Arthur Schopenhauer

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Arthur Schopenhauer

 

Arthur Schopenhauer (1788-1860)
l’arte in disubbidienza alla volontà di vita

1. Una filosofia controcorrente: uscire dai sistemi e dalla filosofia accademica delle università.
2. Negazione della volontà e della ragione, in uscita dall’inganno e dal dominio dei concetti.
3. La liberazione dell’arte.

Schopenhauer Arthur, 1818, 1844, 1859,  Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Roma-Bari 1986 (o A.Mondadori, Milano 1999 [Meridiani], o Rizzoli, Milano 2002)
Schopenhauer Arthur, 1838, La libertà del volere umano, Laterza, Bari 1970
Schopenhauer Arthur, 1840, Il fondamento della morale, Laterza, Bari1970
Schopenhauer Arthur, (a cura di Giangiorgio Pasqualotto), Il pensiero filosofico e morale, Le Monnier, Firenze, 1981
Schopenhauer Arthur, (a cura di Fabio Bazzani), Estetica e morale, La Nuova Italia, Firenze, 1991

1. Una filosofia controcorrente: uscire dai sistemi e dalla filosofia accademica delle università.
Nell'Introduzione alla sua opera principale, del 1818, pubblicata con data 1819, con il titolo Il mondo come volontà e rappresentazione, Arthur Schopenhauer (1788-1860) offre ai lettori alcune indicazioni che ritiene indispensabili per consentire la migliore comprensione del suo scritto e, aggiunge ironicamente, per evitare che il libro finisca per fare solo bella mostra di sé su un tavolo o un ripiano di libreria. Tali raccomandazioni costituiscono una vera e propria chiave d'accesso alla sua filosofia: Schopenhauer vuole preparare i lettori all'incontro con una concezione della vita che potrebbe disorientarli per il senso tragico e per il cupo pessimismo che la dominano, a causa del giudizio di illusorietà e di insensatezza che essa formula sul mondo; tanto più che in quegli anni prevalgono nelle università tedesche (dove Schopenhauer studia e successivamente cerca di affermarsi come insegnante, con scarso successo) ottimistiche filosofie della razionalità storica e naturale come l'idealismo di Fichte ed Hegel che proclamano la loro fiducia nella ragione, nello stato, nel progresso.

1.1. Le culture di contesto. La consapevolezza di essere un autore «controcorrente», escluso dagli ambienti accademici per «la congiura del silenzio» ordita contro di lui dall'idealismo di Hegel (un «mero ciarlatano», un «accademico mercenario»), induce Schopenhauer a prevenire ripetutamente il lettore (cui c'è «da scommetter grosso che il libro non piacerà»), fornendogli indicazioni circa le difficoltà che incontrerà, il particolare modo di lettura che dovrà seguire e, soprattutto, le conoscenze filosofiche che dovrà possedere per comprenderne il pensiero. Su quest'ultimo aspetto Schopenhauer è estremamente preciso: oltre le sue precedenti opere (Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, del 1813 e Sopra la vista e i colori, del 1816) il lettore dovrà conoscere gli scritti di Kant, e «se per di più il lettore s'è anche intrattenuto alla scuola del divino Platone, tanto meglio ne riuscirà preparato e disposto a udirmi; se poi anche è divenuto partecipe del benefizio dei Veda [...] e ha già ricevuto e accolto con animo ben disposto la consacrazione dell'antichissima saggezza indiana, allora è nel miglior modo preparato a udire ciò che io ho da esporgli.» Schopenhauer riconosce di aver dunque trovato ispirazione non tanto nelle opere di Fichte o di Hegel (dell’idealismo tedesco), bensì in quelle di Kant, di Platone e dell'antica sapienza indiana.
1.1.1. La naturale propensione a vedere l’illusorietà e la provvisorietà del mondo (già presente nei diari dell'adolescenza) ha condotto Schopenhauer a rileggere con passione ed entusiasmo le pagine in cui Kant si sofferma sui limiti della ragione e sull'inappagata ansia metafisica dell'uomo; a ritrovare nelle opere di Platone la pienezza del mondo ideale, regno dell'evasione e della contemplazione pura cui tende l'anima quando si libera dalla prigione del mondo sensibile; a valorizzare gli antichi scritti sapienziali indiani in cui dominano il nulla dell'esistenza umana, l'effimero delle sue vicende, l'eternità dell'essere sovrasensibile.

1.2. Il mondo come volontà e come rappresentazione. Occorre prendere consapevolezza della differenza tra il mondo che ci viene dato nelle nostre rappresentazioni e così come è organizzato dagli strumenti della nostra ragione e il mondo in sé considerato come una realtà autonoma dalle forme nelle quali lo percepiamo e lo organizziamo in funzione conoscitiva.
1.2.1. Il mondo è razionale solo come rappresentazione; assume forma razionale non in quanto la possegga in sé, come suo tratto strutturale e ontologico, ma nella gestione conoscitiva delle rappresentazioni o dei fenomeni attuata dalla ragione umana e sulla base di come la mente umana è conformata, cioè secondo le forme a priori che la caratterizzano, e già in qualche modo esposte da Kant (lo spazio, il tempo, la legge della causalità); forme che permettono di gestire le rappresentazioni coordinandole fino a presentare al soggetto pensante i dati fenomenici nella forma individuale di un oggetto (un oggetto per il soggetto, oggetti in rapporto al soggetto che li conosce, ma oggetti che per la natura conoscitiva della loro forma sono rappresentazioni del soggetto). «Dal grande Kant abbiamo appreso che tempo, spazio e causalità, con tutte le loro leggi e tutte le loro possibili forme, sussistono nella nostra coscienza del tutto indipendentemente dagli oggetti che in essi appaiono e che ne costituiscono il contenuto, o in altre parole: che essi possono essere trovati altrettanto bene partendo dal soggetto che partendo dall'oggetto, e che quindi li si può chiamare con pari diritto modi dell'intuizione del soggetto o anche modi di essere dell'oggetto in quanto è oggetto (in Kant: fenomeno), cioè rappresentazione.» (Il mondo I, Rizzoli, p. 292)
Le rappresentazioni-oggetto del soggetto sono tra loro associate secondo leggi determinabili a priori, esprimibili nel principio di ragion sufficiente (del divenire [la relazione causa-effetto], del conoscere [la relazione tra premesse e conseguenze], dell’essere [la natura spazio-temporale degli enti esistenti], dell’agire [la relazione di causa tra motivo e azione]). «Tutto ciò che appartiene o può appartenere al mondo [al mondo che è dato alla nostra conoscenza e di cui parliamo], deve inevitabilmente avere come condizione esclusiva il soggetto ed esistere soltanto per il soggetto  […] …noi non sappiamo punto distinguere un tale oggetto dalla rappresentazione, anzi troviamo che questa e quello sono tutt’uno, poiché ogni oggetto sempre e perennemente presuppone un soggetto, e rimane quindi rappresentazione; così pure abbiamo conosciuto il fatto d’essere oggetto, come appartenente alla più generale forma della rappresentazione, che è appunto la scissione in oggetto e soggetto. Inoltre il principio di ragione, al quale ci si riferisce in tale proposito, è per noi similmente la pura forma della rappresentazione, ossia il regolare collegamento di una rappresentazione con un'altra, e non collegamento dell'intera, finita o infinita serie delle rappresentazioni con qualcosa che non sia rappresentazione, né sia quindi rappresentabile.» (Il mondo I, Laterza, p.147s).
1.2.1.1. Il mondo si dà alla nostra conoscenza come rappresentazione: oggetto dell'intelletto è dunque il fenomeno, non la realtà in sé, il mondo della rappresentazione e non il mondo delle essenze. Riferire le capacità conoscitive della mente umana alle sole rappresentazioni significa, in un certo senso, fare ritorno a Kant, riprendere l'idea della conoscenza come processo in cui la mente organizza il dato dell'esperienza in oggetti, servendosi delle proprie forme a priori; ciò significa dunque riaffermare che la mente umana estende la sua conoscenza al solo mondo dei fenomeni e delle rappresentazioni, mentre le resta precluso l'incontro con la realtà in sé. Tornare a Kant significa pertanto denunciare l'inaccettabile mistificazione con cui i filosofi tedeschi dell'idealismo assoluto presentano il proprio sistema razionale (e quindi le relazioni tra fenomeni elaborate dalla loro ragione) come essenza e disegno metafisico del mondo.
1.2.1.2. L’universo inteso come mondo razionalmente ordinato, cioè l’'universo ordinato e confortante che la conoscenza scientifica ha costruito con le sue categorie, è il mondo delle rappresentazioni, dei fenomeni; riguarda ciò che è apparenza, pura superficie fenomenica. È dietro di essa che si cela, protetto da un velo invalicabile per l'intelletto, il vero volto, l'essenza del mondo; è impossibile cogliere la realtà, la sua vera essenza attraverso la conoscenza, proprio questa infatti ne impedisce l’accesso in quanto la avvolge in una rete sempre più fitta di forme concettuali razionali proprie del soggetto. A differenza dei dati fenomenici e del ruolo organizzativo della scienza, è l’in sé della realtà che diventa il compito della filosofia; è questa la sfida che essa deve sostenere nei confronti delle scienze che pensano di potersi fermare alla costruzione secondo oggetti del mondo come è dato nelle rappresentazioni. «Tuttavia, sull’intima essenza d’uno qualsiasi tra codesti fenomeni non riceviamo con ciò la minima luce: tale essenza viene chiamata forza naturale e sta fuor del dominio della spiegazione etiologica; la quale chiama legge naturale l'immutabile costanza nell’apparir della manifestazione di codesta forza, ogni qual volta si presentino le condizioni che l'etiologia ha riconosciute. Ma questa legge naturale, queste condizioni, questo apparir d'un fenomeno in luogo determinato, a tempo determinato, è tutto ciò che essa conosce e potrà conoscere. La forza in sé, che si manifesta, l'intima essenza dei fenomeni, producentesi secondo quelle leggi, rimane per lei sempre un segreto, alcunché di straniero ed ignoto, tanto nei fenomeni più semplici, quanto nei più complicati.» (ibidem)
1.2.2. La sfida del mondo in sé (del noumenico). «Ma ciò, che ora ci spinge all'indagine, è appunto questo: che non ci basta saper che abbiamo rappresentazioni, che le rappresentazioni sono così e così, e che si collegano secondo queste o quelle leggi, delle quali è sempre espressione generale il principio di ragione. Noi vogliamo sapere il significato della rappresentazione: noi domandiamo, se questo mondo non sia altro che rappresentazione; nel qual caso dovrebbe passare davanti ai nostri occhi come un sogno inconsistente, o una fantastica visione, indegna della nostra attenzione; o se non sia qualcosa d'altro, qualcosa di più, e che cosa sia. Si vede subito, che questo, a cui miriamo, è alcun ché di sostanzialmente diverso dalla rappresentazione, e che devono essergli del tutto estranee le forme e le leggi di questa: sì che, partendo dalla rappresentazione, non si può giungere ad esso seguendo il filo di quelle leggi, le quali collegano soltanto fra loro oggetti, rappresentazioni; leggi che sono poi le forme del principio di ragione. Vediamo già a questo punto, che all'essenza delle cose non si potrà mai pervenire dal di fuori: per quanto s'indaghi, non si trova mai altro che immagini e nomi. Si fa come qualcuno, che giri attorno ad un castello, cercando invano l'ingresso, e ne schizzi frattanto le facciate. Eppur questa è la via tenuta da tutti i filosofi prima di me.» (ibidem)
1.2.2.1. Dove si ferma la filosofia razionale di Kant, prende avvio la nuova filosofia di Schopenhauer. Kant presenta il dato fenomenico come unica sede della conoscenza e dichiara del tutto inconoscibile la realtà in sé (il noumeno), pensata oltre il limite della rappresentazione; in tal modo, obietta però Schopenhauer, Kant non ha delineato il campo della filosofia, ma della scienza; se questa ha il proprio contesto nell'ambito delle rappresentazioni, la filosofia deve invece andare oltre i dati fenomenici per cogliere la realtà in sé. Il limite nel quale si imbatte la filosofia di Kant diventa dunque il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer che intende superare il mondo razionale, sistematico, ma illusorio delle rappresentazioni ordinate scientificamente, per cogliere l'essenza della realtà in sé. Andare al di là delle rappresentazioni significa allora andare al di là della ragione, cogliere la radice occulta dell'infinito inganno di cui è vittima la ragione, espressione della volontà di vita, quando presenta come realtà le proprie rappresentazioni.
1.2.2.2. A differenza di quanto propone Kant, che confida nella conoscenza scientifica dell'ambito fenomenico rinunciando alla realtà in sé, dichiarata inconoscibile (in quanto in sé, noumeno, perciò solo pensata come esistente ma non conosciuta nella sua essenza), Schopenhauer orienta la sua riflessione verso il superamento delle rappresentazioni del soggetto: se la conoscenza scientifica, come Schopenhauer spiega nel Mondo come volontà e rappresentazione, si limita a organizzare impressioni sensibili, mediante le forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità, le connessioni che tali forme pongono tra le impressioni sono allora semplici proiezioni dell'intelletto sulla realtà esterna. Il sapere scientifico è pertanto illusorio; non coglie le forme oggettive della realtà, ma si limita a organizzare rappresentazioni soggettive; nelle conoscenze cui perviene la scienza non vi sono che relazioni superficiali, esteriori tra apparenze, tra rappresentazioni. Come qualcuno che giri attorno ad un castello, cercando invano l'ingresso, e ne schizzi frattanto le facciate, gli studiosi si sono sinora limitati a ordinare le proprie rappresentazioni senza mai pervenire alla verità ultima. Essa è nascosta dietro il velo di Maia, la rete di concetti con cui l’intelletto cela a se stesso la natura intima del mondo, il principio che informa di sé ogni realtà. Questo principio è la volontà; forza cieca, irrazionale, infinita che è oggettivata nel mondo e agisce in ogni essere (vegetale, animale, umano) generando incessantemente in esso impulsi, slanci, tensioni, desideri.

