operazione del potere nella vita sociale. Essendo psichica, inoltre, la norma non ripristina semplicemente il potere sociale, ma piuttosto diventa formativa e vulnerabile in modo altamente specifico. Le categorizzazioni sociali che determinano la vulnerabilità del soggetto al linguaggio sono esse stesse vulnerabili tanto rispetto al cambiamento psichico quanto a quello storico.» (Butler 1997 La vita psichica, 26) Torna il doppio tema: quello della potenza regolatrice della norma nel circoscrivere una socialità vivibile, quello della vulnerabilità storica della stessa norma – sistema (del resto la norma, per quanto sclerotizzata, è pur sempre una norma prodotta).
In altri termini. L’analisi dell’assoggettamento, che è presentato come la realizzazione della funzione politica propria del potere, diventa analisi dell’ingresso del soggetto nelle norme e quindi nel sistema delineato dal potere, è anche il costituirsi del soggetto secondo potenzialità di forme che si rivolgono contro il contesto in cui il soggetto è iniziato. Nell’assoggettamento, costruito con la logica della diversione (il soggetto si assoggetta negli “attaccamenti appassionati” alla propria subordinazione), il potere domina, esclude ed include, ma attiva anche quella logica di diversione da cui può essere travolto; si tratta di indicarne le basi e la dinamica.

2.2. Nel progetto centrale di ricerca, «Se, dunque, la sottomissione è una condizione della soggettivazione, è sensato chiedersi quale sia la forma psichica assunta dal potere.», fa la sua comparsa il concetto e la dinamica della forclusione e la situazione della melanconia.
Si tratta di cogliere il legame tra assoggettamento e melanconia; la radice del loro incontro viene individuata nel processo di forclusione, dinamica inclusa ed attiva nell’assoggettamento.
2.2.1. Forclusione: la presentazione di Freud (e di Lacan). «Freud distingue tra repressione e forclusione, suggerendo che un desiderio represso possa avere avuto una vita separata dalla proibizione, ma che un desiderio forcluso sia rigorosamente escluso e costituisca il soggetto tramite una qualche forma di perdita preventiva.» (Butler 1997 La vita psichica, 27) «La forclusione di certe forme di amore suggerisce come la melanconia che fonda il soggetto (e che, in quanto tale, minaccia sempre di destabilizzare e dissestare quelle fondamenta) segnali un dolore incompleto e irrisolvibile. Misconosciuta e incompleta, la melanconia rappresenta il limite del senso di pouvoir del soggetto, il senso di ciò che può realizzare e, quindi, il senso del suo potere. La melanconia squarcia il soggetto, segnando il limite di quanto esso può accettare. Dal momento che il soggetto non riflette su tale perdita — e non può farlo — tale perdita segna il limite della riflessività, ciò che supera (e condiziona) i suoi circuiti. Tale perdita — intesa come forclusione — inaugura il soggetto e lo minaccia di dissoluzione.» (Butler 1997 La vita psichica, 28)
2.2.2.1. Il termine forclusione e il tema che affronta compare nelle opere di Sigmund Freud, ma acquista una rilevanza analitica nella psicanalisi impostata da Jacques Lacan e diventa qui un passaggio centrale per la riflessione sulla tematica del genere impostata da Judith Butler; da lei inoltre viene caricato di senso nella sua funzione attraverso la sua connessione con il concetto di mestizia e malinconia messo in evidenza da Hegel sia nella Fenomenologia dello Spirito che nella Scienza della logica. Butler introduce così il tema della forclusione nell’analisi della destrutturazione e quindi gestione del genere come fatto socio-culturale tendenzialmente (erroneamente e opportunisticamente) biologizzato o naturalizzato e nella politica di negazione delle relazioni di umanità che ne conseguono. A fornirne una presentazione preliminare che permetta di cogliere le tesi di Butler è utile richiamare il significato e la funzione la forclusione assume nella teoria di Lacan, procedendo per passaggi centrali. Una ricostruzione argomentativa per passaggi-esposizione del tema forclusione, legato e applicato al tema della “disfatta” o gestione del genere, connesso inoltre al tema della conduzione politica del sociale (vita psichica del potere) come appare nella teoria di Butler, vista la sua ampiezza, viene, più analiticamente, collocato in appendice di questo testo.
2.2.2. Come una definizione (spesso poi ripresa e precisata). Forclusione: una perdita che non può essere né pensata né pianta. Melanconia: il sentimento per una perdita (per una mancanza, un vuoto) non avvertita come tale in quanto il processo (l’impulso, il desiderio, il progetto…) che vi corrisponde non era concesso, non era consentito dalle norme di assoggettamento /soggettivazione, non era pensabile e proponibile nella normalità del discorso condiviso. L’assoggettamento comporta esclusioni per aspetti del vivere che, in quanto esclusi e riprovati, non possono essere vissuti come perdite, anzi la loro assenza è normalmente considerata successo e regolarità; tuttavia quelle esclusioni precludono o riducono il campo delle possibilità. Non si tratta di rimozioni, queste infatti vengono compensate e riformulate in sublimazioni, ma di assenza e vuoto non specificabili, non determinabili, vissuti con un sentimento di indistinta melanconia. (Vengono alla mente le parole di Lucilio a Seneca: «Esaminandomi nell’intimo, Seneca… mi trovo in una condizione che, se non è la peggiore, certo è quanto mai dolorosa e strana: non sto né male né bene. … Ti dirò quel che mi accade e tu troverai il nome alla malattia» Seneca, I dialoghi, Laterza, Bari 1978, II, 323)
[un esempio preliminare, detto in forma sbrigativa: forclusione e omofobia. Omofobia: una reazione impaurita e intollerante a fronte della propria inammissibile omosessualità, poiché un simile legame affettivo fa riferimento alle potenzialità compositive del genere in cui si iscrive il progetto di ogni persona; l’omofobia è momento della reazione malinconica ad una perdita non avvertita come tale in quanto riferita a ciò che socialmente e personalmente viene considerato come inammissibile. Una analogia filosofica può esserci fornita dalla filosofia di Kierkegaard: l’incapacità a sostenere l’angoscia di fronte alla possibilità, intesa nella sua definizione fondante e totale come il non poter essere definiti dalle forme sociali codificate e condivise, avvertita e considerata essenza dell’esistenza, porta il soggetto alla sua trasformazione e dislocazione nel campo delle paure e delle preoccupazioni sempre più concrete e determinate, paure e preoccupazioni che consegnano il soggetto alla cura del quotidiano nella sua condivisa ripetitività.]
«Affinché una perdita possa prefigurare il soggetto, affinché lo renda possibile (e impossibile), dobbiamo considerare quale parte giochi la perdita nella formazione del soggetto. Esiste una perdita che non può essere pensata, né può essere posseduta o pianta, che rappresenta la condizione di possibilità per il soggetto? Non è questa, forse, ciò che Hegel chiamò “la perdita della perdita”, una forclusione che fonda un’inconoscibilità senza la quale il soggetto non può perdurare, un’ignoranza e una melanconia che rendono possibili, come proprie, tutte le dichiarazioni di conoscenza? Non c’è forse un desiderio di piangere — e al tempo stesso un’incapacità di piangere — ciò che non si è mai riusciti ad amare, un amore cui vengono a mancare le “condizioni necessarie all’esistenza”? Questa non è semplicemente la perdita dell’oggetto o di un qualche insieme di oggetti, ma della possibilità propria dell’amore: la perdita della capacità di amare, il lutto infinito per ciò che fonda il soggetto. » (Butler 1997 La vita psichica, 28)
Come confronto, nei termini filosofici: «… così come l’oblio di qualcosa è dimentico di sé, e si ritrae nel gorgo dell’oblio» Heidegger Martin 1949/1950 La svolta, il Melangolo, Genova 1990, 27) (l’oblio dell’oblio; l’oblio è efficace nella sua funzione di dimenticare, produrre l’oblio, quando dimentica di essere una dimenticanza, un oblio; una reduplicazione che rafforza, come accade all’abitudine che dimentica di essere un’abitudine).
2.2.3. In che modo la forclusione forma il soggetto, o della “melanconia”. «La melanconia, da un lato, è un attaccamento che sostituisce un attaccamento spezzato, perduto o impossibile; dall’altro lato, essa continua, per così dire, la tradizione di impossibilità che appartiene all’attaccamento sostituito. […] Cosa succede, però, quando una certa forclusione dell’amore diviene condizione possibilitante per l’esistenza sociale? Non produce, forse, una socialità afflitta da melanconia, una socialità nella quale la perdita non può essere pianta perché non riconosciuta come perdita, perché ciò che si è perduto non ha mai avuto alcun diritto all’esistenza? » (Butler 1997 La vita psichica, 28-29) E ancora, per definire la situazione della melanconia, il richiamo alla riflessione di Freud: «In Lutto e melanconia, la melanconia sembra essere, in primo luogo, un’aberrante forma di lutto, nella quale un individuo nega la perdita di un oggetto (di un altro individuo o di un ideale) e rifiuta il compito cui il dolore chiama, compito che si traduce nel distacco da ciò che si è perso. L’oggetto perduto [proprio per il fatto che è perduto ma se ne nega la perdita, non si vive la perdita, non si rielabora il dolore della perdita che non viene ammessa come tale; una perdita che c’è ma che non si tematizza perché risulta impossibile potesse accadere; non si può infatti perdere ciò che si nega di aver mai posseduto, “una perdita che non può essere riconosciuta e quindi, non può essere pianta” Butler 1997 La vita psichica, 141] viene magicamente trattenuto come parte della vita psichica dell’individuo. Il mondo sociale sembra eclissarsi in uno stato di melanconia, e, di conseguenza, emerge un mondo interno strutturato nell’ambivalenza. Non è immediatamente chiaro come la melanconia debba essere letta in termini di vita sociale, o meglio, nei termini della regolamentazione sociale della vita psichica. La spiegazione della melanconia, tuttavia, rimanda al modo in cui le dimensioni psichiche e sociali si formano in relazione l’una con l’altra. Potenzialmente, quindi, la melanconia offre uno spunto per comprendere come si istituiscano e si mantengano i confini del sociale, non soltanto a danno della vita psichica, ma anche legando la vita psichica a forme di ambivalenza malinconica.» (Butler 1997 La vita psichica, 157)
Le regole sociali normalizzanti che “assoggettano” per formazione e dipendenza escludono preventivamente ambiti e percorsi, soprattutto nel campo dell’affettività, degli impulsi, delle passioni. Un « ideale regolatore, un ideale secondo il quale alcune forme di amore diventano possibili, mentre altre rimangono impossibili. […] In quanto forclusione, la sanzione non opera per proibire desideri già esistenti, ma per produrre alcuni tipi di oggetti e per impedire ad altri di accedere al campo della produzione sociale. In questo modo, la sanzione non agisce secondo l’ipotesi repressiva, così come viene postulata e criticata da Foucault, ma come meccanismo di produzione in grado, tuttavia, di operare sulla base di una violenza originaria.» (Butler 1997 La vita psichica, 29) Dunque una esclusione che si colloca prima della stessa consapevolezza (è una “violenza originaria”) e che dunque depriva il soggetto senza che tale perdita possa essere accompagnata in lui da consapevolezza e possa essere, attraverso la conoscenza, compianta come perdita. La melanconia (che richiama ancora una volta la mestizia che contraddistingue, secondo Hegel, la coscienza infelice) accompagna essenzialmente il soggetto nelle sue relazioni sociali; dunque prende forma l’aspetto psichico individuale e quello sociale della melanconia, di cui occorre individuare e presentare le manifestazioni e la loro presa in atto dalle norme, più o meno preventivamente.
2.2.3.1. la dinamica della forclusione: investe su ciò che esclude, interiorizza ciò che perde o, all’inverso, lo esclude coinvolgendolo, disconosciuto viene conservato: Aufhebung (secondo la nota dialettica dell’Aufhebung espressa da Hegel nella Fenomenologia, in particolare alle sezioni coscienza e autocoscienza). «In Lutto e melanconia, Freud interpreta gli atteggiamenti autocritici del melanconico come il risultato dell’interiorizzazione di un oggetto d’amore perduto. […] Il melanconico rifiuta la perdita dell’oggetto, e l’interiorizzazione diviene una strategia per resuscitare magicamente l’oggetto perduto. […] le identificazioni sostituiscono le relazioni oggettuali e sono conseguenza della perdita, l’identificazione di genere è un tipo di melanconia in cui il sesso dell’oggetto proibito viene interiorizzato come proibizione.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 88, 90); e in quanto interiorizzato come proibizione corrisponde ad una interiorizzazione di ciò che non può essere perso; o si tratta di una perdita che non può considerarsi tale, vista la sua appartenenza al campo del proibito; dunque una perdita che non può essere riconosciuta come tale, non può essere compianta proprio nel momento, però, in cui viene interiorizzata. «Le identificazioni derivanti dalla melanconia sono modi per conservare le relazioni oggettuali irrisolte… misconosciuto, non viene risolto.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,91)
2.2.3.1.1. Applicando la strategia alla libido: «La repressione della libido è sempre compresa come se essa stessa fosse una repressione investita di libido. Quindi, la libido non viene totalmente negata attraverso la repressione, ma diviene piuttosto lo strumento del suo stesso assoggettamento. La legge repressiva non è esterna alla libido che reprime, ma la reprime al punto tale che la repressione diventa un’attività libidica. Inoltre, le proibizioni morali, specialmente quelle rivolte contro il corpo, sono mantenute proprio dall’attività corporea che cercano di tenere a freno. … In altre parole, la proibizione diventa il luogo sostitutivo della soddisfazione per l’“istinto” o il desiderio proibito, un’occasione per rivivere l’istinto nell’ambito della legge accusatoria. […] Se la soppressione del corpo è in se stessa un movimento strumentale del e dal corpo, allora il corpo è inavvertitamente preservato nello e dallo strumento della sua soppressione. […] In Hegel, la soppressione della vita corporea mostra di aver bisogno proprio del corpo che cerca di sopprimere; in questo senso il corpo viene preservato proprio nell’atto e dall’atto stesso della soppressione.» (Butler 1997 La vita psichica, 54-57 passim)

2.3. Centralità della forclusione e della melanconia nell’assoggettamento in contesto sociale.
la dinamica della melanconia: la forma del coinvolgimento sociale attraverso l’assoggettamento e, nello specifico, in tre ambiti (oggetto di analisi in schema):
2.3.1. formazione delle identificazioni che costituiscono l’io; coscienza, incorporamento, identità, racconto di sé. «… Freud ne L’Io e l’Es riconosce che la melanconia, il processo incompiuto del lutto, è centrale alla formazione delle identificazioni che costituiscono l’io. In realtà, le identificazioni generate dal lutto incompiuto sono i modi nei quali l’oggetto perduto viene incorporato e preservato fantasmaticamente nell’io ed è contemporaneamente parte di esso.» (Butler 1997 La vita psichica, 127) [punto 3.]
2.3.2. formazione delle identificazioni nel processo di formazione del genere; si può presentare « il genere come un tipo di melanconia, o come uno degli effetti della melanconia. … un’identificazione melanconica è centrale nel processo attraverso il quale l’io assume un carattere di genere.» (Butler 1997 La vita psichica, 127) [punto 4.]
2.3.3. la disfatta delle rigide identità e del genere e la nuova società. [punto 5.]

3. Formazione delle identificazioni che costituiscono l’io; coscienza, incorporamento, sostituzioni, identità, racconto di sé.
3.1. Forclusione, melanconia e il formarsi della “coscienza” nell’incorporamento.
3.1.1. «L’indicibilità e l’irrappresentabilità di questa perdita si traduce direttamente in un’intensificazione della coscienza.» (Butler 1997 La vita psichica, 171) Si tratta dunque di un tema che rimanda ad uno scenario più ampio, delineato dallo stesso Freud; infatti: «Ciò che Freud definisce il “carattere dell’Io” sembra essere la sedimentazione degli oggetti amati e perduti, i cimeli archeologici di un lutto insoluto. […] … si potrebbe concludere che l’identificazione melanconica permette la perdita dell’oggetto in un mondo esterno precisamente in quanto fornisce un modo per conservare l’oggetto come parte dell’io, e quindi per prevenirne la perdita definitiva. Qui vediamo che lasciar andare l’oggetto significa, paradossalmente, non tanto un abbandono pieno dell’oggetto, quanto un trasferimento dello stato dell’oggetto da esterno a interno. Abbandonare l’oggetto diventa possibile soltanto a condizione di un’interiorizzazione melanconica, oppure — cosa che sarebbe ancor più importante per i nostri obiettivi — di un incorporamento melanconico. Se nella melanconia viene rifiutata una perdita, non per questo essa viene abolita. L’interiorizzazione mantiene la perdita all’interno della psiche; più precisamente, l’interiorizzazione della perdita è parte del meccanismo del suo rifiuto. Se l’oggetto non può più esistere nel mondo esterno, allora esisterà internamente, e tale interiorizzazione sarà un modo per rinnegare la perdita, per tenerla a bada, per posticipare il riconoscimento e la sofferenza che ne deriva.» (Butler 1997 La vita psichica, 128-129); in una battuta, che riprende direttamente e immediatamente il concetto dialettico di Aufhebung [togliere conservando, negare assumendo] hegeliano: «un abbandono che viene rifiutato e, come tale, incorporato» (Butler 1997 La vita psichica, 174).
3.1.2. la sede della melanconia: una interiorizzazione che è incorporamento, proprio per il processo incompiuto del lutto, l’impossibilità del compiangere la perdita. Si rende utile richiamare una distinzione, in termini di confronto, tra introiezione e incorporazione. « Secondo Abraham e Torok, l’introiezione è un processo che serve al lavoro del lutto (dove l’oggetto non è solo perduto, ma anche riconosciuto come tale). L’incorporazione [il diventar corpo, l’essere collocato materialmente nella sede corporea], invece, appartiene più propriamente alla melanconia, allo stato di cordoglio disconosciuto e sospeso in cui l’oggetto viene magicamente sostenuto, in qualche modo, “nel corpo”. […] Mentre l’introiezione fonda la possibilità della significazione metaforica, l’incorporazione è antimetaforica proprio perché mantiene la perdita come radicalmente innominabile; in altre parole, oltre ad essere l’incapacità di nominare o ammettere la perdita, l’incorporazione erode anche le condizioni della stessa significazione metaforica. […] Quando consideriamo l’identità di genere una struttura melanconica, ha senso scegliere l’“incorporazione” [e non l’interiorizzazione] come strumento attraverso il quale si verifica l’identificazione. […] l’identità di genere verrebbe infatti creata mediante un rifiuto della perdita che si cripta nel corpo… si presenta dunque come fatticità del corpo…» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 96,97) «un rifiuto imposto dal tabù sociale e appropriato attraverso gli stadi evolutivi, sfocia in una struttura melanconica capace di racchiudere quell’aspirazione e quell’oggetto entro lo spazio corporeo creato mediante una negazione duratura.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,99)
In sintesi e schema possibile: il lutto è 1. Perdita (dell’oggetto, spazio vuoto), 2. Riconosciuta (presente alla coscienza), 3. Narrata (offerta alla parola); la melanconia 1. Non è vissuta o ammessa o nota come perdita, 2. Non è ammessa alla coscienza e non viene riconosciuta, 3. Non è narrata, non è offerta alle parole ma è incorporata e resta attiva nella sua negazione non ammessa.
[Per richiamare Hegel, si tratta dei diversi livelli o delle diverse forme dell’Aufhebung; un togliere conservando che è mestizia, malinconia e, fisicamente/culturalmente, incorporazione. «La conservazione melanconica di quell’amore viene salvaguardata in modo ancor più sicuro tramite la traiettoria totalizzante della negazione.» Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 98) si intravede il gioco conservazione / negazione, l’Aufhebung della melanconia]
Lo studio analitico della densità dei processi coinvolti nell’incorporamento è svolto da Butler nell’opera del 1993 Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso” (Feltrinelli, Milano 1996) e sviluppato a partire dalla funzione performativa degli apparati sociali e pubblici del discorso.
«In che modo, allora, la nozione di performatività di genere si collega all'idea della materializzazione? In primo luogo, la performatività non deve essere intesa come un "atto” singolo o deliberato, ma, piuttosto, come la pratica citazionista reiterata attraverso la quale il discorso produce gli effetti che esso nomina. Nelle prossime pagine emergerà chiaramente, almeno spero, che le norme regolative del “sesso" operano in maniera performativa per costituire la materialità dei corpi e, più precisamente, per materializzare il sesso dei corpi e la differenza sessuale a vantaggio del consolidamento dell'imperativo eterosessuale.
In tale prospettiva, ciò che costituisce la fissità del corpo, i suoi lineamenti, i suoi orientamenti, sarà visto come pienamente materiale; ma la materialità sarà riconsiderata come effetto del potere, anzi l'effetto più produttivo del potere.» (Butler Judith, 1993 Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996, 2)

