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ESTETICA e SEMIOTICA in UMBERTO ECO: 1955-2002
Premessa Questo saggio vuole dimostrare alcune affermazioni che mi pare opportuno esplicitare subito.
I L'estetica - pur non essendo l'ambito disciplinare istituzionale di Umberto Eco (come è noto egli insegna Semiotica all'Università di Bologna da più di un quarto di secolo) - è stata non solo lo stimolo iniziale della sua ricerca (la sua base di partenza) ma un suo costante oggetto d'interesse per più di quarant'anni di studi, per l'esattezza dal 1955 al 1999. Scrive significativamente lo stesso Eco nel 1963: "burocraticamente parlando, appartengo al genus dei filosofi e mi occupo di estetica. In particolare sono interessato alla storia delle poetiche" (cfr. Eco 1968a, p. 288) e nel 1990, a quindici anni dal Trattato di semiotica generale, precisa: "chi conosce la mia bibliografia sa che altrove - scilicet dal Trattato - ho fatto estetica senza infingimenti" (Eco 1990, p. 129). Ed infatti, per essere convinti di ciò, basta ricordare che di estetica si occupano non solo opere degli anni Sessanta divenute leggendarie e proverbiali quali Opera aperta, Apocalittici e integrati, Il superuomo di massa, ma anche opere recenti quali Lector in fabula, o recentissime quali Kant e l'ornitorinco. Ne segue dunque l'opportunità, oltre che la legittimità, di una puntuale analisi della teoria estetica di Eco.
II Fermo ciò - ossia che, in Eco, a fianco della riflessione semiotica vi è un altrettanto rilevante pensiero estetico - è bene precisare che la sua estetica deve essere divisa e analizzata in due distinte stagioni: quella presemiotica (dal 1955 fino a circa il 1968), quella ad impianto semiotico (da quella data in avanti).
III Nondimeno, l'estetica e la semiotica di Eco non sono due "stagioni" genericamente complementari, ma due ambiti della sua riflessione specificatamente coerenti. L'una dunque sostiene, completa, dimostra l'altra e viceversa.
1 Contro Croce: Eco dagli esordi ad oggi
1 Per verificare sinteticamente la validità del primo di questi assunti può essere utile iniziare col ricordare il violentissimo attacco a Croce e alla sua estetica con cui termina l'ultimo libro di Eco, Kant e l'ornitorinco; in queste pagine Eco afferma che Croce fu "grande maestro di oratoria" e che le sue opere di estetica sono caratterizzate da "poche idee astrattissime" dominate "dal modello verbocentrico" e da poche "adamantine certezze che paiono nascere da scarsissima dimestichezza con le arti" e che in conclusione la sua estetica può essere giustamente definita il "regesto di numerose battaglie perdute".
Se uno non conoscesse l'opera precedente di Eco, questa violentissima "coda estetica" a un libro di cinquecento pagine di semiotica potrebbe stupire, ma invece è l'esito logico di una polemica lunga e coerente, che di libro in libro caratterizza l'intera ricerca estetica di Eco: sarà dunque la ricostruzione sommaria di alcuni passaggi di questa polemica la prima rapida specula del nostro saggio (per inciso, e lo vedremo diffusamente nel corso di questo scritto, la polemica contro Croce costituisce l'ambito in cui si viene formando il pensiero estetico del giovane Eco).
Così, con assoluta circolarità logica, nel primo "vero" libro di Eco, Opera aperta, si dice che la riflessione di Croce "fa della meditazione estetica una operazione di suggestivo nominalismo, fornendo cioè affascinanti tautologie per indicare fenomeni che però non vengono spiegati" (cfr. Eco 1962-1976, p. 67).
In La definizione dell'arte, del 1968, e un'altra volta sono le pagine conclusive, Eco afferma che "si rimprovera a Croce" - e l'elenco ha qualcosa di giudiziario, quasi si elencassero i capi di imputazione di un processo al tribunale della storia: "1) di aver trascurato le differenze storiche ed empiriche tra i vari 'generi' artistici, le loro 'retoriche' specifiche, la loro destinazione pratica e sociale; 2) di non considerare quindi i problemi delle tecniche artistiche (il momento della costruzione concreta dell'opera, per Croce, non aggiungeva nulla alla completezza dell'intuizione lirica); 3) di avere quindi accentuato il ruolo dell'intuizione immaginativa e dell'emozione trascurando gli elementi di calcolo, di intelligenza, di conoscenza tecnica che sono presenti nell'operazione dell'artista e devono esser presenti nella valutazione critica; 4) infine, proprio per questi motivi, di avere ristretto la metodologia critica a una distinzione di poesia e non poesia, definendo il resto come 'struttura' non essenziale".
Se non bastasse questa requisitoria, in La struttura assente del 1968, sinteticamente Eco definisce la dottrina crociana "vaga e insoddisfacente... un immaginoso gioco di metafore", e in Sugli specchi e altri saggi del 1985 (una raccolta di "saggi che vanno dalla semiotica all'estetica"), con forte sense of humour si precisa che "Croce era un maestro nel liquidare i problemi definendoli pseudo-problemi" perché "questo gli permetteva di porre solo dei problemi a cui avesse già trovato la risposta" (Eco 1968b, p. 61 e Eco 1985, p. 261).
Dunque possiamo dire che la polemica con Croce è, con assoluta evidenza testuale, una costante delle opere di Eco; nondimeno, tra le tante pagine, è importante ricordarne una del Trattato di semiotica generale dove la distanza della riflessione estetica di Eco dall'estetica di Croce viene marcata in termini semiotici: "L'estetica dell'intuizione raggiunge il suo punto massimo nella dottrina crociana della cosmicità dell'arte (...) Una simile definizione sembra quanto vi sia di più lontano dal presente approccio semiotico" (Eco 1975, p. 329).
Questa ultima citazione ci permette però non solo di abbandonare Croce - lo "ripescheremo" comunque in sede di chiusura - ma di passare ad analizzare i vari passaggi che portano Eco a legare la sua estetica e le sue principali scoperte critico-letterarie non tanto ad una generica polemica anti crociana, quanto e piuttosto ad un ineludibile fondamento semiotico.
Per arrivare a comprendere compiutamente la odierna teoria estetica di Eco e il suo impianto semiotico è preliminare però analizzare l'estetica del periodo che Eco stesso, con sicura padronanza storica della propria vicenda intellettuale, definisce "presemiotico" (cfr. Eco: 1962-1976, p. VIII; Eco 1990, pp. 5 e 8).
2 L'estetica del periodo "presemiotico": 1955-1968
Tralasciando dunque i primi, pur rilevanti, volumi di Eco dedicati alla storia dell'estetica medioevale (Eco 1956 e Eco 1959) - i libri dai quali partire per comprendere la sua estetica nel periodo "presemiotico" sono certamente Opera aperta del 1962 (seconda edizione 1965; edizione definitiva 1971: faremo riferimento a questa, terzultima, edizione nella ristampa definitiva del 1976) e La definizione dell'arte, una miscellanea coerente di saggi pubblicati in rivista tra il 1955 e il 1965 ma raccolti in volume solo nel 1968.
Intanto, e preliminarmente, che cosa intende Eco con "opera aperta"?
Secondo Eco ogni opera d'arte ha una duplice caratteristica, ossia di essere un oggetto definito e al tempo stesso di essere "aperta" a una serie di interpretazioni coerenti: dunque, per usare le parole di Eco, "un'opera d'arte, forma compiuta e chiusa nella sua perfezione di organismo perfettamente calibrato, è altresì aperta, possibilità di essere interpretata in mille modi diversi senza che la sua irriproducibile singolarità ne risulti alterata. Ogni fruizione è così una interpretazione ed una esecuzione, poiché in ogni fruizione l'opera rivive in una prospettiva originale" (Eco, 1962-1976, p. 34 e cfr. Eco 1997, p. 378).
Importante notare che Eco chiama "dialogica" questa relazione affermando che "l'autore offre al fruitore un'opera da finire: non sa esattamente in quale modo l'opera potrà essere portata a termine, ma sa che l'opera portata a termine sarà pur sempre la sua opera, non un'altra, e che alla fine del dialogo interpretativo si sarà concretata una forma che è la sua forma, anche se organizzata da un altro in un modo che egli non poteva completamente prevedere: poiché egli in sostanza aveva proposto delle possibilità già razionalmente organizzate, orientate e dotate di esigenze organiche di sviluppo" (cfr. Eco, 1962-1976, pp. 58-59: cfr anche Hegel per il quale l’opera d’arte è si “un mondo in sé concordante e conchiuso” ma anche capace di “dialogo con chiunque le sia dinanzi” in Estetica, 1836, p 347).
