Socrate

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Socrate

 

Socrate
Nato ad Atene nel 470-469 a.C. Socrate era figlio di uno scultore, Sofronisco, e di una levatrice, Fenarete, e marito di Santippe da cui pare ebbe tre figli. Combattè come oplita ateniese nelle battaglie di Potidea (432), Delo (424) e Anfipoli (422). Nel 406 a.C., facendo parte della magistratura del Pritaneo, si oppose alla decisione di mettere sotto processo quei generali ateniesi che nella battaglia delle Arginuse non si erano curati di raccogliere i marinai dispersi in mare: questo fatto gli causò parecchie inimicizie tra i democratici. Socrate fu poi amico della fazione aristocratica che prese il potere tra il 404 e il 403 a.C., soprattutto di Crizia e Alcibiade, il governo dei trenta tiranni. Restaurata la democrazia, nel 399 a.C. Socrate venne accusato da tre democratici, Anito, Meleto e Licone di corrompere i giovani attraverso il suo insegnamento, di empietà verso gli dei tradizionali e di introdurre nuove divinità filosofiche nella città. A differenza di Anassagora e Protagora, che decisero di andarsene via da Atene, Socrate rifiutò ogni patteggiamento e fu condannato a morte per somministrazione della cicuta. un estratto di una pianta velenosa, la cicuta. Socrate fu condannato per le sue idee, e soprattutto per la pratica stessa della filosofia, che lo rendeva diverso ed estraneo a tutti gli altri cittadini.
Non scrisse nulla, poiché riteneva che la vera filosofia fosse l'esame incessante di sè e degli altri e non una dottrina da affidare allo scritto. Ma che cosa sappiamo realmente del Socrate storico? Possiamo affidarci solo alle fonti lasciateci dai suoi contemporanei o dai suoi discepoli: Aristofane, commediografo contemporaneo di Socrate, nella commedia Le nuvole (423-417 a.C.) lo mette in ridicolo come spregiudicato sofista, corruttore dei giovani e negatore dell'esistenza degli dei; Policrate, nell'Accusa contro Socrate del 393 a.C., oltre alle accuse di Aristofane, imputa a Socrate di aver spinto esponenti dell'aristocrazia più radicale a prendere il potere e di aver disprezzato le procedure democratiche; lo storico Senofonte, nei Memorabilia e nella sua Apologia di Socrate lo presenta come un predicatore moralista, dandone un'immagine macchiettista; i Socratici minori, Platone, Aristotele parlano di lui come del maestro esemplare e dell’uomo più giusto di Atene.
Possiamo affermare che da un lato Socrate appartiene alla stessa cultura dei sofisti con cui condivide l'attenzione per l'uomo e la città, e la disattenzione per le indagini cosmologiche; il cercare nell'interiorità dell’uomo e non fuori dall'uomo i criteri del pensiero e dell'azione; l’atteggiamento critico e spregiudicato che rimette sempre tutto in discussione; l’inclinazione alla dialettica e al paradosso; il fatto di insegnare nella città.
Tuttavia Socrate non può essere definito un sofista, a causa del suo amore alla verità e per il suo netto rifiuto di ridurre la filosofia a retorica o a pratica esibizionistica o a mercificazione della cultura, e inoltre, come attesta Platone, per la sua volontà di combattere esplicitamente il relativismo conoscitivo e morale della sofistica post-protagorea. Secondo Senofonte Socrate è stato l'unico vero politico di Atene poichè preferì "morire, rimanendo fedele alle leggi, anzichè vivere violandole". L'uomo è figlio delle leggi della sua città.
La lealtà di Socrate verso la città e le leggi affonda le sue radici nel convincimento che l'uomo sia autenticamente se stesso solo in rapporto agli altri nella società.
Socrate è considerabile come il primo martire della libertà del pensiero occidentale e come simbolo incarnato, immortale e universale della vita filosofica .
“Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio” .

Il dialogo socratico
In gioventù Socrate fu seguace dei naturalisti, in particolare di Anassagora, poi, deluso, si occupò solo dell'uomo: abbandonati gli studi cosmologici, cominciò ad intendere la filosofia come un'indagine in cui l'uomo, facendosi problema a se medesimo, tenta con la ragione di chiarire sè a se stesso.
“Io quando ero giovane fui preso da una vera passione per quella scienza che chiamiamo indagine della natura. E veramente mi pareva scienza utilissima codesta, conoscere le cause di ciascuna cosa, e perchè ogni cosa si genera e perisce ed è" .
La missione e la motivazione dell'indagine socratica prende spunto da un'iscrizione posta sul frontone del tempio di Apollo a Delfi: "Conosci te stesso".
Quindi l'uomo, essendo costituito dal rapporto con gli altri, trova nel dialogo interpersonale la possibilità di tematizzare e conoscere la verità su se stesso e farla emergere nell’animo altrui.
La vita filosofica vissuta da Socrate è colloquio incessante con gli altri, ricerca senza fine della verità nel rapporto con i suoi concittadini, poiché, come afferma nell’Apologia, “una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta”
Quando Socrate venne a sapere che l'oracolo di Delfi l’aveva definito come “l'uomo più sapiente”, cominciò ad interrogarsi sul perchè di quella risposta, cosciente di non essere esperto in nessuna arte. Interrogò anche i poeti e i politici e tutti i suoi concittadini e capì che questi si credevano sapienti ma non lo erano, mentre lui, che non sapeva nulla, almeno sapeva di non sapere e che quindi vero "sapiente è colui che sa di non sapere".