3.2. «la perdita dell’oggetto sottratta alla coscienza»
La melanconia, o meglio il fatto che «nella melanconia …“la perdita dell’oggetto è sottratta alla coscienza”: non solo l’oggetto è perso, ma la stessa perdita è persa, ritirata e preservata nel tempo sospeso della vita psichica. In altri termini, come direbbe il melanconico, “non ho perso nulla”» (Butler 1997 La vita psichica,171), prende forma un processo psichico individuale e una sua ricaduta o rappresentazione sociale; quindi un doppio percorso di analisi: individuale e sociale.
3.2.1.individuale: quel voltarsi (forclusione) dall’oggetto produce l’io come oggetto, ma nella incompletezza e fragilità prodotta dalla perdita doppia in atto (dell’oggetto e della consapevolezza della sua perdita) e dalla melanconia come conservazione nel soggetto di quella inconsapevole perdita. Quindi due momenti. Il primo, il costituirsi dell’io come oggetto: «Il “ripiegamento” che segna la risposta melanconia alla perdita sembra avviare il processo di raddoppiamento dell’io in quanto oggetto; […] Il voltarsi dall’oggetto all’io produce l’io, il quale sostituisce l’oggetto perduto. Questa produzione è una generazione tropologica e deriva dal bisogno psichico di sostituire gli oggetti perduti. In questo modo, nella melanconia non solo l’io diventa sostituto dell’oggetto, ma questo atto di sostituzione istituisce l’io come una risposta necessaria o una “difesa” contro la perdita. Nella misura in cui l’io è “un sedimento degli investimenti oggettuali abbandonati”, coincide con il congelamento di una storia di perdita, la sedimentazione di relazioni di sostituzione nel corso del tempo, la risoluzione di una funzione tropologica nell’effetto ontologico del sé.» (Butler 1997 La vita psichica, 158) Il secondo, la fragilità dell’io come oggetto (come oggetto prodotto da una voltura, come oggetto sostituto) «In aggiunta, questa sostituzione dell’oggetto attraverso l’io non funziona adeguatamente. L’io è un povero sostituto dell’oggetto perduto, e il suo fallimento come sostituto soddisfacente (ovvero in grado di superare il suo status di sostituto) conduce all’ambivalenza che contraddistingue la melanconia. Il voltarsi dall’oggetto all’io non può mai avvenire definitivamente; implica una rappresentazione dell’io sul modello dell’oggetto (come suggerito nei paragrafi introduttivi ne Il narcisismo); implica anche credere inconsapevolmente che l’io possa compensare la perdita sofferta. Nel momento in cui l’io fallisce nel fornire tale compensazione, appaiono le falle delle sue fondamenta instabili. La perdita che il ripiegamento sembra voler compensare non è superata e l’oggetto non è recuperato; piuttosto, la perdita diventa la condizione opaca per l’emergenza dell’io, una perdita che lo minaccia dall’inizio come qualcosa di costitutivo e ammissibile.» (Butler 1997 La vita psichica, 158-159)
3.2.2. sociale. Per un verso «La melanconia è precisamente l’effetto di una perdita inammissibile. In quanto perdita che precede la verbalizzazione e l’ammissione, essa rappresenta la condizione limitante della sua stessa possibilità: un ritirarsi e un arretrare dalla parola che rende la parola possibile.» (Butler 1997 La vita psichica, 159) Ma, per un altro verso, poiché quella perdita non narrata produce per voltura il soggetto come oggetto, e lo produce nella fragilità che caratterizza il suo costituirsi, allora: «La melanconia genera la possibilità di rappresentazione della vita psichica.» (Butler 1997 La vita psichica, 166) Con l’esito sociale cui può giungere una comunicazione e una narrazione che ha al proprio principio un costituirsi che nasce da una perdita inconsapevole e perciò la conserva (cioè, l’inconsapevolezza è all’origine della conservazione della perdita; essa resta conservata in quanto non è compianta come perdita). «Nella melanconia, non solo è persa alla coscienza la perdita di un altro o di un ideale, ma è perso anche il mondo sociale nel quale tale perdita è divenuta possibile. Il melanconico non si limita a ritirare l’oggetto perduto dalla coscienza, ma ritira nella psiche anche una configurazione del mondo sociale. In questo modo, l’io diventa un “governo” e la coscienza una fra le sue “grandi istituzioni”, precisamente in quanto la vita psichica ritira un mondo sociale in se stessa nel tentativo di annullare le perdite che il mondo impone. All’interno della melanconia, la psiche diventa il topos nel quale non c’è perdita, e dunque, nemmeno negazione. La melanconia rifiuta di ammettere la perdita, e in questo senso “preserva” i suoi oggetti persi come effetti psichici.» (Butler 1997 La vita psichica,169-170) Si chiede conclusivamente Butler: «Questo problema della perdita inconscia, la perdita rifiutata che sottolinea la melanconia, come ci riporta al problema della relazione tra lo psichico e il sociale?» (Butler 1997 La vita psichica, 171) La narrazione di sé cui la melanconia può dar vita e voce conserva dentro di sé quell’esterno sociale da cui è partita la forclusione o conserva e conferma la storia di una perdita che non potrà mai essere ammessa e quindi di un sistema che esclude preventivamente; la conserva ma non diventa fatale né può fornire alibi alla rassegnazione e alla rinuncia.
«Laddove ci si potrebbe aspettare che la coscienza aumenti e diminuisca in base all’intensità di proibizioni imposte dall’esterno, sembra che la sua intensità abbia più a che fare con l’aggressione schierata con il rifiuto ad ammettere una perdita già avvenuta, il rifiuto di perdere un tempo già andato. […] Piuttosto, emergono forme di potere sociale che regolano e stabiliscono per quali perdite bisogna addolorarsi o meno; nella preclusione sociale del dolore possiamo trovare ciò che alimenta la violenza interna della coscienza.» (Butler 1997 La vita psichica, 171)

3.3. La narrazione di sé. Il (mancato, la sua intrinseca e strutturale difficoltà o impossibilità…) racconto di sé e la relazione sociale.
Un lontano presupposto nella storia della filosofia, Socrate. «Se, poi, vi dicessi che il bene più grande per l'uomo è fare ogni giorno ragionamenti sulla virtù e sugli altri argomenti intorno ai quali mi avete ascoltato discutere e sottoporre ad esame me stesso e gli altri, e che una vita senza ricerche non è degna per l’uomo di essere vissuta; ebbene, se vi dicessi questo, mi credereste ancora di meno. Invece, le cose stanno proprio così come vi dico, o uomini. Ma il persuadervi non è cosa facile». (Platone, Apologia di Socrate, 38a)
3.3.1. Il contesto della narrazione di sé come sede imprescindibile. «… non esiste nessun "io" che possa concepirsi come assolutamente separato dalle condizioni sociali del proprio emergere, nessun "io" che non sia implicato in un quadro di norme morali che lo condizionano, che cioè, in quanto norme, possiedono un carattere sociale che eccede ogni significato meramente personale e distintivo. […] Quando l'“io” cerca di dar conto di sé può anche partire da sé, ma scoprirà che il suo sé è già implicato in una temporalità sociale che eccede le sue stesse capacità di narrazione. In realtà, quando l'“io” tenta di dar conto di sé, quando cioè tenta di restituire un racconto che includa le condizioni del suo stesso emergere, dovrà necessariamente diventare un teorico sociale.» (Butler Judith 2005, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006, 16)
3.3.2. Contesto e sede di moralità vissuta (non subita). « Ma questa espropriazione, questa perdita di possesso, non implica lo smarrimento di un fondamento soggettivo dell'etica. Al contrario, può rappresentare la condizione specifica dell'indagine morale, la condizione per cui la moralità stessa emerge. Il fatto che l' "io" non sia tutt'uno con le norme morali significa solo che il soggetto deve deliberare su queste norme e che questa sua facoltà comporterà in parte una comprensione critica della loro genesi e del loro significato sociale. In questo senso, allora, la deliberazione etica è intimamente connessa a un'operazione di critica. […] La divergenza è sempre tra l'universale e il particolare, e diviene condizione per l'interrogazione morale: non solo l'universale diverge dal particolare, ma questa stessa divergenza è ciò di cui l'individuo fa esperienza, ciò che diviene per l'individuo esperienza inaugurale della moralità.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 17,18)
3.3.3. Le radici strutturali dell’assoggettamento in forza del passaggio in altro. «Iniziamo a render conto di noi solo perché interpellati in quanto esseri che possono dar conto di sé in virtù di un sistema giuridico e punitivo. Questo sistema non esiste da sempre, ma nel suo divenire si afferma come istituito al di là del tempo, imponendo un prezzo molto alto agli istinti umani.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 20) «Ciò che si riconosce del sé nel corso di questo scambio è la condizione "ontologica" di un essere per cui lo stare dentro di sé si rivela impossibile. Si è continuamente spinti e agiti fuori di sé; ci si rende conto che il solo modo per conoscersi è attraverso una mediazione che ha luogo fuori di sé, che è esterna, in virtù di una convenzione o di una norma che non si è mai scelta o prodotta, e per cui non è possibile rappresentarsi come autori o agenti di si ciò che si fa.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 42)
3.3.4. La strutturale opacità a se stessi come atto di nascita e definizione delle origini. «L’opacità del soggetto può avere origine nel suo essere concepito come un essere relazionale, come un essere, cioè, le cui prime e più precoci relazioni non sono sempre recuperabili a una conoscenza consapevole. Momenti di non-conoscenza di sé tendono a emergere nelle relazioni con gli altri, suggerendo come tali relazioni si richiamino a forme primarie di relazionalità che non sempre si lasciano sottoporre a una tematizzazione esplicita e riflessiva. Se davvero siamo formate/i in un contesto di relazioni che risultano parzialmente irreperibili e irreparabili, questa opacità sembra radicarsi nell'atto stesso della nostra formazione e derivare dal nostro status di esseri che si formano in una relazione di dipendenza. […] Più precisamente, se è proprio in virtù delle relazioni con gli altri che si è opachi a se stessi, e se queste relazioni con gli altri sono il luogo della propria responsabilità etica, allora significa che è proprio in virtù dell'opacità verso di sé che il soggetto si espone e accetta alcuni dei più importanti vincoli etici. (Butler 2005, Critica della violenza etica, 31, 32)
3.3.5. La melanconia e il proposito di una narrazione totale. Le radici della melanconia si possono riportare alla pretesa di una narrazione totale che misconosce (e continua a tenere nella dimenticanza) la non narrabilità delle origini, e quindi l’impossibilità del dar conto di sé secondo le pretese di una completezza di carattere volontaristico razionale. Le proprie origini accadono nella logica e nella funzione dell’assoggettamento, nel passaggio attraverso l’altro, una alterità che come tale è negazione di sé per una dialettica costituzione di sé. La mancata accettazione della propria impossibile messa in narrazione, l’oblio di una dimenticanza strutturale e originale (di una forclusione) è melanconia. Quella mestizia inenarrabile per la cui presentazione Butler fa riferimento al passaggio della “coscienza infelice” esposto nella Fenomenologia di Hegel, e agli studi di Foucault.
3.3.5.1. «Il corpo singolare cui la narrazione si riferisce non può essere catturato da una narrazione totale, non solo perché quel corpo possiede una storia della propria formazione che resta inaccessibile alla narrazione, ma anche perché le relazioni primarie sono costitutive in modo tale da rendere necessariamente opaca proprio la comprensione di noi stessi.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 32)
3.3.5.2. «Nel modo in cui Foucault descrive il processo di costituzione del sé, argomento al centro dei suoi ultimi lavori, uno specifico "regime di verità" definisce i termini in base ai quali il riconoscimento di sé è possibile. Si tratta di termini che in una certa misura sono esterni al soggetto, ma che vengono anche presentati come le norme accessibili per cui il riconoscimento di sé può aver luogo, in modo tale che, quasi alla lettera, ciò che io posso “essere" è predefinito costrittivamente da un regime di verità che stabilisce quale sarà o meno una forma d'essere riconoscibile. Se è vero che un regime di verità decide a priori la forma che può assumere il riconoscimento, è altrettanto vero che non potrà mai costringere del tutto questa forma.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 34)
Dunque, due fattori determinano il carattere sempre aperto e la narrazione non totale della identità, della costituzione e del dar conto di sé: 1. l’ambivalenza dell’assoggettamento e, in particolare, del suo atto di origine 2. l’opacità del soggetto nella relazione, nelle relazioni con gli altri, se l’altro, individuale e sociale, è rispettato come tale e non ridotto a una propria eco. «… finiremmo probabilmente per perdere di vista quanto l'essere stesso del sé dipenda non solo dall'esistenza dell'altro nella sua singolarità (come sosterrebbe Lévinas), ma pure dal carattere sociale del sistema di norme che presiede alla scena del riconoscimento.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 36) 3. la non dicibilità linguistica totale della corporeità, sede prima del linguaggio: «A mio parere, la performatività non riguarda solo l’atto linguistico, ma anche quello corporeo. La relazione tra corpo e linguaggio, che in Corpi che contano definisco “chiasmo”, è alquanto complicata. Esiste sempre una dimensione della vita corporea che non può essere del tutto rappresentata, sebbene costituisca la condizione di attivazione del linguaggio.[…] … le significazioni del corpo eccedono le intenzioni del soggetto.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 232)
3.3.6. Identità aperte «Contro la violenza etica». «Se l'identità che noi diciamo di essere non può catturarci una volta per tutte, e allude immediatamente a un eccesso e a un'opacità che fuoriescono dalle categorie dell'identità stessa, allora ogni tentativo di “dar conto di sé" dovrà necessariamente fallire per avvicinarsi a una qualche verità. Nella misura in cui chiediamo di conoscere l'altro, o chiediamo che l'altro dica, una volta per tutte e in modo definitivo, chi lui o lei sia, sarà necessario non aspettarsi una risposta che possa davvero soddisfarci. Solo non aspirando a tutti i costi a una risposta esaustiva, e lasciando che la domanda resti aperta, che addirittura continui a insistere noi lasceremo davvero vivere l'altro — dal momento che la vita può essere intesa proprio come ciò che eccede ogni tentativo di dar conto di essa. Se lasciar vivere l'altro è parte essenziale di ogni definizione etica del riconoscimento, allora questa versione del riconoscimento si fonderà meno sulla conoscenza che sulla percezione e l'assunzione consapevole di certi limiti epistemici, di certe pretese di verità.» (Butler 2005, Critica della violenza etica, 61)

4. Questioni di genere nel binomio natura e cultura
Uno dei campi principali in cui la forclusione e il sentimento della melanconia che la esprime accompagna la formazione del soggetto è dunque quello della costruzione individuale e sociale del genere, della propria affettività e della consapevolezza sessuale di se stessi. Sulla scia delle riflessioni di Freud (L’Io e l’Es): «“l’io è innanzitutto un’entità corporea”, non una mera superficie, ma “la proiezione di una superficie”. Inoltre, questo io corporeo assume una morfologia di genere, così che è anche un io di genere.» (Butler 1997 La vita psichica, 127)
Il tema e le ricerche sul genere, al centro delle riflessioni e delle battaglie di Judith Butler, diventano il passaggio che permette di definire con concretezza storica una teoria del potere e una teoria della psiche tra loro connesse nel processo di costruzione (formazione e sottomissione) del soggetto (assoggettamento).
La nostra è «una cultura di melanconia di genere […] la mascolinità e la femminilità sono rinforzati entro la matrice eterosessuale attraverso i disconoscimenti che operano» (Butler 1997 La vita psichica,134) « Il gender — e questo è il punto cruciale non solo di questo libro, ma dell’intera produzione butleriana sin dalla fine degli anni Ottanta — rappresenta una direttrice del sapere, come direbbe Foucault, un criterio per la distinzione, l’ordinamento, l’assoggettamento dei corpi, e, come tale, anche e soprattutto, un’istanza disciplinante, normalizzatrice.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo, 12)
È bene da subito indicare l’impegno e la direzione morale, politica e disciplinare che Butler persegue: «… vorrei situare il tipo di scrittura che sto proponendo come un certo impegno culturale con la teoria psicoanalitica che non appartiene né all’ambito della psicologia né a quello della psicoanalisi, ma che tuttavia cerca di stabilire una relazione intellettuale fra quegli ambiti disciplinari.» (Butler 1997 La vita psichica, 132) Impegno culturale che si concentra nella definizione aperta di genere, nella critica alle nozioni restrittive e rigide del gender, nella indicazione di come nella gestione del gender si giochi l’intera vita delle persone e delle relazioni sociali e politiche di un periodo storico.

4.1. L’indicazione del campo di osservazione e del metodo di indagine viene segnalato nelle opere di Freud: lo strano e l’eccezione. Come due postulati preliminari. 1.Nei turbamenti e nella complessità (trouble) di genere e nella costruzione di sé è in gioco il destino della libertà e della democrazia dei sistemi sociali e politici contemporanei. 2. Come è necessario cogliere il limite per definire una qualsiasi realtà, analogamente è l’esclusione (ciò che viene messo a margine, marginalizzato) a definire il volto di una società e della sua cultura, a misurare il suo grado di tolleranza e di libertà sottratte alla formulazione educativa di una violenza etica.
«Come Freud asserisce nei Tre saggi sulla teoria sessuale, è tuttavia l’eccezione, lo strano, a mostrare come si costituisce il mondo ordinario e dato per scontato dei significati sessuali. Solo da una posizione consapevolmente denaturata possiamo vedere come si costituisce la sembianza stessa della naturalezza. Le nostre presupposizioni sui corpi sessuati, sulla loro natura, sui significati in essi racchiusi o derivati dal fatto di essere sessuati in quel modo vengono sconvolte improvvisamente e significativamente dagli esempi non conformi alle categorie che naturalizzano e stabilizzano quella sfera di corpi nei termini delle convenzioni culturali. Lo strano, l’incoerente, ciò che cade "fuori", ci offre pertanto un modo per intendere il mondo dato per scontato della categorizzazione sessuale come mondo costruito, anzi come mondo che potrebbe anche essere costruito diversamente.» (Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004, 157) Nota bene: “stranezza” in termini di vita (e di giudizio comune perbenistico) non la commedia che rifà il verso, non la mimesi ironica: «la mimesi ironica non è una critica» (Judith 2004 La disfatta del genere, 234) anzi spesso produce effetti di sostegno, diffusione con adesione, valorizzazione…del sistema che codifica, costringe, precetta, condanna ed esclude.
4.1.1. Il fondamento (quasi metafisico), il senso e la rilevanza politica dello strano e della parodia: «Quando si dice che il soggetto viene costituito, questa frase significa infatti soltanto che il soggetto è conseguenza di certi discorsi governati da regole e capaci di governare l’invocazione intelligibile dell’identità. Il soggetto non è determinato dalle regole mediante le quali viene generato, perché la significazione non è un atto fondante, bensì un processo regolamentato di ripetizione che si nasconde e impone le sue regole proprie mediante la produzione di effetti sostanzializzanti. In un certo senso, la significazione ha luogo nell’orbita della compulsione a ripetere; l‘"agenzia" va allora individuata nella possibilità di una variazione su quella ripetizione. Se le regole che governano la significazione non solo limitano, ma anche permettono l’affermazione di sfere alternative di intelligibilità culturale — ovvero di nuove possibilità di genere che contestino i rigidi codici dei binarismi gerarchici —, la sovversione dell’identità è possibile solo all’interno delle pratiche di significazione ripetitiva. […] Che cosa costituisce una ripetizione sovversiva nelle pratiche significanti del genere? […] Le pratiche della parodia possono essere utili per reinnestare e riconsolidare la distinzione tra una configurazione di genere privilegiata e naturalizzata e un’altra che sembra derivata, fantasmatica e mimetica — una copia mal riuscita, per così dire. La parodia e stata senz’altro usata per promuovere una politica della disperazione, una politica che afferma un’esclusione apparentemente inevitabile dei generi marginali dal territorio del naturale e del reale. […] La ripetizione parodica del genere denuncia anche l’illusione dell’identità di genere come profondità intrattabile e sostanza interiore. Essendo effetto di una performatività indefinibile e imposta politicamente, il genere è, per cosi dire, un "atto" aperto alle divisioni, all’autoparodia, all’autocritica e alle esibizioni iperboliche del "naturale" che, nella loro esagerazione, ne rivelano lo status fondamentalmente fantasmatico. Il compito critico consiste invece nell’individuare strategie di ripetizione sovversiva permesse da quelle costruzioni, nell’affermare le possibilità locali di intervento partecipando proprio alle pratiche di ripetizione che costituiscono l’identità e quindi offrono la possibilità immanente di contestarle.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,209-212 passim)
4.1.2. A fondamento ulteriore (e ultimo?), il ruolo centrale della performatività, come tratto specifico del simbolico politico e sociale («del potere in quanto discorso», inteso alla Foucault), nel processo di assoggettamento (con l’ambivalenza imprescindibile che lo connota) e di possibile consapevolezza e narrazione di sé. «Contestando la nozione che la performatività sia l'espressione efficace della volontà umana nella lingua, questo testo cerca di ridelineare la performatività come una delle specifiche modalità del potere in quanto discorso. Affinché il discorso materializzi una serie di effetti, è necessario intendere il "discorso" come una serie di catene complesse e convergenti nelle quali gli “effetti" sono vettori di potere. In tal senso, ciò che si costituisce nel discorso non è fissato nel discorso, o dal discorso, ma diventa la condizione e l'occasione per un'azione ulteriore. Questo non significa che qualunque azione sia possibile sulla base di un effetto discorsivo. Al contrario, certe catene iterative di produzione discorsiva sono appena leggibili come ripetizioni, poiché senza gli effetti da esse materializzati non si può determinare alcuna posizione. Il potere del discorso di materializzare i suoi effetti è, dunque, conforme al potere del discorso di circoscrivere il campo dell'intelligibilità. L'interpretazione della "performatività" come scelta intenzionale e arbitraria trascura dunque il fatto che la storicità del discorso e, in particolare, la storicità delle norme (le "catene" di ripetizione invocate e dissimulate nell'espressione imperativa) costituiscono il potere del discorso di mettere in atto ciò che nomina. Pensare al "sesso" come a un imperativo significa che il soggetto è interpellato e prodotto da tale norma, e che la norma — e il potere regolativo del quale è pegno — materializza i corpi come effetto di tale ingiunzione. E tuttavia questa “materializzazione", lungi dall'essere artificiale, non è pienamente stabile. Poiché l'imperativo di essere o diventare “sessuati" richiede una produzione e una regolazione differenziate dell’identificazione maschile e femminile che non reggono completamente e non possono essere pienamente esaustive. Inoltre, tale imperativo, tale ingiunzione, richiede e istituisce un "esterno costitutivo" — ciò di cui non si può parlare, il non attuabile, il non narrativizzabile, che assicura, e quindi non riesce ad assicurare, i confini stessi della materialità. La forza normativa della performatività — il suo potere di stabilire ciò che si qualifica come "essere" — opera non solo attraverso la ripetizione, ma anche attraverso l'esclusione. E nel caso dei corpi, quelle esclusioni minacciano la significazione in quanto ne sono i confini abietti o in quanto si pongono come ciò che è rigorosamente precluso: l'invivibile, il non raccontabile, il traumatico.» (Butler Judith, 1993 Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996, 129-130)