Fermo ciò, è necessario ora comprendere perché il titolo originario di Opera aperta sarebbe dovuto essere Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee e perché nella edizione definitiva ne sia divenuto il sottotitolo: è da rilevare in realtà che nelle poetiche contemporanee tale "apertura" - caratteristica propria di ogni opera d'arte - è ricercata e voluta dagli autori "come una delle finalità esplicite dell'opera" (cfr. Eco, 1962-1976, p. VI e p. 16).
Afferma Eco, in un testo degli stessi anni, significativamente intitolato "Un consuntivo metodologico" che "la mia ultima ricerca sulle poetiche contemporanee, infatti, altro non è che il tentativo di elaborare dei modelli di poetiche che dimostrano come oggi sia in atto una profonda mutazione del concetto di arte. L'opera d'arte sta diventando sempre più, da Joyce alla musica seriale, dalla pittura informale ai film di Antonioni, un'opera aperta" (Eco 1968a, p. 293, sottolineature mie e cfr. anche Eco 1966).
Un altro concetto fondamentale per la comprensione di Opera aperta ne segue che sia il concetto di "poetica", concetto non prettamente originale ma di grande importanza anche nel successivo sviluppo della teoria estetica di Eco. Afferma Eco: "Noi intendiamo 'poetica'... non come un sistema di regole costrittive... ma come il programma operativo che volta a volta l'artista si propone... Esplicitamente o implicitamente: infatti una ricerca sulle poetiche (e una storia delle poetiche; e quindi una storia della cultura dal punto di vista delle poetiche) si basa sia sulle dichiarazione espresse dagli artisti... sia su una analisi delle struttura dell'opera, in modo che, dal modo in cui l'opera è fatta, si possa dedurre come voleva essere fatta" (Eco 1962-1976, p. 18).
Insomma poetica viene ad indicare principalmente l'analisi dell'opera, lo studio delle strutture immanenti all'opera, pur senza che questo implichi da parte di Eco alcun avvicinamento allo strutturalismo; tutt'al più poetica va intesa "nel senso praghese: analisi e descrizione di strutture" (Eco 1990, p. 135).
Importante per tutto questo nodo di problemi un'altra affermazione di Eco: "il modello di un'opera aperta non riproduce una presunta struttura oggettiva delle opere, ma la struttura di un rapporto fruitivo: una forma è descrivibile solo in quanto genera l'ordine delle proprie interpretazioni, ed è abbastanza chiaro come, così facendo, il nostro procedimento si discosta dall'apparente rigore oggettivistico di certo strutturalismo ortodosso... Se lo strutturalismo avanza la pretesa di poter analizzare e descrivere l'opera d'arte come un 'cristallo', pura struttura significante... allora... la nostra ricerca non ha nulla a che vedere con lo strutturalismo" (Eco 1962-1976, p. 22).
In realtà Eco, proprio per quel che riguarda il termine chiave di "interpretazione", non era solo genericamente lontano dallo strutturalismo, bensì più precisamente vicino al filosofo Pareyson, suo maestro e docente di estetica l'Università di Torino. E' in coerenza a ciò, che l'Introduzione a Opera aperta si chiude con questa frase: "Infine dalle citazioni e dai riferimenti indiretti, il lettore si renderà conto del debito che ho contratto con la teoria della formatività di Luigi Pareyson; e non sarei arrivato al concetto di 'opera aperta' senza l'analisi che egli ha condotto del concetto di interpretazione", anche se Eco ha subito modo di precisare che "il quadro filosofico in cui ho poi inserito questi apporti coinvolge soltanto la mia responsabilità" (per Pareyson cfr. anche Eco 1997, pp. 379, 389-90, 396).
Che cos'era dunque l'estetica per Pareyson? "Universalità della verità e personalità dell'interpretazione, ossia l'idea che l'interpretare personalmente il vero non significa ridurlo a relativismo. La verità si riesce a conoscerla mobilitando ciò che ciascuna epoca o individuo hanno di più proprio... In più in lui c'era l'idea di una vocazione personalizzata alla verità" (cfr. Vattimo, la Repubblica, 10 agosto 1997).
Dunque, e sinteticamente, credo sia esatto dire che negli anni Sessanta Eco applica una teoria estetica mutuata dal suo maestro Pareyson (una versione che egli stesso definisce - nell'Introduzione a I limiti dell'interpretazione - laicizzata, "secolarizzata") sia alle avanguardie artistiche sia alla comunicazione di massa e alla cultura popolare (cfr. Opera aperta, 1962; Apocalittici e integrati, 1964; Le poetiche di Joyce, 1966; La definizione dell'arte, 1968)
Se di Opera aperta (che nella prima edizione comprendeva anche Le poetiche di Joyce poi divenuto libro autonomo) si è già parlato, e di Apocalittici e integrati, si parlerà più avanti, è necessario ora soffermarci invece su alcune pagine del volume di saggi (1955-1968) intitolato La definizione dell'arte.
Per comprendere l'importanza di questo volume può bastare ricordare che - nel saggio significativamente intitolato "Il problema della definizione generale dell'arte" - inizia il dialogo fecondo tra Eco e Dino Formaggio, oggi decano dell'estetica italiana, allora giovane esponente di una fronda violentemente anticrociana", con queste parole: "Ora Formaggio ci dice, ne L'idea di artisticità, del 1962, che l'idea dell'arte, che le poetiche moderne avevano proposto come unica e assoluta, sta maturando ai giorni nostri una crisi secolare, tanto che si può legittimamente parlare di 'morte dell'arte', e di avvento di nuove forme che attendono una loro adeguata descrizione filosofica. (...) Di fronte a una prospettiva del genere, chi scrive non prova alcuna preoccupazione, perché di Formaggio condivide la radicale disponibilità verso il divenire e il trasformarsi delle nostre concezioni intorno al Bello e alla Forma. (...) L'idea dell'arte continuamente muta a seconda delle epoche e dei popoli, e ciò che per una data tradizione culturale era arte, pare dissolversi di fronte a questi nuovi modi di operare e fruire" (Eco 1968a, pp. 137-143).
E' bene anche ricordare, per comprendere tutto il valore euristico e fenomenologico di questa citazione e quindi del riferimento a Formaggio, che tale attenzione troverà uno dei suoi vertici dialogici trent'anni dopo nell'esplicito richiamo da parte di Eco "alla splendida dichiarazione introduttiva con cui Dino Formaggio iniziava il suo volumetto Arte: 'Arte è tutto ciò che gli uomini hanno chiamato arte''' (Eco 1985, p. 115 e Formaggio 1973-1981: cfr. poi Eco 1990, p. 130).
Fermo ciò, è da rilevare che la concezione estetica di Eco non è solo, come appena detto, fortemente antidogmatica e antinormativa, ma è anche caratterizzata, contro Croce, da una precipua attenzione fenomenologico-descrittivo all'impianto materiale dell'opera d'arte, e che in questo senso agiscono ancora le simmetriche sollecitazioni anticrociane di Pareyson e Formaggio (cfr. anche Eco 1997, p. 385).
Scrive dunque Eco che se "l'estetica idealistica - scilicet di Croce - ci aveva... insegnato che la vera invenzione artistica si sviluppa in quell'attimo dell'intuizione-espressione che si consuma tutto nell'interiorità dello spirito creatore" e che "l'estrinsecazione tecnica, la traduzione del fantasma poetico in suoni, colori, parole o pietra, costituiva solo un fatto accessorio, che non aggiungeva nulla alla pienezza e definitezza dell'opera", al contrario l'estetica contemporanea "proprio reagendo a questa persuasione... ha vigorosamente rivalutato la materia... per comprendere che non c'è valore culturale che non nasca da una vicenda storica, terrestre, che non c'è spiritualità che non si attui attraverso situazioni corporali concrete".
Precisa ancora in questo senso Eco che "noi non pensiamo nonostante il corpo ma con il corpo. La Bellezza non è un pallido riflesso di un universo celeste che noi intravediamo a fatica e realizziamo imperfettamente nelle nostre opere: la Bellezza è quel tanto di organizzazione formale che noi sappiamo trarre dalle realtà che esprimiamo giorno per giorno" (Eco 1968a, p. 212: sottolineature mie: per l'importanza di questa definizione, sia in termini estetici che di semiotica generale, si veda l'ultimo paragrafo del presente saggio).