1.3. Il corpo, “fessura nella massa compatta dei fenomeni” e nella trama fitta della razionalità, il varco verso la realtà in sé.
La via di uscita dai sistemi illusori della ragione, la fessura nella massa compatta dei fenomeni e nella fitta trama della razionalità, può essere data solo da un'esperienza non rappresentativa del mondo; tale occasione è offerta all'uomo dall'esperienza del proprio corpo. Se a uno sguardo esterno, dal punto di vista cioè della conoscenza intellettiva, il corpo è avvertito come una rappresentazione, per esperienza interna, quale ognuno avverte e vive immediatamente, il corpo è volontà: l'essenza metafisica del corpo consiste nel suo essere atto primo, originario e gratuito della volontà di vita.
1.3.1. L’esperienza immediata del corpo. Per entrare nell’essenza della realtà (in quel castello intorno al quale l'uomo di scienza si aggira inutilmente) il filosofo dispone di un filo di Arianna, di una guida insostituibile; è solo grazie a essa che gli è possibile sollevare il velo di Maia del principio di individuazione e vedere che cosa si nasconde oltre le rappresentazioni: questo insostituibile ausilio è offerto dal corpo.
«In verità, il senso tanto cercato di questo mondo che mi sta davanti come mia rappresentazione — oppure il passaggio da esso, in quanto pura rappresentazione del soggetto conoscente, a quel che ancora può essere oltre di ciò — non si potrebbe assolutamente mai raggiungere, se l'indagatore medesimo non fosse nient'altro che il puro soggetto conoscente (alata testa d'angelo senza corpo). Ma egli ha in quel mondo le proprie radici, vi si trova come individuo: ossia il suo conoscere, che è condizione dell'esistenza del mondo intero in quanto rappresentazione, avviene in tutto e per tutto mediante un corpo; le cui affezioni, come s'è mostrato, sono per l'intelletto il punto di partenza dell'intuizione di quel mondo. Codesto corpo è per il puro soggetto conoscente, in quanto tale, una rappresentazione come tutte le altre, un oggetto fra oggetti: i suoi movimenti, le sue azioni non sono da lui, sotto questo rispetto, conosciute altrimenti che le modificazioni di tutti gli altri oggetti intuitivi; e gli sarebbero egualmente estranee ed incomprensibili, se il loro senso non gli fosse per avventura svelato in qualche modo affatto diverso. In caso contrario, vedrebbe la propria condotta regolarsi con la costanza d'una legge naturale sui motivi che le si offrono, proprio come le modificazioni degli altri oggetti sono regolate da cause, stimoli, motivi.
Ma non comprenderebbe l'influsso dei motivi meglio di quanto comprenda il nesso di ogni altro effetto, a lui visibile, con la causa rispettiva. All'intima, per lui incomprensibile essenza di quelle manifestazioni ed operazioni del suo corpo, egli seguiterebbe allora a dare i nomi di forza, qualità, carattere, a piacere: e non vedrebbe più addentro. Ma le cose non stanno, così: al soggetto conoscente, che appare come individuo, è data la parola dell'enigma; e questa parola è volontà. Questa, e questa sola, gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli manifesta il senso, gli mostra l'intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti. Al soggetto della conoscenza, il quale per la sua identità col proprio corpo ci si presenta come individuo, questo corpo è dato in due modi affatto diversi: è dato come rappresentazione nell'intuizione dell'intelletto, come oggetto fra oggetti, e sottomesso alle leggi di questi; ma è dato contemporaneamente anche in tutt'altro modo, ossia come quell'alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime. Ogni vero atto della sua volontà è immediatamente e ineluttabilmente anche un moto del suo corpo: egli non può voler davvero l'atto, senz'accorgersi insieme ch'esso appare come movimento del corpo. L'atto volitivo e l'azione del corpo non sono due diversi stati conosciuti oggettivamente, che il vincolo della causalità collega; non stanno fra loro nella relazione di causa ed effetto: bensì sono un tutto unico, soltanto dati in due modi affatto diversi, nell'uno direttamente, e nell'altro mediante l'intuizione per l'intelletto. L'azione del corpo non è altro che l'atto del volere oggettivato, ossia penetrato nell'intuizione. […]  il corpo intero non è altro se non la volontà oggettivata, ossia divenuta rappresentazione - tutte cose che risulteranno e appariranno evidenti dalla successiva trattazione. Chiamerò dunque qui il corpo, sotto questo punto di vista, l’obiettità della volontà.» (ibidem)
1.3.1.1. Il corpo è anch’esso, per un certo verso, rappresentazione, oggetto colto nella sua fenomenicità dall'intelletto, ma è primariamente e immediatamente volontà, impulso a vivere e agire; è in tal modo che, in prima e globale esperienza, ogni individuo sente dentro di sé. «Il corpo - spiega Schopenhauer - è dato come rappresentazione nell'intuizione intellettuale, oggetto fra oggetti e sottomesso alle leggi di questi, ma è dato contemporaneamente anche in tutt'altro modo, ossia come quell'alcunché direttamente conosciuto, che la volontà esprime.» Ogni uomo sente che dentro di sé, nel suo corpo, negli impulsi che orientano i suoi desideri, che dirigono le sue azioni vi è una forza, uno slancio che è volontà di vivere, affermarsi, soddisfarsi, il corpo è volontà.
1.3.2. Il varco aperto e il nuovo percorso della filosofia. Proprio riconoscendo nel proprio corpo la volontà di vivere, l'uomo può sollevare il velo di Maia e spingersi oltre i fenomeni, per cogliere la verità; si tratta di una fessura e di un varco tra i fenomeni che permette l’accesso alla realtà oltre le rappresentazioni e la loro gestione razionale; essa inaugura una scoperta e rilettura del reale a partire dalla Volontà, essenza metafisica unica del mondo. Ascoltando il premere dei bisogni, delle pulsioni, delle tensioni che si celano in ogni movimento del corpo, in ogni azione, in ogni sentimento o passione, l'uomo può cogliere la volontà che domina con il suo «cieco e irresistibile impeto» l'intero universo: «ferve e vegeta nella pianta, forma il cristallo, volge la bussola al polo, scocca nel contatto di due metalli eterogenei, si rivela nelle affinità elettive della materia, nella gravità», nella storia degli uomini.    

1.4. La Volontà di vita essenza del mondo.
Risultati di una ricerca metafisica: l’essenza della realtà è la Volontà di vita. L'uomo, la natura, la storia non sono realtà ordinate, armoniche, regolate da principi o leggi razionali; la razionalità è un’esigenza dell’uomo e corrisponde al modo di essere della sua mente, gli accadimenti naturali o storici che accadono nella realtà sono esterni a questa urgenza di razionalità, sono casuali, irrazionali, istintuali, perché cieca, irriflessa, impulsiva è la volontà che li pone in essere. Essenza metafisica del mondo, posta oltre il quadro illusorio delle rappresentazioni delineato dalla ragione, la volontà di vita si presenta come un impulso originario, assolutamente libero, gratuito e ingiustificabile, sottratto dunque a ogni possibile lettura razionale. La stessa ragione si presenta, anzi, come una raffinata strategia illusoria di cui la volontà si serve per irretire gli uomini nel gioco della vita, coinvolgere il loro agire nel proprio impulso vitalistico, senza consentire loro di cogliere la vera essenza irrazionale del mondo.
; essa è nascosta dietro il “velo di Maia”, costruito dalla ragione e risultato del sapere scientifico e filosofico che si limita al dato delle rappresentazioni. Organizzando i dati della rappresentazione, la ragione e la scienza (ma dietro di loro agisce la volontà di vita) creano l’illusione di un ordine razionale del mondo e della autonomia individuale di ogni realtà (oggetto o persona); un velo che nasconde alla conoscenza la natura intima del mondo, nasconde il principio che informa di sé ogni realtà. Riconoscendo invece nel proprio corpo la volontà di vivere, l’uomo può sollevare il velo di Maia della razionalità e delle sue illusioni, e spingersi oltre i fenomeni, per cogliere la verità.
1.4.1. L’essenza metafisica irrazionale della realtà. La volontà, principio essenza del mondo, posta oltre le rappresentazioni e oltre la ragione che si occupa solo di rappresentazioni, è forza istintiva, immediata, cieca, irrazionale, infinita; è impulso universale; è oggettivata nel mondo e agisce in ogni essere (vegetale, animale, umano) generando incessantemente in esso impulsi, slanci, tensioni, desideri. Riportata alla sua essenza originaria la realtà è dunque espressione di volontà (la cosa in sé di Kant diviene la volontà di vita in Schopenhauer); ne deriva che l’uomo, la natura, la storia non sono realtà ordinate, armoniche, regolate da principi o leggi razionali: gli accadimenti che vi si svolgono sono casuali, irrazionali, istintuali, così come cieca, irriflessa, impulsiva, gratuita e ingiustificabile è la volontà che li pone in essere.
Governato dalla volontà, l'uomo aspira dolorosamente a soddisfare i suoi desideri senza mai un termine, mai un definitivo appagamento, mai un riposo: inappagato, incompiuto, soffre o si annoia, consumando la sua esistenza in un'insensata, indefinita tensione da cui sembra non potersi liberare, se non al prezzo della noia. Fintanto che il desiderio, acceso dalla volontà, resta inappagato, l'uomo infatti prova dolore, si affanna, soffre; quando la tensione trova momentanea soddisfazione, giunge la noia a ricordare che, privato dell’ansia di vivere, dell’affanno quotidiano alla rincorsa di obiettivi proclamati come stati sociali irrinunciabili e imperdibili, l’uomo non trova più senso al proprio vivere, non riesce a trovare un valore per l’umanità e per il tempo storico. L’uomo è talmente irretito nella illusione della propria individualità in autoaffermazione e nel disegno senza fini e senza fine della volontà di vita che, senza la tensione della volontà, la vita gli appare insignificante e vuota. La valutazione di Schopenhauer, etichettata spesso in termini di pessimismo, è, in realtà, un pessimismo della presa di coscienza e della rinascita; ora solo un atto di profonda ribellione può tradursi in liberazione e rilancio; questo è il vero obiettivo della filosofia e delle forme di cultura che è in grado di proporre e di sostenere.