Genuino filosofo è soltanto coluii che dice di aver compreso che intorno alle cause ultime e alle strutture del Natura non si può dire nulla con sicurezza: Socrate si rivela agnostico circa la cosmologia e l'ontologia. Egli denuncia la presunta sapienza antica, sacrale e mitologica, e incoraggia una nuova indagine sull'uomo, che abbia per scopo la verità e la felicità.
Filosofare è dunque una missione e un compito affidato a Socrate dalla divinità stessa. Egli è guidato nelle sue scelte da un demone che Socrate dice di avere dentro di sè, il quale lo mette in guardia ogni qualvolta faccia qualcosa di sbagliato. Per come ce ne parla Platone, tale demone interiore è realmente divino e non semplicemente morale, come se fosse la voce della coscienza.
Socrate, oltre al demone che ha dentro di sé, ammette l’esistenza del divino come garante dell'ordine del mondo, come Intelligenza e Bene.

L’ironia socratica e la maiuetica
Per attivare la ricerca bisogna innanzitutto mostrare a se stessi e agli altri la propria ignoranza, attraverso l'ironia, ovvero una iniziale dissimulazione circa il presunto sapere dell’interlocutore.
Socrate celebra inizialmente il suo interlocutore come se fosse sapiente nella sua propria arte, poi martellandolo di domande e demolendone le risposte le rivela come infondate e illusorie.
Socrate distrugge la presunzione di sapere dei suoi concittadini per introdurre la vera nuova ricerca. Provocando appositamente il dubbio e l'inquietudine nell'altro, Socrate intende infondere in ciascuno la sete di convinzioni più autentiche. Socrate non impone mai una verità o un sistema determinato di idee dall'esterno, ma, come la levatrice con una donna partoriente, così egli aiuta le anime a partorire la verità che contengono: il maestro non travasa il sapere negli animi dei discepoli, ma aiuta questi a maturare la verità dal proprio interno, nella propria anima.
Fingendosi estimatore di chiunque incontrasse Socrate lo portava ad accettare il dialogo, in vista della verità. Platone presenta il suo amato maestro non come uno scienziato, bensì come un prolungatore di anime.

“Che cos’è?”: la scoperta della definizione
Socrate costringe l'interlocutore a dare delle definizioni delle cose di cui lui chiede conto attraverso la fondamentale formula del ti estì, ovvero del "che cos'è?".
Socrate vuole giungere alla definizione specifica di ogni cosa, ovvero al concetto vero delle cose e dei valori umani.Socrate non usa lunghi e articolati discorsi, come le macrologie dei sofisti, bensì brevi botta e risposta, ovvero brachilogie.
Aristotele ci dice che Socrate fu l'inventore dei ragionamenti induttivi e della definizione universale, strumenti che "riguardano il principio della scienza".
Con il ragionamento e le definizioni Socrate comincia la lunga lotta contro il relativismo linguistico, conoscitivo e morale della sofistica, che Platone porterà avanti per proprio conto.
Con Socrate emerge l'esigenza di ordine e di precisione linguistica che però soltanto con i suoi discepoli sfocierà nella determinazione di entità metafisiche definite, ovvero le Idee o Forme.

L’intellettualismo etico
La morale proposta da Socrate prevede la virtù come ricerca e come scienza: la virtù non è innata e neppure un’eredità regale o divina, ma è conquistabile attraverso l'educazione filosofica, la paideia.
Per essere virtuosi, è necessario sottoporre la vita al dominio dell'intelletto: riflettere, esaminare e ragionare, ovvero far filosofia, ossia riflettere criticamente sull'esistenza dominando i propri istinti.
La virtù non dipende da una verità prestabilita, bensì da ciò che di volta in volta giudichiamo come bene: la decisione sul bene da perseguire dipende infine dalla consapevolezza che abbiamo di noi stessi. La vita intera deve trasformarsi in un cammino di ricerca disciplinato dalla ragione, nella convinzione che la virtù coincide con la conoscenza.
La virtù dunque è unica e coincide con la scienza del bene, senza la quale ogni altra scienza rischia di essere dannosa. Inoltre la virtù è insegnabile solo in quanto autentica scienza dell’animo umano, e mai come tecnica o strategia di comportamento. Socrate è convinto che nella virtù, intesa come scienza, consiste la felicità per l'uomo.
Socrate fa coincidere la virtù con i valori dell'interiorità e della ragione e cioè dell'"anima", valori "che si assommano tutti quanti nella conoscenza".
La virtù socratica non è una negazione ascetica dell'esistenza materiale, ma un suo potenziamento tramite la ragione, ossia un calcolo intelligente finalizzato a rendere migliore e più felice la nostra vita.
La virtù è eminentemente politica, poichè è l'arte del saper vivere, e saper vivere significa eminentemente saper vivere con gli altri in opposizione alla virtù dei sofisti legata unicamente alla capacità dell'utilizzare bene la retorica in vista della persuasione del consenso.
Socrate insegna che la Politica autentica coincide con il ragionare insieme sulle cose della città in vista il bene comune e avendo come criterio la conoscenza della verità.