4.2. Butler: l’osservazione dei comportamenti considerati, dal punto di vista delle convenzioni ufficialmente condivise, “devianze”.
Butler Judith 1990, 1999, Scambi di genere. Identità, sesso e desiderio, Sansoni, Milano 2004
4.2.1. Il titolo in inglese forse è più significativo: Gender Trouble: Feminism and the subversion of Identity; più denso di significato per l’uso della parola Trouble che non è certo solo scambio ma agitazione, afflizione, ansietà, dolore, preoccupazione, turbamento, pena, tumulto, impiccio, pasticcio, guaio, disturbo, disordine…; e per la menzione diretta dell’identità: è questa ad essere chiama in causa (subversion), correttamente o pretestuosamente, quando si affrontano problemi di genere. Ecco come viene presentato il titolo dell’opera, e l’opera, in una nota della curatrice, Olivia Guaraldo, contenuta nel testo di Butler Judith 2004 La disfatta del genere, Meltemi Roma 2006 a p. 240: «Gender Trouble è il titolo del libro di Butler a cui si fa qui riferimento, tradotto in italiano con Scambi di genere (2004), “Gender trouble" è però anche un’espressione di uso corrente negli studi femministi e queer, e si riferisce alla instabilità, alla “turbolenza” si potrebbe dire, dei ruoli di genere. Il trouble del genere è però anche il turbamento, la sofferenza, l’incertezza di chi vive ai margini di generi definiti. Si tratta quindi, per Butler, del problema che sta al cuore della questione del genere — il suo “guaio”, come forse si potrebbe tradurre in maniera prosaica l’inglese “trouble”. Da qui la difficoltà di tradurre in italiano tale espressione senza impoverirla (N.d.C).»
4.2.2. Scrive Catherine Malabou: «La sua prima opera, Gender Trouble, è stata considerata come il punto di partenza della Queer Theory, [in nota : Queer, aggettivo che indica gli omosessuali, significa bizzarro, strano, unheimlich, non identificabile in una parola]. Una identità sessuale queer, secondo Judith Butler, è quella che si «teatralizza». Butler riprende anche il termine di Foucault di «stilizzazione di sé» o di «self fashioning», di costruzione di sé. Gli esempi che fornisce di queste identità teatralizzate, modellate sono la transgenericità, la transessualità, la coppia gay e lesbica, le nuove identità omosessuali (butch, nello slang USA, lesbica mascolina o, in generale, esibizione esagerata di mascolinità secondo i luoghi comuni della parodia: macho [in contesto femminile], troppo mascolino), identità che destabilizzano l’identità sessuale, sia essa considerata etero o omosessuale. Da questo punto di vista, si può pensare che tutte le identità sessuali partecipino più o meno del queer. Le identità che J. Butler richiama a titolo d’esempio non si allontanano, a ben vedere, dal binarismo dei sessi, non formano un «terzo sesso». «Si tratta invece piuttosto, afferma l’autrice, di una sovversione interna in seno alla quale la binarità è ad un tempo presupposta e distribuita fino al punto in cui cessa di fare notizia.» (Butler Judith 1997 La vie psychique du pouvoir, ed. Léo Scheer 2002, prefazione di Catherine Malabou, 9) In programma complessivo: «Vorrei sottolineare che non si tratta semplicemente di creare un nuovo futuro per generi sessuali che ancora non esistono. I generi che ho in mente esistono da lungo tempo, ma non hanno ancora avuto accesso al linguaggio che governa la realtà. Quindi si tratta di sviluppare un nuovo lessico, nell’ambito della legge, della psichiatria, della sociologia e della teoria letteraria, che legittimi la complessità di genere che da molto tempo stiamo vivendo. E poiché le norme che governano la realtà non hanno riconosciuto queste forme come reali, dovremo, necessariamente, denominarle “nuove”.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 57)
Comprendendo la logica del genere non si attiva un percorso consegnato alla conta, alla quantità: «Una tendenza all’interno degli studi di genere è quella di presumere che l’alternativa al sistema binario possa essere la moltiplicazione dei generi. Un tale approccio suscita immancabilmente una domanda: quanti generi possono esserci e quale sarà il loro nome? Ma lo smantellamento del sistema binario non ci deve condurre a una altrettanto problematica quantificazione del genere. (Judith 2004 La disfatta del genere, 76) In altri termini, uscire dalla logica del genere come regolamentazione e conseguente assoggettamento magari con finalità identitarie è anche uscire dal problema della quantificazione (e degli elenchi, anche se un elenco sembra comparire a p. 102) e entrare invece nel campo delle possibilità e di costruzione di sé. Genere diventa il termine con cui si indicano i diversi stili o le diverse scelte di vita sociale sia in campo affettivo – sessuale sia in campo genericamente comportamentale. Nel campo l’indagine si muove per tipologie, il diritto difende le possibilità e sostiene le scelte sulla base di urgenze variate, individuali e sociali. «… esiste un’intera gamma di modi con cui ci si relazione alla vita del genere nei suoi incroci (cross-gendered)» (Judith 2004 La disfatta del genere, 109)
4.2.2.1. Forse ci si trova di fronte a un bivio, indicato dalle espressioni: cross-gender, no-gender. Il bivio: 1. cross-gender, generi senza numero, la moltiplicazione dei generi oltre i due classici diventa definizione del genere come possibilità, scelta e costruzione del genere; sulla consapevolezza che il genere è comunque una costruzione sociale e culturale; 2. no-gender o il rifiuto del genere vissuto come gabbia sociale di inclassamento e vincolo, come etichetta imposta dalla paura del disorientamento e della diversità.
4.2.3. la capacità interpretativa e di scoperta dello strano e delle sue performances: « …il genere è una sorta di recitazione persistente creduta reale. La performance destabilizza le distinzioni tra naturale e artificiale, tra profondità e superficie, tra interiore ed esteriore attraverso cui il discorso sui generi opera quasi sempre. Il drag è l’imitazione del genere oppure drammatizza i gesti significanti mediante i quali viene creato il genere stesso? Essere femmina costituisce un "fatto naturale" o una performance culturale, oppure la "naturalezza" si costituisce tramite atti performativi frenati discorsivamente che producono il corpo attraverso ed entro le categorie del sesso? […] Come strategia per denaturare e risignificare le categorie corporee, descrivo e propongo una serie di pratiche parodiche basate su una teoria performativa degli atti di genere che distruggono le categorie di corpo, sesso, genere e sessualità e ne occasionano la risignificazione sovversiva e la proliferazione al di là della cornice binaria.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, XXXVI –XXXVII, XXXIX)
4.2.3.1. L’etica del commercio e del gioco nella logica del genere e nella sua normalizzazione: la Barbie. «La Barbie diventa calva e anche transgender. Sono le ultime metamorfosi prima destinata ai reparti di oncologia infantile per familiarizzare le bambine con gli effetti della chemioterapia. La seconda per imparare ad accettare la propria e l'altrui diversità. Da una parte la bald doll dall'altra la drag queen. Due immagini opposte del femminile. Che confermano l'infinita capacità trasformistica della creatura della Mattel. In grado di incarnare ogni tipo di donna. Massaia, astronauta, dottoressa, candidata presidente, con otto anni di anticipo su Hillary Clinton e Sarah Palin. Ragazza di colore fin dagli anni Sessanta. E perfino aggredita dagli uccelli in una serie ispirata al celebre film di Hitchcock. A dimostrazione del fatto che le bambole non sono mai dei semplici giochi. Ammesso che il gioco possa essere una cosa semplice. Da migliaia di anni questi misteriosi simulacri dal volto umano sono il modello della vita. Reinventata e rimpicciolita per poter esplorare il mondo dei grandi alla ricerca di uno spazio, una misura, un ruolo. A volte fin troppo convenzionali, come nel caso della fidanzata bamboleggiante o della mogliettina rampante. A volte inquietanti. Ma il giocattolo resta sempre una miniatura dell'essere, un doppio su cui proiettare desideri e angosce, sogni e incubi, aspirazioni e paure.» (Marino Niola, la Repubblica, Venerdì, 24.05.2013, 63)
4.2.3.2. Un altro contesto (quasi all’opposto) l’ampiezza del femminile nella definizione del genere, colto in un contesto metafisico, politico e teologico. «Questo è il pensiero femminile, un pensiero del primato della relazione, di contro al pensiero maschile basato sul primato della sostanza, e va da sé che pensiero femminile non significa necessariamente pensiero delle donne, perché ogni essere umano contiene la dimensione femminile e vi sono donne che pensano e agiscono al maschile (si consideri per esempio Margaret Thatcher, per tacere di alcune politiche italiane), mentre vi sono uomini che pensano e agiscono al femminile (si pensi per esempio a Gandhi e prima ancora al Buddha o a Gesù).» (Vito Mancuso, Il bene del mondo e la Chiesa, la Repubblica 04.10.2013)