E' da notare però che tutta questa costruzione estetica, capace di un'attenta comprensione delle ragioni storiche dell'arte antica, medioevale e contemporanea, mancava di un preciso quadro di riferimento, di "un quadro teorico unificante" (cfr. Eco 1962-1976, p. VIII; Eco 1964-1977, p. XV).
Si comprende dunque la successiva recisa affermazione di Eco: "Rivedendo a distanza il lavoro compiuto negli anni successivi a Opera aperta, da Apocalittici e integrati alla Struttura assente e di lì attraverso Le forme del contenuto al Trattato di semiotica mi rendo conto che... tutti gli studi che ho condotto dal 1963 al 1975 miravano (se non unicamente almeno in buona parte) a cercare i fondamenti semiotici di quella esperienza di 'apertura' di cui avevo raccontato, ma di cui non avevo dato le regole, in Opera aperta" (Eco 1979, p. 8). A questa ricerca dei fondamenti semiotici dell'estetica è dunque dedicato il prossimo paragrafo.
3 Estetica e semiotica: una ricostruzione diacronica
Per ricostruire questo passaggio e questo incontro è opportuno, seguendo le parole di Eco, "andare con ordine". In realtà gli anni che vanno da Opera aperta al Trattato di semiotica sono anni estremamente ricchi di scoperte intellettuali. Infatti a quanto finora palesato si aggiunge con straordinaria velocità - a partire dal 1963 ed entro il 1965 - l'incontro di Eco con Jakobson, i formalisti russi, Barthes, e lo strutturalismo francese (cfr. Eco 1990, p. 20). Non solo, ma bisogna ricordare che la "nascita" della semiologia - l'attuale semiotica - è proprio di quegli anni. Significativamente, dunque, Eco - alla domanda sul perché egli dica che la semiotica ha ventotto anni o ne ha duemila - risponde che la semiotica ha "ventotto anni... se si ricorda la discussione... cominciata dopo la pubblicazione in rivista degli Elementi di semiologia di Barthes nel 1964... Duemila perché la discussione sul segno comincia nel mondo greco, con Platone e Aristotele" (la Repubblica, 31 marzo 1992 e cfr. Eco 1975, passim).
Per comprendere il quadro storico in cui si muove Eco, si possono leggere le pagine dedicate ad Eco da uno dei maestri e dei protagonisti della "nuova" scienza semiotica, Cesare Segre. Dice Segre, e siamo nel 1969, "Mentre Barthes e Buyssens hanno dato, ognuno a suo modo, delle serrate sintesi teoriche o dei Grundzuge della semiologia, Eco ha invece voluto fornire alla nuova disciplina un ampio sfondo culturale e filosofico, facendo convergere verso di essa temi e problemi a prima vista eterogenei. Eco è infatti partito da un assioma dell'antropologia culturale oggi molto diffuso: tutta la vita sociale può essere considerata come un fenomeno di comunicazione, e perciò rientrare sotto il dominio della semiologia, dato che la comunicazione non può che avvenire attraverso i segni. (...) Con... La struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica, Eco ha dunque colto, con prontezza, una delle tendenze più stimolanti del pensiero moderno; soprattutto egli ha avvertito che una prospettiva semiologica gli permetteva di ordinare una serie di suoi interessi di ricerca che prima potevano sembrare accostati più che relazionati" (Segre 1969, p. 48 e passim).
Fermo ciò, è bene poi precisare che la Struttura assente è sì il primo risultato "semiotico" di Eco, ma frutto di una semiotica che egli definisce ancora "ansimante" (Eco 1968b, p. IV).
Che il vocabolo sia ben scelto lo dimostra la rapidità con la quale il giovane Eco teorico dell'estetica da un ambito italiano e non ancora interamente post-crociano si è inserito in un contesto euroamericano e semiotico. Non solo, ma palesa anche l'estrema rapidità con cui, proprio tra il 1962 e il 1965, Eco trasforma il suo approccio ai problemi della comunicazione; se Eco infatti era inizialmente debitore alla teoria dell'informazione e alle semantiche anglosassoni, ora invece si apre alla linguistica strutturale e del formalismo russo. Con una precisazione, ancora di Segre, che "in Italia lo strutturalismo è nato come post-strutturalismo" (Segre 1996, p. 5). Con La struttura assente, ripetiamo del 1968, Eco raccoglieva infatti, con assoluto tempismo, la distinzione fondamentale tra semiotica e strutturalismo: "A quei tempi, 1967-1968, - afferma Eco - non si capiva bene cosa distinguesse la semiologia dallo strutturalismo. Non era ancora chiaro che la prima, se non era una scienza, o una disciplina omogenea, in ogni caso era l'approccio a un oggetto, dato o posto che fosse. Mentre il secondo era un metodo per studiare quello, e altri, oggetti. (...) Certo... il rilancio di una scienza dei segni veniva fatto allora, specie in Francia, nell'ambito della linguistica strutturalista. Ma bastava questo elemento contingente, diciamo pure, di moda culturale, a tener fermo l'equivoco quando si vedeva per esempio nell'opera di Jakobson una maggiore flessibilità nell'introdurre nel discorso semiotico anche teorie e pratiche non strutturaliste, come ad esempio quella di Peirce?" (cfr. Eco 1968b, p. IV).
Il nome di Peirce ci permette di evidenziare un'ulteriore caratteristica dell'estetica ad impianto semiotico di Eco, ossia la sicura e precoce constatazione da parte di Eco della costante tensione abduttiva e interpretativa richiesta dal testo estetico (cfr. Eco 1975, p. 341; per il concetto di "abduzione", centrale in Peirce, vedi almeno, oltre Eco 1975 e Eco 1997, Proni 1990).
E' bene però precisare che "l'importanza dell'interpretazione in estetica e in semiotica non è... una novità per Eco quando, attraverso Jakobson e Morris, inizia a leggere Peirce". In realtà, se è vero che in Peirce Eco trova una conferma di qualcosa che aveva già affermato Pareyson, è vero anche che egli recepisce dal filosofo americano proprio "una trattazione semiotica, ciò filosoficamente più rigorosa e formale del processo interpretativo" (cfr. Proni in AA.VV. 1992, p. 89).
Possiamo dunque dire che la definizione di estetica che verrà data da Eco nel suo periodo semiotico risente tanto di Jakobson quanto di Peirce, ma non resta estranea a una tensione etica di ascendenza pareysoniana.
Ecco un brano in cui si palesano, si combinano e si superano queste diverse tradizioni nelle quali è cresciuto il pensiero estetico di Eco: "La comprensione del testo è basata su una dialettica di accettazione e ripudio dei codici dell'emittente, e di proposta e controllo dei codici del destinatario. Se la forma più usuale di abduzione consiste nel proporre codici ipotetici per disambiguare situazioni non sufficientemente codificate, allora l'abduzione estetica rappresenta la proposta di codici che rendano il testo comprensibile. Il destinatario non sa quale fosse la regola del mittente e tenta di estrapolarla da dati sconnessi dall'esperienza estetica che sta facendo... Ma, anche così facendo, non tradisce mai completamente le intenzioni dell'autore, e stabilisce una dialettica tra fedeltà e libertà. Da un lato è sfidato dall'ambiguità dell'oggetto, dall'altro è regolato dalla sua organizzazione contestuale. (...) Così una definizione semiotica dell'opera d'arte spiega perché nel corso della comunicazione estetica abbia luogo una esperienza che non può essere né prevista né completamente determinata, e perché questa esperienza 'aperta' venga resa possibile da qualcosa che deve essere strutturato a ciascuno dei suoi livelli" (Eco, 1975, pp. 341-343).
Fermo dunque il forte inveramento dell'estetica di Eco nella sua semiotica, va però rilevato che "più che di una conversione alla semiotica si tratta... di una vera e propria parallasse... il testo estetico ha sempre costituito per Eco un modello di laboratorio" (Fabbri in AA.VV. 1992, p. 178). Alla luce di questo l'estetica è innanzitutto una branca della teoria della produzione semiotica e della sua interpretazione e a questi due nessi problematici saranno dedicati i prossimi due paragrafi.
4 Estetica e semiotica: una definizione teorica
Credo sia imprescindibile - per comprendere come Eco abbia raggiunto l'obbiettivo della postulazione teorica di un'estetica "sub specie semiotica" - rifarsi ancora ad alcune pagine del Trattato di semiotica generale che diventeranno inoltre la fonte esplicita o implicita di tutte le sue successive posizioni.