2. Negazione della volontà e della ragione, in uscita dall’inganno e dal dominio dei concetti.
Storicamente (e manualisticamente) è lo scontro tra due filosofie e due impostazioni totali: razionalismo e irrazionalismo, ottimismo e pessimismo, sistema e antisistema, Hegel e Schopenhauer.  Poiché muovono da opposti principi (per Hegel lo Spirito Assoluto, unico e totale, oggettivo e soggettivo, è razionalità, per Schopenhauer l’essenza della realtà, la Volontà è cieca irrazionalità) le concezioni del mondo che i due filosofi elaborano si vengono a contrapporre completamente: per Hegel si tratta di comprendere la razionalità che è nella realtà, nella storia, nell'uomo, nella vita; per Schopenhauer, una volta svelato il principio che si afferma in ogni atto volitivo dell'uomo, si tratta di trovare una via di fuga da questa sorta di prigionia.
2.1. l’atto eroico della liberazione umana che si affranca dalla ragione e dalla volontà di vita.
Occorre avviare un cammino di liberazione e affrancamento sia dall’ottuso ottimismo conciliante e nascondente con cui i concetti della ragione e i sistemi razionali, dominanti e totalizzanti, annullano l’umanità, sia dalla insensata e cieca Volontà di vita che, in nome di un vitalismo fine a se stesso e senza motivi, gestisce l’intero inganno della realtà scientificamente definita e della individualità, della conoscenza, della scienza e della filosofia razionale dominante. Si tratta dunque di un cammino di affrancamento che con un’unica strategia attiva una doppia liberazione
2.1.1. liberazione dai sistemi della razionalità che irretiscono l’uomo nel bozzolo confortante delle sole rappresentazioni. Si rivelano strettamente unite la volontà di vita e la logica dell’illusione. Lo stesso impulso razionale (e scientifico) dell’uomo è una espressione particolare della volontà di vita:  è infatti proprio la volontà ad essere la radice dell’impulso umano della ragione che spinge alla lettura e organizzazione scientifica (per spazio, tempo, causa) dei dati fenomenici in sistemi razionali. La ragione, che formava l’orgoglio dell’uomo e della filosofia e della sua storia, si presenta come una raffinata strategia di cui la volontà si serve per irretire gli uomini nel gioco della vita senza consentire loro di cogliere la vera essenza irrazionale del mondo; è la volontà di vita che sorregge la mente nell’illusione idealistica e metafisica di credere che la realtà in sé sia organizzata secondo le trame con cui la nostra ragione organizza le rappresentazioni; ed è sempre la volontà di vita che, attraverso le forme della ragione, crea per ogni uomo la convinzione di una propria individualità come dato reale mentre è solo illusione sostenuta dal lavoro dell’intelletto che organizza le rappresentazioni secondo le forme a priori della mente: spazio, tempo, causa. L’illusione della propria individualità è “velo di Maia” che non ci rende avveduti del nostro inesorabile far parte e momento di un sistema di cui siamo aspetto ed espressione e che dispone di noi totalmente secondo una propria logica di autoproduzione e di vita. 
2.1.1.1. Nessuno può spacciare i rapporti elaborati dall’intelletto e i concetti elaborati dalla ragione a forza di astrazioni come se fossero relazioni reali e come se fossero il mondo.
Implacabile (e spesso livoroso) è l’attacco di Schopenhauer alla filosofia accademica dominante a cui imputa il misfatto del totale e sapiente inganno di cui una cultura di sistema è capace.
Ciò che stupisce e indigna Schopenhauer èche nessuno sembra avvedersi della «pagliacciata filosofica» di Hegel, del suo «mondo alla rovescia»: «l’idea di capovolgere l’andamento vero e naturale delle cose e considerare iconcetti generali […] come la realtà prima, originaria, veramente reale, con l’aggiunta che tali concetti si penserebbero e si muoverebbero da soli, senza che noi si faccia nulla èun delirio dei pazzi»; l’automovimento dialettico dei concetti che «liberamente e per proprio conto fa le sue capriole nell’aria o nell’empireo» èuna «bolla di sapone» di cui i giovani non si rendono conto perché abbacinati dall’arte oratoria di cui Fichte, Schelling e soprattutto Hegel sono maestri. Mentre infatti i veri filosofi temono ogni artificio retorico e si esercitano nell’arte della chiarezza e della esattezza, gli idealisti, con Hegel in testa, amano le «sofisticherie», si cimentano in arditi neologismi, «parole composte, periodi sterminati, espressioni nuove e inaudite» con cui mascherano la povertà dei loro contenuti, le «fandonie», le «noci vuote», i «vaniloqui» di cui intessono i loro scritti; come giocatori di domino, mettono insieme pezzi di discorsi componendo quel guazzabuglio di pensieri che è la «ciarlataneria idealistica». «Ciarlatano» è uno degli appellativi più delicati con cui Schopenhauer nomina Hegel; e prosegue ironicamente:«Tale contegno, che per giunta si raccomanda anche a causa della sua oltremodo facile applicazione, consiste notoriamente nell'assoluto ignorare, e quindi nell'«insegretire», secondo la maliziosa espressione di Goethe; che propriamente indica la soffocazione di ciò che è importante e significante» (Il Mondo, I, 20).
2.1.2. liberazione dalla Volontà di vita. Si tratta di un atto di disubbidienza metafisica che assume i tratti di un’etica (un cammino) eroica ma del vivere quotidiano: della bellezza, della compassione e carità, della contemplazione pura. La filosofia, con Schopenhauer, restituisce il “mondo in sé” alla sua autonomia, sottraendolo a quella riduzione alla ragione (all’ordine razionale) cui l’aveva destinato, ridotto e condannato, il razionalismo moderno occidentale. E, dopo l’analitica scoperta della volontà di vita, irrazionale e priva di senso, come essenza del mondo, dopo aver denunciato la forza illusoria della ragione, la sua filosofia indica la strada della liberazione e dell’affrancamento dalla volontà di vita e dal suo irretimento illusorio. La filosofia è dunque un atto progressivo di disubbidienza metafisica che è insieme di liberazione dalle schiavitù e dall’errore; essa diventa contestualmente la costruzione di una nuova antropologia che si definisce in negativo nei confronti della ragione e della volontà di vita e che, in termini di filosofia pratica estetica ed etica, guida verso le strade della liberazione (un’antropologia, una percezione artistica e un’etica al negativo).
2.1.3. A negare la volontà di vita e la sua cieca insensatezza sono risposte illusorie il suicidio e l’impulso amoroso. Il suicidio, che sopprime il corpo e dunque la volontà che in esso è obiettivata, non affranca l'uomo ma lo condanna alla sconfitta nei confronti della Volontà di vita. Il suicida infatti non fa che riaffermare la volontà, esprimendo con il suo estremo gesto la volontà di vivere in altro modo, ad altre condizioni: «Lungi dall'esser negazione della volontà il suicidio è invece un atto di forte affermazione della volontà stessa. Poiché la negazione ha la sua essenza nel disprezzare non già i mali, bensì i beni della vita, il suicida vuole la vita, ed è solo malcontento delle condizioni che gli sono toccate»; del resto, nota amaramente Schopenhauer, la morte di un uomo lascia intatta la volontà, che continua dispoticamente ad agire negli altri esseri.
Illusoria quanto il suicidio è la via che l'amore sembra offrire per sfuggire al dispotismo della volontà: nell'amore, che è generoso dono di sé, l'uomo crede infatti di annullare l'individualismo e l'egoismo che la volontà genera in lui per affermare i propri slanci; in realtà l'amore si rivela l'espediente di cui la volontà si serve perché vengano generati altri esseri nei quali essa possa agire. L'amore, non meno dell'egoismo, si rivela strumento di dominio della volontà.

2.2. le vie di uscita, le vie di liberazione: la filosofia della negazione e dell’uscita dall’inganno: arte, etica, noluntas, in progressione
2.2.1. arte
Forme in grado di contrastare la tirannia dei bisogni e della volontà sono le esperienze artistiche: esse consentono infatti all’uomo di sottrarsi al flusso dei bisogni, propri dell’esistenza quotidiana, alle illusioni di oggetti singoli creati dal principium individuationis e di sollevarsi alla purezza delle idee, oggettivazioni eterne e universali della volontà. L’artista abbandona i principi dell’intelletto e della ragione, si solleva oltre la dimensione dello spazio, del tempo, della causalità per cogliere il mondo ideale: al suo sguardo si rivela il puro mondo delle essenze (del bello, del dolore, della gioia ecc.), negato a tutti coloro che restano nell’ambito delle rappresentazioni sensibili e molteplici e dei concetti organizzativi della ragione.
La creazione artistica è però un'esperienza rivelativa temporanea, capace di svelare solo per qualche momento il mondo ideale della bellezza e la scoperta del dolore puro; non è dedicandosi ad essa che l'uomo può sperare di liberarsi definitivamente della volontà. Le forme dell’arte inaugurano tuttavia un cammino per giungere progressivamente alla liberazione dalla Volontà di vita.
2.2.2. etica
Per placare il permanente dominio della volontà, l'uomo deve riuscire a superare l'egoismo e le passioni di cui essa si serve per indurre gli individui all'affermazione di sé, deve imparare a sentire e condividere, nella compassione, il dolore di cui tutti gli uomini soffrono. La liberazione dalla volontà si presenta allora come un cammino che vede l'uomo impegnato a sconfiggere le forze che la volontà stessa impiega per garantirsi il dominio su di lui: l'egoismo, le passioni, l'ingiustizia e, infine, il desiderio stesso di vivere. Allargando il proprio sguardo e il proprio sentimento sino a comprendere e assumere su di sé il dolore degli altri esseri, l'uomo può sradicare gli impulsi egoistici e vitali che lo spingono a desiderare e ad agire: la compassione, che Schopenhauer presenta come sentimento della condivisione, come compartecipazione alla sofferenza degli uomini, consente a coloro che si innalzano ad essa (e sono pochi) di vivere nella giustizia (l'astensione dal nuocere) e nella carità (l'amore disinteressato).
2.2.2.1. L’ingresso nell’etica della pietas, in opposizione alla logica (irrazionale) della volontà di vita, è resa possibile dal proprio essere corpo, se la corporeità non è consegnata solamente al modo con cui la scienza lo studia e definisce basandosi sulle sole rappresentazioni, e quindi parlando di un corpo visto dall’esterno come fenomeno, ma è vissuta come situazione immediata, globale e originaria della persona.
Il corpo-volontà: accesso all’etica. L’esperienza del corpo coincide con la volontà. Il corpo è il nostro essere all’esterno e quindi il nostro essere relazione, presenza e volontà; è nella sua essenza volontà, dunque sede di etica. «Del proprio corpo, a guardar bene, si prende coscienza direttamente, in quanto organo del volere che agisce verso l’esterno» (La libertà del volere umano). «L’atto volitivo e l’azione del corpo … sono un tutto unico» (Il mondo come volontà e rappresentazione).  Viceversa, la dimensione corporale della volontà fa sì che l’etica trascini nell’azione la vita nella sua totalità e immediatezza e non impegni solo la mente, non faccia capo solo a teorie o a formali imperativi etici.
2.2.2.2. contro le morali razionali (solo razionali) e quindi prescrittive ed eteronome. La vera etica non è quella trasformata in scienza prescrittiva, che diventa così razionale, solo superficiale e fenomenica, quindi “eteronoma” [l’attacco è, per ironia della sorte, rivolto anche a Kant], incapace di esprimere l’essenza dell’uomo e del corpo e della volontà sottratti all’impero della unica volontà di vita; la vera etica è espressione di «quell’alcunché direttamente conosciuto da ciascuno, che la parola volontà esprime», cioè il corpo. Solo un’etica che non si ferma alla legge (la ragione del resto si riferisce al solo campo delle rappresentazioni) e che si colloca nell’essenza metafisica dell’uomo, nella sua volontà oggettivata nel corpo, acquista un ruolo centrale nei progetti pratici dell’umanità e non resta al livello delle convenzioni e delle rappresentazioni. La ragione per cui non può esistere un’etica normativa ma solo descrittiva è ben più profonda di quella di una semplice esigenza morale: non esiste nessuna scienza normativa ma solo descrittiva (se la scienza diventa normativa, e indica leggi, lo può fare solo sulla base della descrizione); la sede dell’etica è il corpo e non la (sola) ragione. Ogni etica prescrittiva è ferma al mondo delle rappresentazioni, è esterna all’essenza dell’uomo, è politica.
Quindi, contro un’etica normativa di tipo politico e, soprattutto, contro l’ipotesi di uno “stato etico”. «Alcuni filosofastri tedeschi di quest’epoca venale vorrebbero trasformarlo (lo stato) in un organismo di educazione e di edificazione morale; qui sta in agguato, sullo sfondo, l’obiettivo gesuitico di sopprimere la libertà personale e lo sviluppo individuale dei singoli per farli diventare una semplice ruota di una macchina religiosa-statale alla cinese». (Il mondo come volontà e rappresentazione)  
2.2.2.3. Un’etica della “disubbidienza metafisica”.
2.2.2.3.1. Il corpo, come volontà oggettiva, sottratto al destino razionale scientifico di mero oggetto della rappresentazione, rivendicante per sé individualità (principium individuationis), è già in distacco, ribellione e disubbidienza nei confronti della volontà di vita universale e unica, e contro il destino di vita-morte imposto dal samara.
2.2.2.3.2. La persona, nella propria corporeità etica, è immediata relazione, collegamento, rapporto. Per placare il permanente dominio della volontà, l’uomo deve riuscire a superare l’egoismo e le passioni di cui essa si serve per indurre gli individui all’affermazione di sé, deve imparare a sentire e condividere, nella compassione, il dolore di cui tutti gli uomini soffrono. La liberazione dalla volontà si presenta allora come un cammino che vede l’uomo impegnato a sconfiggere le forze che la volontà stessa impiega per garantirsi il dominio su di lui: l’egoismo, le passioni, l’ingiustizia e, infine, il desiderio stesso di vivere. Compassione, giustizia e carità sono i suoi atti etici in evidente contrasto con l’essenza metafisica del mondo che è volontà di vita in termini di egoismo irrazionale, istinto gratuito, impulso di sopraffazione.
2.2.2.3.3. Smascherato l’inganno metafisico della ragion e abbandonato il principium individuationis, allargando allora il proprio sguardo e il proprio sentimento sino a comprendere e assumere su di sé il dolore degli altri esseri, l’uomo può sradicare gli impulsi egoistici e vitali che lo spingono a desiderare e ad agire. La compassione, che Schopenhauer presenta come sentimento della condivisione, come compartecipazione alla sofferenza degli uomini, consente a coloro che si innalzano ad essa (e sono pochi) di vivere nella giustizia (l’astensione dal nuocere) e nella carità (l’amore disinteressato).
2.2.2.3.4. Questo tipo di etica, che si pone in contrasto con l’egoismo della volontà di vita, costituisce un’eroica trasgressione all’imperio che la volontà esercita abitualmente sull’uomo; solo nella forma dell’amore puro e nobile (agàpe) e non nell’egoistico desiderio di possesso (éros) potrebbe dunque consistere il superamento della volontà. Dunque alcune distinzioni analitiche.
2.2.2.4. etica della pietas (compassione): pietas, giustizia e carità.
2.2.2.4.1. pietas (compassione): se la mia azione è compiuta soltanto a causa di un altro è necessario che il suo bene e il suo male siano il mio motivo immediato, così come nelle altre azioni lo è il mio bene personale; «…la compassione si manifesta nel partecipare sinceramente al suo bene e al suo male, e nei sacrifici disinteressati che per lui si fanno. … in italiano compassione e puro amore vengono indicati con la stessa parola: pietà»
2.2.2.4.2. giustizia: è la definizione negativa della pietà: la mia pietà mi trattiene dal causare all’altro un dolore; “neminem laede”.
2.2.2.4.3. carità: è la definizione positiva della pietà: la «compassione è agàpe» la mia pietà mi stimola ad aiutare attivamente il mio simile, in immediata partecipazione, non fondata su alcuna argomentazione razionale; “omnes juva quantum potes”
La pietà ha un fondamento metafisico e solo su tale base trova la propria forza e non è consegnata ai soli propositi etici volontaristici. Superando le diversità e la molteplicità come dati puramente fenomenici, e superando l’inganno dell’individualità, con la pietas la persona coglie e avverte che una sola e medesima essenza si manifesta in ogni cosa che vive; che un individuo riconosca se stesso e la sua vera essenza in un altro (oltre l’inganno del velo di Maia), questa è la definizione della pietà; essa immediatamente si manifesta in termini di giustizia e carità.
I termini che ricorrono (compassione, pietà, giustizia, carità, agape) sono cristiani ma la morale è laica. E si tratta di una morale eroica: la compassione, come giustizia e carità, è un atto eroico di contrasto metafisico che rifiuta di collocare l’agire nella affermazione della propria individualità illusoriamente considerata come realtà prima e sostanziale. La nostra più profonda essenza è volontà; se essa viene sottratta alla definizione costruita dalla ragione, secondo le proprie forme a priori, e all’uso in cui la colloca la volontà di vita unica del mondo in un gioco infinito e senza senso, allora, tale volontà che noi essenzialmente siamo è stare nel pieno e immediato ascolto in cui ci colloca per definizione la nostra essenza, la nostra corporeità e la nostra umanità. I tratti di chi ha compiuto un simile cammino estetico ed etico: «Perciò appunto il tutto è per lui interessante, ed egli cerca di comprenderlo, per rappresentarlo, o per spiegarlo, o per agire praticamente su esso. Perché esso non gli è estraneo; egli sente che ne fa parte. Per questa estensione della sua sfera lo si chiama grande. Perciò spetta solo al vero eroe, in qualunque senso, ed al genio questo sublime predicato: il quale dice, che essi, contrariamente alla natura umana, non hanno cercato la loro propria cosa, non hanno vissuto per sé, ma per tutti.» (Il mondo Supplementi II, 31, Bazzani, 23)
È necessario non dimenticare mai la portata dell’etica nella filosofia di Schopenhauer, anche quando l’impianto espositivo della sua proposta filosofica sembra consegnarla al ruolo di tappa intermedia e quasi in superamento: «Il problema morale si pone a conclusione dell’intero sistema schopenhaueriano e di esso fornisce il senso autentico, nonché la giustificazione ultima della costruzione di quel sistema medesimo.» (Bazzani Fabio, XXXVI)
2.2.3. al vertice della “disubbidienza” un nulla etico: la Noluntas, l’estinguersi della volontà.
L’annullamento della volontà di vita si attua completamente solo nella dimensione dell’ascesi, nel passaggio dall’agire per gli altri alla rinuncia ad agire, cioè nella rinuncia a considerare l’agire come strumento e fine massimo della realizzazione di sé. Ogni azione infatti continua a conservare in sé una volontà di affermazione e autoaffermazione come individualità e si presenta dunque, sotto parvenze individuali, come una continua sopraffazione della volontà di vita e della sua insensata dinamica di sopraffazione e di dolore.
2.2.3.1. Solo l’asceta, annullando ogni bisogno e desiderio, sradica gli impulsi vitali che la volontà alimenta in lui: nell’astinenza, nella povertà, nel digiuno, nella castità, nella macerazione egli si rivela più forte della volontà, «sente una certa liberazione dai suoi ceppi, un dolce presentimento della morte che si annuncia insieme col dissolvimento del corpo e della volontà».
2.2.3.2. Con l’immagine del nulla Schopenhauer chiude la sua opera, indicando non in un dio, ma nella totale e assoluta negazione della vita attiva e della volontà la sola possibilità di liberazione interiore dell’uomo; egli si pone così nella prospettiva descritta dai libri sacri indiani dell’Upanishad:in essi si indica come sola via di liberazione l’interruzione del samsara, il ciclo eterno delle rinascite dell’anima: poiché infatti l’anima è continuamente esposta al pericolo di rinascere in forme inferiori (animali, piante, schiavi), la pace suprema si può raggiungere solo spezzando il samsara, facendo di sé un nulla. Si tratta di un nulla di carattere etico che annientando l’attivismo ispirato all’utile e al dominio si traduce nell’armonia pacificata di una relazione che non investe sull’affermazione di sé in termini di sopraffazione, contrapposizione, prevaricazione, scontro. Della volontà è annullata la forma dell’egoismo senza senso e dell’illusione con cui la ragione da secoli ormai cerca di rivestire di forme logiche (etiche, politiche, religiose, sociali in generale) l’impulso insensato degli uomini alla reciproca sopraffazione e al dominio. In tale annullamento prende evidenza e forma un’armonia cosmica delle relazioni che è contemporaneamente (oltre ogni razionalità formale e di sintesi a priori) esperienza di contemplazione pura. 
2.2.3.3. Raggiunta la completa negazione della volontà di vita, mediante il rifiuto di continuare a essere parte del ciclo cosmico in cui la volontà ripropone se stessa, negati dunque sia gli impulsi egoistici sia l’illusorio sapere razionale, l’uomo si apre alla conoscenza pura: all’illuminazione; sopravvive come «semplice essenza conoscente», «limpido specchio del mondo», prima e oltre le forme di una razionalità ispirata al sistema e al dominio.
«Ci sovvien il terzo libro, che la gioia estetica del bello consiste per gran parte nel fatto che noi, entrando nello stato della pura contemplazione, siamo per il momento liberati da ogni volere, ossia da tutti i desideri e gli affanni, quasi fossimo sciolti da noi medesimi […]. E sappiamo come gli istanti, in cui sciolti dal feroce impulso della volontà veniamo quasi a tenerci sollevati sulla greve aria terrestre, siano i più beati che cono sciamo. Da ciò possiamo ricavare come felice debba essere la vita di un uomo, la cui volontà sia non per fugaci istanti domata, come accade nel godimento del bello, ma per sempre, e sia anzi spenta del tutto, eccettuata solamente l'ultima estinguentesi scintilla, che regge il corpo e con questo si estinguerà. Un siffatto uomo, che dopo molte amare lotte contro la propria natura, riporta finalmente piena vittoria, non sopravvive più se non come semplice essenza conoscente, come limpido specchio del mondo. Nulla più perviene ad angustiarlo, nulla a scuoterlo: perché le mille fila del volere che ci tengono legati al mondo, e di qua e di là in forma di sete, paura, invidia, ira ci trascinano dilaniandoci, con assiduo dolore, egli le ha tagliate. Sereno e sorridente egli si volge ora a guardare le finte immagini del mondo, che un tempo sapevano scuotere e affliggere anche l'animo suo, ma ora gli stanno innanzi indifferenti come i pezzi di una scacchiera a gioco finito, o come al mattino i vestiti di una maschera smessi e dispersi, le cui parvenze ci avevano stuzzicati ed eccitati nella notte di carnevale.» (Il Mondo)