4.3. la definizione di genere tra natura e cultura (biologia e società) e la relazione genere e sesso
La tesi (in preliminare rapida sintesi) da Butler Judith, 1993 Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996
«Esiste un modo per mettere in relazione la materialità del corpo con la performatività del genere? E come si configura la categoria del “sesso" all'interno di questa relazione? Si consideri innanzi tutto che la differenza sessuale è invocata spesso come un'emanazione delle differenze materiali. Tuttavia, la differenza sessuale non è mai semplicemente il prodotto di differenze materiali che non siano in qualche modo contrassegnate e formate da pratiche discorsive. Inoltre, affermare che le differenze sessuali sono inscindibili dalle distinzioni discorsive non equivale a dire che il discorso è causa della differenza sessuale. La categoria del "sesso" è normativa fin dall'inizio; è ciò che Foucault ha chiamato un "ideale regolativo". In tal senso, allora, il "sesso" non solo funge da norma, ma è parte di una pratica regolativa che produce i corpi che governa. La forza regolativa, dunque, si manifesta come una specie di potere produttivo, il potere di produrre — delimitando, mettendo in circolazione, differenziando — i corpi che controlla. Perciò il "sesso" è un ideale regolativo la cui materializzazione è imposta, e avviene (o non avviene) attraverso certe pratiche attentamente regolamentate. In altre parole, il "sesso" è un costrutto ideale che viene materializzato a forza nel tempo. Non si tratta di un semplice elemento o di una condizione statica del corpo, ma di un processo per mezzo del quale il “sesso” si materializza attraverso la ripetizione forzata di norme regolative. Il fatto che sia necessaria una ripetizione indica che la materializzazione non è mai completa, che i corpi non si adattano mai completamente alle norme che sollecitano la loro materializzazione. In verità, sono le instabilità, le possibilità di rimaterializzazione aperte da questo processo che contraddistinguono un campo nel quale la forza della legge regolativa può essere rivolta contro se stessa al fine di produrre riarticolazioni che mettano in discussione la forza egemonica della legge stessa. […] …le norme regolative del “sesso" operano in maniera performativa per costituire la materialità dei corpi e, più precisamente, per materializzare il sesso dei corpi e la differenza sessuale a vantaggio del consolidamento dell'imperativo eterosessuale. In tale prospettiva, ciò che costituisce la fissità del corpo, i suoi lineamenti, i suoi orientamenti, sarà visto come pienamente materiale; ma la materialità sarà riconsiderata come effetto del potere, anzi l'effetto più produttivo del potere. Non si potrà, dunque, intendere il genere che in quanto costrutto culturale imposto sulla superficie della materia, identificabile come "il corpo" o il sesso a esso assegnato. Una volta che il "sesso" stesso è inteso nella sua normatività, la materialità del corpo non potrà essere pensata a prescindere dalla materializzazione di quella norma regolativa. Il "sesso", allora, non è semplicemente quello che si ha, o una descrizione statica di ciò che si è. È, piuttosto, una delle norme attraverso le quali il “soggetto" diventa possibile, quella che qualifica un corpo per tutta la vita all’interno del campo della intelligibilità culturale. […] La matrice esclusiva attraverso la quale si formano i soggetti richiede, dunque, la produzione simultanea di un ambito di esseri abietti, coloro che non sono ancora “soggetti” e che costituiscono il confine esterno all'ambito del soggetto. Con il termine abietto si intende qui designare precisamente quelle zone "invivibili" e "inabitabili" della vita sociale che sono, tuttavia, densamente popolate da coloro che non godono dello status di soggetto, ma il cui vivere nell’ “invivibile” è necessario per potere circoscrivere l'ambito del soggetto. Questa zona di inabitabilità costituisce il confine esterno del soggetto: quel luogo di identificazione temuta contro il quale — e in virtù del quale — il soggetto può candidarsi all'autonomia e all'esistenza. In tal senso, allora, il soggetto si costituisce attraverso la forza dell'esclusione e dell'abiezione. Tale forza produce un confine costitutivo esterno al soggetto, un confine abietto, che si trova, tutto sommato, "dentro" il soggetto in qualità di ripudio originario. [ripudio originario, non consapevole, forcluso] […] E tuttavia, l'abiezione ripudiata minaccia di esporre le supposizioni auto-fondanti del soggetto sessuato, che si basano, così come il soggetto stesso, su un ripudio le cui conseguenze non possono essere tenute pienamente sotto controllo. Intendo considerare questa minaccia e questa rottura non come una contestazione permanente delle norme sociali condannata a perpetuo fallimento, ma piuttosto come una risorsa critica nel tentativo di riarticolare i termini stessi della legittimità e dell'intelligibilità simboliche.» (Butler 1993 Corpi che contano 1996, 1-3)
Dunque, no alla distinzione, separazione, opposizione tra materialità (sesso) e cultura (genere), secondo cui il sesso è realtà materiale fisica fissa e irriducibile, il genere è realtà sociale culturale oggetto di scelta e di costruzione sociale e individuale. Anche la materia, il corpo, ha una sua storia. Ciò che interessa non è il sesso nella sua materialità ma come viene vissuto, percepito, inteso, narrato, costruito socialmente… e perciò è indistinguibile dal genere; soprattutto se lo sguardo è sociologico, antropologico. Così come, del resto, più in generale il corpo è linguaggio o il linguaggio è primariamente e globalmente o densamente corpo; il linguaggio verbale è solo una parte e anch’esso, nel vivere, è deciso da scelte e consegnato a forme espressive che hanno a che fare con la corporeità. «… la materialità è legata alla significazione fin dall’inizio»Butler Judith 1993, Corpi che contano, Feltrinelli, Milano 1996, 26).
4.3.1. il genere è una costruzione sociale. L’analisi è percorso in crescendo e amplificazione:
[1.] la progressione: sesso, genere, soggetto (particolare), identità (universale – cfr Hegel Fenomenologia, la coscienza)
[2.] teoria della costituzione del genere, del sesso stesso, e della persona: il contesto sociale e politico della loro costituzione; l’ambivalenza della determinazione. Determinazione e finitezza (Hegel), soggetto (soggettivazione e assoggettamento: Freud, Lacan)
[3.] teoria della naturalizzazione (del sesso del genere, della persona, dell’identità): il processo di naturalizzazione; i soggetti ispiratori e gestori del processo di naturalizzazione; gli effetti, gli esiti della naturalizzazione.
[4.] la liberazione, l’analisi di liberazione: denaturalizzare; restituire la scelta e la libertà; gestire l’incertezza e la non definizione (di sesso, genere, persona e identità) come una risorsa e come un processo di rispetto della realtà. Viene qui ribadito il motivo costituente dell’intera indagine critica e propositiva di Butler che vede le condizioni di liberazione e costituzione aperta di sé non contro ma dentro e in forza dei processi di normalizzazione che determinano l’assoggettamento; ciò in forza della logica stessa (“vita psichica”) del potere costituente e performativo che è il rivolgimento, il rivoltarsi contro, la costruzione di forme identitarie attraverso l’asservimento e l’autonegazione, attraverso la tattica del rivolgersi contro di sé; questa tattica ha in effetti un doppio esito: produce “assoggettamento” (qui nel senso di sottomissione) si consegna alle forme identitarie che produce come loro intrinseca essenza.
È un percorso e sono tesi che si avvalgono anche del richiamo di molti autori come: Deleuze, Guattari, Levi-Strauss, Derrida, Lacan, Kinsey e … dal versante femminile Simone de Beauvoir, Hélène Cixous, Luce Irigaray, Julia Kristeva, Monique Wittig, Adrienne Rich, Jessica Benjamin.
4.3.2. il tema delle radici biologiche del genere, o il rapporto tra sesso e genere.
«… alla metà degli anni Settanta… Gayle Rubin elaborò la coppia sex/gender, distinguendo in tal modo una dimensione biologica e una culturale della sessualità (Rubin 1975).» Butler Judith 2004 La disfatta del genere, Meltemi Roma 2006, dalla Prefazione di Olivia Guaraldo, 10)
La relazione e la distinzione non sono così nitide. «Si può dire, semplificando che «sesso» indica la realtà anatomica della sessualità, il «sesso biologico» se si vuole, e «genere» la realtà culturale, l’identità sessuale sociale – «non si nasce donna lo si diventa» – il genere che ci si dà e che costituisce, in qualche modo, la plasticità sessuale. Il lavoro di Butler e di tutta una generazione di giovani ricercatori americani tende a mostrare che il «gender» non deriva dal «sex», che l’identità sessuale d’un individuo non è l’effetto la cui causa sarebbe il sesso anatomico. Butler arriva a dire che il «sesso» è già esso stesso marcato dal genere («a gendered category»). Afferma che, d’altra parte, se «si considera […] il carattere costruito del genere come radicalmente indipendente dal sesso, il genere diventa un artificio che fluttua liberamente (free floating artifice), ne consegue che uomo e maschio possono esprimere altrettanto bene sia un corpo femminile che un corpo maschile, e donna e femminile, sia un corpo maschile che un corpo femminile». Lo studio avviato da Butler si estende a una vasta area di comportamenti, indicati in sigla da GLBQTI [Gay, Lesbiche, Bisessuali, Queer, Trans, Intersessuali]. (Judith 2004 La disfatta del genere,103) E, riprendendo le teorie aristoteliche di forma e materia (come poi il tema della materia che Platone esprime nel Timeo), e, al di là della distinzione metafisica, l’impossibilità fisica della materia di esistere senza forma e della forma di esistere ed essere determinata senza materia, ricorda come il processo di costituzione del soggetto non può considerarsi come un lavoro di forma attuato su di una materia già data, sia pur nella sua indeterminatezza, ma è costituente una corporea materialità determinata e normalizzata (una normalizzazione incorporata, sede di forclusione e di fonte di melanconia; «conseguenza di una concezione del corpo come origine ed effetto di molteplici forze» Judith 2004 La disfatta del genere, 231); come affermava Foucault: «Secondo Foucault, il potere opera nella costituzione della materialità stessa del soggetto, del principio che simultaneamente informa e regola il “soggetto” della soggettivazione.» (Butler Judith, 1993 Corpi che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996, 30)
4.3.2.1. È qui in azione il linguaggio del corpo e la funzione performativa di quel linguaggio. «Ma se nel desiderio butch è all’opera la mascolinità, ossia, se questo è il nome attraverso cui tale desiderio giunge ad avere un significato, allora perché negare il fatto che vi possano essere delle occasioni in cui la mascolinità si manifesta nella donna e che femminile e maschile non appartengano a corpi di sesso diverso? Perché non dire che ci troviamo piuttosto ai margini della differenza sessuale, dove il linguaggio della differenza sessuale forse non basta, e che tutto ciò non è altro che la conseguenza di una concezione del corpo come origine ed effetto di molteplici forze?» (Judith 2004 La disfatta del genere, 231)
Si tratta appunto di rispettare il reale e quindi primariamente il linguaggio del corpo; linguaggio e corporeità, il linguaggio ha la propria sede primaria nel corpo; un legame che oltre a chiarire la natura del linguaggio ne amplifica le potenzialità significative ed espressive. Osserva Butler, con tesi fondamentale e fondante: «Ogni volta che tento di parlare del corpo, finisco per scrivere del linguaggio. Questo non perché io pensi che il corpo sia riducibile al linguaggio; non è così. Il linguaggio proviene dal corpo, trattandosi di un’emissione. Il corpo rappresenta ciò che rende il linguaggio esitante, il corpo porta i suoi segni, i suoi significanti, in modi che rimangono in larga parte inconsci.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 231) Riprendendo e completando una precedente citazione: «A mio parere, la performatività non riguarda solo l’atto linguistico, ma anche quello corporeo. La relazione tra corpo e linguaggio, che in Corpi che contano definisco “chiasmo”, è alquanto complicata. Esiste sempre una dimensione della vita corporea che non può essere del tutto rappresentata, sebbene costituisca la condizione di attivazione del linguaggio. Generalmente, mi attengo alla concezione lacaniana di Shoshana Felman in The Scandal of the Speaking Body, secondo la quale è il corpo a originare il linguaggio, il quale veicola le intenzioni del corpo e performa atti corporei che non sono sempre compresi da chi usa il linguaggio per realizzare consapevolmente determinati scopi. Credo che sia questa l’importanza del transfert non solo per la situazione terapeutica, ma per la teorizzazione del linguaggio che in esso si origina. Quando parliamo, vogliamo comunicare qualcosa con le nostre parole, ma facciamo [do] anche qualcosa con il discorso, e quello che realizziamo e come agiamo sull’altro attraverso il nostro linguaggio non corrispondono al significato consciamente veicolato. Ciò vuol dire che le significazioni del corpo eccedono le intenzioni del soggetto.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 232)
4.3.2.2. Nell’ambito del linguaggio del corpo e della sua natura performativa è necessario ribadire la relazione tra genere e sesso e articolarne con coerenza di osservazione la complessità del legame o della relazione. «Malgrado tutto [e necessariamente] esiste une relazione tra sex e gender. L’identità nasce dal rapporto conflittuale e strutturante tra i due. Rapporto che è qui pensato a partire dal concetto di assoggettamento espresso da Foucault. Butler inizia richiamando il doppio senso di questo concetto. Da una parte, l’assoggettamento è infeudarsi alla legge o alla norma, sottomissione al potere. Dall’altra, l’assoggettamento indica la formazione del soggetto che avviene attraverso questa stessa infeudazione. Il potere è così, contemporaneamente, l’oppressore e il creatore del soggetto. «Il potere è contemporaneamente esterno al soggetto e il suo proprio luogo», dichiara l’autrice. Ora, questa doppia significazione è, secondo Butler, vissuta psichicamente dal soggetto, e questa vita psichica del potere crea ciò che l’autrice chiama «l’attaccamento passionale», o «appassionato», a se stesso (passionate attachment). Il soggetto è in effetti appassionatamente attaccato alla sua subordinazione. Ed è da questo attaccamento passionale che nasce il genere, è a partire da lui qui può costruirsi l’identità sessuale. Infatti il doppio senso dell’assoggettamento corrisponde quasi tratto per tratto alla distinzione sex/gender. Da un lato, assoggettamento alla legge – legge del sesso: tu sei una ragazza, tu sei un ragazzo. Dall’altro, tu sei appassionatamente attaccato a questo assoggettamento che, allo stesso tempo ti dà accesso a te stesso nell’ingiunzione di dover costruire questa identità, cioè, necessariamente, a inventarla, a darle forma.» (Butler Judith 1997 La vie psychique du pouvoir, ed. Léo Scheer 2002, prefazione di Catherine Malabou, 12-13)
Una prima conclusione nella affermazione di Butler: «Il genere è il meccanismo attraverso cui vengono prodotte e naturalizzate le nozioni di maschile e di femminile, ma potrebbe anche rappresentare lo strumento tramite il quale decostruire e denaturalizzare tali termini» (Judith 2004 La disfatta del genere,69), posta da Olivia Guaraldo in esergo nella Prefazione di Butler Judith 2004 La disfatta del genere, Meltemi Roma 2006.
A conferma: « … abbiamo avuto l’opportunità di renderci nuovamente conto, come era accaduto a Freud, che non arriveremo mai a una conclusione se tentiamo di affrontare la questione del genere chiedendoci che cosa sono la mascolinità e la femminilità. […] Poiché il genere è necessariamente indeterminato, dice Goldner (1991).» (Benjamin Jessica 1998 L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2006, 59, 62)
4.3.2.1. In ripresa, la tesi : «… il genere non è quindi il risultato causale del sesso né è apparentemente fisso quanto il sesso. In potenza, l’unità del soggetto viene così già contestata dalla distinzione che ammette il genere come interpretazione molteplice del sesso. […] Portata al suo limite logico, la distinzione sesso/genere indica una radicale discontinuità tra corpi sessuati e generi costruiti culturalmente. Supponendo per un attimo la stabilità del sesso binario, non ne consegue che la costruzione degli "uomini" verrà applicata solo ai corpi dei maschi o che le "donne" interpreteranno solo corpi femminili. Benché i sessi sembrino essere aproblematicamente binari nella loro morfologia e costituzione (il che è opinabile), non vi è motivo di credere che anche i generi debbano restare due. La presunzione di un sistema binario del genere sottintende la credenza in una relazione mimetica del genere verso il sesso, relazione in cui il genere rispecchia il sesso o ne viene altrimenti limitato. Quando lo status costruito del genere viene teorizzato come del tutto indipendente dal sesso, il genere stesso diviene un artificio fluttuante, con la conseguenza che uomo e maschio possono designare tanto un corpo femminile quanto uno maschile, e donna e femmina. tanto un corpo maschile quanto uno femminile.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 9,10)
4.3.2.2. La ripresa di Foucault: «Per Foucault, il corpo non è "sessuato" in alcun senso significativo prima della sua determinazione nel discorso, mediante la quale viene investito dell’"idea" di un sesso naturale o essenziale. Il corpo acquista significato all’interno del discorso soltanto nel contesto delle relazioni di potere. La sessualità è un’organizzazione storicamente specifica del potere, del discorso, dei corpi e dell’affettività. Foucault ritiene perciò che la sessualità produca il "sesso" come concetto artificiale capace di estendere e camuffare le relazioni di potere responsabili della sua genesi.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,135) «"La nozione di ‘sesso’ ha permesso di raggruppare in un’unità artificiale elementi anatomici, funzioni biologiche, comportamenti, sensazioni, piaceri, ed ha permesso di far funzionare quest’unità fittizia come principio causale." Quando viene essenzializzato in questo modo, il "sesso" diventa ontologicamente immune dalle relazioni di potere e dalla sua stessa storicità. […] Secondo Foucault, il "sesso" non deve essere solo ricontestualizzato nei termini della sessualità, ma il potere giuridico deve essere riconcepito come costruzione prodotta da un potere generativo che, a sua volta, nasconde il meccanismo della propria produttività: "La nozione di sesso ha assicurato un ribaltamento essenziale; ha permesso d’invertire la rappresentazione dei rapporti fra il potere e la sessualità e di far apparire quest’ultima, non nella sua relazione essenziale e positiva con il potere, ma radicata in un’istanza specifica ed irriducibile che il potere cerca di assoggettare come può ".» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,137,138) Quindi, Butler ritiene che, sotto l’effetto del concetto di genere, anche il concetto di sesso, così come viene usato discusso trattato non può presentarsi come un in sé naturale ma fa riferimento alle competenze culturali e alle attenzioni in grado o intenzionate a gestirlo; tra questo risulta vincente anche la prassi del potere giuridico, «il potere giuridico deve essere riconcepito come costruzione prodotta da un potere generativo che, a sua volta, nasconde il meccanismo della propria produttività»; lo stratagemma utilizzato per nascondere e garantire il successo di ciò che produce consiste nel naturalizzare ciò che viene prodotto; presentarlo non come costruzione ma come natura, la regolamentazione si presenta come descrizione (magari scientifica) della “natura”, i regolamenti politici sono “dislocati” in natura.
4.3.3. Allora un piano e gli aspetti centrali del problema o le attenzioni critiche.
4.3.3.1. Genere e naturalizzazione (o occultamento del processo costituente storico e politico del genere). Sullo sfondo opera la distinzione e contrapposizione tra natura e cultura, natura e storia: «La politica sessuale che costruisce e mantiene tale distinzione viene efficacemente nascosta dalla produzione discorsiva di una natura, anzi di un sesso naturale, che si atteggia da fondamento indiscusso della cultura. […] Il dualismo e davvero necessario? I dualismi sesso/genere e natura/cultura come vengono costruiti e naturalizzati uno nell’altro e uno attraverso l’altro? Quali gerarchie di genere sostengono e quali relazioni di subordinazione reificano?» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,58)
Coopera in tale direzione l’obiettivo di una coerenza (apparentemente recettiva in realtà costruita da norme) «La costruzione della coerenza nasconde le discontinuità di genere che dilagano nei contesti eterosessuali, bisessuali, gay e lesbici in cui il genere non deriva necessariamente dal sesso, e il desiderio (o, più in generale, la sessualità) non sembra derivare dal genere, anzi in cui queste dimensioni della corporeità significante non si esprimono e non si riflettono a vicenda. Quando la disorganizzazione e la disaggregazione della sfera dei corpi distruggono la finzione regolatrice della coerenza eterosessuale, pare che il modello espressivo perda la sua forza descrittiva. Quell’ideale regolatore viene quindi denunciato come norma e finzione che si camuffa da legge evolutiva capace di regolamentare la sfera sessuale che pretende di descrivere. […] Simili atti, gesti e rappresentazioni (interpretati in senso generale) sono performativi nel senso che l’essenza o l’identità che altrimenti pretendono di esprimere sono invenzioni fabbricate e sostenute tramite segni corporei e altri mezzi discorsivi. Il fatto che il corpo di genere sia performativo indica che esso non possiede alcuno status ontologico a parte i vari atti che ne costituiscono la realtà. Indica anche che, se quella realtà viene inventata come essenza interiore, la stessa interiorità è effetto e funzione di un discorso chiaramente pubblico e sociale, la regolamentazione pubblica della fantasia mediante la politica superficiale del corpo, il controllo del confine tra generi che differenzia l’interiore dall’esteriore, istituendo così l’"integrità" del soggetto. In altre parole, gli atti e i gesti, i desideri articolati e messi in scena creano l’illusione di un nucleo di genere interiore e organizzatore, un’illusione mantenuta discorsivamente ai fini della regolamentazione della sessualità nella cornice obbligatoria dell’eterosessualità riproduttiva. Se la "causa" del desiderio, del gesto e dell’atto può essere localizzata nel "sé" dell’attore, i regolamenti politici e le pratiche disciplinari che producono quel genere all’apparenza coerente vengono efficacemente dislocati e nascosti alla vista. Il dislocamento dell’origine politica e discorsiva dell’identità di genere su un "nucleo" psicologico preclude l’analisi della costituzione politica del soggetto di genere e delle nozioni inventate riguardo all’interiorità ineffabile del suo sesso o della sua vera identità. […] Si consideri che una sedimentazione delle norme di genere produce il peculiare fenomeno di un "sesso naturale” o di una "donna reale” oppure un’intera serie di finzioni sociali prevalenti e affascinanti e che tale sedimentazione ha prodotto, nel corso del tempo, un insieme di stili corporei che, in forma reificata, si presentano come configurazione naturale dei corpi in sessi esistenti in una relazione binaria tra loro.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,190, 191, 196)
4.3.3.1.1. Per uscire da questo tranello (impositivo o antilibertario) urge la necessità di un approccio genealogico, «una genealogia critica della naturalizzazione del sesso e dei corpi in generale». (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,VII) «Per denunciare le categorie fondazionali di sesso, genere e desiderio come effetti di una specifica formazione di potere è necessaria una forma di indagine critica che Foucault, riformulando Nietzsche, denomina "genealogia". […]…la genealogia, preferisce studiare i rischi politici insiti nel designare come origine e causa le categorie dell’identità che sono, in realtà, gli effetti di istituzioni, pratiche e discorsi con punti d’origine molteplici e diffusi.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, VII, XXXVII) «Se efficace, una genealogia politica delle ontologie del genere decostruirà la sua comparsa sostantiva nei suoi atti costitutivi, individuando e giustificando quegli atti nelle cornici obbligatorie imposte dalle varie forze che vigilano sulla sua comparsa sociale.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,43)
4.3.3.1.2. L’applicazione del metodo della genealogia come strumento di lettura, decodifica, smontaggio e denaturalizzazione delle disposizioni che si presentano pretendendo per sé il carattere di tratti naturali, originali, fondativi di identità sostanziali e necessarie si fonda sulla scoperta della loro natura derivata: non sono elementi o categorie fondazionali, ma disposizioni derivate. «Ben lungi dall’essere fondazionali, queste disposizioni sono il risultato di un processo che mira a camuffare la propria genealogia. In altre parole, le "disposizioni” sono tracce di una storia di proibizioni sessuali imposte che non è mai stata narrata e che la proibizione cerca di rendere inenarrabile.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,92) «… la legge produce la sessualità sotto forma di "disposizioni" e, in un secondo tempo, sembra trasformare con finto candore queste disposizioni apparentemente "naturali" in strutture culturalmente accettabili di parentela esogamica.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,93)
4.3.3.1.3. Si può forse accettare l’aggettivo naturale per indicare aspetti biologici e il loro trattamento culturale e sociale, ma solo se non si ignora che l’essenza della natura vivente è l’evoluzione e che sempre più sull’evoluzione incide la componente tecnica, culturale ed etica dell’uomo.
4.3.3.2. Genere e violenza: individuarne la dinamica. Scrive Butler: "Crescendo, ho capito qualcosa riguardo alla violenza delle norme di genere [...]. È stato difficile descrivere questa violenza perché il genere veniva insieme dato per scontato e vigilato con rigore. Si pensava fosse una manifestazione naturale del sesso o una costante culturale che nessuna agenzia umana poteva sperare di correggere. [...] L’ostinato tentativo di ‘denaturare’ il genere [...] emerge, credo, da un intenso desiderio di combattere la violenza normativa insita nelle morfologie ideali di sesso e di sradicare le tesi pervasive sull’eterosessualità naturale.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere. Presentazione Giulio Giorello, VII)
«La mancata consapevolezza della violenza di genere ha effetti sulla nostra capacità di comprendere come e perché alcune esternazioni di genere vengono criminalizzate e considerate come patologiche, per quale ragione i soggetti sessualmente ibridi rischiano l’internamento e la carcerazione, perché la violenza nei confronti dei transgender non viene riconosciuta come tale e anzi, talvolta, viene inflitta proprio dallo Stato che li dovrebbe proteggere. […] E poiché le norme che governano la realtà non hanno riconosciuto queste forme come reali, dovremo, necessariamente, denominarle “nuove”, con un po’ di ironia, visto che ne siamo consapevoli. Il concetto di politica qui all’opera riguarda la questione della sopravvivenza, la possibilità di creare un mondo in cui chi comprende di avere genere e desideri non conformi alla norma possa vivere e prosperare non solo senza la minaccia di violenze esterne, ma anche senza un senso diffuso della propria irrealtà, che può condurre al suicidio o a una vita suicida. » [di autoesclusione] (Judith 2004 La disfatta del genere, 251)
4.3.3.3. Identità e violenza: sul legame di fondo costituito dal rapporto tra genere e identità («l’identità di genere sembra essere soprattutto l’interiorizzazione di una proibizione che si rivela formativa dell’identità.» Butler 1990, 1999, Scambi di genere,91), prende forma, e ritorna, con altrettanta evidenza e urgenza il tema della natura violenta di costruzioni e definizioni identitarie, cui viene opposta la "decostruzione dell’identità", "come sbarazzarsi da qualsiasi identità naturalisticamente ipostatizzata": «la "decostruzione dell’identità" (che non vuol dire ipso facto "decostruzione della politica") modella come politici "i termini stessi attraverso i quali viene articolata l’identità". E proprio tale "riconcettualizzazione dell’identità come effetto" dischiude quelle possibilità dell’agire politico "insidiosamente precluse da posizioni che reputano le categorie dell’identità fondazionali e fisse".» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere. Presentazione Giulio Giorello, VIII) Ricorda Wallerstein Immanuel 1983 Il capitalismo storico, Einaudi, Torino 1985,63: «Il razzismo, proprio come il sessismo, ha funzionato come una ideologia autorepressiva, modellando le aspettative e limitandole.»
«Dovremmo invece porci i seguenti quesiti: quali possibilità politiche sono conseguenza di una critica radicale delle categorie dell’identità?» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, XXXVII) L’identità è definita dai e nei limiti degli obiettivi, dei mezzi e della concessioni proprie del sociale e del politico. «Il compito consiste nel formulare, in questa cornice costituita, una critica delle categorie dell’identità che le strutture giuridiche contemporanee generano, naturalizzano, immobilizzano.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 8)
4.3.3.3.1. «… la necessità di un totale ripensamento delle categorie dell’identità nel contesto delle relazioni di radicale asimmetria del genere.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,16)
Il tema della natura culturale del genere diventa critica a pretese identitarie precostituite fino a sottoporre a critica i concetti tradizionali metafisici di sostanza e di persona (critica che non può non richiamare le riflessioni espresse e condivise da Butler sui processi di assoggettamento) applicati al soggetto (alla soggettività) e anche al genere e al sesso («la grammatica sostantiva del genere… del sesso…» Butler 1990, 1999, Scambi di genere,25). Nella «Storia della sessualità, Foucault mette in guardia dall’uso della categoria del sesso come "unità fittizia [...] [e] principio causale" e afferma che la categoria fittizia del sesso facilita un’inversione delle relazioni causali in modo che il "sesso" venga inteso come causa della struttura e del significato del desiderio: "La nozione di "sesso" ha permesso di raggruppare in un’unità artificiale elementi anatomici, funzioni biologiche, comportamenti, sensazioni, piaceri, ed ha permesso di far funzionare quest’unità fittizia come principio causale, senso onnipresente [...]: il sesso ha dunque potuto funzionare come significante unico e come significato universale ".» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,134-135)
«Il sesso che non è un sesso fornisce allora un punto di partenza per una critica della rappresentazione occidentale egemonica e della metafisica della sostanza che struttura la nozione stessa di soggetto. […] La concezione universale della persona come punto di partenza per una teoria sociale del genere viene però dislocata dalle posizioni storiche e antropologiche che intendono il genere come relazione tra soggetti socialmente costituiti in contesti specificabili. Questo punto di vista relazionale o contestuale indica che quel che la persona "è", anzi quel che il genere "è", dipende sempre dalle relazioni costruite in cui viene determinato. Essendo un fenomeno volubile e contestuale, il genere non denota un essere sostantivo, bensì un punto di convergenza relativo tra serie di relazioni culturalmente e storicamente specifiche.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 14-15) .
4.3.3.3.2. Il legame tra genere e assoggettamento (nel crescendo: sesso, genere, soggetto, identità) si colloca storicamente all’interno di due diverse impostazioni: la prima ontologica, metafisica, sostanzialista; la seconda, costruita dal punto di vista relazionale; quest’ultima rivela la natura strumentale e politica della prima e ne avvia un processo ermeneutico (e pratico-combattivo, quindi politico) di smontaggio. Quindi la critica è contro una concezione sostanzialistica o comunque unitaria e immodificabile, definita naturale, del sesso, del genere, delle identità… dei termini-concetti “donna”, “uomo”; unità che viene richiesta e data per scontata o imposta come obiettivo primario anche in movimenti politici a carattere rivendicativo, ad esempio in certe forme (irrigidite sostanzialmente e storicamente) di femminismo in cui la solidarietà e la coesione tra donne presuppone un concetto unico e condiviso, naturale forse, di donna (sesso, genere, persona, ruoli). «L’insistenza anticipata sull’"unità" coalizionale come obiettivo fa della solidarietà un requisito indispensabile per l’azione politica, a prescindere dal suo prezzo. Ma quale tipo di politica impone di aggrapparsi in anticipo all’unità? Forse una coalizione deve riconoscere le proprie contraddizioni ed entrare in azione con quelle contraddizioni intatte. Forse la comprensione dialogica comporta anche l’accettazione della divergenza, della rottura, della frantumazione e della frammentazione come parte del processo, spesso tortuoso, della democratizzazione. La stessa nozione di "dialogo" è culturalmente specifica e storicamente vincolata e, se un parlante può essere sicuro che una conversazione sta avendo luogo, un altro può essere certo del contrario.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 20) «In altre parole, la "coerenza" e la "continuità" della "persona" non sono tratti logici o analitici della personificazione, bensì norme di intelligibilità istituite e mantenute socialmente.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 23) «Il genere è la stilizzazione ripetuta del corpo, una serie di atti ripetuti all’interno di un rigidissimo quadro regolatore che si congelano nel tempo producendo la comparsa della sostanza, di un tipo naturale di essere.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 43)
4.3.3.3.3. Le origini lontane. All’origine una filosofia (greca) incentrata sull’essere e tesa a consegnare il divenire e la diversità al mondo delle apparenze: «In un commento su Nietzsche, Michel Haar sostiene che alcune ontologie filosofiche sono rimaste intrappolate nelle illusioni dell’“Essere” e della “Sostanza” promosse dalla convinzione che la formulazione grammaticale di soggetto e predicato rifletta la precedente realtà ontologica della sostanza e dell’attributo. Tali costruzioni, osserva Haar, costituiscono il mezzo filosofico artificiale con cui vengono efficacemente istituiti l’ordine, l’identità e la semplicità. Tuttavia, non rivelano e non rappresentano affatto un vero ordine delle cose.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 27)
4.3.4. Una puntualizzazione in corso d’opera: «Nel mio libro [Scambi di genere] sostenevo che il genere è performativo, e intendevo dire che nessun genere è “espresso” da azioni, gesti o dal linguaggio, ma la performance del genere produce retroattivamente l’illusione che ci sia un nucleo interno di genere. Questo significa che la performance di genere produce retroattivamente l’effetto di qualche essenza o disposizione femminile vera o persistente, in modo tale che non si possa usare un modello significativo per pensare il genere. Sostenevo, inoltre, che il genere è il prodotto di una ripetizione ritualizzata di convenzioni, e che questo rituale è socialmente imposto, in parte dalla forza di una eterosessualità obbligatoria.» (Butler 1997 La vita psichica, 137)
4.3.4.1. la rilevanza sociale e politica, culturale, della nozione di performatività: «La distinzione tra espressione e performatività è cruciale. Se gli attributi e gli atti di genere, i vari modi in cui un corpo mostra o produce la propria significazione culturale, sono performativi, non vi è un’identità preesistente in base alla quale misurare un atto o un attributo; non vi sarebbero atti di genere veri o falsi, reali o distorti, e il postulato di una vera identità di genere si rivelerebbe essere una finzione regolatrice. Il fatto che la realtà di genere sia creata mediante performance sociali sostenute significa che le nozioni stesse di sesso essenziale e di mascolinità o femminilità vera o duratura sono costituite come parte della strategia capace di nascondere il suo carattere performativo e le possibilità performative per la proliferazione delle configurazioni di genere fuori delle cornici restrittive della dominazione maschilista e dell’eterosessualità obbligatoria.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,197-198)
4.3.4.2. Va posto in rilievo il ruolo della conferma, della reiterazione, della consuetudine (costume e normalità) come condizione di valore e costituzione delle norme in sistema sociale politico reale, ma anche, all’inverso, come percorso per il suo controllo, il suo arresto e la sua ipotetica e rivoluzionaria demolizione o, almeno, la riflessione critica nei suoi confronti e il ricupero dell’arte del giudizio politico: «Le norme e le regole relative al gender, pur presupponendosi come “naturali”, “normali”, incontestabili e vere, sono invece il frutto di una pratica citazionale costante: la loro validità sta tutta nella loro ripetizione. Come a dire, non esistono norme che non debbano essere ripetute, ribadite, rafforzate nella loro iterazione. Emerge quindi una visione contingente della costruzione sociale che, se da una parte mette in discussione ogni presunta asserzione di “naturalità” sessuale, corporea, di genere, dall’altra, però, mette in guardia anche da un’ortodossia postmodernista — sociologicamente declinata — secondo la quale tutto è frutto della convenzione sociale.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo, 12)

4.3.5. Genere e libertà, genere e identità (umana) «Diviene pertanto impossibile separare il “genere” dalle intersezioni politiche e culturali in cui viene invariabilmente prodotto e mantenuto.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 6) Solo in questa sua collocazione mantiene i tratti libertari che permettono al soggetto, attraverso il genere e quindi attraverso la costruzione di sé, di autodefinirsi in un aperto contesto.
4.3.5.1. È questione di definizione dell’umano. «Quindi, sullo sfondo di queste considerazioni, rivendicare diritti sessuali assume un significato specifico. Ad esempio, significa che quando lottiamo per i nostri diritti non stiamo semplicemente lottando per diritti che si riferiscono alla nostra persona, ma per essere considerati come persone. Ed esiste una differenza tra le due cose. Se stiamo lottando per diritti che riguardano, o dovrebbero riguardare, la nostra persona, allora si presume che la persona sia già costituita. Ma se non si lotta solamente per essere concepiti come persone, ma per attuare una trasformazione sociale del significato stesso di persona, allora la rivendicazione dei diritti diviene un modo per intervenire nel processo sociale e politico attraverso cui si articola l’umano. Il movimento internazionale per i diritti umani sottopone il concetto di umano a un costante processo di ridefinizione e rinegoziazione, ponendolo al servizio dei diritti, ma anche operando su di esso una riscrittura e una riarticolazione, nel momento in cui si scontra con i limiti culturali della sua elaborazione del concetto di umano.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 59)
4.3.5.2. Genere una complessità performativa. «Il genere è una complessità la cui totalità viene continuamente rinviata, non è mai davvero quel che è in nessun momento dato. Una coalizione aperta affermerà dunque identità che vengono alternatamente istituite e abbandonate a seconda degli scopi da raggiungere; sarà un insieme aperto che ammetterà molteplici convergenze e divergenze senza obbedire a un telos normativo di chiusura definitrice.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 22)
«Non essendo più credibile come "verità" interiore di disposizioni e identità, il sesso si rivelerà essere una significazione messa in scena performativamente (e dunque non "a venire"), una significazione che, liberatasi della sua superficie e interiorità naturalizzata, sa occasionare la proliferazione parodica e il gioco sovversivo dei significati di genere. Il presente testo prosegue quindi come tentativo di riflettere sulla possibilità di sovvertire e dislocare le nozioni di genere naturalizzate e reificate che sostengono l’egemonia maschile e il potere eterosessista, come tentativo di combinare guai di genere, non mediante le strategie che immaginano un oltre utopistico, bensì mediante la mobilitazione, la confusione sovversiva e la proliferazione delle categorie costitutive che cercano di tenerlo al suo posto atteggiandosi a illusioni fondazionali dell’identità.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 44) «…il sesso può essere l’occasione di un genere che non è una reificazione, bensì una modalità della libertà.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 48)
«Il corpo culturalmente costruito [e non presunto naturale] sarà allora libero, non di tornare al suo passato "naturale" [che non c’è] o ai suoi piaceri originari, bensì di dirigersi verso un futuro aperto di possibilità culturali. [e non vi sono altro che quelle culturali]» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,137).
4.3.5.3. alla passione, al dolore e alla rabbia, tutte cose che ci strappano a noi stessi, ci legano agli altri, ci trasportano, ci destabilizzano, ci coinvolgono in vite che non ci appartengono, e talvolta in modo fatale e irreversibile.
Ancora, e per il passaggio al politico: «Il genere non dovrebbe essere interpretato come identità stabile o luogo di agenzia da cui derivano vari atti; esso è invece un’identità fragilmente costituita nel tempo, istituita in uno spazio esteriore mediante una ripetizione stilizzata di atti. L’effetto del genere viene prodotto mediante la stilizzazione del corpo e va dunque inteso come il modo ordinario in cui i gesti corporei, i movimenti e gli stili di vario tipo costituiscono l’illusione di un sé di genere duraturo. Tale formulazione sposta la concezione del genere dal fondamento di un modello sostanziale dell’identità verso un fondamento che richiede una visione del genere come temporalità sociale costituita. Se il genere viene istituito tramite atti internamente discontinui, l’apparenza della sostanza è proprio questa: un’identità costruita, una conquista performativa che il pubblico sociale ordinario, compresi gli attori stessi, giunge a pensare ed esibire nella modalità della credenza.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,196-197)