Socrate ritine che chiunque agisca, agisce sempre facendo ciò che per lui è considerato un bene: infatti "nessuno pecca volontariamente". Allora il male è spiegabile per l’ignoranza di chi lo compie: "chi fa il male, lo fa per ignoranza del bene".
Secondo Socrate è meglio subire un'ingiustizia che commetterla poichè solo la giustizia e la virtù rendono l'uomo felice, mentre l'immoralità e l'ingiustizia portano solo bruttura e infelicità.
L'etica socratica prevede che la virtù sia sapienza e il vizio ignoranza: perciò gli sono mosse accuse di intellettualismo (se conosco il bene non posso fare il male), moralismo (la volontà deve obbedire alla ragione) e relativismo (il bene dipende dal sapere di ciascuno).

Scuola megarica: fondata da Euclide, accentua l'universalità del bene fino a sottrarlo all'uomo e a identificarlo con l'essere parmenideo. Gli appartennero Eubulide di Mileto, Diooro Crono e Stipone che argmentano contro la molteplicità e la possibilità e realizzano antinomie e paradossi come quello del mentitore.
Scuola cirenaica: fondata da Aristippo di Cirene, pone il bene nel piacere. Il criterio di verità coincide con la sensazione sia per la conoscenza che per la condotta morale. Aristippo disse: "Posseggo, non sono posseduto".
Scuola cinica: fondata da Antistene di Atene, pone il bene nella virtù e ripudia il piacere. Fu sviluppata da Diogene di Sinope detto anche il "Socrate pazzo".
Scuola eretriaca: fondata da Fedone e proseguita da Menedemo di Eretria, ma ne sappiamo ben poco.
SOCRATE - testi
1. Il momento confutatorio ironico
EUTIFRONE Ma, o Socrate, io non so più come dirti quello che ho in mente: qualsiasi definizione che proponiamo ci gira, non so come, sempre attorno, e non vuole rimaner ferma al posto in cui la mettiamo.
SOCRATE Le definizioni da te date, o Eutifrone, sembra che assomiglino alle opere del mio progenitore Dedalo. E, se queste definizioni le formulassi e le ponessi io, forse potresti canzonarmi, quasi che, anche a me, per via della parentela che ho con lui, le mie opere fatte di parole scappassero e non volessero star ferme nel luogo in cui le collochiamo. Ora, invece, le definizioni poste sono tue. Perciò, questa immagine scherzosa non fa al caso tuo: infatti, non vogliono rimaner ferme a te, come confessi tu stesso.
EUTIFRONE A me sembra, invece, o Socrate, che l'immagine scherzosa s'attagli benissimo alle mie definizioni: infatti, questo loro rigirarsi e non voler star ferme nel medesimo luogo, non sono io a produrlo, e il Dedalo mi sembra che sia proprio tu, perché, per conto mio, sarebbero rimaste ferme così.
SOCRATE Allora, o amico, si da il caso che io sia diventato più abile nell'arte di quel mio antenato: a tal punto che, mentre egli sapeva rendere mobili solo le proprie opere, io, come sembra, oltre le mie, rendo mobili anche quelle degli altri. E, certo, ciò che di più notevole c'è nella mia arte, è il fatto che sono abile senza volerlo, lo desidererei, infatti, che i miei discorsi rimanessero fermi, e che se ne stessero immobili, assai più di quanto non desideri le ricchezze di Tantalo aggiunte all'abilità di Dedalo.
Platone, Eutifrone, trad. di G. Reale, La Scuola
2. Il momento maieutico
SOCRATE È che tu hai le doglie, caro Teeteto, perché non sei vuoto, ma gravido.
TEETETO Non so, Socrate. Però ti dico quello che provo.
SOCRATE Ma allora, ridicolissimo ragazzo, non hai sentito dire che io sono figlio di una rinomata ed abile levatrice, Fenarete?
TEETETO Questo, sì, l'ho già sentito dire.
SOCRATE E hai sentito dire che io pratico la stessa arte?
TEETETO Nient'affatto.
SOCRATE Allora, sappi che è così. Però non dirlo agli altri. Infatti, amico, che io possiedo quest'arte l'ho tenuto nascosto: essi, non sapendolo, non dicono di me questo, bensì che io sono un uomo stranissimo e metto in imbarazzo gli altri. Hai sentito dire anche questo?
TEETETO Sì.
SOCRATE Ti dico, dunque, il motivo?
TEETETO Sì, per piacere.
SOCRATE Pensa bene a tutto ciò che riguarda la condizione delle levatrici, e apprenderai più facilmente quello che io voglio dire. Forse sai, infatti, che nessuna di loro, finché è lei stessa in grado di essere fecondata e di partorire, fa da levatrice ad altre donne, ma lo fanno quelle che ormai non possono più partorire.
TEETETO È proprio così.
SOCRATE II motivo di ciò, almeno così si dice, è Artemide, perché, lei che è vergine, ebbe in sorte la protezione del parto. A donne sterili, dunque, non ha concesso di fare da levatrici, perché la natura umana è troppo debole per acquisire un'arte relativa a ciò di cui non abbia esperienza. Ha affidato questo compito, invece, alle donne che, per età, non sono più in grado di partorire, per onorare la loro somiglianza con lei.
TEETETO Verosimile.
SOCRATE Orbene, anche questo è verosimile, anzi, inevitabile, che le levatrici riconoscano, più delle altre donne, quelle che sono incinte e quelle che non lo sono?