3. La liberazione dell’arte.
Liberazione in senso bivalente: l’arte e l’estetica sono liberate dalla stretta dei concetti; l’arte ci libera dal dominio della volontà di vita.
Una prima nota complessiva alla presentazione dell’arte e del suo processo di liberazione. Il processo di liberazione dalla Volontà di vita trova il suo avvio formale nell’arte, prima esperienza, per quanto discontinua, di contemplazione pura capace di sottrarre soggetto e oggetto alla reciproca estraneità cui sono condannati dal principio razionale di individuazione e dalla connessa volontà di vita. Un’esperienza, quella artistica, iniziale, rapsodica e non continuativa, ma certo non confinata alle prime tappe del processo di affrancamento per esser poi abbandonata; l’esperienza estetica artistica resta una modalità costante di liberazione ed è destinata ad incrementarsi nel proprio ruolo entrando in contatto con le altre forme cui Schopenhauer affida il processo di liberazione (etica, Noluntas e i molti stati di esperienza connessi). Il risultato di questo incontro è per l’arte di indubbio rinnovamento e rilancio sia strutturale (nella definizione della sua essenza) che tematico (nelle forme espressive). Strutturalmente, con le tesi filosofiche di Schopenhauer l’arte si definisce come esperienza estetica dotata di una propria e specifica autonomia. Tematicamente, nell’arte tornano i temi della pietà, della compassione, del distacco e dell’estasi contemplativa e pura, ma come motivi laici, con una fondazione totalmente laica e, per giunta, in un contesto di ribellione non solo politica ma fondamentale o metafisica nei confronti del reale e dei sistemi con cui una volontà di vita cieca e insensata reitera se stessa. Si tratta di una ribellione di profonda umanità; essa infatti tende a rilanciare una nuova universalità umana sui temi della visione e percezione artistica o della bellezza, sui temi etici della pietà e della compassione. Una rifondazione che per i tratti laici e antisistema di cui si caratterizza si presenta come una posizione eroica, un’arte e un’etica del dire no, della negazione e dell’opposizione; ma si tratta di un eroismo dello sguardo libero e non predefinito, della pietas e della compassione, quindi, si direbbe, un eroismo del vivere quotidiano in relazioni partecipative che vanno oltre le forme codificate di una razionalità sociale filosoficamente o giuridicamente convenute.