Afferma Eco - con assoluta limpidezza estetica e semiotica e nel paragrafo dal titolo significativo "Rilievo semiotico del testo estetico"- che un testo estetico possiede delle caratteristiche semiotiche particolari e precisamente:
"i) un testo estetico implica un lavoro particolare vale a dire una manipolazione dell'espressione;
ii) questa manipolazione provoca (ed è provocata da) un riassestamento del contenuto;
iii) questa doppia operazione, producendo un genere di funzione segnica altamente idiosincratica e originale, viene in certo qual modo a riflettersi sui codici che servono di base all'operazione estetica, provocando un processo di mutamento di codice;
iv) l'intera operazione, anche se mira alla natura dei codici, produce di frequente un nuovo tipo di visione del mondo;
v) in quanto mira a stimolare un complesso lavoro interpretativo nel destinatario, il mittente di un testo estetico focalizza la propria attenzione sulle sue possibili reazioni, così che tale testo rappresenta un reticolo di atti locutivi o comunicativi, che mirano a sollecitare risposte originali".
Dunque l'esperienza estetica "tocca da vicino il semiotico"; ma vi sono, precisa Eco, anche altre ragioni e vantaggi per i quali estetica e semiotica debbono avere reciproca attenzione. Questa collaborazione infatti, può portare a "correggere molte delle posizioni dell'estetica tradizionale: prima tra tutte quella presupposizione di 'ineffabilità' che per tanto tempo ha guidato la definizione dell'opera d'arte".
Da notare che la pagina ora ricordata prosegue con una frase, citata alla fine del primo paragrafo del nostro saggio, dove si palesa in Croce e nella sua estetica dell'intuizione il massimo avversario italiano di un'estetica a impianto semiologico. Diversamente "la definizione operativa più utile che sia stata formulata del testo estetico - prosegue Eco - è quella fornita da Jakobson quando, sulla base della ben nota suddivisione delle funzioni linguistiche, ha definito il messaggio a funzione poetica come AMBIGUO e AUTORIFLESSIVO" (per le ultime citazioni cfr. Eco 1975, pp. 328-329, con tagli e lievi modifiche).
Jakobson sarà dunque il nume tutelare della successiva teorizzazione estetica di Eco e il richiamo alle sue posizioni codificate nei Saggi di linguistica generale del 1963 rimarrà costante (cfr. Eco 1968b, pp. 60-83; Eco 1975, p. 329 e par. 3.7; Eco 1979, p. 217; Eco 1985, p. 74; Eco 1990, p. 159; ecc.; su Jakobson e la semiotica Eco 1978).
Allora quali sono, sinteticamente e con una formulazione più discorsiva, le caratteristiche dell'opera d'arte, caratteristiche di forte derivazione jakobsoniana ma di altrettanto forte integrazione echiana:
1) ambiguità, intesa come "violazione delle regole del codice" (più precisamente Eco afferma che "si ha ambiguità estetica quando a una deviazione sul piano dell'espressione corrisponde una qualche alterazione sul piano del contenuto");
2) autoriflessività, intesa come la capacità del messaggio estetico, presentandosi come semanticamente ambiguo, di imporre al destinatario una particolare attenzione interpretativa proprio all'artificio semantico, cioè alla propria forma;
3) capacità di mettere in discussione "la verità". Eco afferma cioè, contro ogni forma di irrazionalismo e intuizionismo estetico, che "il testo estetico, lungi dal suscitare soltanto 'intuizioni', provvede invece un incremento di conoscenza concettuale... e quindi contribuisce a cambiare il modo in cui una data cultura 'vede' il mondo... Il che non equivale a dire che l'opera d'arte 'dica la Verità'. Essa semplicemente mette in questione le verità acquisite" (cfr. Eco 1975, pp. 329-343).
Se sulle due prime caratteristiche abbiamo già molto insistito, è da notare che la terza porta già l'estetica a farsi carico di un atteggiamento etico, di un atteggiamento di responsabilità: su questo torneremo specificatamente nel paragrafo conclusivo, ma è doveroso rimandare almeno a Eco 1997 (cfr. pp. 19, 32, 390, 391, 397, 398).
Qui invece è importante ricordare come Eco riprenda e approfondisca la stessa definizione d'arte, circa dieci anni dopo, con altre, più semplici ed incisive parole: "Noi siamo abituati a ritenere opere d'arte quegli oggetti che a) da un lato ci obbligano a considerare il modo in cui sono fatti e b) dall'altro, in qualche misura, ci lasciano inquieti perché non è cosi pacifico che vogliano dire quello che apparentemente sembrano dire. In tale senso la 'ambiguità' non è necessariamente riducibile alla deformazione, all'innovazione stilistica, alla rottura delle aspettative; può essere anche questo (e spesso nell'arte contemporanea lo è o lo era) ma soprattutto vuol dire 'sovrappiù di senso' o 'polisemia' che dir si voglia ( o vogliamo dire "apertura"?). L'opera è lì, quadro, poesia, romanzo, sembra che ci racconti che esiste da qualche parte una donna, un fiore, una collina... un poeta... eppure ci accorgiamo che non dice solo quello, ma che ci suggerisce qualcosa di più (e talora proprio il contrario di quello che sembra dire)" (Eco 1985, p. 74).
Data questa definizione di estetica e dei suoi rapporti con la semiotica, ed accennato ad al suo rapporto con l'etica, è ora necessario approfondire un problema centrale in Eco, il problema dell'interpretazione in campo semiotico ma anche estetico.
5 Il problema dell'interpretazione
Il problema dell'interpretazione in Eco è il problema del suo confronto con Heidegger e con i suoi epigoni, in filosofia, in estetica, in semiotica.
Importante iniziare con il ricordare una pagina di un libro del 1971 - Segno - dove si palesa ulteriormente contro chi Eco sia venuto costruendo la propria estetica e come tale estetica si venga precisando proprio all'interno di una riflessione sulla semiotica e sul segno.
Afferma Eco che "vi è tutto un filone filosofico" che vede "il linguaggio come grande istintiva metafora" ed è quindi portato "ad asserire che il linguaggio metaforico (e dunque poetico) è l'unico strumento di vera conoscenza e di sostanziale comunicazione". Ne segue dunque che "dai romantici a Heidegger... un intero capitolo della storia della estetica si fonde con la filosofia del linguaggio... non l'uomo foggia il linguaggio per dominare le cose, ma le cose, la natura o l'Essere si manifestano attraverso il linguaggio, il linguaggio è la voce dell'Essere, la Verità altro non è che il disvelarsi dell'Essere attraverso il linguaggio (...) E' chiaro che se questo libro - Segno- esiste è perché non accetta tale ipotesi " (cfr. Eco 1971, p. 97 ma vedi anche Eco 1968b, pp. XIV- XVIII e pp. 339-360).
Eco dichiara così l'opposizione genetica e radicale della sua semiotica rispetto a questa impostazione filosofica, ma non mi pare estensione scorretta affermare che nemmeno l'estetica di Eco accetti tale impostazione (cfr. Eco 1997, p. 23 e tutto il saggio "Sull'essere" con il fondamentale paragrafo "L'interrogazione dei poeti", una vera resa dei conti con l'estetica di Heidegger). Di Heidegger è importante pertanto ricordare alcuni noti passi di dove si afferma che il poeta esprime il mistero, che nel linguaggio poetico noi troviamo l'orma della verità che si nasconde alla filosofia e dunque che, se l'esistenza è un esilio, la poesia ci riporta alla "patria", nel "regno dell'essere" (cfr. Heidegger 1927, 1929, 1935, 1936, 1946, passim). Nasce da questi concetti infatti l'opposizione tra le ermeneutiche di derivazione heideggeriana e la teoria dell'interpretazione, anche in campo estetico, di Eco: la prima porta a una concezione per la quale il testo non ha punto di arrivo, il testo è infinitamente decostruibile perché connaturato al mistero, l'altra a porre dei limiti all'interpretazione e ad affermare, come si vedrà nell'ultimo paragrafo, ben altra nascita del fatto artistico.
Non stupisce quindi che la questione dei limiti dell'interpretazione, sottesa a tutta la riflessione estetica di Eco, diventi il tema principale e il titolo del libro del 1990. L'estetica e la semiotica letteraria di Eco contrastano infatti due "fanatismi epistemologici", ossia "quello del 'realismo metafisico' che predica la natura oggettiva del testo, come lo strutturalismo più rigido, e quello delle infinite interpretazioni, che caratterizzerebbero invece la semiosi ermetica, il decostruzionismo più radicale, e l'empirismo sociologico". In realtà Eco non pare oggi "affatto preoccupato dal primo fanatismo liquidato nella Struttura assente. Il suo problema è tutto interno al secondo corno del dilemma, cioè alla regolamentazione di una flessibilità interpretativa che va comunque salvaguardata" (cfr. Pozzato in AA.VV. 1992, pp. 244 e 245). Per essere ancora più espliciti è contro Derrida - o meglio contro gli eccessi del decostruzionismo e dell'epigonismo heideggeriano - che vanno posti dei limiti: la loro ermeneutica infatti sostituisce alla centralità del testo quella del lettore ed è divenuta, con la duplice crisi dello storicismo e dello strutturalismo, una prospettiva egemonizzante, sintomatica inoltre di una grave crisi non solo metodologica quanto, e più precisamente, etica.