4.4. Il modo di vivere, individualmente, socialmente e nella percezione politica, il genere rimanda al legame di origine che il genere conserva con la forclusione e la malinconia. La tesi già richiamata di Butler era che si può presentare «il genere come un tipo di melanconia, o come uno degli effetti della melanconia. … un’identificazione melanconica è centrale nel processo attraverso il quale l’io assume un carattere di genere.» (Butler 1997 La vita psichica, 127)
In ripresa (e richiamando Freud): «Esiste un modo nel quale le identificazioni di genere, o meglio, le identificazioni che diventano centrali nella formazione del genere, sono prodotte per mezzo dell’identificazione melanconica? Sembra chiaro che le posizioni di “maschile” e “femminile”, intese da Freud nei Tre saggi sulla teoria della sessualità (Freud 1905) come il risultato di un operare laborioso e incerto, siano stabilite in parte attraverso le proibizioni che pretendono la perdita di certi attaccamenti sessuali, chiedendo contemporaneamente che tali perdite non siano ammesse, né siano rimpiante. Se l’assunzione della femminilità e l’assunzione della mascolinità procedono attraverso la realizzazione di un’eterosessualità sempre debole, possiamo però comprendere la forza di questa realizzazione che si esprime imponendo l’abbandono degli attaccamenti omosessuali, o forse in modo più incisivo, prevenendo la possibilità di un attaccamento omosessuale, una forclusione della possibilità che produce un dominio di omosessualità intesa come passione da non vivere e perdita da non piangere.» (Butler 1997 La vita psichica, 129). «Se accettiamo la nozione che l’eterosessualità naturalizza se stessa insistendo sulla radicale alterità dell’omosessualità, allora l’identità eterosessuale è perseguita attraverso un incorporamento melanconico dell’amore che ripudia.» (Butler 1997 La vita psichica,133)
4.4.1. La costruzione del genere in forma di netta contrapposizione sociale e culturale, tra maschile e femminile (in forte e semplificata dicotomia oppositiva), tra omosessualità contro eterosessualità, è restrizione della libido nella forma di una «eterosessualizzazione del desiderio» (Butler 1997 La vita psichica, 129), «sacrificio del desiderio sotto la pressione della proibizione» (Butler 1997 La vita psichica, 131), e con il suo incanalamento costrittivo in forme sociali politicamente preordinate nei confronti del soggetto è una componente rilevante del suo assoggettamento in termini di sottomissione, nel campo personale e nel campo dell’affettività. «… la mascolinità e la femminilità sono rinforzati entro la matrice eterosessuale attraverso i disconoscimenti che operano. In contrapposizione al concetto di sessualità si dice “esprima” un genere, il genere stesso è qui inteso come composto precisamente da ciò che rimane non articolato nella sessualità.» (Butler 1997 La vita psichica, 134)
4.4.2. Si può qui riprendere il concetto di forclusione e di melanconia: si configura come proibizione preventiva che impedisce di conseguenza di gestire il lutto per la perdita di ciò che non poteva essere perduto in quanto ne era precluso il possesso o la possibile esperienza; quindi una perdita non tematizzabile, che non può essere pianta; in quanto era “passione da non vivere” allora è “perdita da non piangere”; è la perdita della perdita e la conseguente melanconia dell’essere o, in modo più ristretto, del genere. «Se questo amore è fuori discussione dall’inizio, allora non può accadere, e se accade, certamente non è accaduto. Se accade, accade soltanto sotto il segno ufficiale della sua proibizione e del suo disconoscimento.» (Butler 1997 La vita psichica, 133) Un sistema da cui deriva, per conseguenza, la debolezza di ogni forma di genere e di sessualità e, quindi, del vivere sociale o della relazione sociale. Nella eterosessualità coltivata attraverso proibizioni e ripudi prende corpo quella che Butler chiama una «angoscia di genere» (Butler 1997 La vita psichica, 130) che contribuisce a rendere costretta, debole, fragile e “malinconica” la sessualità della vita; in particolare a mostrare nella sua debolezza «la superficie naturalizzata della vita eterosessuale e allo stesso tempo la sua melanconia pervasiva» (Butler 1997 La vita psichica, 132). «La proibizione dell’omosessualità previene il processo del lutto e induce un’identificazione melanconica che effettivamente ripiega il desiderio omosessuale su se stesso. Questo ripiegamento su se stesso è precisamente l’azione di auto-rimprovero e colpa. Significativamente, l’omosessualità non è abolita bensì preservata, sebbene sia preservata precisamente nella proibizione dell’omosessualità.» (Butler 1997 La vita psichica,136)
4.4.3. Applicando sociologicamente: «La paura del desiderio omosessuale in una donna, quindi, può indurre uno stato di panico al pensiero che stia perdendo la sua femminilità, che non sia una donna, che non sia più una vera donna, che se non è neanche un uomo, comunque vi assomiglia, e quindi è in qualche modo mostruosa. Oppure in un uomo, il terrore del desiderio omosessuale può portare al terrore di essere giudicato femminile, femminilizzato, non essendo più propriamente un uomo, ma un uomo “fallito”, diventando quindi in un certo senso una figura mostruosa o abietta.» (Butler 1997 La vita psichica, 130) «Il suo desiderio sarà ossessionato dal terrore di essere ciò che desidera, così che il suo desiderio sarà sempre anche una forma di minaccia. Precisamente poiché ciò che viene ripudiato e quindi perduto si preserva come un’identificazione ripudiata, questo desiderio tenterà di sopraffare un’identificazione che non potrà mai essere completa.» (Butler 1997 La vita psichica, 131)
4.4.4. La consuetudine il rischio e l’utilità di una definizione e di una catalogazione. «Vorrei commentare che da un punto di vista fenomenologico vi sono molti modi di fare esperienza della sessualità e del genere che non si riducano a questa equivalenza, che non presuppongono che il genere sia stabilizzato attraverso l’insediamento di una eterosessualità sicura, ma per il momento preferisco evocare questa costruzione rigida e iperbolica della relazione tra genere e sessualità, allo scopo di risalire alla formazione di ciò che definiamo il carattere sessuato dell’io attraverso la questione della perdita che non è stata, né può essere, compianta.» (Butler 1997 La vita psichica, 130) La questione rimanda a una doppia prassi, antitetica e in difficile conciliazione.
4.4.4.1. La diagnosi, la catalogazione, e magari la cura e la sua tentazione ideologica e veritativa: «Venire diagnosticati con un disturbo dell’identità di genere (GID) in un certo senso significa scoprire di essere malati, disturbati, irregolari, difettosi, anormali ed essere soggetti, in conseguenza di tale diagnosi, a una certa stigmatizzazione. Come risultato, alcuni psichiatri attivisti e alcuni transessuali hanno dichiarato che la diagnosi dovrebbe essere eliminata del tutto, che la transessualità non è una malattia e quindi non dovrebbe essere concepita come tale, e che i transessuali dovrebbero essere considerati persone impegnate in una pratica di autodeterminazione, in un esercizio di autonomia. Quindi, da un lato la diagnosi continua a essere apprezzata perché facilita una modalità di trasformazione economicamente realizzabile. Dall’altro, essa viene risolutamente contrastata perché insiste a patologizzare come malattia mentale quella che invece dovrebbe essere concepita come una fra le molte possibilità dell’essere umano di determinare il proprio genere.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 104)
4.4.4.2. L’esigenza di dotarsi di un volto, di una modalità, di una specificità accompagnata da riconoscimento e normalità. Ma l’assenza di modelli è astrazione astorica dal sociale e perdita dei suoi criteri di riferimento, per adozione o per rifiuto. La posizione precedente può creare un disagio; nell’attacco indiscriminato alle norme forse si trascura un aspetto: «Né vengono indagate le condizioni in cui le norme stesse potrebbero invece generare un senso di benessere, di appartenenza, o divenire il luogo per la realizzazione di determinate possibilità umane, che consentano a una persona di percepire il futuro, la vita, la prosperità.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 125) Si può pensare, ad esempio, al movimento che si batte per i matrimoni gay.
«La cosa che più preoccupa, comunque, è il modo in cui la diagnosi esercita la propria pressione sociale, causando angoscia, stabilendo che alcuni desideri sono patologici, rafforzando la regolamentazione e il controllo di coloro che li manifestano in ambito istituzionale.» (Judith 2004 La disfatta del genere,129)
4.4.5. La domanda diventa politica. «Mi sono domandata quale configurazione di potere costruisse il soggetto e l’Altro, la relazione binaria tra "uomini" e "donne" e la stabilità interna di tali termini.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, XXXVI) «Questa ricerca teoretica ha cercato di individuare il politico nelle stesse pratiche significanti che creano, regolamentano e deregolamentano l’identità. Questo tentativo è tuttavia possibile solo mediante l’introduzione di una serie di domande che estendono la nozione stessa del politico.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 212)


5. La decostruzione (undoing, “disfatta”) delle rigidità di genere e di identità e la nuova società
La rilevanza del tema e dell’impegno in esso profuso deriva dalla consapevolezza della natura del politico e del soggetto in esso quale emerge da una diagnosi di carattere genealogico già richiamata e che è bene riprendere almeno per spunti di carattere autobiografico (per Butler) e storico culturale: “la rinuncia accresce l’intolleranza” (Freud 1929 Il disagio della civiltà, pp. 610-619; Butler 1997 La vita psichica, 136)
5.01.«Nel discorso dominante della mia infanzia, combinare guai era qualcosa da evitare proprio perché ti avrebbe messo nei guai. La ribellione e il rimprovero parevano espressi in termini identici, un fenomeno che ha prodotto la mia prima intuizione critica sul subdolo inganno del potere: la legge prevalente minacciava di causarti dei guai, ti metteva persino nei guai, e tutto per tenerti fuori dei guai. Ho pertanto concluso che i guai sono inevitabili e che la sfida consiste nel trovare il modo migliore di combinarli, il modo migliore di cacciarvisi dentro. Con il passare del tempo, sono comparse sulla scena critica ulteriori ambiguità.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, XXXV)
5.02. Va richiamata l’attenzione sulla “dimensione paradossale dell’agency, come afferma Butler; cioè: «L’essere costruita socialmente mi dà la possibilità di contestare le norme che mi determinano, ovvero, la consapevolezza della costruzione sociale del sé, pur enfatizzando la preesistenza di un mondo sociale che non si è scelto, rende possibile la volontà trasformativa di quello stesso mondo. Il gender, la norma che costruisce i soggetti socialmente e culturalmente come maschile o femminile, è anche l’ambito d’azione in cui è possibile contestare la fissità, la normalità, la permanenza, la stabilità di quelle categorie, di quei pannelli divisori che idealmente dividono l’umanità in due.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo, 13)
«La mia agency non consiste nel negare le condizioni della mia costituzione. Il fatto stesso che io sia in grado di agire è reso possibile dalle circostanze stesse della mia formazione, la quale ha origine in un mondo sociale che non ho mai scelto. Il fatto poi che la mia agency sia lacerata dal paradosso non significa che sia impossibile. Significa solo che il paradosso è la condizione della sua possibilità. Ne consegue che l’“Io”, che io sono, si ritrova, a un tempo, costituito da norme e da queste dipendente, ma si sforza anche di vivere in modo da mantenere con esse un rapporto critico e trasformativo.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 27) È questa la natura della determinazione: come essere entità determinate (alla Hegel) e quindi come agire secondo decisioni; la tesi dell’agire individuale comprensibile soltanto in contesto collettivo di possibilità d’azione e di interpretazione conoscitiva (espressa in modo sistematico anche in Durkheim, Le regole del metodo sociologico).
5.03. Perché il tema del genere, e la sua concezione, apre e spinge al tema del sociale e della sua organizzazione politica. «Né il genere né la sessualità sono esattamente qualcosa che si possiede, ma rappresentano un modo di essere spossessati, modi di essere per l’altro o in virtù dell’altro. Non si tratta semplicemente di proporre una visione relazionale al posto di una autonoma del sé, o di cercare di riformulare l’autonomia in termini di relazionalità. Il termine relazionalità viene a risanare la frattura nella relazione che cerchiamo di descrivere, una frattura che è costitutiva dell’identità stessa. Ciò significa che si deve andare cauti nel concettualizzare lo spossessamento.» (Judith 2004 La disfatta del genere,45) Spossessamento ed essenziale relazione all’altro che accadono nelle personali situazioni fondamentali: «alla passione, al dolore e alla rabbia, tutte cose che ci strappano a noi stessi, ci legano agli altri, ci trasportano, ci destabilizzano, ci coinvolgono in vite che non ci appartengono, e talvolta in modo fatale e irreversibile.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 46)
La consapevolezza della essenziale caratterizzazione relazionale del genere (e della stessa identità) porta a comprendere anche, per rovescio, perché sia così ricorrente e spesso ossessiva la volontà del potere (politico e religioso) ad intervenire per definire il genere (così come la sessualità, l’identità) secondo norme e secondo modelli codificati, tendenzialmente rigidi fino a non ritrarsi di fronte all’inganno del dichiarare tali modelli naturali e renderli così coercitivi ed unici.
«Se qualcuno della sinistra pensava che tali preoccupazioni non fossero, propriamente e sostanzialmente, politiche, sono stati costretti a riconsiderare la sfera politica nei termini dei suoi presupposti sessuali e di genere. L’opinione che le figure del butch e della femme e i transgender non siano referenti essenziali per un rinnovamento della vita politica e per la creazione di una società più giusta ed equa, manca di riconoscere non solo la violenza subita dalle persone sessualmente non conformi alla norma, ma anche che la corporeità rimanda al contestato sistema di norme che stabiliscono chi conterà come possibile soggetto all’interno della sfera politica. […] … e ciò vale sia per quanto riguarda l’esperienza del proprio corpo che per l’esperienza del corpo altrui, e se si accetta il fatto che tale idealizzazione e tale cornice sono socialmente articolate, è possibile constatare che la corporeità non è pensabile se non in relazione a una norma o a un insieme di norme. La lotta per la riformulazione delle norme, in base alle quali si fa esperienza del corpo, diventa pertanto fondamentale …» (Judith 2004 La disfatta del genere, 54)
5.03.1. Occorre infatti ricordare come prima istanza: «La questione di chi e che cosa sia considerato reale e vero riguarda, apparenza, il sapere. Ma è anche, come puntualizza Michel Foucault, una questione di potere. Possedere, o apportare, “verità” e “realtà” rappresenta una prerogativa di enorme potere nel contesto sociale, una modalità attraverso cui il potere si dissimula come ontologia. Secondo Foucault, uno dei primi compiti di una critica radicale è discernere la relazione “tra i meccanismi di coercizione e gli elementi di conoscenza”.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 53)
5.03.2. Come seconda istanza si può intravedere qui in opera la consapevolezza espressa nella logica di Hegel (sia nella Fenomenologia, che nella Logica): il determinato è compreso e indicato, definito dall’universale; questo costituisce la sua essenza. Ma l’universale, l’essenza che il determinato è (che noi siamo) non è qualcosa che si possiede, né in toto, né singolarmente; proprio l’essenza, in quanto universale, ci proietta all’esterno del finito e quindi rappresenta il modo in cui siamo spossessati, spossessati dalla e nella essenza, siamo altro da in noi stessi e noi stessi nel nostro essere altro; proprio l’essenza è il nostro essere altro, il nostro intrinseco e metafisico (non accidentale o solo morale e sociale) trovarci in relazione.

5.1. L’illusione della funzione descrittiva e i rischi di una pretesa fondazionalista: «Il potere giuridico "produce" inevitabilmente quel che sostiene di rappresentare soltanto»
«… i soggetti giuridici vengono invariabilmente prodotti tramite pratiche esclusive che non "si vedono" una volta creata la struttura giuridica della politica. In altre parole, la costruzione politica del soggetto procede con determinati fini legittimanti ed esclusivi, e tali operazioni vengono nascoste e naturalizzate efficacemente da un’analisi politica che scorge il loro fondamento nelle strutture giuridiche. Il potere giuridico "produce" inevitabilmente quel che sostiene di rappresentare soltanto; la politica deve quindi occuparsi di questa duplice funzione del potere: quella giuridica e quella produttiva. In pratica, la legge produce e quindi nasconde la nozione di "un soggetto prima della legge" per invocare quella formazione discorsiva come premessa fondazionale naturalizzata che in seguito legittima l’egemonia regolatrice della legge.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,4-5)
5.1.1. Teorie classiche precedenti hanno fornito i concetti per un percorso di naturalizzazione astorica di ciò che è in realtà prodotto dal politico – storico [viene naturalizzato se si riesce a dimostrare che il prodotto esiste in natura e lo Stato lo scopre lo rispetta lo impone]. Qui giocano i concetti di stato di natura e di contratto sociale (presociale, in ingresso unico e definitivo nel sociale); con l’invenzione dello stato di natura, oltre a nascondere il fatto performativo politico e sociale del soggetto, si procura una fondazione ontologico-naturale allo Stato, attraverso, contemporaneamente, un altro atto performativo politico, il contratto di società. «La storia delle origini è quindi una tattica strategica all’interno di una narrazione che, fornendo un unico resoconto autorevole di un passate irrecuperabile, dipinge la costituzione della legge come un’inevitabilità storica.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,56)
5.1.2. In alternativa e in uscita: non cercare fondamenti ma esaminare gli atti performativi, i discorsi che definiscono, creano, fissano e impongono (interiorizzando e incorporando), con riti quotidiani di ripetizione sociale oltre che con sistemi di ordine e di norme, identità e generi definiti “naturali”. «Entrare nelle pratiche ripetitive di questo terreno di significazione non è una scelta, perché l’"io" che potrebbe entrare è sempre già all’interno: non esiste alcuna possibilità di agenzia o realtà fuori delle pratiche discorsive che conferiscono a quei termini l’intelligibilità di cui sono provvisti. Il compito non consiste nel capire se ripetere, bensì nel capire come ripetere, anzi nel ripetere e, mediante una radicale proliferazione del genere, nel dislocare le norme di genere che permettono la ripetizione stessa. Non vi è un’ontologia di genere su cui costruire una politica, perché le ontologie di genere operano sempre come ingiunzioni normative in contesti politici creati, determinando che cosa si qualifica come sesso intelligibile, invocando e consolidando i limiti riproduttivi posti alla sessualità, definendo i requisiti prescrittivi tramite i quali i corpi sessuati o di genere conquistano l’intelligibilità culturale. L’ontologia non è dunque un fondamento, bensì un’ingiunzione normativa che opera insidiosamente installandosi nel discorso politico come la sua base necessaria.
La decostruzione dell’identità non è la decostruzione della politica; crea piuttosto come politici gli stessi termini attraverso i quali viene articolata l’identità.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,212-213)
5.1.3. «Se le identità non fossero più fisse come premesse di un sillogismo politico, e se la politica non venisse più intesa come un insieme di pratiche derivate dai presunti interessi che appartengono a una serie di soggetti preconfezionati, una nuova configurazione della politica emergerebbe senz’altro dalle rovine di quella vecchia. Le configurazioni culturali del sesso e del genere potrebbero allora proliferare, o meglio la loro attuale proliferazione potrebbe divenire articolabile nei discorsi che creano la vita culturale intelligibile, confutando lo stesso binarismo del sesso e denunciandone la fondamentale innaturalità. Quali altre strategie locali volte a innestare l’“innaturale” potrebbero condurre alla denaturazione del genere come tale?» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 213-214)
Questa è l’estensione o la ripresa sociale del politico … oppure alla scoperta e ridefinizione del politico si giunge a partire dai gesti con cui le persone esercitano il loro ruolo di costituzione di genere come forme di vita proprie che hanno definizione e determinazione nel libero e non pregiudicato o imposto, né perciò subordinante, rapporto con l’altro; è dalla riflessione sul genere che parte il pensiero critico di Butler sulla politica; genere come gabbia e possibilità. Non è un caso che Olivia Guaraldo, nella Prefazione all’opera di Butler Judith 2004 La disfatta del genere, Meltemi Roma 2006 ponga come esergo la frase di Butler: «Il genere è il meccanismo attraverso cui vengono prodotte e naturalizzate le nozioni di maschile e di femminile, ma potrebbe anche rappresentare lo strumento tramite il quale decostruire e denaturalizzare tali termini».