3.1. Il contesto e gli strumenti per una presentazione dell’arte.
3.1.1. Primo contesto: l’impianto metafisico del mondo come realtà e rappresentazione: Volontà, idee, oggetti.
3.1.1.1. La Volontà. «Tutte le grandi produzioni teoretiche, di qualunque genere, vengono effettuate con ciò, che il loro produttore dirige tutte le forze del suo spirito verso un punto, nel quale le fa convergere e concentrare, così fortemente, fermamente ed esclusivamente, che tutto il resto del mondo per lui ora sparisce ed il suo oggetto gli riempie tutta la realtà.» (Il mondo, Supplementi II 31, Bazzani, 25) Il punto metafisico verso cui converge l’intera riflessione di Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione è quello della Volontà di vita, fondamento ontologico e struttura metafisica della realtà; si può dire coincidente con l’essere. Essa è unica ed universale, impulso primario insopprimibile, non soggetta al principio di ragione né per natura né per conoscenza, radice prima o impulso universale che si manifesta in livelli o gradi diversi di “oggettità” e di forme. 
3.1.1.2. Le idee. I livelli universali in cui la volontà si oggettiva sono le Idee. Il termine “idea” è ripreso da Schopenhauer nella densità che possiede nella sua prima comparsa nelle opere di Platone: non si tratta di concetti o semplici nozioni della mente con cui essa pensa gli oggetti secondo universali, ma di modelli, archetipi, dunque essenze (per specie o per genere) a cui si riferiscono o di cui partecipano gli enti e gli oggetti individuali. Le idee si mostrano quindi come un ponte di collegamento di natura metafisica (non conoscitiva) tra l’essere (la Volontà) e gli enti (gli oggetti metafisicamente intesi).  
3.1.1.3. Gli oggetti. Espressione della Volontà di vita e costruzione della ragione nel gestire secondo forme a priori (e Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente) i dati fenomenici sono gli oggetti intesi nella loro individualità; individuo è fenomeno dell’idea, e l’anello di congiunzione tra l’idea e il principium individuationis è la materia. «Nella materia come tale nessuna rappresentazione intuitiva è possibile, bensì unicamente un concetto astratto: non rappresentandosi in quella se non le forme e qualità, delle quali è base la materia, e in tutte le quali si palesano idee. […]  Anche ciascuna qualità della materia è sempre fenomeno di un'idea, e come tale pur capace d'una contemplazione estetica, ossia conoscenza dell'idea che in lei si presenta.» (Il mondo II, 43, Bazzani, 27)
In questa struttura metafisica (Volontà, idee, oggetti) trova definizione dinamica l’esperienza dell’arte: «Dimenticando la propria individualità, acquisendo una dimensione universale corrispondentemente all'idea in cui ci si immerge, non vi è più contrapposizione tra le individualità e così vi è liberazione dal dolore che il conflitto comporta. La prima di queste vie di liberazione è costituita dall'arte.» (Bazzani Fabio, XXXIV)
3.1.2. Secondo contesto: la distinzione fondamentale tra concetto e idea.
«L'intuizione ora è dunque ciò, a cui innanzitutto si dischiude e si palesa, se anche ancora in modo condizionato, la propria e vera essenza delle cose. Tutti i concetti, tutto ciò che si pensa, sono soltanto astrazioni, quindi rappresentazioni parziali di quella, e formatesi solo per eliminazione.» (Il mondo Supplementi II, 31, Bazzani, 19)
3.1.2.1. Idea: «Per Idea intendo ogni determinato e immobile grado di obiettivazione della volontà, in quanto esso è cosa in sé, e sta pertanto fuori della pluralità. Questi gradi stanno ai singoli oggetti come le loro forme eterne e i loro modelli.» (Il mondo II 25, Pasqualotto, 64-65) «…le eterne idee, le permanenti essenziali forme del mondo e di tutti i suoi fenomeni.» (Il mondo III, 36, Bazzani, 10)
Una presentazione più esplicativa delle idee in cui si obiettiva la Volontà di vita, a partire da quelle di “infimo grado”, cioè “le forze più generali della natura”: «Come, infimo grado dell'obiettivazione della volontà, si presentano le forze più generali della natura, le quali, da una parte, appaiono senza eccezione in ogni materia (come peso, impenetrabilità) e, dall'altra, si sono ripartite alla rinfusa in tutta la materia esistente, cosicché alcune dominano su questa, altre su quella materia che viene ad essere specificata proprio da ciò. Quest'ultime sono, per esempio, solidità, fluidità, elasticità, elettricità, magnetismo, proprietà chimiche e qualità a ogni specie. In sé, esse sono manifestazioni immediate della volontà, tanto quanto l'attività umana: come tali, non hanno fondamento di ragione, proprio come il carattere dell'uomo; soltanto i loro singoli fenomeni sono sottomessi al principio di ragione, come le azioni umane. Non possono quindi avere mai il nome di effetto o di causa, ma sono invece le condizioni preliminari e presupposte di tutte le cause e di tutti gli effetti mediante i quali si dispiega e si manifesta la loro intima essenza. È perciò senza senso chiedere la causa del peso, dell'elettricità: queste sono forze originarie le cui manifestazioni si producono, certo,  per causa ed effetto […] ma non è mai la forza stessa effetto di una causa, né causa di un effetto. È quindi falso anche dire: “il peso è causa della caduta della pietra”; causa è invece la vicinanza della terra che attira la pietra. La forza in sé sta del tutto fuori della catena delle cause e degli effetti, la quale presuppone il tempo, in quanto ha significato soltanto in rapporto ad esso: quella, invece, sta anche fuori del tempo. La singola modificazione ha per causa, ogni volta, un'altra singola modificazione: ma non così la forza, che in essa si manifesta.» (Il mondo II 26, Pasqualotto, 65)
3.1.2.1.1. Idea ed essenza: le idee di cui parla Schopenhauer sono le idee del mondo, le essenze universali permanenti oggettivazione della volontà di vita in pluralità di gradi e essenza profonda di ciò che la mente coglie e gestisce nelle rappresentazioni.
3.1.2.1.2. Idea e intuizione: le idee in quanto essenze non possono essere colte empiricamente né definite in concetti ma sono oggetto di intuizione, «la conoscenza dell’idea è necessariamente intuitiva» (Il mondo III, 36, Pasqualotto, 74; Il mondo II, 51, Bazzani, 55), «L’intuizione è dunque ciò a cui si apre e si rivela, anche se in modo condizionato, la vera e propria essenza delle cose» (Il mondo Supp. 31, Pasqualotto, 75); una conoscenza che «non segue il principio di ragione» (Il mondo, Bazzani, 12); le idee non sono consegnabili a nozioni definitive, mai pensabile definitivamente; la mente ricorre certo a concetti e parole per presentare le idee – intuizioni, ma nessun concetto né discorso può portarne a chiarezza il senso.  
3.1.2.1.3. Idea e arte: l’oggetto dell’arte «non è dato affatto dalle cose singole, ma dalle idee platoniche che in queste si esprimono» (Il mondo Supplementi II, 31, Bazzani, 20) «Vera e unica sorgente d'ogni genuina opera d'arte è la percepita idea. […] Appunto perché l'idea è intuitiva, e tale rimane, non è l'artista consapevole in abstracto dell'intenzione e della meta a cui tende l'opera sua; non un concetto, ma un'idea gli fluttua davanti: perciò non può render conto del suo operare. Lavora, come si suol dire, di puro sentimento, e in consapevole, anzi per istinto. Viceversa imitatori, artefici di maniera, imitatores, servum pecus, procedono nell'arte muovendo dal concetto: prendon nota di ciò che nelle vere opere d'arte piace e commuove, se lo rendono chiaro, lo afferrano in forma di concetto, astrattamente, e lo imitano infine, in modo aperto o palese, con avveduta intenzione. Succhiano il loro nutrimento, simili a piante parassite, da opere altrui.» (Il mondo II, 49, Bazzani, 17) L’arte è la strada per accedere alla intuizione delle idee, alle essenze profonde della realtà: l’arte «strappa l'oggetto della sua contemplazione fuori dal corrente flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: e quest'oggetto singolo, ch'era in quel flusso una infinitamente minima parte, diviene per lei un rappresentante del tutto, un equivalente del molteplice infinito nello spazio e nel tempo: a questo singolo ella s'arresta: ella ferma la ruota del tempo: svaniscono per lei le relazioni: soltanto l'essenziale, l'idea, è suo oggetto. Noi possiamo adunque senz'altro indicarla come il modo di considerar le cose indipendentemente dal principio di ragione all'opposto della considerazione che appunto di tal principio tien conto, la quale è la via dell'esperienza e della scienza. […] Solo mediante la pura contemplazione sopra descritta, assorbentesi intera nell'oggetto, vengono colte le idee, e l'essenza del genio sta appunto nella preponderante attitudine a tale contemplazione: e poi che questa richiede un pieno oblio della propria persona e dei suoi rapporti, ne viene che genialità non è altro se non la più completa obiettità, ossia direzione obiettiva dello spirito…» (Il mondo II, 36, Bazzani, 9); e con esperienza indefinibile concettualmente: «Interamente appagati dalla impressione di un'opera d'arte noi siamo solo allora, quando essa lascia qualche cosa, che noi, con tutto il meditare su essa, non possiamo trarre alla chiarezza di un concetto.» (Il mondo, Supplementi, 34, Bazzani, 7). La riflessione è di sistema, e anti – Hegel: non si può ridurre lo Spirito a Ragione.
3.1.2.2. Concetto: indica ed è simbolo di ciò che si può definire e quindi distinguere; prodotto e strumento della ragione, possiede quel significato che è costruito attraverso la sua definizione, quindi «è una cosa perfettamente determinabile, quindi esauribile, chiaramente pensata, la quale si può freddamente e sobriamente partecipare, in tutto il suo contenuto, mediante parole.» (Il mondo Supplementi II 34, Bazzani, 7)
«I concetti formano una classe speciale di rappresentazioni che, si trova solo nello spirito dell'uomo, toto genere diversa dalle rappresentazioni intuitive esaminate finora. Perciò non possiamo mai raggiungere una conoscenza intuitiva, assolutamente evidente, del loro essere; ma soltanto una conoscenza astratta e discorsiva. Sarebbe perciò assurdo pretendere che venissero provati con l'esperienza, poiché per esperienza s’intende il mondo reale esterno che è, appunto, rappresentazione intuitiva; così pure sarebbe assurdo che fossero portati davanti agli occhi o alla fantasia, come oggetti di intuizione. Essi si lasciano esclusivamente pensare, non intuire; e solo gli effetti che per mezzo loro l'uomo produce sono materia di vera e propria esperienza. […] Ora, per quanto i concetti siano fondamentalmente diversi dalle rappresentazioni intuitive, stanno tuttavia in un necessario rapporto con queste, senza le quali non esisterebbero: tale rapporto costituisce perciò tutta la loro essenza ed esistenza. La riflessione è necessariamente imitazione, riproduzione dell'originario mondo intuitivo, anche se è imitazione di genere affatto diverso, in una materia affatto eterogenea. Perciò i concetti si possono benissimo chiamare rappresentazioni di rappresentazioni.» (Il mondo I 9, Pasqualotto, 53)
3.1.2.2.1. Concetto e fenomeno (rappresentazione): il concetto (e la parola di conseguenza) è lo strumento di cui si serve la ragione per gestire e quindi porre in relazione i fenomeni tra loro in vista di una teoria o di un sistema scientifico del mondo. Formalmente si tratta degli strumenti a priori della mente, determinati nei loro confini e ruoli, e del quadruplice principio di ragion sufficiente; materialmente si tratta del mondo come rappresentazione.