Al contrario Eco - attraverso la distinzione tra uso e interpretazione come teoria che segna un "limite" all'interpretazione - propone all'interno della pratica interpretativa una dimensione di scelta metodologica e di controllo etico: "in termini testuali stabilire di che cosa parla un testo significa prendere una decisione... In ogni modo, dal momento in cui la comunità è indotta a concordare su una data interpretazione si crea un significato che se non è oggettivo, è almeno intersoggettivo... Difficile decidere se una data interpretazione è buona, più facile riconoscere quelle cattive. Così il mio scopo non era tanto quello di dire che cos'è la semiosi illimitata, ma almeno cosa non è e non può essere" (Eco 1990, pp. 336-338).
Nessuna lettura e nessuna interpretazione è dunque l'ultima e definitiva, ma ogni lettura e ogni interpretazione può essere buona o "cattiva", corretta o scorretta da un punto di vista metodologico ed etico. E' così che Eco giunge a teorizzare un'estetica "sub specie semiotica", di un'estetica che trova una sua distinta legittimità in un dialettico rapporto di cooperazione con la semiotica come teoria della falsificazione e della verifica etico-scientifica (cfr. Eco 1990, p. 130, e, per la concezione della semiotica come "teoria della menzogna", Eco 1975, p. 17 e passim).
Dunque, se è esatto affermare, come fa Eco, che "il problema dell'interpretazione, delle sua libertà e delle sue aberrazioni, ha sempre attraversato il mio discorso" è però anche necessario ricordare questa sua precisazione: "Parrebbe.. che, mentre allora - scilicet negli anni Sessanta - celebravo un'interpretazione 'aperta' delle opere d'arte, ammesso che quella fosse una provocazione 'rivoluzionaria', oggi mi arrocchi su posizioni conservatrici. Non mi pare che sia così. Trent'anni fa, partendo anche dalla teoria dell'interpretazione di Luigi Pareyson, mi preoccupavo di definire una sorta di oscillazione, o di instabile equilibrio, tra iniziativa dell'interprete e fedeltà all'opera. Nel corso di questi trent'anni qualcuno si è sbilanciato troppo sul versante dell'iniziativa dell'interprete. Il problema ora non è di sbilanciarsi in senso opposto, bensì di sottolineare ancora una volta l'ineliminabilità dell'oscillazione. Insomma, dire che un testo è potenzialmente senza fine non significa che ogni atto di interpretazione possa avere buon fine. Persino il decostruzionista più radicale accetta che ci siano delle interpretazioni che sono radicalmente inaccettabili. Questo significa che il testo interpretato impone delle restrizioni ai suoi interpreti. I limiti dell'interpretazione coincidono con i diritti del testo" (cfr. Eco 1979, p. 8 e Eco 1990, pp. 13-14).
E' da rimarcare qui un importante ed ulteriore passaggio logico: la distinzione tra uso e interpretazione ci ha portato ad affermare, se non la prescrittività, per certo la imprescindibilità di un'impostazione semiotica per l'estetica. Ritengo infatti sia evidente che Eco respinge in linea di principio un'estetica che non sia ad impianto semiotico, un'estetica che cioè non sia capace di riflettere sulle caratteristiche testuali, e di strategia testuale, dell'oggetto estetico. Afferma Eco: "Apparentemente la nostra indagine non si è preoccupata di discernere i valori estetici. Ma l'aver mostrato come un testo funziona, e in virtù di quali strategie funzioni così bene (nelle sue volute disfunzioni) da obbligarci a considerarne la struttura ai suoi vari livelli, dalla superficie lessematica ai livelli più profondi, ci dice ancora una volta che il messaggio estetico possiede la duplice qualità dell'ambiguità e dell'autoriflessività, e che nel lavorare a livello dell'espressione produce alterazioni nell'ordine del contenuto e ci impone di rivedere l'intero universo dell'enciclopedia che mette in crisi".
Dunque "dopo aver attualizzato semanticamente il testo, si procede a valutarlo, a criticarlo, e la critica può puntare alla valutazione del suo successo 'estetico'. (...) Il critico in questo caso è un lettore cooperante che, dopo aver attualizzato il testo, racconta i propri passi cooperativi, e rende evidente il modo in cui l'autore, attraverso la propria strategia testuale, lo ha portato a cooperare in quel modo. O ancora, valuta in termini di riuscita estetica (comunque teoricamente la definisca) le modalità della strategia testuale. I modi della critica sono vari, lo sappiamo... la differenza che ci interessa... passa... tra critica che racconta e mette a frutto le modalità di cooperazione testuale e critica che usa il testo... per altri fini" (Eco 1979, p. 217 e pp. 179-183: qui e nelle ultime tre citazioni sottolineature mie).
Ribadita l'importanza di tutto questo, va poi rilevato che la teoria estetica e letteraria di Eco - proprio perché così attenta ad affiancare alla teoria della produzione segnica in campo estetico una teoria della interpretazione e della ricezione - si è mostrata in realtà anche sempre aperta ed interessata non solo ad una corretta valutazione e comprensione dell'universo massmediologico, ma anche dei problemi inerenti alla sua produzione e alla sua recezione.
Approfondiremo dunque questi concetti nei prossimi due paragrafi dedicati in particolare ai rapporti della riflessione estetica di Eco con i mezzi di comunicazione di massa, poi con la letterarietà e la narratologia.
6 Semiotica, estetica, mezzi di comunicazione di massa
"La Pavone e Superman a braccetto con Kant" così si intitolava una recensione a Apocalittici e integrati. Comunicazione di massa e teorie delle comunicazioni di massa, del 1964. Effettivamente nella prima "incursione" massmediologica di Eco venivano analizzati - con assoluta acribia ma in un contesto ancora presemiotico - sì i "fumetti", ma anche i problemi della televisione, della letteratura piccolo borghese, della musica registrata, del romanzo popolare, ossia i temi di quella che spiritosamente, l'autore stesso definiva "Estetica dei parenti poveri" (cfr. Eco 1963).
Fin dal titolo Apocalittici e integrati evidenziava in realtà chi fossero i "parenti ricchi", gli "apocalittici fiammeggianti", domiciliati, come avrebbe detto da lì a poco Fortini, all'Hotel Abisso.
Se primo obiettivo polemico del libro era così Elémire Zolla e il suo sdegnato, "apocalittico" rifiuto della contemporaneità, più in generale l'introduzione e il saggio conclusivo delineavano, come poi le introduzioni alle successive ristampe, una sociologia e una fenomenologia del ceto intellettuale italiano del dopoguerra di fronte alla nuova società di massa e ai suoi mezzi di comunicazione.
Ne seguiva quindi che il secondo obbiettivo polemico fossero gli "integrati", tra le cui schiere compare, per la prima volta in un testo di estetica, un uomo-massa quale Mike Bongiorno presentato in un esilarante confronto-contrasto con uno dei più assidui frequentatori dell'altrove assoluto, John Cage.
Rilevata la freschezza e la valenza quasi fondativa di questi saggi per una realtà quale quella italiana del tempo, va poi rilevato che "quadro teorico unificante" di questo libro resta implicito e si paleserà solo qualche anno dopo nel già citato Struttura assente, un volume la cui affermazione centrale era che "la semiologia... studia tutti i fenomeni culturali come se fossero sistemi di segni - basandosi sull'ipotesi che tutti i fenomeni di cultura siano sistemi di segni e cioè che la cultura sia essenzialmente comunicazione" (Eco 1968b, pp. XV e p. 191).
Dietro questa affermazione è facile riconoscere la presenza di Barthes e in particolare dei suoi Elementi di Semiologia del 1964. Se all'importanza di Jakobson abbiamo già fatto cenno ("Non è neppur necessario citare quel che Jakobson aveva scritto... sulle funzioni del linguaggio per ricordare come... categorie quali Emittente, Destinatario e Contesto fossero indispensabili per trattare il problema della comunicazione, anche estetica": Eco 1990, p. 6), per quel che riguarda l'importanza di Barthes si deve in primo luogo aver presente che nella sua opera troviamo saggi dedicati alla moda, all'alimentazione, all'automobile, alla fotografia, alla pubblicità, al cinema.