5.2. Il fondamento (come postulato) della possibilità e delle prospettive: contro la tentazione, l’alibi e la scorciatoia del fatalismo l’emergenza della soggettività. Completando un’osservazione già riportata: «Sebbene il potere sociale stabilisca per quali perdite ci si possa addolorare, non è sempre così efficace come vorrebbe essere. La perdita non può essere interamente negata, ma non appare nemmeno in un modo che possa essere direttamente affermata. I “lamenti” del melanconico sono invariabilmente misdirezionati, eppure proprio in questo misdirezionamento risiede un nascente testo politico. La proibizione del dolore viene registrata dall’indirizzato come una perdita di parola. La sofferenza della perdita “accreditata” a colui che la patisce, al punto in cui la perdita viene intesa come una colpa o un danno che merita un risarcimento; si cerca risarcimento per i mali inflitti a se stessi, ma non lo si accetta da altri se non da se stessi. La violenza della regolamentazione sociale non si trova tanto nella sua azione unilaterale, quanto nella via tortuosa per la quale la psiche si auto-accusa del suo poco valore.» (Butler 1997 La vita psichica, 171-172)
Quindi la tesi comunque dell’emergenza della soggettività pur e nella sua intrinseca ambivalenza (prodotto del sociale che forma e assoggetta; sede in cui il potere sociale si sedimenta e agisce in termini di possibilità non previste né ipotecabili), nella sua emergenza: «Alcuni teorici psicoanalitici del sociale hanno argomentato che l’interpellazione sociale produce sempre un eccesso psichico che non può controllare; la produzione dello psichico come un distinto dominio psichico non può tuttavia annullare l’occasione sociale di tale produzione. […] Il potere imposto su un individuo è il potere che anima la sua stessa emergenza, e sembra non esserci via di fuga da questa ambivalenza. In effetti, sembra che non ci sia individuo senza ambivalenza, vale a dire che il raddoppiamento fittizio necessario per diventare un sé esclude la possibilità di un’identità precisa. Infine, allora, non può esserci ambivalenza senza perdita intesa come verdetto di socialità, verdetto che lascia la traccia del suo ripiegamento nella scena dell’emergenza di ogni soggetto.» (Butler 1997 La vita psichica, 184)
5.2.1. La diagnosi di Butler in un riferimento teorico ed empirico relativo alla tematica del genere: «… la coscienza non trova mai appagamento nella rinuncia, ma ne è paradossalmente rafforzata (“la rinuncia accresce l’intolleranza”, Freud 1929, pp. 610-619). La rinuncia non abolisce l’istinto; schiera l’istinto per i suoi obiettivi, in modo tale che la proibizione, e l’esperienza vissuta della proibizione come rinuncia ripetuta, sia nutrita proprio dall’istinto cui rinuncia. In questo scenario, la rinuncia richiede proprio l’omosessualità che condanna, [la richiede] non tanto come suo oggetto esterno, quanto come la sua più preziosa fonte di sostentamento. L’atto di rinunciare all’omosessualità rafforza così paradossalmente l’omosessualità, ma la rafforza precisamente come il potere della rinuncia. La rinuncia diviene lo scopo e il veicolo della soddisfazione. Potremmo quindi dire che è la paura di svincolare l’omosessualità da questo circuito di rinuncia che terrorizza enormemente i guardiani della mascolinità dell’esercito americano. Cosa “sarebbe” la mascolinità senza questo circuito aggressivo di rinuncia dal quale è plasmata? I gay nell’esercito minacciano di distruggere la mascolinità solo perché questa mascolinità è formata dall’omosessualità ripudiata.» (Butler 1997 La vita psichica, 136). Nella omofobia e nella ottusa e rabbiosa intolleranza con cui spesso si manifesta (e in svariate forme), così come nelle esibizioni machiste di mascolinità da preconfezione, è in azione una omosessualità rifiutata, non accettata che è diventata una paurosa ossessione nei confronti del suo ipotetico manifestarsi («l’omosessualità maschile disconosciuta culmina in una mascolinità accresciuta o consolidata, una mascolinità che mantiene il femminile come l’impensabile e l’innominabile.» Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 99); la mancata accettazione di sé (la rinuncia, anche se inconsapevole, anzi, ancor più se inconsapevole) diventa rabbioso rifiuto di tutto ciò che ricorda il sé mancato, represso, inaccettato e forcluso (per usare la chiara espressione di Hegel «non lo intende, ma lo desidera ed elabora» [Fenomenologia, Ragione 2.]; interpretando: desidera quella omosessualità forclusa e la rielabora in omofobia spinta da profonda melanconia); l’eterosessuale per scelta personale di genere non è omofobico (come l’omosessuale non è ovviamente né omofobico né antieterosessuale); l’omofobia si nutre di una pulsione omosessuale repressa e dunque operativa in forme ossessive ed estremizzate. [Emblematica la sessuofobia e omofobia rabbiosa e ottusa manifestata pubblicamente dal parroco di Lerici (Genova), “don” (!?) Piero Corsi, e del sito internet (Pontifex, e analoghi siti ultracattolici e neonazi) da cui ricava e sbandiera i suoi proclami dalle bacheche della chiesa; il caso è del dicembre 2012.
E quanta forclusione c’è nel machismo omofobico di Vladimir Putin vista l’ottusa intolleranza e ostentata esibizione di muscoli con cui si esprime e legifera, senza mostrare nemmeno la più lontana ombra di dubbio (segno forse, per lui, di debolezza non maschile)?]
«Nella misura in cui gli attaccamenti omosessuali rimangono non riconosciuti entro l’eterosessualità normativa, essi non sono meramente costituiti come desideri che emergono e che successivamente vengono proibiti; piuttosto, questi desideri sono proscritti dall’inizio. […] Come tali, non saranno attaccamenti che possano essere pianti apertamente. […] E questa assenza produce una cultura di melanconia eterosessuale, melanconia che può essere letta nelle identificazioni iperboliche per mezzo delle quali la mascolinità e la femminilità eterosessuali mondane confermano se stesse. […] L’uomo eterosessuale diventa — mima, cita, si appropria — o assume la forma dell’uomo che non ha “mai” amato e “mai” pianto; la donna eterosessuale diventa la donna che non ha “mai” amato e “mai” pianto. È in questo senso, allora, che ciò che è apparentemente inscenato come genere è segno e sintomo di un disconoscimento pervasivo.» (Butler 1997 La vita psichica, 140)
5.2.2. Né fatalismo consegnato al dato dominante, né decisionismo creazionistico astratto dai dati storici e sociali. Decostruire non è il piglio del distruggere per poi creare ex-nihilo; Butler richiama un praticabile e critico processo decostruttivo. «Originale è, del resto, la sua pratica decostruttiva; fare e disfare il genere non sono attività creatrici e, per così dire, demiurgiche, come se a ciascuno fosse possibile pensarsi e realizzarsi ex nihilo. Butler afferma infatti che nessuno può rifare (non a caso il verbo usato qui è “to remake”) il mondo o se stessa come se ne fosse l’artefice. La fantasia di onnipotenza, implicita nel desiderio demiurgico di creare la propria identità, erroneamente scambia l’autonomia individuale, la possibilità del cambiamento, della trasformazione non solo personale ma anche sociale, con la necessità di fare tabula rasa dei propri legami e delle proprie imprescindibili appartenenze. La proposta della pensatrice americana è invece più complessa: “to do and undo one’s gender” significa quindi fare e disfare il genere sessuale non come se si trattasse di un prodotto fatto e finito, di cui ci si appropria o ci si sbarazza, ma come se nell’attività stessa del fare e disfare fosse in gioco la riconfigurazione costante dei parametri di intelligibilità che il gender produce. Detto altrimenti, il gender non è una fredda categoria di normalizzazione, ma un ambito di azione individuale e collettiva che può e deve costantemente essere occupato e contestato da soggetti e da pratiche a un tempo decostruttive e ricostruttive.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo, 11)

5.3. Va ricordato il piano indicato all’inizio («Un progetto come questo richiede che si pensi contemporaneamente a una teoria del potere e a una teoria della psiche» - Butler 1997 La vita psichica, 8) per mostrare «la transizione dalla considerazione della melanconia come un’economia specificatamente psichica alla produzione di un circuito di melanconia come parte dell’azione del potere regolatore.» (Butler 1997 La vita psichica,136). Cioè: «Se la melanconia sembra essere a primo avviso una forma di contenimento, un modo per internalizzare un attaccamento ostacolato dal mondo, stabilisce anche le condizioni psichiche per guardare al “mondo” stesso come organizzato contingentemente attraverso certi modi di forclusione.» (Butler 1997 La vita psichica, 137)
È in gioco la valenza politica della forclusione e della melanconia nei processi di assoggettamento sociale e di vera e propria biopolitica. A quei processi e alla loro logica operativa bisogna opporre la logica di nuove direzioni e non in modo estrinseco come se potesse esistere un fuori dal sociale a partire dal quale condurre osservazioni, esprimere giudizi e imporre (poiché solo di imposizione si tratterebbe) soluzioni e sistemi. Dunque si opera all’interno facendone emergere i tratti complessi ed esprimere le possibilità soffocate (rimosse e forcluse).

5.4. il progetto nell’ampiezza delle ricerche e delle opere di Butler
«Nelle sue principali pubblicazioni Butler esplora gli elementi costitutivi dell’esperienza umana, quando al centro viene posto il rapporto tra mancanza e possibilità. In Corpi che contano: i limiti discorsivi del sesso (1993), ne La rivendicazione di Antigone: la parentela tra la vita e la morte (2000), in Scambi di genere: identità, sesso e desiderio (1990), tale possibilità viene ricercata nella dimensione performativa, cioè prestando attenzione alla forma del possibile nella dinamica relazionale che lega e fonda i soggetti in un determinato contesto. Performatività del corpo, dell’identità sessuale, del linguaggio, vengono analizzate e politicamente assunte da Judith Butler sfidando e mettendo in discussione i canoni morali tacitamente accettati. Oltre al tema della possibilità, l’autrice, nel recente Vite precarie: contro l’uso della violenza come risposta al lutto collettivo (2004), affronta la questione attuale della precarizzazione e delle paure diffuse nella socialità umana.
La molteplicità del possibile che travalica la soggettività contingente si riconosce come tema costante della sua ricerca e i suoi lavori dal punto di vista epistemologico rappresentano una critica al fissismo. […] Nel bisogno di riconoscimento da parte dell’altro il soggetto depone parte della propria autonomia e ripone aspettative di riconoscimento, secondo Eugène Enriquez (1983), se consideriamo la sua fondamentale opera Dall’orda allo Stato. Alle origini del legame sociale. In quella dinamica prende forma il legame sociale come vincolo e possibilità.» (Butler 1997 La vita psichica, Postfazione: Dentro l’ambiguità. Un contributo di psicologia politica, Carla Weber, 187,188)
5.4.1. dunque «fare e disfare». «Fare e disfare, “to do and undo”, sono le pratiche di costruzione e decostruzione del sé, di accettazione e di rifiuto delle norme date, di composizione e scomposizione dell’identità che forgiano la nostra esistenza, caratterizzata com’è da una dipendenza costitutiva dall’esteriorità sociale.» (Butler Judith 2004 La disfatta del genere, Meltemi Roma 2006, Prefazione Olivia Guaraldo, 7; il titolo Undoing gender, Routledge, New-York-London, traducibile anche con “decostruzione del genere”, ricorda come il fare/disfare; la decostruzione è già un processo di gestione e costruzione del genere stesso in contesti e senza fine. «“disfare” [undo] le concezioni che dettano norme restrittive riguardo la vita sessuale e i generi sessuali.» Judith 2004 La disfatta del genere, 25)
5.4.2. Fare e disfare è quanto già quotidianamente facciamo e ci accade. È da questo fare e disfare come un diritto dovere, scelta o sorte personale che deve ripartire (partire in continuazione) il pensare rivolto al politico e ogni tentativo di costituirlo secondo giustizia.
«Nella misura in cui si attribuisce al gender una collocazione socialmente e culturalmente data, presupposta come immutabile, si fa un’operazione di violenza simbolica e fisica che forza i corpi all’interno di categorie che sono oppressive, perché costringono i desideri e le pratiche individuali—all’interno di un set già dato di possibilità. Il gender non è un dato, un assunto incontestabile, ma una norma che dipende dalla sua stessa ripetibilità. Il gender, si potrebbe dire, chiede di essere contestato nella sua rigidità, e di essere reimpiegato per fini liberanti. Solo nel momento in cui il gender subisce una sconfitta, una dis-fatta, esso diviene il terreno di una lotta emancipativa. Ma tale disfatta del gender non è da intendersi come un obiettivo da perseguire una volta per tutte, bensì è essa stessa un’incessante attività, un disfacimento, un “divenire di-sfatti” (becoming undone) che viene costantemente rimesso in scena, ri-performato. La circolarità del processo, decostruttivo ed emancipativo a un tempo, testimonia della contingenza stessa dei desideri di soggetti sempre nuovi. Il movimento all’infinito, di una liberazione mai oggettualmente posseduta ma sempre perseguita, in una sorta di asintotico tendere verso il meglio, è, di nuovo, genuinamente hegeliano.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo, 13-14)

In appendice: l’attenzione che si deve avere nei confronti di movimenti per il riconoscimento di posizioni e di diritti identitari, intesi all’insegna della libera determinazione di sé, che rischiano di trasformarsi in macchine di negazione della libertà e di (inconsapevole) subordinazione
0.1. Occorre attivare una attenzione e una cautela preliminare e generale nei confronti degli obiettivi di movimenti libertari e delle rivendicazioni dei diritti di appartenenza culturale (di carattere vario: politico, linguistico, ideologico, religioso, di genere, sessuale… come nel passo ora riportato): «La lotta per il riconoscimento dei diritti e dei desideri delle cosiddette minoranze sessuali si muove, come è noto, sul sottile crinale del binomio sapere/potere: il gender serve per rivendicare diritti e con essi il riconoscimento, la realtà esistenziale a esso legata (senza riconoscimento, non c’è realtà, non c’è senso di sé e non c’è nemmeno desiderio); il gender, però, può anche costringere entro le rigide griglie del suo funzionamento disciplinante, ovvero può assoggettare proprio nel momento in cui da la possibilità di una soggettivazione, del pensarsi come soggetti.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo,14) La lotta per il riconoscimento dei diritti delle minoranze (o in generale delle specificità di sesso e di genere), delle libere associazioni sociali e nel sociale non può comportare una consegna di sé, della persona, del soggetto, alle identità precostituite dalle comunità e dai movimenti di lotta; la contraddizione che ne deriverebbe è palese: la lotta per l’emancipazione consacra la riduzione della persona alla schiavitù o a una dipendenza eterodiretta, magari in nome della fedeltà ad una propria appartenenza, di una dedizione totale per una causa. Il pullulare di fondamentalismi libertari costituisce forse oggi la più pericolosa macchina di assoggettamento e negazione delle libertà e delle persone; sudditanze imposte in nome di fedeltà totali ad una cultura, una fede, una tradizione, una appartenenza… pena l’accusa di tradimento e la relativa (sempre tragica e delittuosa) condanna. Situazioni che possono verificarsi anche all’interno di “gloriosi” movimenti di lotta e di emancipazione.
Di contro, movimenti di rivendicazione possono esercitare un enorme potere critico e liberante nei confronti del modo con cui la società e le norme comuni e interiorizzate tendono a costringere (con effetti di nevrosi oltre che di malinconia) genere e sessualità, desideri e affetti, bisogni e progetti entro asfittici canali preordinati. È cioè troppo rilevante la potenza critica dei movimenti citati (in sigla GLBQTI) per il rinnovamento e la liberazione dell’eterosessualità: «Sarebbe un errore affermare che sono contraria all’eterosessualità. Sono solo persuasa che essa non appartenga esclusivamente agli eterosessuali. Inoltre, le pratiche eterosessuali non corrispondono alle norme eterosessuali; è la normatività eterosessuale che mi preoccupa e costituisce la ragione principale della mia critica.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 232)
Tre settori oggetto di particolare attenzione: Judith Butler si esprime con attenzione critica nei confronti dei movimenti femministi della seconda metà del ‘900 (ricambiata con giudizi rabbiosi da parte del movimento), nei confronti della richiesta di matrimoni gay e sulle tesi circa l’istituto “naturale” della famiglia. (Testi da Butler e letteratura tematica sull’argomento)
1. La questione femminile e i tranelli insiti nelle posizioni (in alcune posizioni tradizionali e spontanee) del femminismo.
«I dibattiti femministi contemporanei sui significati del genere conducono di tanto in tanto a un certo senso di agitazione o a un certo timore dei guai, come se l’indeterminatezza del genere potesse alla fine culminare nel fallimento del femminismo.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere,XXXV)
«La critica femminista dovrebbe anche comprendere come la categoria delle "donne", il soggetto del femminismo, venga prodotta e frenata dalle stesse strutture di potere mediante le quali si cerca di ottenere l’emancipazione.
La questione delle donne come soggetto del femminismo prospetta infatti la possibilità che non esista un soggetto “prima" della legge, in attesa di essere rappresentato nella o dalla legge. Il soggetto, insieme con l’invocazione di un "prima" temporale, è forse costituito dalla legge come fondamento fittizio della sua pretesa di legittimità. La supposizione prevalente dell’integrità ontologica del soggetto prima della legge potrebbe essere intesa come il residuo contemporaneo dell’ipotesi dello stato di natura, la favola fondazionalista costitutiva delle strutture giuridiche del liberalismo classico. L’invocazione performativa di un "prima" astorico diviene la premessa fondazionale capace di garantire un’ontologia presociale delle persone che acconsentono liberamente a essere governate e, dunque, costituiscono la legittimità del contratto sociale.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 5) «Sarebbe sbagliato credere in anticipo nell’esistenza di una categoria delle "donne" che deve semplicemente essere riempita con varie componenti di età, razza, classe, etnicità e sessualità per divenire completa. L’ipotesi della sua incompletezza essenziale permette a quella categoria di fungere da sito sempre disponibile di significati contestati. L’incompletezza definitrice della categoria potrebbe allora fungere da ideale normativo sgravato dalla forza coercitiva. L’"unità" è necessaria per un’azione politica efficace? L’insistenza prematura sull’obiettivo dell’unità è causa di una frammentazione ancora più amara? Certe forme di scissione potrebbero facilitare l’azione coalizionale proprio perché l’"unità" della categoria delle donne non è presupposta né auspicata. Senza l’aspettativa obbligatoria che le azioni femministe vengano istituite a partire da un’identità stabile, unitaria e concordata, quelle azioni potrebbero mettersi in moto più velocemente e sembrare più opportune a un gruppo di "donne" per cui il significato della categoria è costantemente incerto.» (Butler 1990, 1999, Scambi di genere, 20-21)
«Il processo di riconoscimento, una volta liberato dalla presa normalizzante del paradigma eterosessuale — e delle proibizioni edipiche che funzionano solo in riferimento a esso — si fa plurimo, strutturandosi attorno a nodi di relazionalità che eccedono la diade madre/ figlio/a.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo, 14)
Conferma in contesto di dibattito: «Nella posizione post-strutturalista elaborata da Moi (1985b) e nel pensiero critico francese (in particolare, Butler [!? Nata in USA], 1990b), troviamo un rifiuto dei fondamenti biologici e trans-storici della sessualità e del genere, a cui si è fatto ricorso per legittimare le rivendicazioni del potere maschile; ma troviamo anche un’obiezione a un’idea di identità di genere come entità reificata, integrata e coerente, anche quando questa idea si esprime negli appelli femministi a un’identità femminile naturalizzata o a una specifica differenza femminile.» (Benjamin Jessica 1998 L’ombra dell’altro. Intersoggettività e genere in psicoanalisi, Bollati Boringhieri, Torino 2006, 60)
«La forza del pensiero critico di Butler sta dunque nel contestare le frames di intelligibilità all’interno delle quali si viene collocati, rifiutarne la presa normalizzatrice e violenta… […]
Ma nel contestare quelle cornici di intelligibilità si deve anche essere consapevoli della loro funzione riconoscitiva. […] … la posizione di Butler si sforza di chiarire che le norme e le regole attraverso cui il potere e il sapere operano non sono incontestabili, non sono immodificabili. Esse possono venire, in qualche modo, emendate, modificate, allargate, così da garantire riconoscimento a chi non ne ha mai avuto, ma anche in modo da poter ampliare la sfera della realtà e accogliervi le vite precarie che vi facevano comparsa intermittente. […] Il paradosso del gender si colloca proprio in un’imprescindibile temporalità a cui consegna la propria inevitabile ripetizione: laddove il gender subisce una disfatta, o, come direbbe Butler, esperisce un “becoming undone”, un “divenire disfatto”, esso inizia a funzionare come strumento emancipativo, liberante.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo, 16-17)
Da parte del movimento femminista, ormai antico nella sua forma prima, ma certo non terminato nel suo ruolo di sensibilizzazione politica e sociale, non c’è ragione di adirarsi o di guardare con sospetto le osservazioni critiche di Butler «se per femminismo si intende innanzitutto una pratica trasformativa. Nessuna più di Butler, potremmo azzardare, ha colto del femminismo questa essenziale, vitale, cruciale caratteristica e ne ha rinnovato la portata. In questo senso, è possibile affermare che le figure dell’alterità a cui Butler fa riferimento, dai transgender ai transessuali, dalle lesbiche ai gay, dagli intersessuali ai travestiti, possono essere letti come incarnazioni di un desiderio a cui il femminismo radicale ha per primo dato voce: assumere diverse identità, esplorare le infinite possibilità della propria auto-espressione, liberandole dalle maglie oppressive e normalizzatrici del ruolo sociale o della normalità biologica, rivendicando per esse uno statuto di realtà.» (Judith 2004 La disfatta del genere, Prefazione Olivia Guaraldo, 17)
Il femminismo, insomma, intende denunciare e abbattere la logica di dominio, sottomissione ed esclusione, non si candida a sostituire nel ruolo chi la esercita. Osserva J. Habermas: «Questo è il vero tema che, più o meno consapevolmente, unisce tra loro le diverse correnti del femminismo radicale a partire dagli anni Settanta. Questo femminismo protesta contro l’identica premessa che è sottesa alle politiche di parificazione sia dello Stato sociale sia dei movimenti liberali, vale a dire contro l’assunto che l’equiparazione dei sessi sia raggiungibile all’interno del quadro istituzionale esistente e all'interno di una cultura dominata e definita dai maschi. Ogni specifica regolamentazione mirante a bilanciare gli svantaggi femminili — sul mercato o sul posto di lavoro, nel matrimonio o dopo il divorzio, nelle questioni di sicurezza sociale o di assistenza sanitaria, di molestia sessuale o di pornografia, e così via — si fonda sulla maniera d'interpretare quella diversità di situazioni ed esperienze che è tipicamente legata al sesso. Nella misura in cui il legislatore e la magistratura si orientano qui a modelli tradizionali d'interpretazione, il diritto regolativo consolida i preesistenti stereotipi dell’identità sessuale. Ma quando producono questi «effetti di normalizzazione», i poteri legislativo e giudiziario diventano essi stessi parte del problema che vorrebbero risolvere. » (Habermas Jürgen 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996, 501). Non una emancipazione che consegna l’“emancipato” ai suoi stessi stereotipi di differenze, di gerarchie e di dominio sociale. Infatti: «La classificazione dei ruoli sessuali e delle differenze relative al sesso tocca strati fondamentali dell’autocomprensione culturale d'una società. Il femminismo radicale ha messo in luce il carattere fallibile e sostanzialmente discutibile di quest’autocomprensione.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 504)
«La cornice femminista che considera la dominazione strutturale delle donne come il punto di partenza da cui debba procedere ogni altra analisi di genere mette a repentaglio la possibilità della propria realizzazione, rifiutando di riconoscere i vari modi in cui il genere emerge come questione politica, portando con sé una determinata serie di rischi sociali e fisici. […] Il fatto che il femminismo abbia sempre combattuto la violenza, sessuale e non, nei confronti delle donne, dovrebbe servire come base di alleanza con gli altri movimenti, dal momento che la violenza fobica contro i corpi rappresenta il punto di unione dell’attivismo antiomofobico , antirazzista, femminista, trans e intersessuale.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 33-34)
Afferma D.L.Rhode: «L'impegno per la parificazione sessuale, dopo aver prodotto il movimento delle donne, oggi è diventato insufficiente a esprimere tutti i valori nati da quel movimento.» (D.L.Rhode, 1989, Justice and Gender, 317; in Habermas 1992 Fatti e norme, 506)
In conclusione e come slogan di progetto: «Il femminismo concerne la trasformazione sociale delle relazioni di genere.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 237)