3.1.2.2.2. Concetto, ragione e rappresentazione; il passo di Schopenhauer, in sequenza continua: «Lo scopo [dell'arte] appare come la facilitazione della conoscenza delle idee del mondo (nel senso platonico, l'unico che io riconosca per la parola idea). Le idee però sono essenzialmente una cosa intuitiva e perciò inesauribile nelle sue determinazioni prossime. La loro partecipazione quindi può avvenire soltanto mediante la via dell'intuizione, che è quella dell'arte. Chi quindi sia riempito dalla concezione di una idea, è giustificato, se sceglie l'arte come mezzo della sua partecipazione. — II semplice concetto invece è una cosa perfettamente determinabile, quindi esauribile, chiaramente pensata, la quale si può freddamente e sobriamente partecipare, in tutto il suo contenuto, mediante parole. Volerlo invece partecipare mediante un'opera d'arte, è un giro assai inutile, anzi è quel biasimato giocare con i mezzi dell'arte, senza conoscenza dello scopo. Perciò un'opera d'arte, di cui la concezione è scaturita da semplici chiari concetti, non è mai genuina. Se ora noi, nella considerazione di un'opera di arte plastica, o nel leggere una poesia, o nell' ascoltare una musica (che vuol descrivere qualche cosa di determinato), attraverso tutti i ricchi mezzi dell'arte, vediamo trasparire ed alla fine scaturire il chiaro, limitato, freddo, sobrio concetto, che era il nucleo dell'opera, di cui l'intera concezione quindi è consistita solo nel chiaro pensare di esso e si è perciò interamente esaurita nella sua partecipazione; allora noi proviamo nausea e disgusto: perché ci vediamo ingannati e delusi nella nostra partecipazione ed attenzione. Interamente appagati dalla impressione di un'opera d'arte noi siamo solo allora, quando essa lascia qualche cosa, che noi, con tutto il meditare su essa, non possiamo trarre alla chiarezza di un concetto. La caratteristica di quell'origine ibrida da soli concetti è, che il creatore di una tale opera d'arte può, prima di eseguirla, dire con chiare parole quel che intende di rappresentare: giacché con queste parole stesse si può raggiungere tutto il suo scopo. [...] Certamente l'artista deve pensare, nell'ordinamento della sua opera: ma solo ciò che fu intuito, prima che fosse pensato, ha poi, nella partecipazione, forza stimolatrice e diviene quindi imperituro.» (Il mondo Supplementi II, 34, Bazzani, 7)
3.1.2.3. Intuizione e concetto, la relazione. Come per ogni distinzione filosofica, l’individuazione di elementi diversi e dotati di una propria autonomia in un unico processo non ha lo scopo di creare un’opposizione ma di indicare una relazione, anzi renderla possibile e sostenerla. «L'intuizione è dunque ciò a cui si apre e si rivela, anche se in modo condizionato, la vera e propria essenza delle cose. Tutti i concetti, tutto ciò che viene pensato, sono soltanto astrazioni e quindi rappresentazioni parziali di essa, formatesi solo per via negativa. Ogni conoscenza profonda, anche la vera saggezza, è radicata nella comprensione intuitiva delle cose […]. Una concezione intuitiva è sempre stata il processo generativo in cui ogni vera opera d'arte, ogni pensiero immortale ebbe la scintilla vitale. Ogni pensare originario avviene in immagini. Da concetti, invece, derivano le opere del semplice talento, i pensieri solo ragionevoli, le imitazioni e in generale tutto ciò che è calcolato per i bisogni del momento e per i contemporanei.» (Il mondo, Suppl. 31, Pasqualotto 75) «I contemporanei — ossia l'opaca folla d'ogni generazione — non conoscono anch'essi altro che concetti, e vi si attaccano, e accolgono quindi le opere manierate con rapido e alto plauso: ma le stesse opere sono dopo brevi anni già indigeste, perché lo spirito del tempo — vale a dire, i concetti dominanti — in cui quelle avevano la loro unica base, è mutato.» (Il mondo II, 49, Bazzani, 18)
3.1.2.4. Intuizione e concetto, l’impossibile (difficile e irrisolta) relazione e le sue ragioni. «… non un concetto, ma un'idea gli fluttua davanti: perciò non può render conto del suo operare» (Il mondo II, 49, Bazzani, 17) «L'artista non può render conto del suo operare poiché il render conto implica la necessità di una concettualizzazione dell'operare stesso, mentre l'idea, per sua natura, può soltanto essere intuita. In altre parole, come scrive Schopenhauer, il concetto è discorsivo, traducibile in linguaggio; l'idea, al contrario, non è comunicabile, non può essere riportata al linguaggio e, dunque, si situa al di là di ogni concettualizzazione. Per tal motivo, il genio artistico non può render conto di quel che fa, in quanto, appunto, non lo può comunicare, inerendo quello che fa non al concetto bensì all'idea.» (Bazzani, 17 nota)
3.1.3. Terzo contesto: un unico cammino nel processo di liberazione. Arte, etica, ascesi fino alla Noluntas.
La comprensione delle tesi espresse da Schopenhauer sull’arte richiede l’attenzione sul cammino complessivo di liberazione in cui l’esperienza estetica artistica si inserisce. «Tramite l'arte, la nostra volontà si sospende. Con l'arte, noi cogliamo il mondo non nel suo divenire caratterizzato da lotta e conflitto, bensì nelle sue statiche ed eterne idee. La sospensione della volontà, la contemplazione dell'immobile e permanente, dell'idea (idea viene dal greco idein, vedere), significa, così, sospensione del dolore che dal conflitto è generato. Si apre, in tal modo, la strada alla liberazione dalla volontà e, poiché la volontà è volontà di vita, impulso alla vita, si apre la strada alla liberazione dalla vita in quanto tale.» (Bazzani Fabio, 3) Proprio in questa relazione con l’intero cammini di liberazione dalla Volontà di vita, dall’insensatezza, dal dolore e dalla banale razionalità con cui essa opera, è possibile cogliere l’arte del genio e distinguerla da “tutti gli acciabattoni” imitatori.
3.1.3.1. il genio: “l’intelletto strappato al dominio della volontà ed a tutti i suoi progetti”: «Quel che si chiama il destarsi del genio, l'ora della consacrazione, il momento dell'ispirazione, non è altro, che il liberarsi dell'intelletto, quando questo, sottratto temporaneamente al suo servizio sotto la volontà, adesso non si rilassa in stanchezza od inoperosità, ma, per un breve istante, spontaneamente, è attivo da sé solo. Allora esso è della più grande purezza e diviene il chiaro specchio del mondo: poiché, completamente separato dalla sua origine, la volontà, esso ora è lo stesso mondo come rappresentazione concentrato in una coscienza. In tali momenti viene quasi generata l'anima di opere immortali. Invece in tutta la meditazione intenzionale l'intelletto non è libero, giacché la volontà lo guida e gli prescrive il suo tema.» (Il mondo Supplementi II, 31, Bazzani, 20-21)
3.1.3.2. l’uomo attivo e magari di talento: “l’intelletto dell’uomo normale, strettamente legato al servizio della sua volontà”: «L'impronta della trivialità, l'espressione della volgarità, che è stampata nella maggior parte dei volti, consiste propriamente nel fatto, che vi è visibile la stretta subordinazione del loro conoscere al loro volere, la salda catena, che lega entrambi, e l'impossibilità, che ne segue, di comprendere le cose altrimenti che in relazione con la volontà e con i suoi fini. [...] Tutti gli acciabattoni sono tali, in fondo, perché il loro intelletto, legato ancora troppo strettamente alla volontà, solo sotto lo sprone di questa si mette in movimento, e resta perciò interamente al servizio di essa. Essi quindi non sono capaci di altro, che di scopi personali. In conformità di ciò essi creano quadri cattivi, poesie stupide, filosofemi superficiali, assurdi, assai spesso anche disonesti, quando occorra raccomandarsi, con pia disonestà, ad alti superiori. Tutto il loro agire e pensare è quindi personale. Perciò ad essi al massimo riesce di appropriarsi come maniera ciò che è esteriore, casuale ed arbitrario delle altrui, vere opere; di cui essi prendono dunque il guscio, invece del nocciolo, immaginano però, di aver raggiunto il tutto, anzi di avere anche superato quelli. Se, ciò nonostante, la mala riuscita è palese; allora più d'uno spera, di potere infine giungervi con la sua buona volontà. Ma proprio questa sua buona volontà rende ciò impossibile; perché essa è diretta soltanto a fini personali: con questi però non si può fare sul serio l'arte, né la poesia, né la filosofia. A quelli si adatta propriamente il detto: essi mettono sé stessi in luce. Essi non immaginano, che soltanto l'intelletto strappato al dominio della volontà ed a tutti i suoi progetti, e divenuto quindi liberamente attivo, rende capaci di vere produzioni…» (Il mondo Supplementi II, 31, Bazzani, 23)
3.1.3.3. Una contrapposizione per inserimento storico e per metafore (e forse per ricordi quasi autobiografici) tra il genio autentico e gli uomini di successo o uomini di talento (abili imitatori). «Gli uomini semplicemente di talento giungono sempre a tempo opportuno: giacché, come essi sono stimolati dallo spirito del loro tempo e provocati dal bisogno di essi; così sono anche capaci di appagare solamente questo. Essi penetrano quindi nel progressivo movimento dei loro contemporanei, o nel graduale avanzamento di una speciale scienza: e ne acquistano perciò compenso e plauso. Le loro opere però non sono più gustate dalla prossima generazione: debbono quindi essere surrogate da altre, le quali poi a loro volta neanche resistono. Il genio invece arriva nel suo tempo, come una cometa nelle orbite dei pianeti, al cui ordine semplice e ben regolato è estraneo il suo corso completamente eccentrico. Perciò egli non può addentrarsi nel preesistente, regolare andamento del tempo, ma getta le sue opere assai lungi nel di là (come l'imperatore consacrantesi alla morte la sua lancia tra i nemici), da cui il tempo soltanto ha da rilevarle. Il talento può produrre quel che supera la capacità di produzione degli altri, ma non quel che supera la loro capacità di apprensione: perciò egli trova subito i suoi estimatori. Invece la produzione del genio sorpassa non solo la capacità di produzione, ma anche quella di apprensione degli altri; perciò questi non si accorgono di lui. Il talento è simile al tiratore, che colpisce un bersaglio, che gli altri non possono raggiungere; il genio a quello, che ne colpisce uno, che gli altri non riescono neanche a vedere; per ciò questi l'apprendono solo mediatamente, ossia tardi, e l'accolgono soltanto per credenza e fede.» (Il mondo Supplementi II, 31, Bazzani, 26)
3.1.4. Quarto contesto: la doppia valenza dell’estetico. Nelle opere di in Kant, in ripresa, come egli stesso sottolinea, dall’opera di Baumgarten, il termine estetica indica la conoscenza sensibile del fenomeno e la presentazione delle forme a priori che la rendono possibile (Critica della ragion pura), e indica inoltre il giudizio di bello o brutto e lo studio delle condizioni a priori che permettono al soggetto di vivere quell’esperienza nei contesto della natura, della scienza e dell'arte (Critica del giudizio). Schopenhauer riprende quella ambivalenza ma pone le basi per una teoria dell’arte che ha il proprio fondamento in una conoscenza rappresentativa dell'idea o in una rappresentazione non soggetta al principio di ragione.