Inoltre va osservato che la semiologia nasce in Barthes proprio "dall'esigenza epistemologica di prendere le distanze dalla sociologia, dalla necessità cioè di rendere conto di quel nuovo oggetto di sapere (la significazione) a cui la società di massa fa sempre più ricorso, e che il tradizionale metodo delle scienze sociali non sa ricostruire nelle sue complesse forme e innumerevoli funzioni" (G. Marrone, Lexia, dic. 1994 e vedi anche Eco 1994 e Eco 1978).
Scriverà pertanto Eco nell'introduzione 1974 alla ristampa di Apocalittici e integrati : "Ma in fondo se questo libro mi interessa ancora è per altre ragioni: è che mi ha aperto definitivamente la strada agli studi semiotici. Con Opera aperta avevo studiato il linguaggio delle avanguardie, con Apocalittici e integrati studiavo il linguaggio del loro opposto (o, come altri diranno, del loro fatale complemento). Ma di fronte a due fenomeni così apparentemente divaricati, in cui i linguaggi venivano utilizzati in modo così diversi, avevo bisogno di un quadro teorico unificante. E questo quadro mi si fa chiaro proprio mentre lavoro sul saggio sul Kitsch, dove inizio ad utilizzare la linguistica jakobsoniana. E in questa prospettiva i saggi che sarei pronto a ricuperare senza troppe correzioni sono quello su Steve Canyon... quello sul Kitsch, quello sull'uso pratico del personaggio e quello su Superman". Dunque, precisa Eco, in questi saggi - che mi pare corretto definire inerenti ad un'estetica dei mezzi di comunicazione di massa - "si sono fatti strada gli strumenti semiotici... che poi ho applicato nei miei studi sul messaggio televisivo, sulle strutture narrative nei romanzi di Fleming, sui rapporti tra retorica e ideologia ne I misteri di Parigi di Sue, sulla stampa quotidiana, nelle analisi della pubblicità apparse ne La struttura assente e Le forme del contenuto" (cfr. Eco 1964-1977, pp. XIII e XV).
Imprescindibile quindi, alla luce di tutto questo e per tutto l'insieme dei problemi qui accennati, ossia lo statuto della semiotica, dell'estetica, della teoria delle comunicazioni di massa, analizzare il saggio, contenuto in Apocalittici e integrati, sul Kitsch, un problema che chiede, per una sua adeguata comprensione, l'utilizzo di tutte e tre le competenze sopra citate; "il cattivo gusto soffre infatti - esordisce Eco - della stessa sorte che Croce riconosceva come tipica dell'arte: tutti sanno benissimo cosa sia e non temono di individuarlo e predicarlo, salvo trovarsi imbarazzati nel definirlo".
La sfida a Croce mostra qui tutta la genialità "combinatoria" di Eco, la sua capacità di "bricoleur", di manovrare enciclopedie culturali vastissime.
Il vero punto di genio è nell'accogliere la definizione d'arte di Jakobson e di comprendere che il Kitsch ne è "semplicemente" non la negazione ma il ribaltamento.
Sappiamo, con Jakobson, che il messaggio estetico, per il suo essere ambiguo e autoriflessivo, è "una struttura complessa capace di stimolare una decodificazione assai varia", di costituire "un imprevedibile territorio di indagine", di svolgere "una funzione di scoperta e provocazione" e di "essere sempre rivissuto in questa dimensione di novità".
Al contrario il Kitsch è una forma morta, una forma consumata, che "finge la scoperta e la novità": è cioè un messaggio "ridondante" in cui il surplus informativo non è giustificato dalla funzione referenziale, ma dalla sua necessità ontologica e strutturale di esibire "una menzogna" e "una vita ridotta a menzogna", stimolo a "evasioni acritiche", "illusione commerciabile". Il fruitore crede "di aver consumato arte e di aver visto nel volto, attraverso la Bellezza, la Verità"; in realtà l'esperienza che ha vissuto travestita da "esperienza estetica ne riconferma la sostanziale falsità".
"E' Kitsch - prosegue Eco esemplificando - la figura alta sul radiatore della Rolls Royce, elemento grecizzante inserito a fini di ostentato prestigio su un oggetto che dovrebbe a più onesti criteri aereodinamici ed utilitari; ma, a un livello sociale inferiore, è Kitsch la seicento mascherata da macchina da corsa, percorsa da strisce orizzontali rosse e dotata non già da paraurti normali, ma da due piccoli rostri, a imitazione di certe macchine da circuito agonistico... ed è Kitsch il divano in stoffa stampata che riproduce le donnine di Campigli, non perché lo stile di Campigli appaia consumato o 'massificato', ma perché quelle figure sono rese volgari dall'essere fuori di luogo, inserite in un contesto che non le richiede; come il quadro astratto riprodotto sulla ceramica, l'arredamento di un bar che rifà Kandinskij o Soldati o Reggiani".
Insomma "Kitsch è l'opera che, per farsi giustificare la sua funzione di stimolatrice di effetti, si pavoneggia con le spoglie di altre esperienze, e si vende come arte senza riserve" (sul "grave problema del Kitsch" cfr. anche Formaggio 1973, p. 135 e passim).
Definito così, sul piano di una teoria ad un tempo semiotica ed estetica, arte e Kitsch resta da definire il messaggio massmediologico "artigianalmente corretto", quello cioè che "tende a una funzione di onesto consumo", volto dunque a "stimolare esperienze di vario tipo, non disgiunte da una serie di emozioni estetiche, e che a questo scopo mutua dall'arte (...) modi e stilemi, senza peraltro banalizzare ciò che ha mutuato, ma inserendolo in un contesto misto, tendente sia a stimolare effetti evasivo-consolatori, che a promuovere esperienze interpretative di una certa dignità".
Quando, ad esempio, un compositore è naturalmente dotato "può nascere un prodotto... tale da sfuggire al Kitsch per diventare un corretto prodotto medio, una gradevole divulgazione".
Insomma tra il Kitsch "gastronomico" e L'Arte, la società di massa presenta una vastissima galassia di messaggi che chiedono attenzione critica: "Si tratta naturalmente di casi da indagare criticamente situazione per situazione: ancora una volta la riflessione estetica stabilisce le condizioni ottime di un'esperienza comunicativa, non dà indicazioni per il giudizio sui casi singoli". Si tratta cioè di "porre l'accento sulla serie di gradazioni, che, all'interno di un circuito di consumo culturale, si creano tra opere di scoperta, opere di mediazione, opere di consumo utilitario e immediato, e opere falsamente aspiranti alla dignità dell'arte. E dunque ancora una volta tra cultura d'avanguardia, cultura di massa, cultura media e Kitsch" (Eco 1964-1977, pp. 112-116).
Fermo ciò, vorrei osservare come l'estetica a impianto semiotico di Eco sia non solo in grado di fondare un'estetica dei mezzi di comunicazione di massa (cfr. Jachia 1998) ma anche una delle poche capaci di legarsi intrinsecamente ad una prospettiva etica: "il Kitsch non riguarda tanto l'arte, quanto un comportamento di vita poiché il Kitsch non potrebbe prosperare se non ci fosse un Kitsch-Mensch che ha bisogno di una tale forma di menzogna per riconoscervisi. Allora il consumo di Kitsch apparirebbe in tutta la sua forza negativa, come una continua mistificazione, una fuga dalle responsabilità che l'esperienza dell'arte invece impone" (Eco 1964-1977, p. 72 e passim).
Uno dei vertici teorici successivi di questi studi - tralasciando quelli di teoria letteraria che saranno analizzati nel prossimo paragrafo - che costituiscono una summa e un rilancio dello studio massmediologico ed estetico in un quadro ormai saldamente semiotico sarà la sezione intitolata tra "Esperimento e consumo" nel volume Sugli specchi. In particolare nei due saggi tra loro connessi "L'innovazione nel seriale" e "Il testo, il piacere, il consumo" si affronta un tema di assoluta rilevanza per quanto finora detto, ossia la tendenza sempre più diffusa nelle opere d'arte massmediologiche a collocare il piacere della fruizione estetica più nel ritrovare il già noto che nel cogliere l'imprevisto: "nella serie l'utente crede di godere della novità della storia mentre di fatto gode per il ricorrere di uno schema narrativo costante ed è soddisfatto dal ritrovare un personaggio noto, con i propri tic, le proprie frasi fatte, le proprie tecniche di risolvere i problemi... La serie in tal senso risponde al bisogno infantile, ma non per questo morboso, di riudire sempre la stessa storia, di ritrovarsi consolati dal ritorno dell'identico, superficialmente mascherato" (Eco 1985, p. 129).