TEETETO Certamente.
SOCRATE E sono sempre le levatrici che, fornendo filtri magici e facendo incantesimi, riescono a stimolare le doglie ed anche a mitigarle, se vogliono, a far partorire le gestanti in difficoltà, ed a far abortire, se a loro pare opportuno, un feto immaturo?
TEETETO È vero.
SOCRATE E di loro, inoltre, non hai notato che sono anche abilissime mediatrici di nozze, dal momento che sanno tutto su come riconoscere quale donna con quale uomo debba unirsi per generare ottimi figli?
TEETETO Di questo non sono affatto a conoscenza.
SOCRATE Ma sappi che di questo si vantano più che della loro abilità nel tagliare il cordone ombelicale. In effetti, pensaci: ritieni che sia compito della medesima arte, o di una diversa, curare e raccogliere i frutti della terra e riconoscere in quale terra quale pianta e quale seme vadano collocati?
TEETETO Non di un'arte diversa, bensì della medesima.
SOCRATE Nei riguardi delle donne, amico, pensi che una sia l'arte del seminare, ed una diversa quella del raccogliere?
TEETETO Non credo che sia verosimile.
SOCRATE Non lo è, infatti. Ma a causa di quell'accoppiare un uomo ed una donna senza norma e senza arte (cosa che ha nome «ruffianeria»), le levatrici, che sono donne serie, rifuggono anche dal combinare giuste nozze, perché temono, per questo, di incorrere in quell'accusa, benché, secondo me almeno, spetti soltanto alle vere levatrici anche combinare nozze in modo corretto.
TEETETO Sembra.
SOCRATE Questo, dunque, è il grande compito delle levatrici, benché inferiore all'opera mia. Infatti, alle donne non capita di partorire una volta dei fantasmi ed un'altra dei figli veri, e questo non è troppo facile da distinguere. In effetti, se accadesse questo, sarebbe, per le levatrici, un'opera molto grande e molto bella il sapere giudicare ciò che è vero e ciò che non lo è. Non credi?
TEETETO lo sì.
SOCRATE La mia arte di ostetrico possiede tutte le altre caratteristiche che competono alle levatrici, ma ne differisce per il fatto che fa da levatrice agli uomini e non alle donne, e che si applica alle loro anime partorienti, non ai corpi. E questo c'è di assolutamente grande nella mia arte: l'essere capace di mettere alla prova in ogni modo se il pensiero del giovane partorisce un fantasma ed una falsità, oppure un che di vitale e di vero. Poiché questo almeno è comune a me ed alle levatrici: non posso generare sapienza; quello che già molti mi hanno rinfacciato, che io, sì, interrogo gli altri, ma poi io stesso non manifesto nulla su nessun argomento, adducendo come causa il mio non essere sapiente in nulla, è un rimprovero che risponde a verità. La causa di ciò è questa: il dio mi costringe a far da levatrice, ma mi ha proibito di generare. Quanto a me, dunque, non sono affatto sapiente in qualche cosa, né ho alcuna sapiente scoperta che sia come un figlio generato dalla mia anima. Ma quelli che mi frequentano, dapprima alcuni appaiono ignoranti, ed anche molto, ma, poi, tutti, continuando a frequentarmi, almeno quelli ai quali il dio lo conceda, fanno progressi così straordinari, che se ne rendono conto essi stessi ed anche gli altri. E questo è chiaro: da me non hanno mai imparato nulla, ma sono loro che, da se stessi, scoprono e generano molte belle cose. Tuttavia siamo stati il dio ed io a fare loro da levatrici. E questo lo rende evidente: molti, che prima ignoravano questo fatto ed attribuivano ogni merito a se stessi, disprezzando me, o da se stessi o persuasi da altri, si sono allontanati da me prima del dovuto, ma, allontanatisi, fecero abortire tutto il resto, a causa di un cattivo accoppiamento, e rovinarono tutto ciò che avevano partorito con il mio aiuto, allevandolo male, tenendo falsità e fantasmi in maggior conto della verità, e finendo per apparire ignoranti a se stessi ed agli altri.
Platone, Teeteto, trad. di C. Mazzarelli, in Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Rusconi
La ricerca dell’universale Eutifrone
Socrate – Ora vedi di dirmi più chiaro quello che ti domandai poco fa; perché con quella tua prima risposta, amico mio, non mi hai istruito abbastanza. Io ti domandavo che cosa è il santo, e tu mi hai detto solamente che è santo ciò che stai facendo tu ora, accusando d’omicidio tuo padre.
Eutifrone – E dicevo la verità, o Socrate.
Socrate – Può darsi: ma certo, o Eutifrone, molte altre azioni ancora tu dici che sono sante. Eutifrone – Molte altre, senza dubbio.
Socrate – Ebbene, tu ricordi che non di questo io ti pregavo, di indicarmi una o due delle molte azioni che diciamo sante; bensì di farmi capire che cosa è in se stessa quella tale idea del santo per cui tutte le azioni sante sono sante. Dicevi, mi pare, che per un’idea unica le azioni non sante non sono sante, e le sante sono sante; o non ti ricordi?
Eutifrone – Sì, mi ricordo.
Socrate – E allora insegnami bene questa idea in sé quale è; affinché io, avendola sempre davanti agli occhi e servendomene come di modello, quell’azione che le assomigli, di quante o tu o altri possiate compiere, questa io dica che è santa; quella che non le assomigli, dica che non è.