3.2. L’arte: l’esperienza estetica in descrizione
3.2.1. Occorre richiamare una distinzione già nota. C’è rappresentazione e rappresentazione; nell’arte la rappresentazione non è consegnata ai concetti e alle forme della ragione. La distanza del tema della rappresentazione nell’arte, nei confronti della rappresentazione come materiale di conoscenza sensibile a destinazione razionale è netta: nella conoscenza razionale «l'uomo conosce l'oggetto non tanto rappresentandolo quanto rappresentando la rappresentazione dell'oggetto. In altre parole, l'uomo conosce attraverso le rappresentazioni di rappresentazioni, ovvero attraverso i concetti, sintesi di una classe di rappresentazioni; sintesi a cui è deputata la ragione, la quale appartiene all'uomo, ma non all'animale. La ragione, così, non è più il riferimento ontologico e astratto della tradizione filosofica, ma pura funzione dell'intelligenza umana. È l'insieme dei concetti ciò che costituisce il sapere, che consente di dare un nome alle immagini rappresentative del mondo, che consente di comunicare, tramite il linguaggio (a sua volta insieme sintetico di classi concettuali), i risultati che l'osservazione consegue. È dunque l'insieme dei concetti, sistematicamente organizzati (organizzazione di cui invece è priva la rappresentazione dell'animale), ciò che costituisce la conoscenza rappresentativa del mondo, quella conoscenza che risulta come forma comune di esperienza percettiva del mondo. Ma si tratta … di una conoscenza di superficie, a metà, non di una conoscenza vera, del profondo. Per ottenere una tale conoscenza, completa e profonda, non è sufficiente la “fisica”, il principio di ragione, occorre la “metafisica”.» (Bazzani, XXIII-XXIV) Occorre andare oltre la crosta o il velo di un modo scientifico di rappresentazioni, cogliere l’essenza del mondo, oltre i fenomeni, partendo dall’esperienza prima della propria corporeità incontrarsi con l’inspiegabile: la volontà di vita; inspiegabile attraverso i modi della conoscenza comune, applicata alle rappresentazioni e alla loro gestione razionale. «Con l’arte… si risale al pre-logico, al non-razionale, a ciò che non è condizionato e stravolto dalla ratio.» (Bazzani, XXXV)
3.2.2. L’esperienza estetica dell’arte in presentazione: l’intuizione delle idee, la conoscenza pura come contemplazione.  
«Il passaggio dalla conoscenza comune di singoli oggetti alla conoscenza dell'idea — possibile, ma da ritenersi un’eccezione —, si produce in modo repentino, poiché la conoscenza si emancipa dalla volontà e proprio per questo il soggetto cessa di essere solo individuale e diventa puro soggetto della conoscenza, privo di volontà. Esso, allora, non segue più le relazioni secondo il principio di ragione, ma si ferma a contemplare l’oggetto, che gli si è presentato e da ciò viene completamente assorbito. […] Quando, sollevati dalla potenza dello spirito, abbandoniamo il modo comune di considerare le cose e cessiamo di ricercare secondo le forme del principio di ragione e le loro reciproche relazioni, il cui termine ultimo è sempre il rapporto con la nostra volontà; e per ciò non consideriamo più il dove, il quanto, la causa e la finalità delle cose, ma solo ciò che esse sono; e non lasciamo che il pensare astratto, i concetti della ragione s'impadroniscano della coscienza, ma, invece, diamo tutta la forza del nostro spirito, all'intuizione, sprofondiamo in questa, e lasciamo che l'intera coscienza venga riempita dalla tranquilla contemplazione dell'oggetto naturale che ci sta davanti — sia esso paesaggio, albero, roccia, edificio, o altro —, e, con un'espressiva locuzione tedesca, ci perdiamo (verliert) in questo oggetto, cioè dimentichiamo la nostra individualità, la nostra volontà e restiamo soltanto come puro soggetto, come chiaro specchio dell'oggetto, come se solo l'oggetto esistesse, senza nessuno là davanti a percepirlo; e quindi non si può più separare il contemplante dalla contemplazione, poiché sono diventati una cosa sola, dato che l'intera coscienza è riempita e presa da un'unica immagine intuitiva; quando finalmente l'oggetto si è sciolto da ogni relazione con la volontà, allora ciò che viene conosciuto non è più la singola cosa in quanto tale, ma l'idea, la forma eterna, la diretta oggettivazione della volontà. Pertanto chi è assorto nella contemplazione non è più un individuo, dato che proprio l'individualità si è in essa perduta. Egli è invece puro soggetto della conoscenza, fuori della volontà, del dolore, del tempo.» (Il mondo III 34, Pasqualotto,71)
3.2.2.1. Commento primo: nell’arte si realizza la liberazione dalla logica della Volontà di vita e dalla logica della razionalità scientifica, ferma alla rappresentazioni e alle loro relazioni astrattamente determinabili («redimere la conoscenza dall’originaria servitù alla volontà» Il mondo III 36, Pasqualotto, 73); effetto che coinvolge contemporaneamente l’oggetto e il soggetto:
3.2.2.1.1. l’oggetto: «L’arte strappa l’oggetto della sua contemplazione fuori dal corrente flusso del mondo e lo tiene isolato davanti a sé: questo singolo oggetto che in quel flusso era una particella infinitesima, diviene per essa rappresentazione del tutto, un equivalente della molteplicità infinita nello spazio e nel tempo» (Il mondo III 36, Pasqualotto, 72)
3.2.2.1.2. il soggetto: «… ci perdiamo in questo oggetto, cioè dimentichiamo la nostra individualità, la nostra volontà e restiamo soltanto come puro soggetto, come chiaro specchio dell’oggetto come se solo l’oggetto esistesse, senza nessuno là davanti a percepirlo. … Pertanto chi è assorto nella contemplazione non è più un individuo, dato che proprio l’individualità si è in essa perduta. Egli è invece puro soggetto della conoscenza, fuori della volontà, del dolore, del tempo.» (Il mondo III, 34, Pasqualotto, 71)
L’arte esula dalla ragione, pone il soggetto e l’oggetto al di fuori della relazioni quotidiane e dalle forme usuali programmate, li rende momenti di contemplazione pura, dissolve così la trama costrittiva del sistema; in un crescendo cha va dalle arti più materialmente figurative, come l’architettura, fino, nel modo più elevato, alla musica ove l’arte assume su di sé negandolo e trasformandolo (in un atto di redenzione laica) il rumore del mondo.
3.2.2.2. Commento secondo. L’arte è dunque definita da un intreccio tra due componenti imprescindibili, un lato oggettivo, un lato soggettivo. L’infinito mondo delle riflessioni sull’arte e sul bello, sul gusto e sul giudizio estetico è segnato dalla difficoltà ad attribuire una percentuale corretta o almeno condivisa, nel giudizio di gusto e di bellezza, alla componente oggettiva o alla componente soggettiva; la questione brutale “il bello è oggettivo o soggettivo?” impegna menti e detti di persone comuni e esperti raffinati… In quelle dispute tuttavia un primo dato è costante: la bellezza, il giudizio estetico di gusto, si colloca all’intreccio delle due componenti, oggettiva e soggettiva. Un secondo dato è altrettanto costante: varia in continuazione il peso dato all’una o all’altra componente ma, soprattutto, cambia il modo di intendere le parole oggettivo / soggettivo, e la diversità delle posizioni è evidente e massima nelle teorie estetiche. Per Schopenhauer:
3.2.2.2.1. il lato oggettivo è l’oggettivarsi della Volontà di vita nelle idee – essenze, o il suo manifestarsi per se stessa come principio metafisico unico. Le forme dell’oggettivarsi della Volontà in idee costituiscono l’oggetto proprio delle diverse arti espressive, dall’architettura alla musica. 3.2.2.2.2. il lato soggettivo è il coinvolgimento del soggetto in quelle manifestazioni della Volontà ma coinvolgimento non affidato all’impulso e alle forme della conoscenza concettuale e razionale (che chiarisce delimitando, controllando ed escludendo), ma all’intuizione che avvolge il soggetto in una esperienza di fruizione immediata e globale, di conoscenza pura di «intuizione puramente contemplativa».
Così intese le due componenti, il maggior peso dell’una o dell’altra nell’esperienza estetica dipende sia dal tipo di arte cui si fa riferimento (dall’architettura alla musica, arti tra loro diverse al variare dei gradi delle oggettivazioni essenziali della volontà di vita che esse intendono rappresentare), sia e soprattutto dall’opera d’arte stessa, dalla sua capacità di esprimere in intuizione, immediatezza e globalità le idee rappresentate, come gradi essenziali della volontà, della struttura metafisica della realtà in sé: «Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta, l’idea nella quale la volontà raggiunge il massimo grado della sua oggettivazione...» (Il mondo II, 44-45, Bazzani, 42) In altri termini, dipende dal fatto che l’opera d’arte (o quella indicata come tale) sia produzione del genio vero o, invece, prodotto del semplice e abile talento imitativo (o addirittura semplice merce per il mercato dell’arte). Il dosaggio delle due componenti, oggettiva e soggettiva, e la forma del loro coinvolgimento diventano allora la chiave per comprendere, definire e rendere possibile una autentica e non simulata esperienza estetica. Un caso particolare: «Nella natura morta, e nella riproduzione di opere architettoniche, rovine, interni di chiese, etc, prevale il lato soggettivo del godimento estetico: ossia il piacere che ne abbiamo non sta principalmente e direttamente nella percezione delle idee rappresentate, bensì di più nel correlato soggettivo di questa percezione, nel puro conoscere scevro di volere. Perché, mentre il pittore ci fa veder le cose co' suoi occhi, sentiamo in pari tempo dentro di noi medesimi quasi riflettersi la profonda serenità di spirito e il perfetto silenzio della volontà, che sono stati necessari per concentrar sì appieno la conoscenza in quegli oggetti inanimati, e con tanto amore — ossia a tal grado di obiettività — riprodurli. […] ma poi che le dee rappresentate, come gradi più alti nell'oggettità della volontà, sono già più significanti ed espressive, vien fuori in maggior misura il lato obiettivo del piacere estetico, e sta a pari col soggettivo. Il puro conoscere, come tale, non è più quel che solo conta; ma con eguale potenza agisce l'idea conosciuta, il mondo come rappresentazione, in un notevole grado di oggettivazione della volontà.»  (Il mondo II, 44-45, Bazzani, 41)
3.2.2.3. Commento terzo: nell’oggetto singolo colgo le forme universali; nell’evento che l’arte rappresenta si realizza l’universale, l’intuizione dell’idea. Così accade, descrive Schopenhauer, nell’esperienza estetica della bellezza, e si verifica soprattutto nel caso della bellezza riferita all’umanità per il pieno coinvolgimento e più perfetta realizzazione in quell’evento estetico delle due componenti dell’arte, quella oggettiva e quella soggettiva. «Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la quale indica la più perfetta oggettivazione della volontà nel grado più alto della sua conoscenza possibile, l'idea dell'uomo in genere, pienamente espressa nella forma intuita. Ma per quanto prevalga qui il lato oggettivo del bello, rimane tuttavia suo perenne compagno il soggettivo. E appunto perché nessun oggetto ci rapisce così presto nell'intuizione puramente estetica, come fa il bellissimo aspetto e la forma dell'uomo, alla cui vista subitamente un piacere inesprimibile ci coglie, e sopra noi stessi e ogni nostro tormento ci eleva; appunto per questo ciò è possibile solo in quanto cotale evidentissima e purissima conoscibilità della volontà anche ci trasporti nel modo più lieve e rapido in quello stato del puro conoscere, in cui la nostra personalità, il nostro volere, con la sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la pura gioia estetica.» (Il mondo II, 45, Bazzani, 43) Esplicitamente più volte Schopenhauer sottolinea il ruolo culturale fondamentale della filosofia platonica, e questo passo richiama le affermazioni di Platone, espresse, ad esempio, nei dialoghi Simposio (209e-212b) e Fedro (250a) sia sul tema del rapimento estetico, ed estatico, di fronte alla bellezza umana, sia e soprattutto per il legame tra la singolarità individuale della bellezza fisica e il suo rimando alla singolarità universale della bellezza in sé, all’idea di bellezza. [«giunto che sia ormai al grado supremo dell'iniziazione amorosa, all'improvviso gli si rivelerà una bellezza meravigliosa per sua natura», in grado di «contemplare la stessa bellezza divina nell'unicità della sua forma […] la contempli con il mezzo che le conviene … mirando la bellezza per mezzo di ciò per cui è visibile» (Simposio 212a); altrettanto esplicitamente nel dialogo Fedro: «quando scorga un volto d'apparenza divina, o una qualche forma corporea che ben riproduca la bellezza» (Fedro 250a).] 