Occorre però "fondere la visione estetica con quella antropologico-culturale" e farsi una serie di domande improntate sì al relativismo, ma un relativismo che Eco stesso definisce come "alto": "Sono ancora validi certi apparati categoriali che una sociologia della letteratura (apparentemente 'democratica') ha mutuato dalle estetiche più aristocratiche, nate dal connubio tra romanticismo e avanguardie storiche? Possiamo ancora identificare il piacevole con il non-artistico? Possiamo ancora identificare il consolatorio con ciò che soddisfa l'orizzonte d'attese del fruitore e che pertanto non innova e non provoca? O addirittura possiamo ancora porre da un lato, il consolatorio, il non innovativo, l'atteso e dall'altro l'inatteso, l'informativo, il provocatorio, ciò che insomma produrrebbe un piacere d'ordine superiore e non banale? E che cosa significa soddisfare o provocare un orizzonte d'attese?". Per concludere che se le teorie di un tempo non ci bastano più (ed è necessario postulare un nuovo modello d'analisi non rigidamente "semiotico, né estetico, né sociologico per discutere dei rapporti tra consumo e innovazione") è perché "la crescita dei fenomeni, le interrelazioni di produzione e fruizione nel campo dell'arte, la consapevolezza sempre maggiore che stiamo acquistando su questi fatti, ci obbliga a procedere con maggior prudenza" e a non dimenticare che è sempre "la nostra ricerca che stipula via via la fisionomia dell'oggetto" (cfr. Eco 1985, pp. 108 e 114).
Analizzato, sia pur sinteticamente, il rapporto tra estetica, semiotica e i mezzi di comunicazione di massa, una della costanti della riflessione pluridecennale di Eco, ed affidata anche, in buona parte, alla sua importante attività giornalistica, possiamo ora passare ad analizzare i rapporti dell'estetica di Eco con la letterarietà e la narratologia.
7 Dallo studio del romanzo alla teoria della letteratura e della narratologia
Eco è uno dei più attenti e innovativi critici della letterarietà e della narratologia, e non stupisce che questa sua acribia sia stata la premessa al successo mondiale dei suoi romanzi. Fin dagli anni Sessanta, infatti, e dalle Poetiche di Joyce, Eco mostrava non solo di sapersi confrontare con i testi più alti e più ardui della ricerca letteraria novecentesca, ma anche di conoscere e frequentare criticamente i più importanti testi di teoria narratologica, da Propp ai Formalisti russi a Barthes e Greimas.
In effetti Eco è stato fra i primi ad utilizzare, già verso la metà degli anni Sessanta, l'analisi del racconto e della narrativa di origine funzionale (Propp), applicandolo con ironica intelligenza all'immaginario di massa tanto dei fumetti e della canzone leggera - nel già citato Apocalittici e integrati - quanto dei romanzi d'appendice e polizieschi, nel libro Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare che qui analizzeremo brevemente.
Sinteticamente questi studi partono, come ricordato da Eco stesso nell'Introduzione, da un pensiero di Gramsci il quale nei suoi Quaderni del carcere scriveva: "Mi pare che si possa affermare che molta sedicente 'superumanità' niciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zarathustra, ma il conte di Montecristo di A. Dumas". Il libro è dunque dedicato a una rapida analisi non sistematica dell'ascesa e trionfo del superuomo di massa nel romanzo d'appendice ottocentesco e nelle sue successive incarnazioni novecentesche. Sviluppare l'ipotesi gramsciana significava infatti, prosegue Eco "andare alla ricerca degli avatars del superuomo di massa... da Sue sino a Salgari... per finire ai tempi nostri con un superuomo raccontato in termini di spy thriller - ed è James Bond", ma senza dimenticare che "le vie del superuomo sono infinite".
Può essere importante per comprendere questo volume riportare estesamente proprio la pagina conclusiva dello studio dedicato alle "Strutture narrative di Fleming" autore di James Bond, non solo come esempio di semiotica della narratività, ma anche per dimostrare la ricca complessità dell'analisi stilistico-strutturale-ideologica di Eco: "Poiché in questa sede non siamo avviati a condurre una interpretazione psicologica dell'uomo Fleming, ma una analisi della struttura dei suoi testi, la contaminatio tra residuo letterario e cronaca brutale, tra ottocento e fantascienza, tra eccitazione avventurosa e ipnosi cosale, ci appaiono come gli elementi instabili di una costruzione a tratti affascinante; che spesso vive proprio in grazie di questo bricolage ipocrita, e che talora maschera questa sua natura di ready made per offrirsi come invenzione letteraria. Nella misura in cui consente una lettura complice... l'opera di Fleming rappresenta una riuscita macchina evasiva, effetto di alto artigianato narrativo; nella misura in cui fa provare a taluni il brivido dell'emozione poetica privilegiata, è un'ennesima manifestazione di Kitsch; nella misura in cui scatena... meccanismi psicologici elementari, da cui si assente il distacco ironico, è solo una più sottile ma non meno mistificante operazione di industria dell'evasione. Ancora una volta un messaggio non si conclude veramente se non in una ricezione concreta e situazionata che lo qualifichi. Quando un atto di comunicazione scatena un fatto di costume, le verifiche definitive andranno fatte non nell'ambito del libro, ma della società che lo legge".
Dunque credo si possa dire che in questi saggi l'ipotesi gramsciana viene verificata attraverso metodi narratologici e semiotici e che gli studi, nel loro complesso, oscillano e si incardinano tra una semiotica stilistico-testuale e uno studio delle ideologie, senza però rinunciare ad un forte appello etico tanto al lettore diretto della pagina di Eco quanto al fruitore del vasto mondo del superuomo di massa.
Delineate così alcune delle caratteristiche dei suoi studi sul romanzo d'appendice, sul superuomo ottocentesco e su quello di massa (James Bond) e ricordati anche un suo contributo al volume collettivo sulla letteratura rosa italiana (Eco 1979b), e un ulteriore intervento sul Montecristo (Eco 1985), possiamo ora analizzare alcuni contributi più squisitamente teorici, ricordando però sempre che una delle principali caratteristiche di Eco è quella di non disgiungere mai teoria e prassi.
Particolare rilevanza credo abbia il concetto di Lettore Modello, un termine con il quale Eco afferma che il testo prevede in partenza il ruolo e l'apporto partecipativo di un fruitore ideale. Di conseguenza dire che il testo prevede un certo tipo di Lettore Modello significa dire che il testo organizza un certo tipo di strategia testuale, "un insieme di condizioni di felicità testualmente definite, che devono essere soddisfatte perché un testo sia pienamente attualizzato nel suo contenuto potenziale"
Così, se "un testo è un prodotto la cui sorte interpretativa deve far parte del proprio meccanismo generativo", ne segue che l'interpretazione di un testo (quella che Eco chiama la 'cooperazione interpretativa') consista nel "mettersi nei panni del Lettore Modello, nell'accettare di giocare il gioco predisposto dal testo" (cfr. Eco 1979, pp. 54 e 62).
E' il testo dunque che prevede e costruisce il suo Lettore Modello a salvaguardia degli usi aberranti. Questo concetto di Lettore Modello risponde infatti esaurientemente alla domanda se esistono criteri regolativi, inerenti al testo, passibili di controllo intersoggettivo, che permettano di delimitare qualcosa che è interpretazione e qualcosa che non lo è.
La risposta è che per Eco questi criteri esistono e "sono riassumibili nel criterio di coerenza (individuazione del topic o tema comune che permetta di stabilire isotipie pertinenti) e nel criterio di economia (non eccedere in stupore e meraviglia inseguendo dettagli che non fanno sistema). (...) Non si tratta tuttavia di criteri forti, vale a dire che essi non ci danno indicazione in positivo su quale sia la buona interpretazione, quanto ci permettono solamente, sulla base del criterio di falsificazione di Popper, e dunque in negativo, di selezionare le cattive interpretazioni per scartarle" (cfr. Cavicchioli 1994, pp. 186-187 e 199).
Eco dunque - attraverso il concetto di Lettore Modello come teoria che segna un "limite" all'interpretazione testuale e narratologica - pone, come già detto, all'interno della pratica interpretativa una dimensione di scelta e di controllo etico (cfr. supra paragrafo 5). Per esplicitare cosa Eco intenda per etica - dei rapporti tra etica e l'estetica parleremo nel prossimo paragrafo - possiamo sinteticamente ricordare le prime righe dell'Introduzione ai suoi recenti Cinque scritti morali: l'etica riguarda "quello che sarebbe bene fare, quello che non si dovrebbe fare, o quello che non si dovrebbe fare a nessun costo". Ancora una volta l'opera d'arte e una sua corretta fruizione diventano così non solo metafore epistemologiche ma anche paradigmi comportamentali.