La difesa di Socrate al processo e la sua missione filosofica
[17a] Non so, o Ateniesi, che impressione (2) vi sia rimasta dei miei accusatori; io, davvero, mi sono quasi dimenticato di me stesso, da quanto parlavano persuasivamente. Eppure non hanno detto quasi niente di vero. Ma mi ha stupito soprattutto una delle loro molte bugie: hanno detto che dovevate cercare di non farvi ingannare da me, perché [17b] sono abile (deinos) nel parlare. La cosa più vergognosa mi è sembrata appunto il loro non aver ritegno di venir confutati da me con i fatti, quando non apparirò per nulla abile (deinos) nel parlare - a meno che non chiamino così chi dice la verità. In questo caso, sarei d'accordo: sono un retore, ma non al modo in cui essi lo intendono. (3) Essi - dico - hanno detto poco o nulla di vero, ma voi non sentirete da me null'altro che la verità. E non userò affatto, o Ateniesi, discorsi come i loro, ben fraseggiati [17c] nelle espressioni e nei termini, e bellamente disposti: voi sentirete da me cose argomentate disordinatamente, con le prime parole che mi capitano a tiro - infatti io credo che quello che dico sia vero - e nessuno di voi si aspetti altro. Perché a questa età non starebbe bene venire da voi facendo discorsi come un ragazzino.(4) E anzi, Ateniesi, questo vi chiedo e vi supplico: se mi sentirete difendermi con gli stessi discorsi che sono abituato a fare in piazza, presso i banchi dei trapeziti,(5) dove molti di voi mi hanno udito, e altrove, [17d] non ve ne stupite e non mormorate. Infatti così stanno le cose: sono quassù in tribunale per la prima volta a settant'anni, e perciò sono del tutto estraneo a questo modo di esprimersi (lexis). Perciò, come forse mi perdonereste, se fossi veramente straniero, [18a] di parlare con la lingua e alla maniera in cui sono stato educato, così ora vi chiedo - giustamente, mi sembra - di aver comprensione per il mio modo di esprimermi, (6) buono o cattivo che sia, e di considerare invece attentamente se dico o no cose giuste, perché questa è la virtù (arete) del giudice, mentre quella dell'oratore è dire la verità. […]
Ora qualcuno di voi potrebbe ribattere:
- Socrate, ma come la mettiamo? Da dove sono venute fuori queste calunnie contro di te? Non avresti una reputazione di questo genere senza immischiarti in niente di diverso degli altri, a meno che tu non faccia, appunto, qualcosa d'altro. Dicci [20d] come stanno le cose, perché non vogliamo esprimere giudizi improvvisati su di te. -
Questa - mi sembra - è una obiezione giusta. Tenterò di mostrarvi le cause della mia fama e della mia diffamazione. E perciò ascoltatemi. Ad alcuni di voi sembrerà che io scherzi, ma - non dimenticatelo - dirò tutta la verità. E' vero, cittadini ateniesi, io ho questa fama solo per una certa mia sapienza (sophia). Ma che tipo di sapienza? Quella che è, forse, sapienza umana. Oso dire, infatti, di essere esperto di questa sapienza. Invece quelli [20e] di cui parlavo poco fa possono ben essere esperti di una sapienza più che umana, su cui non ho nulla da dire, perché io stesso non ne so nulla, e chi afferma il contrario mente e parla per diffamarmi.
Per favore, cittadini ateniesi, non interrompetemi, anche se quanto dico vi apparirà presuntuoso, perché il discorso che vi riferirò non è mio, ma di qualcuno ai vostri occhi più degno. Sulla mia sapienza - se di un qualche genere di sapienza si tratta - presenterò come testimone il dio di Delfi. Avete avuto modo di conoscere Cherefonte. [21a] Fu mio compagno fin da giovane, e fu compagno vostro - del popolo - e condivise con voi l'esilio e il ritorno. Sapete dunque com'era Cherefonte, così impulsivo in tutto quello cui metteva mano. Bene, una volta si recò a Delfi e si permise di interrogare l'oracolo su questo - non schiamazzate su ciò che dico, cittadini - perché gli chiese se ci fosse qualcuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che nessuno era più sapiente. (14) Di questo vi darà testimonianza suo fratello, dal momento che Cherefonte è morto. […]