2. La rivendicazione di matrimoni gay: «I recenti tentativi di favorire i matrimoni lesbici e gay incoraggiano anche una riforma che minaccia di rendere illegittime e abiette quelle intese sessuali che non sono conformi alla norma matrimoniale, sia nella sua forma esistente che in una possibile forma riveduta. Allo stesso tempo, le obiezioni omofobiche, nei confronti dei matrimoni lesbici e gay, si estendono, attraverso la cultura, sino a intaccare ogni tipo di diversità sessuale. L’approccio critico, pertanto, deve domandare: come è possibile opporsi all’omofobia senza abbracciare la norma matrimoniale come l’esclusiva, o come la più rispettabile, sistemazione sociale per coloro che hanno una vita sessuale non conforme alla norma?» (Judith 2004 La disfatta del genere, 29) In altri termini perché le relazioni omosessuali devono legare la propria individuale sociale e giuridica realizzazione e il proprio riconoscimento a forme istituzionali operanti per lo più in ambito eterosessuale, come il matrimonio, peraltro estremamente diverse, non garanti del successo delle unioni che attivano e suscettibili di molte riserve critiche? Si rischia, così facendo, di annullare il potenziale di innovazione e di mutamento che può provenire per il matrimonio proprio da forme di unione meno irrigidite che sorgono a definire nuove forme di unione. Esemplare è l’esperienza francese: i Pacs, nati per lo più allo scopo di garantire un riconoscimento riconoscimento giuridico alle coppie omosessuali, sono diventati la forma più adottata dalle coppie eterosessuali in sostituzione della forma del matrimonio, e la legge che istituisce i matrimoni gay viene poco utilizzata da coppie omosessuali.
2.1. In modo più generale (e in ripresa), le rivendicazioni delle minoranze svolgono ruoli di liberazione nel momento in cui mettono in questione il tema di identità che si presentano come strade uniche per la realizzazione di sé, minimizzando i rischi repressivi, fondamentalistici, violenti (identità e violenza) e il pericolo che esse rappresentano per il senso civico sociale del bene comune; «… le rivendicazioni della teoria queer siano da contrapporre alla legislazione forzata dell’identità. […] Nello stesso modo in cui una vita per la quale non esistono categorie di riconoscimento non è una vita vivibile, così una vita per la quale tali categorie sono un’insopportabile costrizione non può rappresentare un’alternativa accettabile. […] Ciò che davvero importa è cessare di legiferare per tutti imponendo qualcosa che è vivibile solo per alcuni e, similmente, smettere di vietare a tutti ciò che risulta intollerabile solamente ad alcuni.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 32, 33)
2.2. Ancora in modo generale: la legittimazione; il suo ruolo di garanzia (e il diritto ad essa) e il suo potere escludente. «Essere legittimati dallo Stato significa entrare a far parte dei termini della legittimazione offerta e scoprire che la percezione di sé in quanto persona, pubblica e riconoscibile, dipende essenzialmente dal lessico di tale legittimazione. Ne consegue che la delimitazione della legittimazione potrà avvenire solamente attraverso un certo tipo di esclusione, anche se non di carattere palesemente dialettico. L’ambito di un’unione legittima e intima viene stabilito mediante la produzione e l’intensificazione di zone di illegittimità. Tuttavia, è qui all’opera una chiusura più fondamentale. La dimensione sessuale viene a essere fraintesa, qualora si creda che ciò che è legittimo e ciò che è illegittimo possano esaurire le sue possibilità immanenti. Al di fuori della lotta tra legittimità e illegittimità — la quale si propone di convertire l’illegittimo in legittimo — esiste un campo che è più difficile da concepire, il quale non viene configurato in base alla sua convertibilità finale in ciò che è legittimo. Si tratta di un campo che eccede la distinzione tra illegittimo e legittimo; non è ancora stato concepito come una dimensione, una sfera, un campo; non è già legittimo o illegittimo; non è ancora stato esplicitamente formulato nel discorso della legittimità. In effetti, si tratta di una dimensione sessuale che non ha come punto di riferimento, o come ultimo desiderio, la legittimità. Il dibattito sul matrimonio gay avviene secondo questa logica, poiché è possibile notare che esso si riduce quasi istantaneamente alla domanda se il matrimonio debba essere di diritto esteso agli omosessuali. Ciò significa che il campo sessuale viene a essere circoscritto in maniera che la sessualità sia già concepita in termini di matrimonio e il matrimonio in termini di acquisizione di legittimità.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 135)
2.2.1. Il prender forma del vasto campo della illegalità e della esclusione. «Nel caso del matrimonio gay, o di unioni legali affiliative, è possibile notare come le varie pratiche e relazioni sessuali che non rientrano nei dispositivi sanciti dalla legge diventino illeggibili o, peggio, insostenibili, e emergano nel discorso pubblico delle nuove gerarchie. Tali gerarchie non solo rafforzano la distinzione tra le vite queer legittime e quelle illegittime, ma producono anche un’implicita distinzione tra le varie forme di illegittimità. La coppia stabile che desidererebbe sposarsi, se solo potesse, viene considerata illegittima, ma ha i requisiti per una futura legittimità, mentre la rappresentanza sessuale di coloro che agiscono al di fuori dei dispositivi del legame matrimoniale e della sua riconosciuta, seppur illegittima, forma alternativa, costituisce al presente delle possibilità sessuali che non avranno mai i requisiti necessari per il passaggio alla legittimità. Si tratta di possibilità che vengono sempre più trascurate in ambito politico, a causa della priorità assunta dal dibattito sul matrimonio. Si tratta di un’illegittimità, la cui condizione temporale deve essere preclusa da ogni possibile futura trasformazione. Essa non solo non è ancora legittima, ma si potrebbe dire che ne rappresenti l’irrecuperabile e irreversibile passato: ciò che non sarà mai, ciò che non è mai stato.» (Judith 2004 La disfatta del genere,135-136)
2.2.2. Il dilemma legittimità / illegittimità e la natura politica delle posizioni sociali, contro il (o in differenza nei confronti del) ruolo politico dello Stato e delle norme (evitando l’utopia dell’assenza o dissoluzione dello Stato e del politico, che si configura come una forma di forclusione della politica). «Si verifica di conseguenza una certa crisi normativa. Da un lato, è importante evidenziare come il campo della sessualità intelligibile ed esprimibile sia delimitato, in modo che le scelte extra-matrimoniali siano precluse, in quanto inconcepibili, e come i termini della concepibilità siano rafforzati dagli angusti dibattiti su chi e cosa verrà incluso nella norma. Dall’altro lato esiste sempre la possibilità di assaporare uno status di inconcepibilità, se si può definirlo status, come la condizione più critica, più radicale e più preziosa. In quanto sessualmente non rappresentabili, tali possibilità sessuali possono configurarsi come il sublime della dimensione attuale della sessualità, un luogo di pura resistenza, un luogo che non rientra nelle scelte normative. Ma come è possibile concepire la politica da questo luogo di non rappresentabilità? Per non essere fraintesa devo porre una domanda ugualmente pressante: come è possibile concepire la politica senza prendere in considerazione tali luoghi di irrappresentabilità?» (Judith 2004 La disfatta del genere,136) «Il fallimento del tentativo di assicurare un riconoscimento statale alle proprie relazioni intime può essere vissuto solo come una forma di de-realizzazione, se i termini della legittimazione statale hanno il controllo egemonico sulle norme di riconoscimento. Se lo Stato, in altre parole, monopolizza le fonti di riconoscimento. Esistono altri modi per potersi sentire possibili, intelligibili e anche reali, al di fuori della sfera di riconoscimento statale? Non sarebbero forse auspicabili? […] In effetti, richiedere il riconoscimento statale significa, in verità, restringere il campo di riconoscibilità degli assetti sessuali legittimi, rafforzando così lo stato come fonte delle norme di riconoscimento e obliterando le altre possibilità inerenti alla società civile e alla vita culturale. […] Quindi, sembra che fare appello allo Stato sia, al contempo, un appello a una fantasia già istituzionalizzata a livello statale, e un commiato dalla complessità sociale esistente, nella speranza di diventare finalmente “socialmente coerenti”. Ciò significa anche che esiste un luogo verso cui è possibile volgersi, che è chiamato “Stato”, il quale alla fine ci renderà coerenti.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 145-147)
2.2.3. La tentazione dell’utopia e il rilancio della concretezza critica. «Si può auspicare un lessico totalmente diverso. Sicuramente la storia del progressismo sessuale ricorre molto spesso alla possibilità di un nuovo linguaggio e alla promessa di un nuovo modo di essere. Ma alla luce di questo dilemma ci si potrebbe ritrovare a desiderare di dissociarsi dall’intera faccenda, per operare altrove, in una dimensione che non sia né legittima né illegittima, ma dove, tuttavia, la prospettiva critica, operando ai limiti dell’intelligibilità, rischia anche di essere considerata apolitica.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 136) «Il consiglio di porsi criticamente, di osare una certa criticità nella riflessione sulla costituzione della sfera sessuale, non intende certo suggerire che si potrebbe, o dovrebbe, occupare un altrove atopico, indefinito e totalmente libero.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 137)
2.2.4. La delicatezza della politica nelle aree ineliminabili (e criticamente salvifiche) dei non-luoghi (la definizione antropologica di non-luogo), regioni dalla ontologia incerta, aree di transizione, zone di mezzo … delle formazioni ibride non riducibili ai confortanti (e semplificanti) binarismi delle prassi del definire e del giudicare secondo norme. Si tratta di zone in cui, forse, la politica coglie autenticamente la propria sfida e il proprio ruolo. «Persino all’interno dell’ambito di una sessualità intelligibile è possibile rilevare come i binarismi, che fissano i suoi dispositivi, consentano delle zone di mezzo, delle formazioni ibride, suggerendo che la relazione binaria non esaurisca il campo in questione. In effetti, esistono delle regioni intermedie, regioni ibride di legittimità e illegittimità, che non hanno un nome preciso, dove la stessa denominazione viene messa in crisi dai mutevoli, e a volte dispotici, confini delle pratiche di legittimazione che spesso sono a disagio e, a volte, in conflitto l’una con l’altra. Non si tratta esattamente di luoghi in cui si sceglie di soffermarsi, o di posizioni soggettive che si decide di occupare. Si tratta di non-luoghi, in cui ci si trova a essere a dispetto di se stessi; di certo sono dei non-luoghi in cui il riconoscimento, incluso l’autoriconoscimento, si rivela precario, se non irraggiungibile, malgrado gli sforzi migliori di divenire un soggetto in una certa misura riconoscibile. Essi non rappresentano dei luoghi di enunciazione, ma degli spostamenti nella topografia dalla quale emerge un’affermazione percepibile in modo dubbio: l’affermazione del non-ancora-soggetto, di chi è solo approssimativamente riconoscibile.
Il fatto che vi siano tali regioni, che non rappresentano esattamente delle scelte, indica che ciò che rende problematica la distinzione tra legittimità e illegittimità sono le pratiche sociali, specificamente le pratiche sessuali che non appaiono come immediatamente coerenti nel lessico di legittimazione a disposizione. Si tratta di luoghi dall’ontologia incerta, di difficile denominazione. Sebbene possa sembrare che io ora auspichi e celebri tali luoghi, in realtà l’obiettivo che intendo raggiungere è un po’ diverso, ed è quello di occuparmi della forclusione del possibile che ha luogo quando, pressati dalla necessità di avanzare pretese politiche, si adottano le scelte che risultano maggiormente leggibili all’interno del campo sessuale. Prestare attenzione a tale forclusione, in quanto atto politico involontariamente, e ripetutamente, messo in scena, offre la possibilità di concepire diversamente la politica, guardando alla propria esclusione come a un effetto del proprio deliberato attivismo.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 137-138)
2.3. Sul tema specifico: «Per quanto riguarda l’argomento del matrimonio gay, diventa sempre più importante tenere viva la tensione tra il mantenimento di una prospettiva critica e l’affermazione di una pretesa politicamente leggibile.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 138)
«Essere politici non significa semplicemente assumere una singola e stabile "posizione". Ad esempio, non è sempre facile dire se si è favorevoli o contrari al matrimonio gay, poiché può essere che si desideri assicurare il diritto a coloro che vogliono farne uso, anche se non si è personalmente interessati, oppure che si desideri contrastare l’omofobia che si scaglia contro il matrimonio gay, anche se non si intende per questo schierarsi a favore di esso. O può anche essere che si sia fortemente convinti che il matrimonio rappresenti la via migliore da seguire per lesbiche e gay, e si desidererebbe quindi vederla insediata come nuova norma per il futuro. O può anche accadere che lo si contesti non solo a titolo personale, ma anche collettivo, e che il compito da realizzare riguardi il rifacimento e la revisione dell’organizzazione sociale dell’amicizia, dei contatti sessuali e della comunità al fine di creare forme di sostegno e di unione che non siano accentrate sullo Stato. Il matrimonio, infatti, dato il suo peso storico, diventa una "scelta" solo estendendo la sua funzione normativa (e dunque impedendo la scelta), la quale si estende anche alle relazioni di proprietà e rende le forme sociali della sessualità più conservatrici. Per un movimento sessuale progressista, anche per uno che intenda rendere il matrimonio un’opzione disponibile anche ai non-eterosessuali, l’idea che esso debba diventare l’unico modo attraverso cui decretare o legittimare la sessualità risulta intollerabilmente conservatrice. Persino quando la questione non riguarda il matrimonio, ma il contratto legale, ovvero la trasformazione dei diversi legami domestici in contratti legali, persistono tuttavia alcuni interrogativi: perché il matrimonio o il contratto legale devono diventare il fondamento in base al quale, ad esempio, vengono assegnati i benefici dell’assistenza sanitaria? Perché non dovrebbero esserci dei modi per regolare il diritto all’assistenza in maniera che tutti possano accedervi senza tener conto dello stato coniugale? Considerando il matrimonio come un modo per assicurare tale diritto, non si lega l’esercizio di un diritto fondamentale come quello sanitario alla condizione matrimoniale? Cosa comporta questo per la comunità dei non coniugati, dei single, dei divorziati, di coloro che non sono interessati al matrimonio, di coloro che non sono monogami? Che riduzione subirà la leggibilità della sfera sessuale una volta che il matrimonio venga considerato la norma?» (Judith 2004 La disfatta del genere, 138-139)
2.4. In conclusione: «Intendo tenere ferma l’ambivalenza della legittimazione; è essenziale a livello politico rivendicare il diritto all’intelligibilità e alla riconoscibilità, ed è altrettanto essenziale mantenere una relazione critica e trasformativa con le norme che decreteranno quali unioni e parentele godranno di intelligibilità e riconoscibilità. Quest’ultimo punto di necessità prevede anche un approccio critico al desiderio di legittimazione in quanto tale.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 147)
«… consentire che il matrimonio e la famiglia, o anche la parentela, stabiliscano i parametri esclusivi entro cui pensare la vita sessuale costituirebbe una drastica limitazione della politica sessuale progressista. […] Se queste sono, ai nostri occhi, questioni decisive, e sappiamo da quale parte stiamo, significa che abbiamo acconsentito ad avallare un campo epistemologico strutturato a partire da una perdita fondamentale, che non riusciamo più nemmeno a nominare né a compiangere. La vita della sessualità, della parentela e della comunità, che diviene impensabile nei termini di queste norme, costituisce l’orizzonte perduto di una politica sessuale radicale, e la propria via, “politicamente” parlando, la si può trovare sulla scia di ciò che non può essere compianto.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 161) Il quesito critico dunque è: perché consegnare le possibili e dinamiche relazioni di genere ad un unico modello storico, non preso in esame nella sua natura specifica, avallando la convinzione che sia un modello naturale e quindi l’unico ?
2.4.1. Ritorna il tema centrale della forclusione. Forclusione: non negazione di una pratica, ma esclusione dalla sua presa in considerazione, rimozione dal campo delle possibilità e quindi restrizione inconsapevole del campo delle potenzialità; processi attuati anche (e soprattutto) attraverso una (richiesta di) prassi di normatività (normazione) sempre più estesa che, nell’intento di ammettere alla legittimità nuove forme di genere finora escluse e discriminate finisce per evidenziare il campo dell’esclusione e stigmatizzare ciò che non è conforme alla norma; l’istanza normativa, che offre legittimità, fissa anche inevitabilmente i criteri di ammissione alla legittimità e dunque indica il vasto campo di ciò che non è ammissibile. Se, alla Wittgenstein, tale prassi è indispensabile e salvifica nel campo del sapere scientifico e dei suoi ambiti di teoria, non lo è nel campo dell’umano e dell’esperienza sociale; si rischia l’ignoranza, l’intolleranza e forse la biopolitica nel senso più pervasivo e totalizzante del termine.
2.4.2. La questione può proporsi alla riflessione ricostruendo il bivio di fronte al quale è pensabile ci si trovi.
2.4.2.1. La prima strada: occorre prendere atto di come si modifica la concezione etica e giuridica del matrimonio sulla base di quanto storicamente sta emergendo. «Lo spostamento dell'accento sulla relazione di coppia produce ulteriori cambiamenti. Tre sono particolarmente importanti. Il primo, e in certo modo paradossale, è l’indebolimento del matrimonio. Se il benessere della coppia, la qualità della relazione di coppia, diventa un valore e un fine, il venir meno di questa qualità, o la sua insussistenza, legittima la rottura. Non si tratta di egoismo, o di mancanza di spirito di sacrificio, come si sarebbe detto in altri tempi e come tuttora dice il magistero della chiesa. Al contrario, si tratta di fedeltà alla nuova concezione del matrimonio e all'importanza che viene data in esso al benessere dei partner. Se questo obiettivo non è raggiunto in modo soddisfacente, o se i coniugi non hanno maturato le capacità necessarie a costruirlo e adattarlo nel tempo e nel mutare delle loro condizioni lungo una vita che diventa sempre più lunga, viene a mancare il fondamento stesso che legittima culturalmente ed emotivamente la continuità della relazione. Persino le norme giuridiche si sono adattate a questo cambiamento culturale, nella misura in cui in tutti i paesi avanzati non esiste più il divorzio (o la separazione) per colpa, ma basta la dichiarazione, anche di uno solo dei due coniugi, di non più sostenibilità del rapporto. Il secondo cambiamento, nel senso comune, nell'esperienza soggettiva, e in molti paesi anche nella legislazione, riguarda la progressiva equiparazione della coppia di fatto alla coppia coniugale, nella misura in cui il fondamento di entrambe è lo stesso, appunto l'impegno e l'investimento emotivo reciproco. Il terzo cambiamento riguarda l'indebolimento dell'eterosessualità come unico fondamento di una relazione di coppia. Se sono l'intenzionalità e l'affetto reciproco a fondare legittimamente un rapporto di coppia, dove questi elementi ci sono, esiste una coppia, indipendentemente dal sesso di chi ne fa parte. L’assenza di capacità riproduttiva in quanto coppia non può essere considerata un impedimento, dato che l'assenza di figli, intenzionale o di fatto, non toglie valore alla coppia in quanto tale anche per gli eterosessuali. […] La coppia, dopo essere diventata la relazione strutturante la vita quotidiana degli adulti nelle società sviluppate, per molti abitanti di queste stesse società è divenuta una condizione intermittente/sequenziale, oltre che assente per larghi tratti della vita adulta. La sua dimensione istituzionale rimane tuttavia potente a livello simbolico, oltre che normativo. Essere e farsi riconoscere come coppia è l'aspirazione di chi sta in una relazione intima.» (Saraceno Chiara 2012 Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Feltrinelli, Milano, 54-55,56) Sulla base di queste trasformazioni del matrimonio (nella prassi, non ancora nel diritto) e della centralità dei legami affettivi diventa difficile continuare ad escludere il legame matrimoniale per coppie omosessuali.
2.4.2.2. La seconda strada. Si difende la specificità del legame eterosessuale con riferimenti vari, compresa la tradizione etica e giurisdizionale, come tratto unico e riservato, in grado di fissare la natura particolare di una relazione (come nel riferimento alla Costituzione italiana, art. 29 «la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio».) In tal caso è necessario colmare il vuoto legislativo se la norma non dispone di forme in grado di accogliere, riconoscere e garantire i diritti delle relazioni sociali affettive che si costituiscono diversamente dalla forma del matrimonio e richiedono il riconoscimento sociale dell’unione per i diritti che esso può comportare. Puntuale l’osservazione di Chiara Saraceno: «Non è la coppia come forma relazionale a essere in crisi, ma l'esclusività delle relazioni cui viene attribuito il riconoscimento sociale di coppia.» (Saraceno 2012 Coppie e famiglie, 56) Un dato normativo in tale direzione: «Del resto, la stessa Costituzione italiana, il cui articolo 29 è assunto come fondamento di una definizione univoca di famiglia, in realtà all'articolo 30 stipula che non solo la relazione di coppia, ma anche quella di generazione dà vita a relazioni familiari vincolanti per legge. Si tratta dell'articolo che, superando le discriminazioni fino ad allora esistenti per legge, equipara i diritti dei figli "naturali" a quelli dei figli "legittimi". Distinguendo tra "famiglia naturale" (perché con filiazione non avvenuta entro un matrimonio) e "famiglia legittima" (ove i figli sono nati nel matrimonio tra i genitori), suggerisce che, per quanto riguarda i rapporti e le obbligazioni tra genitori e figli, il matrimonio dei genitori non è rilevante. Al punto che non solo si devono assumere obbligazioni genitoriali nei confronti dei figli che si hanno, a prescindere dal fatto di essere sposati, ma si può essere sposati con una persona e allo stesso tempo avere obblighi verso figli nati da un rapporto con un'altra con cui non si è mai stati coniugati. In questi casi, è la presenza di figli, non il matrimonio, che origina una famiglia, per quanto "solo naturale".» (Saraceno 2012 Coppie e famiglie, 58)