3.3. Le arti. La descrizione dell’esperienza estetica è cammino di scoperta delle singole arti.
La descrizione dell’esperienza estetica della bellezza nelle sue componenti strutturali, oggettive (le idee essenza dell’obiettivarsi della volontà secondo gradi) e soggettive (l’intuizione puramente contemplativa) diventa la condizione per affrontare le diverse arti e la loro capacità estetica, cioè la loro capacità di «rappresentare intuitivamente, in maniera diretta […] i molteplici gradi e modi della manifestazione della volontà»; l’arte fa sì che nel «gran libro della natura [...] vediamo i molteplici gradi e modi della manifestazione della volontà, la quale, in tutti gli esseri una e identica, ovunque la stessa cosa vuole — vuole appunto ciò, che come vita, come esistenza viene ad oggettivarsi, in sì infinita varietà, in sì infinite forme; le quali tutte sono accomodamenti alle diverse condizioni esteriori, paragonabili a molte variazioni d'uno stesso tema.» (Il mondo II, 44-45, Bazzani, 42)  
Schopenhauer prende in esame le diverse arti: architettura, pittura e scultura, poesia, musica. La sequenza delle arti non è casuale ma è dettata dall’oggetto privilegiato della loro attenzione artistica, cioè dalla loro attenzione ai diversi gradi in cui la volontà di vita si obbiettiva (aspetto oggettivo) come natura, quindi alle diverse forme dell’essere, alle diverse idee o essenze universali, che a loro volta si dispongono secondo livelli o gradi (più bassi o più elevati) in rapporto alla loro maggiore o minore dipendenza dalla materia (che «in quanto tale non può essere rappresentazione di un’idea» Il mondo II, 43, Bazzani, 27) e quindi dalle forme spaziali cui essa è vincolata. La sequenza delle arti e la conoscenza dell’idea particolare che esse presentano nei propri oggetti artistici, rappresenta una progressiva sfida nei confronti della materia, della volontà e delle forme della ragione con cui la volontà tiene soggiogata l’umanità ai vincoli della rappresentazione e della sua gestione secondo forme e secondo utilità (aspetto soggettivo).
3.3.1. Architettura: luce e materia.
«Se consideriamo ora l'architettura, soltanto come arte bella, prescindendo dalla sua destinazione ai fini pratici, nei quali ella serve non alla conoscenza pura ma alla volontà, e non è adunque più arte come noi l'intendiamo, non ci è possibile attribuirle altro intento se non quello di rendere più chiare all'intuizione alcune delle idee, che sono i gradi più bassi nell’oggettità della volontà, quali gravità, coesione, solidità, durezza — le proprietà generiche della pietra; le prime, più semplici, più grosse manifestazioni visibili della volontà; le note del basso fondamentale della natura; — e poi, oltre quelle, la luce: che per molti rispetti è di quelle un contrapposto. Già in codesto basso grado dell'oggettità della volontà vediamo che la sua essenza si palesa in un conflitto: poiché la lotta tra gravita e solidità è propriamente l'unico proposito estetico della bella architettura; metterlo variamente in piena evidenza è il suo compito. Tale compito adempie, togliendo a quelle indelebili forze la via più breve del loro soddisfacimento, trattenendole col deviarle; la lotta viene così prolungata, e si fa in vario modo palese l'inesauribile tendenza di entrambe le forze.» (Il mondo II, 43, Bazzani, 28) La luce che permea la materia mette in evidenza l’essenza estetica dell’architettura in cui si esprimono ma si compongono in armonia le forze naturali antitetiche della gravità (del carico e la sua tendenza a ridursi a cumulo di materia) e della solidità (il sostegno, la coesione, la stabilità, la rigidità ed insieme la fluidità); nell’edificio composto con arte, l’architettura mostra nell’opera non tanto un nuovo singolo oggetto caratterizzato da proporzione e simmetria (forme geometriche razionali), ma lo spettacolo delle forze naturali che, contrastando l’insensatezza del loro esistere naturale per se stesse e quindi in lotta e in antitesi, compongono in armonia il loro destino di conflittualità; «lo sforzo e l’antagonismo di quelle forze fondamentali della natura costituiscono la vera sostanza estetica dell’architettura» (Il mondo Supplementi II, 35, Bazzani, 34). Questo il lato oggettivo dell’architettura: è riferito alle essenze, alle idee o ai «gradi infimi dell’oggettità della volontà [… l’architettura] porta il vero oggetto individuale alla chiara e completa espressione della sua essenza» (Il mondo II, 43, Bazzani, 30); il corrispettivo estetico soggettivo «consiste prevalentemente nel fatto, che in tal vista il contemplatore si sente strappato al modo di conoscere dell'individuo, e innalzato a quello del puro, scevro di volontà soggetto del conoscere; ossia alla pura, da ogni pena del volere e dell'individualità disciolta contemplazione.» (Il mondo II, 43, Bazzani, 30)  
3.3.2. Pittura e scultura. «le idee rappresentate … i gradi più alti nell’oggettività della volontà» (Il mondo II, 44, Bazzani, 43)
«Rappresentare intuitivamente, in maniera diretta, l’idea nella quale la volontà raggiunge il massimo grado della sua oggettivazione, è finalmente il gran compito della pittura storica e della scultura. Il lato obiettivo del piacere prodotto dal bello è qui affatto prevalente, e il lato soggettivo è rientrato nella penombra.» (Il mondo II, 45, Bazzani, 42)  In particolare, nel ritratto dell’uomo, offerto dalla scultura e soprattutto dalla pittura, nella figura individuale è rappresentata l’idea dell’umanità scoperta e valorizzata nei suoi tratti universali; forme universali ed essenziali di cui «ciascun essere umano rappresenta, in un certo senso, un’idea tutta a sé.» (Il mondo II, 45, Bazzani, 45); del resto, ciò che veramente importa nei soggetti individuali presi dalla storia «non è l’individuale, non è il singolo fatto per se stesso, bensì quanto vi si contiene d'universale, l'aspetto dell'idea d'umanità, che per suo mezzo si esprime. D'altronde non sono perciò punto da rigettare  anche determinati soggetti storici: ma in questo caso la vera mira artistica, sia del pittore sia dello spettatore, non tende a ciò che v'ha d'individuale, a ciò che propriamente costituisce la nota storica, bensì all'universale, che vi si esprime, all'idea.» (Il mondo II, 48, Bazzani, 49)
Così accade, descrive Schopenhauer, nell’esperienza estetica della bellezza, e si verifica soprattutto nel caso della bellezza riferita all’umanità per il pieno coinvolgimento e più perfetta realizzazione in quell’evento delle due componenti, oggettiva e soggettiva. «Umana bellezza è un'espressione oggettiva, la quale indica la più perfetta oggettivazione della volontà nel grado più alto della sua conoscenza possibile, l'idea dell'uomo in genere, pienamente espressa nella forma intuita. Ma per quanto prevalga qui il lato oggettivo del bello, rimane tuttavia suo perenne compagno il soggettivo. E appunto perché nessun oggetto ci rapisce così presto nell'intuizione puramente estetica, come fa il bellissimo aspetto e la forma dell'uomo, alla cui vista subitamente un piacere inesprimibile ci coglie, e sopra noi stessi e ogni nostro tormento ci eleva; appunto per questo ciò è possibile solo in quanto cotale evidentissima e purissima conoscibilità della volontà anche ci trasporti nel modo più lieve e rapido in quello stato del puro conoscere, in cui la nostra personalità, il nostro volere, con la sua assidua pena, svanisce, fin quando persiste la pura gioia estetica.» (Il mondo II, 45, Bazzani, 43) Esplicitamente più volte Schopenhauer sottolinea il ruolo culturale fondamentale della filosofia platonica, e questo passo richiama le affermazioni di Platone, espresse, ad esempio, nei dialoghi Simposio (209e-212b) e Fedro (250a) sia sul tema del rapimento estetico di fronte alla bellezza umana, sia e soprattutto per il legame tra la singolarità individuale della bellezza fisica e il suo rimando alla singolarità universale della bellezza in sé, all’idea di bellezza. (cfr 3.2.2.3.)
3.3.3. Poesia. «il poeta coglie le idee, l’essenza dell’umanità, fuori d’ogni relazione, fuor d’ogni tempo» (Il mondo II, 51, Bazzani, 57) In essa il linguaggio rende presente i concetti ma questi non sono arte e nell’arte se non in quanto base materiale che, pur significando in sé, rimanda per allegoria ad altro, all’immagine intuitiva dell’idea universale, facendo leva e richiamando la fantasia, l’immaginazione del soggetto. «Nella poesia quel ch'è dato direttamente con le parole è il concetto, e scopo più prossimo è sempre il condur da questo al dato intuitivo, la cui rappresentazione dev'essere intrapresa dalla fantasia dell'ascoltatore. Se nell'arte figurativa s'è condotti dal dato immediato verso qualche altra cosa, questa dev'esser sempre un concetto, perché qui soltanto l'astratto non può esser dato immediatamente; ma un concetto non può mai esser l'origine, né la sua comunicazione esser lo scopo di un'opera d'arte. Viceversa nella poesia il concetto è il materiale, il dato immediato, che si può quindi benissimo abbandonare, per far nascere un'immagine intuitiva del tutto diversa, con la quale vien raggiunto lo scopo. Nella connessione di una poesia può qualche concetto, o pensiero astratto, essere indispensabile, pur non potendo in sé e direttamente esser dato all'intuizione: esso viene allora sovente reso intuibile per mezzo d'un qualunque esempio che vi si possa sussumere. Questo si vede già in ogni espressione figurata, e accade in ogni metafora, paragone, parabola e allegoria, — tutte figure, che si distinguono solo per la lunghezza e ampiezza della loro rappresentazione.» (Il mondo II, 50, Bazzani, 53-54)
La componente soggettiva, riprende Schopenhauer, fa richiamo alla fantasia del lettore con strategie pertinenti per passare dai concetti all’intuizione: «Ma per mettere in moto quest'ultima [la fantasia] in conformità dello scopo, i concetti astratti, che sono il materiale immediato della poesia come della più arida prosa, devono venire così combinati che le loro sfere si intersechino in maniera che nessuno di essi possa persistere nella sua astratta generalità; e in luogo di essa si presenti invece alla fantasia un'immagine che li rappresenti intuitivamente, e che poi le parole del poeta modifichino sempre più secondo il suo intento. Come il chimico ottiene da liquidi pienamente chiari e trasparenti, con l'unirli, precipitati solidi, così il poeta sa per così dire far precipitare dall'astratta, trasparente generalità dei concetti, con la maniera in cui li combina, il concreto, l'individuale, la rappresentazione intuitiva. Perché solo intuitivamente l'idea viene conosciuta; ma la conoscenza dell'idea è lo scopo di tutta l'arte. La maestria nella poesia, come nella chimica, rende capaci di ottenere ogni volta proprio il precipitato che ci si ripromette.» (Il mondo, §51, Rizzoli I, 466-467)
3.3.4. Musica. «quasi lingua universale più limpida dello stesso mondo intuitivo… essa esprime, in un linguaggio massimamente universale, l’intima essenza, l’“in sé” del mondo» (Il mondo § 52; Cfr. Il mondo, Meridiani, A.Mondadori, 263 ss; 378 ss, 1323-1328)
Un’arte non figurativa, sottratta al vincolo spaziale delle figure, «è staccata da tutte le altre. In lei non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'una qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo; eppure ell'è una sì grande e sublime arte, sì potentemente agisce sull'intimo dell'uomo, sì appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua universale più limpida dello stesso mondo intuitivo. [...] Dal nostro punto di vista, adunque, dobbiamo riconoscere alla musica un significato ben più grave e profondo, riferentesi alla più interiore essenza del mondo e del nostro io […] La musica non è quindi punto, come l'altre arti, l'immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa, della quale sono oggettità anche le idee. Perciò l'effetto della musica è tanto più potente e insinuante di quel delle altre arti: poiché queste ci danno appena il riflesso, mentre quella esprime l'essenza.» (Il mondo II, 51, Bazzani, 66,67)
3.3.4.1. Il versante oggettivo: «La musica non è dunque affatto, come le altre arti, immagine delle idee, bensì immagine della volontà stessa, di cui anche le idee sono l'oggettità. Perciò appunto l'azione della musica è tanto più potente e penetrante di quella delle altre arti: queste, infatti, parlano solo dell'ombra, quella invece dell'essenza. Tuttavia, poiché è la stessa volontà che si oggettiva sia nelle idee sia nella musica, soltanto in ciascuna delle due cose in maniera del tutto diversa, dev'esserci certo non proprio una diretta somiglianza, ma ben invece un parallelismo, un'analogia, fra la musica e le idee, di cui il mondo visibile è la manifestazione nella pluralità e nell'imperfezione. La dimostrazione di questa analogia faciliterà come commento la comprensione di questa interpretazione, resa difficile dall'oscurità dell'argomento.» (Il mondo, §52, Rizzoli I, 489) Inizia da qui, sul versante della base oggettiva o metafisica dell’arte musicale, un percorso di «analogia tra la musica e le idee», analogia che fa corrispondere le tonalità musicali con i gradi delle idee-essenze metafisiche del mondo: «Procedendo, in tutte le parti costituenti l'armonia, tra il basso e la voce-guida che canta la melodia, riconosco l'intera scala delle idee, in cui la volontà si oggettiva. Quelle più vicine al basso corrispondono ai gradi inferiori, ossia ai corpi ancora inorganici ma già in più modi estrinsecantisi: le più alte mi rappresentano il mondo vegetale ed animale. I determinati intervalli della scala sono paralleli ai gradi determinati nell'oggettivazione della volontà, alle determinate specie della natura. […] Più pesante di tutte si muove il basso fondamentale, il rappresentante della massa bruta… […] Più svelte, ma ancor senza nesso melodico e significante progressione si muovono le parti più elevate, che corrono parallele al mondo animale.» (Il mondo II, 52, Bazzani, 68-69) Una analogia che prosegue e alimenta una tesi antica e recente, di impronta pitagorica: la musica essenza del mondo; essenza qui però svelata in trasgressione metafisica, cioè realizzata non da una lettura matematica formale del mondo, ma ad opera di un’arte capace di comporre in armonia le dissonanze metafisiche del mondo, le forze irruente e irrelate della volontà di vita («esuberanza e immenso groviglio senza forme»), ricavandone però una armonia particolare, vivace e non soggiogata da compostezza di forme; una «rerum concordia discors» per la quale Schopenhauer richiama Beethoven (Il mondo, Mondadori p. 1326). Se dunque la volontà di vita, nella sua originaria istintualità, è rumore, sofferenza e dolore, la musica, come una immensa e continua terapia, ne è la diretta negazione, ma ad una condizione: non quando nega quella sofferenza e quelle sconnessioni nascondendole in una composizione formale piana e prevedibile, ma quando proprio ne riprende e ricostruisce la scomposta dinamica. Quasi in forma redentiva e sacrificale, la musica assume su di sé, nel proprio andamento, l’immenso dolore del mondo manifestandolo e trasformandolo in immediata e intuitiva armonia.  La modalità è presentata da Schopenhauer attraverso una analogia: «Ora, come l'essenza dell'uomo sta nel fatto, che la sua volontà aspira, viene appagata e torna ad aspirare, e sempre così continua; anzi sua sola felicità, solo suo benessere è che quel passar dal desiderio all'appagamento e da questo a un nuovo desiderio proceda rapido, poi che il ritardo dell'appagamento è dolore, e il ritardo del nuovo desiderio è aspirazione vuota, languor, noia; così l'essenza della melodia è un perenne discostarsi, peregrinar lontano dal tono fondamentale per mille vie non solo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante settima ed ai gradi eccedenti; eppur sempre succede da ultimo un ritorno al tono fondamentale. Per tutte codeste vie esprime la melodia il multiforme aspirar della volontà; ma col ritrovare infine un grado armonico, o meglio ancora il tono fondamentale, esprime l'appagamento. Trovar la melodia, scoprire in lei tutti i segreti più profondi dell'umano volere e sentire, è l'opera del genio: la cui azione è qui più facile a vedersi che altrove, libera da ogni riflessione e meditato intento — e potrebbe chiamarsi inspirazione. Qui, come ovunque nel dominio dell'arte, il concetto è infruttifero: il compositore disvela l'intima essenza del mondo, in un linguaggio che la ragione di lui non intende: come una sonnambula magnetica dà rivelazione di cose, delle quali sveglia non ha concetto alcuno.» (Il mondo II, 52, Bazzani, 69-70)
3.3.4.2. Il versante soggettivo, la componente e la partecipazione soggettiva e la funzione espressivo-terapeutica della musica. «La musica quindi è — guardata come espressione del mondo — un linguaggio in altissimo grado universale, che addirittura sta all'universalità dei concetti press'a poco come i concetti stanno alle singole cose. Ma la sua universalità non è punto quell'universalità vuota dell'astrazione, bensì ha tutt'altro carattere, ed è congiunta con una perenne, limpida determinatezza. Somiglia in ciò alle figure geometriche ed ai numeri: che, quali forme universali di tutti i possibili oggetti dell'esperienza ed a tutti applicabili, non sono tuttavia astratti, ma intuitivi e sempre determinati. Tutte le possibili aspirazioni, eccitazioni e manifestazioni della volontà; tutti quei fatti interni dell'uomo, che la ragione getta nell'ampio concetto negativo di sentimento, sono da esprimere nelle infinite melodie possibili; ma ognora nell'universalità di semplice forma, senza la materia; ognora nell'in-sé, e non nel fenomeno: quasi la più profonda anima di questo, senza il corpo. Da quest'intima relazione, che la musica ha con la vera essenza di tutte le cose, si trae pur la spiegazione del fatto che se a qualsivoglia scena, azione, evento, ambiente s'accompagna una musica adatta, questa sembra dischiudercene il senso più segreto, ed esserne il più esatto, il più limpido commentario; e nello stesso tempo pare a quegli, che intero s'abbandona all'effetto d'una sinfonia, di vedere innanzi a sé passare le vicende tutte della vita e del mondo: ma nondimeno non gli è possibile, quando vi rifletta, trovare una somiglianza tra quella musica e le cose che ondeggiavano a lui nella fantasia. Poiché quivi la musica differisce, come ho detto, da tutte le altre arti: nell'essere non già una riflessa immagine del fenomeno o, meglio, l'adeguata oggettità della volontà, bensì l'immediato riflesso della volontà medesima; e per tutto ciò ch'è fisico nel mondo rappresentare il metafisico, per ogni fenomeno rappresentare la cosa in sé. Tanto si potrebbe quindi chiamare il mondo musica materiata, quanto materiata volontà. [...]
L'ineffabile senso intimo d'ogni musica, in grazia del quale ella ci passa davanti come un paradiso a noi ben famigliare e pure eternamente lontano, affatto comprensibile e pur tanto incomprensibile, proviene dal riflettere tutti i moti del nostro essere più segreto, ma senza la realtà loro, e tenendosi lungi dal loro tormento.» (Il mondo II, 52, Bazzani, 71-72).
3.3.4.3. Il tema e il mondo della musica nella rilettura e riproposta di Nietzsche in chiara ripresa di Schopenhauer: «Ma quando il gesto simboleggia, del sentimento, le rappresentazioni che l'accompagnano, per mezzo di quale simbolo saranno partecipati e fatti comprendere gli impulsi della volontà! Qual è qui la meditazione istintiva? La mediazione del suono. Detto più precisamente, sono i diversi modi del piacere e del dolore - senza alcuna delle rappresentazioni che li accompagnano - ad esser simboleggiati dal suono. Tutto quel che si può dire ai fini di una caratterizzazione delle diverse sensazioni di dolore, appartiene alle immagini delle rappresentazioni diventate chiare attraverso la simbolica del gesto: così, per esempio, quando di un improvviso sgomento parliamo in termini di colpi, convulsioni, spasimi, fitte, ferite, morsi, pungoli del dolore. Con ciò sembrano esprimersi certe forme d'intermittenza della volontà, in breve - nella simbologia del linguaggio dei suoni - la ritmica. La pienezza delle sfumature della volontà, la quantità variabile della gioia e del dolore, tutto ciò noi lo riconosciamo nella dinamica del suono. Ma la sua essenza più propria si cela, senza che la si possa esprimere in modo simbolico, nell'armonia. La volontà e il suo simbolo - l'armonia -, l'una e l'altra in fin dei conti logica pura! Mentre la ritmica e la dinamica sono ancora aspetti esteriori della volontà che si manifesta attraverso simboli, e quasi hanno ancora il carattere dell'apparenza, l'armonia invece è il simbolo della pura essenza della volontà. Ne consegue che nella ritmica e nella dinamica l'apparenza singola deve ancora essere caratterizzata come apparenza, e da questo punto di vista si può sviluppare la musica come arte dell'apparenza. Il resto irriducibile, cioè l'armonia, parla della volontà, interiormente ed esteriormente a tutte le forme dell'apparenza, e non è semplice simbolismo del sentimento bensì simbolismo del mondo. Nella sua sfera il concetto è del tutto impotente.» (Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, 67 in Nietzsche Friedrich, 1870-1873 La nascita della tragedia, La filosofia nell’età tragica dei Greci, Verità e menzogna, Newton Compton, Roma 1991).
3.3.5. Una conclusione sulla funzione “redentiva” dell’arte nel suo rapportarsi alla volontà di vita e alle sue forme. «Il suo dar voce alla sventura mediante identificazione anticipa il disarmo della sventura; ciò, e non la fotografia della sventura né una falsa beatitudine, delinea la posizione dell'arte autentica del presente nei confronti dell'oscurata oggettività; di ogni altra arte la sdolcinatezza fa una rea convinta di falsità.» (Adorno Wiesengrund Theodor, 1969, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1977, 33)

 

Fonte: http://www.terzauniversita.it/corsi_15-16/dispense/corso15_lez5.doc

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