E continuai ad andare dall'uno all'altro: mi rendevo conto, con amarezza e timore, di essere odioso, ma mi sembrava necessario trattare ciò che concerne il dio come cosa della massima importanza. Per questo era doveroso recarsi, per esaminare il senso dell'oracolo, proprio da tutti [22a] quelli che sembravano sapienti. E per il cane, Ateniesi, - bisogna che vi dica la verità - la mia esperienza fu davvero questa: a me, che indagavo per il dio, (17) coloro che godevano di una migliore reputazione sembrarono quasi i più carenti, mentre quelli che passavano per inferiori risultarono uomini più dotati di discernimento. Occorre, allora, che vi esponga la mia peregrinazione, cioè la storia delle fatiche che ho affrontato per corroborare l'oracolo. Dopo essere stato dai politici, mi rivolsi ai poeti, ai compositori di tragedie, [22b] di ditirambi e di altri generi, per cogliermi sul fatto come più ignorante di loro. E prendendo in mano i lavori che mi sembravano meglio composti, andavo chiedendo ai loro autori che cosa volessero dire, anche per imparare qualcosa. Cittadini, mi vergogno a dirvi la verità, ma lo si deve pur fare: sulle loro composizioni quasi tutti i presenti ragionavano meglio di loro. Così, di nuovo, mi resi subito conto che i poeti non fanno ciò che fanno per sapienza, [22c] ma per una qualche disposizione naturale (physei) e come divinamente ispirati (enthousiazontes), alla maniera dei profeti e dei veggenti: anch'essi, infatti, dicono molte cose belle, ma non sanno nulla di ciò che dicono. (18) Anche i poeti - mi divenne chiaro - sono soggetti a una esperienza simile; nello stesso tempo mi accorsi che essi pensavano, per la loro poesia, di essere i più sapienti degli uomini anche sul resto, ove non lo erano. Così me ne andai anche da là ritenendomi superiore a loro proprio come lo ero nei confronti degli uomini politici. […]
Da questa indagine, cittadini ateniesi, [23a] mi sono derivate molte inimicizie, tanto aspre e violente da dare origine a numerose calunnie e alla mia fama di sapiente. Infatti i presenti pensano ogni volta che io sia esperto di quello su cui ho confutato un altro. Ma potrebbe darsi, cittadini, che il dio sia effettivamente sapiente e che in questo oracolo voglia dire che la sapienza umana vale poco o nulla; (20) è evidente che questi menziona Socrate e [23b] ha dato il suo responso col mio nome, prendendo me come esempio, come per dire: "Uomini, il più sapiente fra voi è chi, come Socrate, ha riconosciuto che in verità non è di nessun valore, per quanto concerne la sapienza." In ogni caso, anche ora, andandomene in giro, cerco ed esamino secondo l'ordine del dio chiunque, cittadino o forestiero, io creda sapiente; e ogni volta che non mi appare tale, vengo in aiuto al dio e dimostro che non lo è. E a causa di questa occupazione non ho avuto tempo di fare nulla di notevole né negli affari della città, né in quelli di casa, ma, [23c] per il servizio al dio, sono infinitamente povero. […]
E davvero, cittadini ateniesi, mi sembra che per provare che non sono colpevole secondo l'accusa di Meleto non occorra una grande autodifesa, ma questa basti; e tenete ben presente che è vero anche quanto dicevo prima, e cioè che è sorto nei miei confronti un odio grande e diffuso. Ed è questo che causa la mia condanna: non Meleto, né Anito, ma il pregiudizio e la gelosia dei più. [28b] Questo ha condannato molti altri uomini buoni, e altri ancora - credo - ne condannerà; non c'è da temere che io sia l'ultimo.
Ma forse qualcuno potrebbe dire:
- Socrate, non ti vergogni di esserti dedicato ad una attività per la quale sei ora esposto al rischio di morire? -
Io avrei ragione di ribattere:
- Ragazzo, non ragioni correttamente, se pensi che un uomo, anche di valore modesto, debba tener conto di essere vivo o morto, e non debba invece considerare, quando agisce, solo questo: se agisce giustamente o ingiustamente e se le sue opere sono da uomo buono o cattivo. [28c] Infatti, a tuo dire, sarebbero dei mediocri tutti i semidei che hanno concluso la loro vita a Troia, fra cui il figlio di Tetide, che preferì affrontare il pericolo piuttosto che la vergogna. Tanto che, quando la madre, che era una dea, disse a lui, ansioso di uccidere Ettore, qualcosa - credo - di simile a questo:
“Figlio, se vendicherai l'uccisione di Patroclo, il compagno, e ucciderai Ettore, tu stesso morirai
perché subito dopo è per te preparato il suo destino funesto.” [cfr. Hom. Il. 18.96.]
egli, sentite queste parole, si curò poco della morte e del pericolo, [28d] perché temeva molto più una vita da vile, senza vendicare l'amico, e rispose:
“Che possa morire immediatamente, dopo aver fatto pagare al colpevole il fio,
per non rimanere ridicolo qui, presso le navi ricurve, peso alla terra.” [cfr. Hom. Il. 18.98-104.]