8 Etica e estetica: da Croce all'elogio del "guazzabuglio"
Si potrebbe restare stupiti "alla notizia - scrive un attento recensore quale Armando Masserenti - della pubblicazione di una raccolta di 'scritti morali' di Eco... la mia prima reazione è stata di perplessità... Non ricordavo (ad eccezione del dialogo con il cardinale Martini su etica laica e etica cattolica) quando e come Eco avesse scritto esplicitamente di morale. La mia impressione (ed era questo il vero motivo di perplessità) che Eco quando scrive sia sempre animato da un intento morale, che questa sia la sua vera vocazione... e che il suo pregio maggiore sia sempre stato quello di tenerla nascosta. Il che significa, in una parola, che a Eco raramente capita di cadere nel moralismo" (Sole 24 ore, 26 novembre 1995).
Se trovo correttissima in linea di principio l'affermazione di Masserenti, è vero però che spie di questa dimensione etica di Eco ve ne sono molte, sparse in tutte le sue opere e significativamente nei suoi testi di estetica (alcune sono state segnalate in questo saggio, altre sono reperibili ad apertura di libro). La dialettica di fedeltà e libertà che caratterizza il modello di rapporto tra opera d'arte e fruitore diventa infatti, se volessimo tracciare una linea sintetica dei rapporti tra estetica ed etica in Eco, da paradigma estetico un paradigma etico, di un'etica non normativa ma di libera ispirazione kantiana: "agisci come se ogni tua azione dovesse divenire legge universale"; e in modo tale da "trattare l'umanità, nella tua persona o in quella altrui, sempre come un fine e mai come solo mezzo" (cfr. Kant 1797).
La rivendicazione da parte di Eco della propria appartenenza ad una sorta di ludico e autoironico "illuminismo padano" (Eco 1985) non pare dunque assolutamente fuor di luogo e corrisponde ancora una volta al gusto di Eco di dire cose molto serie in forma tal volta paradossale. Questo dunque mi pare il giusto contesto per ricordare l'ultimo straordinario incontro presentatoci dalla teoria fabulatoria di Eco, quello tra Kant e l'ornitorinco. Infatti, la molla forte del grosso volume di semiotica (ed estetica!) Kant e l'ornitorinco è in una piccola nota dove si richiama un saggio contenuto in Cinque scritti morali - già fondamentale ed illuminante fin dal titolo "Quando entra in scena l'altro nasce l'etica" - dove si afferma che "sugli stessi principi ho tentato di basare un'etica elementare" (cfr. Eco 1999, pp. 397-398 e Eco 1997b).
E' in presenza di questi testimoni - l'ornitorinco è in modo paradigmatico la massima alterità possibile per un onesto filosofo illuminista tedesco o "padano" - che si gioca l'ultimo atto della polemica tra un Eco non più giovinetto e un sempre più decrepito Croce. Il saggio "Croce, l'intuizione e il guazzabuglio" ("Appendice 2" a Kant e l'ornitorinco) costituisce infatti solo apparentemente una battaglia di retroguardia: Croce, definitivamente sconfitto, è salutato come De Sanctis salutava Settembrini, definendolo non un critico e un teorico dell'estetica ma un artista e "uno scrittore travolgente". In realtà questo breve scritto è una vera e propria apologia del "guazzabuglio", e dunque di una estetica che sappia affrontare questa realtà come la sua propria realtà genetica: "il mondo del guazzabuglio è il territorio in cui viviamo, quello in cui procediamo per assaggi, prove ed errori, congetture" (Eco 1997, p. 379; si vedano poi, naturalmente, I promessi sposi di Manzoni dove si dice "così è fatto questo guazzabuglio del cuore umano": e su Manzoni, di Eco, il recentissimo Tra menzogna e ironia : per un discorso più lato cfr. Sulla letteratura).
Di questo mondo "sgangherato" e "sgangherabile" - contro Croce e contro l'estetica dell'ineffabile, ma anche contro l'estetica della decostruzione e della deresponsabilizzazione - fa parte anche l'arte e credo che l'estetica di Eco possa essere un buon modo per comprendere l'arte che nasce, senza scordarsene, da questo guazzabuglio umano (cfr. Eco 1977, p. 139; Eco 1994 p. 16 e Eco 1997, passim).
Data questa linea generale, e venendo più precisamente al campo estetico e letterario Eco afferma, ad esempio, che "leggere racconti significa fare un gioco attraverso il quale si impara a dare senso alla immensità delle cose che sono accadute e accadono e accadranno nel mondo reale. Leggendo romanzi sfuggiamo all'angoscia che ci coglie quando cerchiamo di dire qualcosa di vero sul mondo reale. Questa la funzione terapeutica della narrativa e la ragione per cui gli uomini, dagli inizi dell'umanità, raccontano storie. Che è poi la funzione dei miti: dar forma al disordine dell'esperienza" (Eco 1994, p. 107).
O, in altre parole, "la sostanziale polivocità dell'essere ci impone di solito uno sforzo per dar forma all'informe. Il poeta emula l'essere riproponendone la vischiosità, cerca di ricostruire l'informe originario, per indurci a rifare i conti con l'essere" (Eco 1997, p. 22 e cfr. Eco 1962-1976, p. 3; Eco 1968a, p. 212; ecc.).
In conclusione credo si possa dire che lo sforzo etico "di dar forma al disordine dell'esperienza", "lo sforzo per dar forma all'informe", sia anche l'origine ultima non solo della ricerca filosofica e letteraria di Eco, ma più precisamente della sua teoria estetica che credo di aver ricostruito nelle sue principali pagine teoriche e in alcune delle sue ricostruzioni storiche.
BIBLIOGRAFIA
a) SCRITTI di UMBERTO ECO ANALIZZATI:
Il problema estetico in Tommaso d'Aquino, (1956), 2 ed. rivista, Bombiani 1970
Arte e bellezza nell'estetica medioevale, (1959), 2 ed. rivista, Bombiani 1987
Opera aperta Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee (1962), 3 ed. rivista, Bompiani 1976
Diario minimo (1963), 2 ed. rivista Bompiani 1992
Apocalittici e integrati. Comunicazione di massa e teorie delle comunicazioni di massa, (1964), 2 ed. rivista Bompiani 1977
Le poetiche di Joyce, Bompiani 1966
La struttura assente. Introduzione alla ricerca semiologica (1968), ultima ed. rivista Bompiani 1980
La definizione dell'arte, (saggi 1955-1965), Mursia 1968
"Lezioni e contraddizioni della semiotica sovietica" in AA. VV., I sistemi di segni e lo strutturalismo sovietico, Bompiani 1969
"La critica semiologica" in C. Segre e M. Corti, I metodi della critica in Italia, ERI, 1970
Segno, (1 ed 1971), Mondadori 1980
Trattato di semiotica generale, Bompiani 1975
Il superuomo di massa. Retorica e ideologia nel romanzo popolare, (1976), Bompiani 1978
Dalla periferia dell'impero, Bompiani 1977
"Il pensiero semiotico in Italia" in R. Jakobson, Lo sviluppo della semiotica, Bompiani 1977
Lector in fabula, Bompiani 1979
"Tre donne... per le donne" in AA.VV., Invernizio, Serao, Liala, Nuova Italia 1979b
"Intervista", in M. Mincu, La semiotica letteraria in Italia, Feltrinelli 1982
Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi 1984
Sugli specchi e altri saggi, Bompiani 1985
I limiti dell'interpretazione, Bompiani 1990
"Intervista", la Repubblica, 31 marzo 1992
"La maestria di Barthes" (1984), in R. Barthes, Miti d'oggi, Einaudi 1994
Sei passeggiate nei boschi narrativi, Bompiani 1994
Interpretazione e sovrainterpretazione, Bompiani 1995
Kant e l'ornitorinco, Bompiani 1997
Cinque scritti morali, Bompiani 1997b
Tra menzogna e ironia, Bompiani 1998
Sulla letteratura, 2002
b) BIBLIOGRAFIA CRITICA (IN FASE DI SCRITTURA E DEFINIZIONE)
Fonte: http://www.matteoverda.com/documenti/Semiotica/Eco%20e%20De%20Sanctis/Eco,%C2%A0Estetica%C2%A0e%C2%A0Semiotica.doc
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