3. la questione della famiglia e i tranelli presenti nel concetto di famiglia come istituzione naturale
3.1. La prassi (il desiderio e il proposito) della naturalizzazione compare in tutti i contesti scientifici (da quelle più formali e astratte, come il campo della matematica [che trasforma la matematica in struttura della realtà], a quelle più empiriche e descrittive, come il campo delle scienze sociali [che presenta le proprie descrizioni in termini di pulsioni, istinti, passioni naturali]) si manifesta per abitudine, inconsapevolmente e perciò con forza nel linguaggio comune. È uno stratagemma facile (e perciò debole) per dare solidità alle proprie tesi, fondare le proprie teorie, attribuire alle costanti individuate il carattere di leggi naturali, rendere perciò necessarie le teorie costruite e i vincoli operativi che esse comportano. Husserl ha ampiamente dimostrato che un simile atteggiamento (da lui definito anche con l’espressione “caduta nell’obiettivismo”; Husserl Edmund 1954 La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, il Saggiatore, Milano 1961) è all’origine della crisi delle scienze.
3.2. Anche il diritto e l’etica non si sottraggono a tale prassi e sfruttano con frequenza e ampiezza la possibilità, offerta dalla naturalizzazione, di presentare i propri risultati e le proprie prescrizioni come leggi naturali (diritti naturali, leggi morali naturali), necessarie e vincolanti. Le stesse istituzioni tendono a presentarsi come naturali; una tra queste in particolare: la famiglia, considerata istituto naturale per eccellenza da Aristotele fino a Hegel. «La famiglia. Lo spirito etico, nella sua immediatezza, contiene il momento naturale, che cioè l’individuo ha la sua esistenza sostanziale nella sua universalità naturale, nel genere. Questa è la relazione dei sessi, ma elevata a determinazione spirituale;— è l’accordo dell’amore e la disposizione d’animo della fiducia;—lo spirito, come famiglia, è spirito senziente.» (Hegel G.W.F. 1817 Enciclopedia delle scienze filosofiche § 518)
All’istituto della famiglia come istituto naturale per molto tempo è stata consegnata in monopolio la sessualità rigorosamente eterosessuale e finalizzata alla procreazione; solo nella seconda metà del ‘900 ha avuto riconoscimento giuridico (e anche nel campo delle dottrine religiose, come nei documenti del Concilio Vaticano II della Chiesa cattolica) ciò che era già culturalmente affermato e anche vissuto: la natura affettiva, amorosa della sessualità; la famiglia è fondata (anche) sull’amore, ma sempre inteso nelle forme “naturali” dell’eterosessualità.
3.3. Le ricerche sociologiche sulla famiglia dimostrano come sia difficile individuare quale sia il nucleo naturale all’interno della estrema varietà con cui la famiglia si è costituita nelle varie epoche storiche e ancora oggi diversamente si costituisce. E, ciò che balza all’attenzione con una certa evidenza (anche intuitiva) è che la sessualità normata nelle forme del diritto e della prassi famigliare è quella meno naturale che esista.
La famiglia è un’istituzione definita da norme; che si tratti di coppie di fatto o di coppie che hanno voluto far emergere in riti e dichiarazioni pubbliche esplicite di impegno il proprio legame, le coppie rispettano nei fatti del vivere le norme che costituiscono la situazione sociale della famiglia così come viene socialmente riconosciuta e individuata; e «non è questione di natura» e nemmeno, da un certo punto di vista, di norme codificate e irrigidite. Osserva Butler: «… ci sono dei paradossi. ln Francia, la maggior parte delle famiglie è organizzata fuori del matrimonio tradizionale, ma allo stesso tempo le nuove riforme legislative insistono sulla preminenza della struttura familiare nucleare.» (Ferraris Maurizio (a cura di) Le domande della filosofia. Passione. Il desiderio reazionario. Conversazione con Judith Butler (2011), la biblioteca di Repubblica 2012, 87) Un bilancio sul tema è ricostruito per esempio dallo storico saggio di Fieman Betty 1964 La mistica della femminilità, Castelvecchi, 2012 (e la recensione che ricostruisce l’impatto dell’opera nel panorama culturale italiano del periodo scritta da Natalia Aspesi in occasione della nuova edizione, la Repubblica 12 aprile 2012), dagli studi di Beck Urlich, Beck-Gernsheim Elisabeth 1990 Il normale caos dell’amore, Bollati Boringhieri, Torino 1996, 2008; e, di recente, dalla studiosa Saraceno Chiara 2012 Coppie e famiglie. Non è questione di natura, Feltrinelli, Milano.
3.3.1. «Oltre la “famiglia naturale” . Alla ricerca (vana) di un minimo comun denominatore.
Sulla ricerca di un "nocciolo duro" della famiglia, persistente di là delle variazioni storiche e sociali — una sorta di “famiglia naturale" minima, fondata sulla natura umana, di cui le evidenze storiche e sociali rappresenterebbero delle semplici declinazioni — si sono affannati sociologi, antropologi ed etnologi. Ma l'esito di queste ricerche non ha prodotto risultati condivisi e generalizzabili. […]
… il legame biologico veniva riconosciuto come avente priorità solo se corrispondeva a determinate modalità comportamentali e assetti organizzativi.» (Saraceno 2012 Coppie e famiglie, 17, 20)
3.3.2. «Sono le norme a costruire la famiglia. Lungi dal riconoscere e dare forma giuridica a una "natura che esiste là fuori", quindi, la norma — sociale, religiosa, giuridica — oggi come sempre costruisce la famiglia (cfr. anche Okin 1989). È la norma che decide di volta in volta che cosa della "natura" è considerato socialmente legittimo (ad esempio la procreazione entro il matrimonio, l'eterosessualità coniugale) e ciò che non lo è (ad esempio la procreazione fuori dal matrimonio, fuori dal rapporto di coppia eterosessuale stabile, l'omosessualità), ciò che, esplicitamente artificiale (ad esempio l'adozione), o solo parzialmente naturale (una qualche forma di riproduzione assistita), costituisce una famiglia e ciò che invece non può accedere a questo riconoscimento.» (Saraceno 2012 Coppie e famiglie, 22)
3.3.3. «La comune “natura umana", in effetti, non sembra garantire alcuna universalità ai modi di fare famiglia, né sul piano biologico né su quello normativo, né, tantomeno, su quello valoriale e di senso. La storia delle civiltà presenta un pressoché inesauribile repertorio di modi di organizzare e attribuire significato alla generazione e alla sessualità, all’alleanza tra gruppi e a quella tra individui — di costruire, appunto, famiglie. Poligamia, poliginia e monogamia, patrilinearità e matrilinearità, sono solo alcune delle forme in cui si sono organizzati i rapporti di sesso e generazione socialmente riconosciuti … » (Saraceno 2012 Coppie e famiglie,13)
3.3.4. «In effetti, non vi è nulla di meno naturale della famiglia, sia per quanto riguarda i rapporti di coppia, inclusa la sessualità, sia per quanto riguarda la generazione. Gli studi di storia sociale, insieme a quelli antropologici ed etnologici, offrono un'ampia documentazione di quello che chiamerei il paradosso normativo della famiglia. In ogni società conosciuta e in ogni epoca troviamo forme di regolazione dei rapporti di sesso, di generazione e tra le generazioni, che individuano i rapporti familiari rispetto a quelli che viceversa non lo sono. In particolare, ogni società regola i rapporti di filiazione, ovvero a chi appartengono i figli. Regolano anche a chi è concesso avere figli, cioè instaurare un rapporto di generazione socialmente riconosciuto. Di conseguenza, regolano quale è lo statuto di chi viene al mondo a seconda che la generazione si produca o meno secondo le norme socialmente stabilite. Ma ciò avviene ed è avvenuto in modi così differenti nelle diverse società ed epoche storiche, che è impossibile ricostruire una vicenda unitaria di trasformazioni, all'interno della quale rintracciare il filo unitario della "famiglia". All'universalità dell'esigenza di definire appartenenze e obbligazioni lungo i due assi del sesso e della generazione non corrisponde una univocità di soluzioni, neppure a livello minimo. Al contrario, si potrebbe dire che, nel passato come nel presente e nelle varie culture, questo è il campo in cui l'umanità ha mostrato un'enorme capacità di inventare soluzioni istituzionali e normative, ben prima che le tecnologie riproduttive offrissero ulteriori elementi di complicazione e variazione. Sollevare un po' il velo dell'ovvietà che cela la complessità della famiglia come costituzione pienamente umana, e perciò non solo differente nello spazio e nel tempo, ma passibile di cambiamenti, è l’intenzione che muove queste pagine.» (Saraceno 2012 Coppie e famiglie, 15-16)

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Per concludere richiamando la direzione culturale e di proposta degli studi di Judith Butler:
«Le linee che tracciamo invitano a essere attraversate, e questo attraversamento, come ogni soggetto nomade sa, costituisce ciò che siamo.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 236)
«Mi chiedo, infine, che posto occupi, all’interno della teoria politica, il concetto di possibilità. Qualcuno potrebbe muovere delle obiezioni e dire che sto solo cercando di rendere possibile la complessità del genere. Il punto, tuttavia, non è stabilire nuove norme di genere come se vi fosse l’obbligo di fornire una misura, una norma che giudichi dei generi in competizione. Qui si tratta di un’aspirazione che ha a che vedere con la capacità di vivere, di respirare e di muoversi, e che, senza dubbio, potrebbe entrare a pieno titolo in una filosofia della libertà. Possono indulgere al pensiero di una vita possibile solo coloro che già sanno di essere possibili. Ma per coloro che stanno ancora cercando di diventare possibili, la possibilità rappresenta una necessità.» (Judith 2004 La disfatta del genere, 251)
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Appendice seconda
Ricostruzione argomentativa del tema forclusione, legata al tema della “disfatta” o gestione del genere, e al tema della conduzione politica del sociale (vita psichica del potere) come prende forma nella teoria di Butler. Impostazione che introduce il tema della forclusione come elemento analitico della destrutturazione e quindi gestione del genere come fatto socio-culturale di progettazione di sé, contro la tendenza (erronea e opportunistica) alla sua versione biologizzata o naturalizzata.
A fornirne una presentazione preliminare che permetta di cogliere le tesi di Butler è utile richiamare il significato e la funzione la forclusione assume nella teoria di Lacan, procedendo per passaggi centrali. (Note e spunti da: Recalcati Massimo 2012 Jacques Lacan. Volume I Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffello Cortina editore, Milano.

1. una concezione di fondo: Desiderio, godimento e soggettivazione (sottotitolo del primo volume pubblicato da Massimo Recalcati su Jacques Lacan) sono gli ambiti di ragionamento e ricerca della impostazione psicanalitica di Jacques Lacan. Ma la posizione di Lacan, osserva Recalcati, «non celebra affatto il godimento fine a se stesso della pulsione di morte — della ripetizione dello Stesso»; semmai indica «quel godimento che sa mantenersi connesso alla trascendenza del desiderio»; e si tratta di un godimento che, connesso con il desiderio senza annullarne la trascendenza, «può dare senso alla vita, può rendere la vita soddisfatta», è dunque collegato all’esigenza di senso che è anche il vivere. «“Desiderio” (“désir”) è il nome che Lacan attribuisce a questa possibilità di ritrovare un godimento svincolato dal narcisismo autistico dell’Uno e capace di potenziare la vita, di sottrarla al circolo vizioso dello Stesso e alle spirali mortifere della pulsione di morte.»
Quale godimento può davvero animare il vivere? Quello che sa mantenersi connesso alla trascendenza del desiderio e sa mantenere questa trascendenza. La situazione si muove dunque tra due estremi: non è piacere quello che si separa dal desiderio, ma è distruttivo il piacere che coincide o che si vuol far coincidere con il desiderio, annullando di fatto il desiderio, e ciò perché non ne sopporta la trascendenza. La coincidenza di piacere e desiderio o mette in luce la pochezza del desiderare o, se ricercata, genera mestizia e turbamento, spinge alla continua ricerca di una ossessiva ripetizione dell’identico quando si avverte (si percepisce non concettualmente) come non sia possibile che i due processi (godimento e desiderio) possano incontrarsi. In tal caso, entrambi si annullano e con loro perisce ogni individualità o ogni senso del vivere. Desiderio e piacere devono trovare un’alleanza; bisogna resistere e restare fedeli al proprio desiderio e occorre trovare la via giusta per far sì che il desiderio sia capace di recuperare un godimento in grado di rendere la vita soddisfatta, di promuovere la felicità; e questa è promossa se il godimento non viene negato e se il desiderio non viene annullato. Occorre dunque, di nuovo, «un godimento svincolato dal narcisismo autistico dell’Uno e capace di potenziare la vita, di sottrarla al circolo vizioso dello Stesso e alle spirali mortifere della pulsione di morte.» Vita e ricerca di senso, luogo di godimento e trascendenza del desiderio sono l’ambito dello sviluppo psichico (e quindi anche l’ambito anche di sviluppo delle psicosi, cioè dei processi di arresto di quello sviluppo).

2. Al centro della teoria psicanalitica di Freud vi è la convinzione che il definirsi della soggettività personale, nella sua forma complessa, passa attraverso il progressivo prender forma della pulsione libidica secondo logiche definite dal principio del piacere e dal suo confronto con il rivale principio della realtà, e ciò si attua solo attraverso un indispensabile e forte legame affettivo con la madre fino ad assumere la forma, quasi mitica, del conflitto di Edipo. In seconda istanza, è la figura tipologica del padre che mette fine alle fantasie del conflitto edipico e che «sancendo come impossibile il godimento incestuoso introduce nel soggetto una perdita che lo costituisce in quanto tale.» In questo intervento, «il padre non è solo l’agente della castrazione, non è solo il possessore (invidiato dai figli) della madre; non è solo il rivale amato-odiato dei suoi figli, ma è innanzitutto colui che, interdicendo il corpo materno come luogo di un godimento assoluto che finisce per imprigionare la vita in un legame simbiotico privo di ossigeno simbolico, apre nuove possibilità per la pulsione.» Svolge cioè «la funzione padre-sublimazione come accesso al simbolico. […] Grazie a questa interdizione la pulsione viene obbligata a deviare dalla sua meta più prossima (la Cosa materna) , per dare luogo a legami sociali e culturali plurimi, differendo il proprio soddisfacimento nella rete variegata degli scambi simbolici.» In termini più analitici: «…l’accesso soggettivo alla realtà esige infatti una trasformazione simbolica preliminare di ogni naturalità istintuale. […] La soddisfazione si sgancia dal consumo dell’oggetto più immediato per dar luogo a delle possibilità di soddisfacimento inedite. […] Il padre dell’Edipo freudiano coincide con questa Legge che sbarra il legame naturale-biologico sublimandolo in un legame sociale aperto allo scambio simbolico. In questo senso il padre non è solo colui che interdice il corpo della madre come luogo di un godimento contiguo e senza limiti, ma è anche colui che, proprio in questa interdizione, sa promuovere e rendere possibile l’accesso alla realtà sociale, l'uscita dalla famiglia, l'avvenire del soggetto stesso.»
«Come colui che porta la parola, il padre appare innanzitutto come il luogo dell’adozione simbolica della vita.» In questo contesto prende forma la convinzione e la teoria più generale: «Lacan descrive la vita umana come una domanda ostinata di senso, come esigenza di entrare nell’ordine del senso. Più precisamente, la vita che è all’origine priva di senso — “senza senso” —, che è una deviazione dal senso, si umanizza solo laddove si manifesta come domanda di senso, come appello al senso, come esigenza di entrare nell’ordine del senso: «La vita è questo — una deviazione, un’ostinata deviazione, per se stessa transitoria e caduca e sprovvista di senso. Perché, in quel punto delle sue manifestazioni che si chiama l’uomo, si produce qualcosa che insiste durante questa vita e che si chiama un senso? [. . .] Un senso è un ordine, cioè un sorgere. Un senso è un ordine che sorge. Una vita insiste per entrarci, ma esso esprime forse qualcosa di completamente al di là di questa vita, poiché quando andiamo alla radice di questa vita, e dietro al dramma del passaggio all’esistenza, non troviamo nient’altro che la vita congiunta alla morte.» (Lacan, Seminario II, p. 295)»

3. Gli intoppi del processo di simbolizzazione si verificano in presenza di un doppio totale riguardante la funzione padre-simbolizzazione (processo di costruzione di senso, ricerca e risposte di senso); sono cioè determinati da due possibili situazioni estreme: 1. una totale assenza del processo di simbolizzazione, 2. una sua presenza totale. La totale assenza del processo di coinvolgimento nel processo padre-sublimazione, è percezione dell’assoluto non-senso, diventa situazione di puro non senso del vivere e del reale, la situazione psichica (psicotica) è quella della “malinconia” (che è il sentimento della forclusione). La totale presenza e la pretesa del senso totale, senza limiti, per cui non vi è nulla che non abbia un senso che coinvolge fatalmente il soggetto; la situazione (psicotica) è quella della “paranoia” (ed è la completa dipendenza da un esterno, onnipotente, il Grande Altro che genera negazione di soggettività: «nelle psicosi il soggetto diviene schiavo dell’Altro — “posseduto dall’Altro” […] Lacan mostra come nelle psicosi il soggetto sia schiavo di un Altro che non conosce l’esperienza del limite»).
3.1. La ricerca del senso è relazione con L’Altro (e con il suo negarsi come fatto totale). «L’ostinazione della vita ad avere un senso, a essere ammessa, all’ordine sorgivo del senso, si realizza nella domanda di essere riconosciuta dal desiderio dell’Altro come vita umana, come una singolarità assoluta e insostituibile. Senza la presenza del desiderio dell'Altro non si dà umanizzazione della vita. È l'abc dell'insegnamento di Lacan, rispetto al quale non è mai venuto meno. Più i precisamente, il compito del padre come colui che porta la parola è innanzitutto quello di mantenere la vita associata al senso non perché la vita in se stessa abbia un senso — alla radice della vita, ci dice Lacan, non troviamo altro che la sua congiuntura con la morte —, ma perché la vita, prima ancora di essere riconosciuta dall’Altro, esige di essere riconosciuta, cioè insiste a entrare nell'ordine del senso come ordine umano.»
3.2. Ma la domanda di senso è contemporaneamente domanda del limite del senso. «La risposta del padre non può salvare la vita dall’ustione del non-senso, non può proteggerla dall’incontro con la scabrosità insensata e “senza legge” del reale — non può rispondere a quella “passione della giustificazione” che, secondo Lacan, accomuna tutte le nevrosi —, insomma non può conferire all’esistenza alcun diritto di esistere. La funzione paterna si costituisce così come un atto che mentre introduce la vita umana nella dialettica simbolica del riconoscimento e del senso deve saper mostrare, nel medesimo tempo, tutti i limiti di quella dialettica, poiché l’azione del grande Altro come risposta della parola alla domanda di senso di cui si nutre la vita umana non salva questa vita dall’aleatorietà della contingenza, non la può sottrarre dall’incontro col reale come limite del senso, come impossibile da simbolizzare.» Lacan «oppone la funzione paterna — come incaricata a introdurre l’umano all’esperienza del senso e del suo limite — a quella raffigurazione delirante della paternità che s’incontra nelle storie degli psicotici.»
Nella doppia totalità (totale assenza, totale presenza) si verifica una comune coincidenza nell’esito: l’assenza della funzione paterna. «Questa assenza non solo priva la vita umana del suo senso, ma finisce anche per far proliferare infinitamente il senso, al punto che […] “ogni non-senso è abolito, annullato”.» Va dunque ben intesa la psicosi «Non si deve pensare che essa sia solo una clinica della perdita del senso, di uno svuotamento di senso del mondo, ma si deve vedere anche come essa sia primariamente una clinica della espansione illimitata del senso. Se, infatti, nella melanconia l’esistenza si manifesta come puro non-senso, come coincidenza assoluta col reale, nella paranoia la proliferazione del senso reagisce al rischio mortifero di questa coincidenza.»

4. La forclusione, e la sua manifestazione come malinconia, tende ad inserirsi in quella assenza della funzione simbolizzatrice che si caratterizza per la sua non attivazione: «Questo processo disattiva la funzione simbolica del padre e, di conseguenza, non permette al soggetto di entrare nell’ordine del senso; l’esistenza del soggetto viene rifiutata dall’Altro e respinta nel puro non-senso.» L’effetto è il non riconoscimento del reale o una sua parte, la non ammissione di parte del reale al livello della significazione o del senso; un non avvertimento che si accompagna alla non consapevolezza dell’esclusione. Il processo si articola in una dinamica chiarificabile in due tempi.
4.1. L’esclusione del reale dalla accessibilità all’area simbolica. «Freud aveva distinto il processo della rimozione — proprio della costituzione nevrotica della realtà — da quello definito come una “rimozione speciale”, come una Verwerfung, dove non è più la pulsione (l’Es) a essere rimossa, ma la realtà in quanto tale. Per Lacan questa è una differenza tra un processo di simbolizzazione — la rimozione — e un processo di cristallizzazione o di fallimento della simbolizzazione — la forclusione —. Se nella rimozione è in gioco l’opposizione tra il desiderio inconscio e la sua negazione, nella forclusione è invece in gioco la non-attività della funzione paterna, che è quella funzione grazie alla quale la nozione stessa di realtà diviene — come Lacan aveva già teorizzato nei Complessi familiari — accessibile al soggetto.» (155)
4.2. Il ritorno del reale “forcluso”, nella forma della forclusione. «L'inattività di questa funzione — la sua assenza forclusiva — genera dei ritorni nel reale di ciò che è stato forcluso nel simbolico. Il significante paterno non sbarra il Desiderio della madre che, di conseguenza, può manifestarsi in tutta la sua spinta distruttiva e mortifera.»
Butler, utilizzando il concetto e il dinamismo della forclusione per affrontare la tematica del genere, spiega atteggiamenti omofobici (che presuppongono e impongono una concezione rigida, naturalizzata e intollerante o precostituita del genere) in termini di intrusione e azione incontrollata ed emotiva nel comportamento reale di ciò che è stato forcluso. Il mancato riconoscimento della complessità della pulsione del desiderio e della sua trascendenza (e nello specifico il mancato riconoscimento della natura plurima delle pulsioni che genericamente mettono capo o vengono incluse nella sessualità), la conseguente negazione della realtà di sé (di parte della realtà di sé), esclude dal processo di riconoscimento per simbolizzazione (ruolo svolto dalla funzione padre-sublimazione, cioè riconoscimento attraverso la sublimazione) quella parte della realtà personale; nel caso specifico quella che prende il nome di omosessualità. Non coinvolta nel processo di riconoscimento, simbolizzazione, gestione, l’omosessualità come tratto biologico della sessualità resta allora nel reale comportamento come impulso naturale attivo non simbolizzato, né sublimato, né culturalizzato (culturizzazione che invece accade, al di là del loro successo come in tutte le unioni, nelle consapevoli gestioni del genere esplicitato nelle forme di unioni e legami omosessuali); non riconosciuto è gestito in termini di drastica omofobia. «L’assenza di questa funzione nella psicosi mostra che l’Altro non è affatto mancante e che, di conseguenza, tende a godere impunemente del soggetto schiacciandolo, riducendolo a oggetto esclusivo del suo capriccio.» È consegnata all’area del non-senso perché esclusa dalla funzione simbolica che la figura del padre poteva comportare e avviare, e si manifesta come negazione di sé in forma di inconsapevole melanconia; si traduce contestualmente in blocco (parziale o, in extremis, totale) delle o nelle relazioni sociali che implicano il riconoscimento dell’alterità e ad un tempo della sua singolarità; un blocco nella gestione del rapporto con l’Altro. «Si tratta di un vero e proprio fattore causale che non riguarda tanto il soggetto, ma un buco, una mancanza interna all’ordine simbolico, al grande Altro.»
4.3. la forclusione e il presentificarsi del reale senza senso e senza dimensione umana.
«… Freud e Lacan convergono nel sostenere che il divieto dell’incesto agisce come principio di quella Legge primordiale che è compito del padre custodire e che rende possibile l’umanizzazione della vita. È il padre del patto – il padre che incarna la legge simbolica della castrazione – il padre che sostiene l’umanizzazione della vita. […] Questo significa che il reale non è in se stesso nulla di umano, perché si dà come vita esclusa dal senso, come vita “congiunta con la morte”.» Il reale che irrompe non simbolizzato è privo di senso, irrompe come morte, la morte della dimensione dell’umanità. «Solo se l’Edipo è stato vissuto la realtà non collassa nel reale [privo di senso] e il soggetto non precipita nel non-senso dell’esistenza come “nuda vita”. […] Cosa accade invece nella psicosi? L'assenza forclusiva del significante paterno non scherma il reale e, di conseguenza, non c’è realtà — è la tesi classica di Freud: la psicosi è una “perdita della realtà” — perché il non-senso puro del reale dilaga e distrugge la vita. In altre parole, la forclusione del significante paterno impedisce quel rivestimento simbolico del reale che dà luogo alla realtà; l’inattività simbolica del padre — la sua assenza forclusiva — rende manifesto il reale in quanto tale anziché umanizzarlo.»
(le citazioni indicate con virgolette sono tratte dal testo: Recalcati Massimo 2012 Jacques Lacan. Volume I Desiderio, godimento e soggettivazione, Raffello Cortina editore, Milano.)

Fonte: http://www.terzauniversita.it/corsi_13-14/dispense/corso3_lez4.doc

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