Pensi che lui si sia preoccupato della morte e del pericolo? - (27)
Perché in verità è così, cittadini ateniesi: dove uno si sia schierato da sé, perché lo riteneva il posto migliore, o dove sia stato messo da un comandante, lì si deve - secondo me - avere il coraggio di restare, senza curarsi né della morte né di altro di fronte alla vergogna. Cittadini [28e] ateniesi, quando i comandanti che voi sceglieste per me mi schierarono in battaglia a Potidea, ad Anfipoli e a Delio, rimasi dove mi avevano disposto, come qualsiasi altro, e rischiavo di morire. Farei dunque una azione terribile se, quando invece a schierarmi è il dio, come io ho supposto e inteso, con l'ordine di vivere facendo filosofia ed esaminando me stesso e gli altri, (28) avessi paura della morte [29a] o di qualunque altra cosa e abbandonassi il mio posto. Sarebbe una cosa terribile, e mi si potrebbe certo portare in tribunale giustamente, con l'accusa di non credere che gli dei esistano, perché disubbidisco all'oracolo, ho paura della morte e penso di essere sapiente senza esserlo. Infatti, cittadini, aver paura della morte non è nient'altro che sembrare sapiente senza esserlo, cioè credere di sapere quello che non si sa. Perché nessuno sa se per l'uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene [29b] che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza? Io, cittadini, sono diverso dalla maggior parte degli uomini forse anche per questo, e se dovessi dichiarare che sono più sapiente di qualcuno in qualcosa, direi che lo sono perché, non sapendo abbastanza di quanto avviene nell'Ade, non penso neppure di conoscerlo. Però una cosa la so: agire ingiustamente e disubbidire a chi è migliore di noi, uomo o dio che sia, è cattivo e vergognoso. Di fronte a mali che so essere tali io non mi spaventerò né fuggirò mai quello che non so se sia, per caso, bene. Perciò, (29) [29c] anche se mi assolvete, senza credere ad Anito, che affermava che o non dovevo assolutamente essere fatto comparire in tribunale, o, una volta convenuto, non si poteva fare a meno di condannarmi a morte, perché se verrò lasciato andare i vostri figli metteranno in pratica quello che Socrate insegna e saranno tutti totalmente corrotti - se voi per questo mi diceste:
- Socrate, per questa volta non daremo retta ad Anito, e ti assolviamo, ma a questa condizione: che tu non sprechi più tempo in questa ricerca e non faccia più filosofia; se [29d] verrai colto a farla, morirai. -
Se davvero voi mi assolveste alla condizione che ho detto, vi risponderei:
- Cittadini ateniesi, io vi amo e vi rispetto, ma ubbidirò al dio piuttosto che a voi, (30) e finché avrò respiro e sarò in grado di farlo, non smetterò di fare filosofia, di consigliarvi e di insegnare a chiunque incontri di voi, dicendo, come sono solito: "O ottimo uomo, tu che sei Ateniese, della città più grande e famosa per sapienza e forza, non ti vergogni di preoccuparti dei soldi, per averne più che puoi, [29e] della reputazione e dell'onore, senza però curarti e darti pensiero della saggezza, della verità e dell'anima, perché sia la migliore possibile?" E se qualcuno di voi mi contesta, affermando di prendersene cura, non lo lascerò subito andare né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo esaminerò e lo confuterò, e se mi sembrerà che non abbia virtù [30a] se non a parole, lo riprovererò perché disprezza quello che vale di più e apprezza quello che vale di meno. Farò questo a chiunque incontri, giovane e vecchio, forestiero e cittadino, ma soprattutto ai cittadini, in quanto mi siete più vicini per nascita. Perché questo è quello che mi ordina il dio - tenetelo presente - e io penso che alla città finora non sia accaduto nessun bene più grande del mio servizio al dio. Infatti io me ne vado in giro senza fare altro se non persuadervi, giovani e vecchi, a non preoccuparvi né del corpo [30b] né dei soldi più che dell'anima, perché sia quanto migliore possibile, dicendo: "L'eccellenza (arete) non deriva dalla ricchezza, ma dalla virtù (arete) provengono la ricchezza e tutti gli altri beni per gli uomini, sia sia come privati sia in quanto comunità." E se dicendo questo corrompo i giovani, consideratelo pure dannoso: ma se qualcuno afferma che dico cose diverse da queste, dice il falso. E perciò dichiarerò: "Cittadini ateniesi, siate o no convinti da Anito e mi assolviate o no, [30c] non mi comporterò altrimenti, neppure se dovessi più volte morire." […]
Allora qualcuno potrebbe dire: - Socrate, ma non riuscirai a vivere stando zitto e tranquillo, una volta allontanatoti da noi? - Convincere qualcuno di voi su questo è la cosa più difficile di tutte. Perché se vi dico che un simile comportamento è disubbidienza al dio e perciò è impossibile [38a], voi non mi credete e pensate che faccia finta (eironeoumeno); e se vi dico ancora che il più gran bene che può capitare a una persona è discorrere ogni giorno della virtù e del resto, di cui mi sentite discutere e indagare me stesso e gli altri - una vita senza indagine non è degna di essere vissuta (36) - voi mi credete ancor meno. Ma è così come dico, cittadini, per quanto non sia facile convincervene. E inoltre non sono abituato a pensare me stesso come meritevole di qualcosa di male. [38b] Se avessi avuto soldi, avrei proposto una pena pecuniaria, nella misura delle mie possibilità di pagamento, e non ne sarei stato per nulla danneggiato. Ma ora non ho soldi, a meno che non vogliate multarvi di quel poco che potrei pagare. Forse potrei pagarvi una mina d'argento all'incirca: e questa multa propongo come pena.
Ma, cittadini ateniesi, Platone, che è qui, e Critone, e Critobulo, e Apollodoro, insistono perché proponga una pena pecuniaria di trenta mine e per darne loro stessi garanzia. Mi multo allora di tanto. E ne saranno garanti per voi questi qui, con la corrispondente quantità di denaro. […]
[39e] Mi piacerebbe discutere su quello che è accaduto con chi ha votato per la mia assoluzione, mentre i magistrati sono occupati e non vado ancora dove bisogna morire. State con me, cittadini, per questo tempo: niente impedisce che conversiamo fra di noi, finché è permesso. A voi, [40a] perché mi siete amici, ho voglia di far vedere qual è il senso di quello che mi è successo oggi. Perché a me, giudici - e chiamandovi giudici credo di chiamarvi correttamente - è accaduto qualcosa di meraviglioso. La solita voce oracolare - la voce di qualcosa di demonico (38) - prima mi era continuamente vicina e si opponeva sempre, anche su cose di poco conto, se stavo per fare qualcosa di non giusto. Ora mi è successo - lo vedete da voi - questo, che qualcuno potrebbe considerare un male estremo e che è creduto tale. Ma [40b] il segno del dio non mi ha trattenuto né la mattina presto, mentre uscivo di casa, né quando salivo qui in tribunale, né in nessun punto del discorso, mentre stavo per dire qualcosa. Eppure molte volte, in altri discorsi, mi ha addirittura interrotto; oggi, invece, non mi si è mai opposto in nulla di quello che facevo e dicevo. Quale suppongo ne sia la causa? Ve lo dirò: quello che è successo ha l'aria di essere stato un bene e non è possibile che abbia ragione [40c] chi di noi pensa che morire sia un male. Ne ho avuto una grande prova: se quello che stavo per fare non fosse stato un bene, il segno consueto non avrebbe mancato di trattenermi. […]

Ma consideriamo per quale altro motivo sia così grande la speranza che morire sia un bene. Morire è una di queste due cose: o chi è morto non è e non ha percezione di nulla, oppure morire, come si dice, può essere per l'anima una specie di trasformazione (metabolé) e di trasmigrazione (metoikesis) da qui a un altro luogo. E se è assenza di percezione [40d] come un sonno, quando dormendo non si vede niente, neanche un sogno, allora la morte sarebbe un meraviglioso guadagno - perché io penso che se qualcuno, dopo aver scelto quella notte in cui dormì così profondamente da non vedere neppure un sogno, e paragonato a questa le altre notti e giorni della sua vita, dovesse dire, tutto considerato, quanti giorni e quante notti abbia vissuto meglio e più dolcemente di quella notte, penso che non solo un qualsiasi privato, ma lo stesso Gran Re [40e] troverebbe, rispetto agli altri, questi giorni e queste notti facili da contare - se dunque è questa la morte, io dico che è un guadagno; anche perché così il tempo tutto intero non sembra più di una notte sola. Se d'altra parte la morte è un emigrare (apodemesai) da qui a un altro luogo, ed è vero quel che si dice, che dunque tutti i morti sono là, o giudici, che bene ci può essere più grande di questo? Perché se qualcuno, [41a] arrivato all'Ade, liberatosi dai sedicenti giudici di qui, troverà quelli che sono giudici veramente, (39) che appunto si dice giudichino là, Minosse, Radamanto, Eaco, Trittolemo e tutti gli altri semidei che furono giusti nella loro vita, potrà forse essere, questa, una migrazione da nulla? O ancora per stare con Orfeo e con Museo, con Esiodo e con Omero, quanto ciascuno di voi accetterebbe di pagare? Se questo è vero, da parte mia sono disposto a morire più volte. Oltretutto, [41b] per l'appunto, là io avrei davvero un passatempo straordinario, se m'imbattessi in Palamede, in Aiace Telamonio o in qualcun altro degli antichi morto per un giudizio ingiusto, paragonando le mie esperienze alle loro - non credo che sarebbe spiacevole - e soprattutto non sarebbe spiacevole continuare ad esaminare ed interrogare quelli di là come quelli di qua, per capire chi di loro è sapiente e chi crede di esserlo, ma non lo è. Quanto sarebbe disposto a pagare chiunque di voi, giudici, per mettere sotto esame chi condusse contro Troia [41c] il grande esercito, o Odisseo, o Sisifo, o gli innumerevoli altri di cui si potrebbe dire, uomini e donne? Discutere con loro e starci insieme e metterli sotto esame non sarebbe una inconcepibile felicità? In ogni caso la gente di là non mi può certo far morire per questo: se quanto si dice è vero, quelli di là sono più felici di quelli di qua anche per altri aspetti e sono già immortali per il tempo che rimane. […]

Ma bisogna, giudici, che anche voi speriate bene davanti alla morte e teniate in mente questa verità, che [41d] non può esserci male per un uomo buono, né da vivo né da morto, e niente di quanto lo riguarda è trascurato dagli dei; anche le mie vicende d'ora non sono avvenute da sé, ma mi è chiaro che ormai per me morire ed esser liberato dal peso dell'azione era la cosa migliore. Per questo anche il segno non è mai intervenuto a distogliermi ed io personalmente non provo nessun rancore verso chi mi ha votato contro e chi mi ha accusato. A dire il vero, non mi hanno votato contro ed accusato con questa intenzione, ma pensando di danneggiarmi, [41e] e perciò meritano di essere biasimati. Tuttavia, a loro faccio questa preghiera: i miei figli, una volta cresciuti, puniteli, cittadini, tormentandoli come io tormentavo voi, se vi sembra che si preoccupino dei soldi e d'altro prima che delle virtù; e se fanno finta di essere qualcosa ma non sono nulla, svergognateli come io facevo con voi, perché non si prendono cura di ciò di cui occorre curarsi e pensano di essere qualcosa senza valer nulla. E se [42a] farete così, io sarò trattato giustamente da voi, ed anche i miei figli.
Ma è già l'ora di andarsene, io a morire, voi a vivere; chi dei due però vada verso il meglio, è cosa oscura a tutti, meno che al dio. (40)

Fonte: https://www.liceomalpighi.it/didattica/mferrari/downloads/Socrate.doc

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