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Autobiografia di Giordano Bruno
Questa autobiografia è tratta in parte dalla deposizione che Giordano Bruno rese nel 1592 nel corso del processo veneziano in cui narrò il suo peregrinare nell’Europa Rinascimentale fino Venezia, mentre la seconda è tratta dal sommario del processo romano
"Sono nato nella cittadina campana di Nola, nel 1548, da una famiglia di modeste condizioni. Mio padre Giovanni e mia madre Fraulissa Savolino m'imposero il nome di battesimo Filippo. Compiuti i primi studi, nel 1562 mi trasferii a Napoli dove frequentai quelli superiori e seguii lezioni private e pubbliche di dialettica, logica e mnemotecnica presso l'Università. Nel 1565 decisi di intraprendere la carriera ecclesiastica ed entrai, col nome di Giordano, nell'ordine domenicano dei predicatori nel convento di San Domenico Maggiore Subito però, cominciò a manifestarsi in me un acceso contrasto fra la personalità inquieta e forte, che assetata di sapere, andavo formando, e la necessità di sottostare alle rigorose regole di quell'ordine religioso.
Dopo appena un anno fui accusato di disprezzare il culto di Maria e dei Santi e rischiai di essere sottoposto ad un severo provvedimento disciplinare. Mi affrettai quindi, a percorrere rapidamente i vari gradi della carriera (suddiacono nel 1570, diacono nel 1571, sacerdote nel 1572, dottore in teologia nel 1575) affinchè potessi uscire al più presto da quella gabbia della mente che mi opprimeva. In quegli anni, contemporaneamente allo studio serio e profondo dell'opera di S.Tommaso non avevo rinunciato a leggere gli scritti di Erasmo da Rotterdam, rigorosamente proibiti, la cui scoperta causò l'apertura di un processo a mio carico, nel corso del quale emersero anche accuse di dubbi circa il dogma trinitario. Era il 1576 e l'inquisizione aveva ormai da tempo dato clamorosi esempi di rigore e di efficienza per cui, temendo per la gravità delle accuse, decisi di abbandonare Napoli e con essa l'abito ecclesiastico. Ebbe così inizio la serie incredibile delle mie peregrinazioni, durante le quali riuscii a mantenermi impartendo lezioni in varie discipline (geometria, astronomia, mnemotecnica, filosofia, ecc.). Nell'arco di due anni (1577/1578) soggiornai a Noli, a Savona, a Torino, a Venezia e a Padova dove, su suggerimento di alcuni fratelli domenicani e pur in mancanza di una formale reintegrazione nell'ordine, rivestii l'abito. Dopo brevi soste a Bergamo e a Brescia, alla fine del 1578 mi diressi verso Lione ma, giunto presso il convento domenicano di Chambery, sconsigliatomi di fermarmi in quella città di confine con i paesi riformati e soggetta a particolari controlli, fui costretto a raggiungere la non lontana Ginevra, capitale del calvinismo. Venni accolto da Gian Galeazzo Caracciolo marchese di Vico, esule dall'Italia e fondatore della locale comunità evangelica italiana. Deposto di nuovo l'abito e dopo un'esperienza di "correttore di prime stampe" presso una tipografia, aderii formalmente al calvinismo e fui immatricolato come docente nella locale università (maggio 1579). Tre mesi più tardi però, avendo pubblicato un libretto in cui stigmatizzavo il titolare della cattedra di filosofia, evidenziando ben venti errori nei quali costui sarebbe incorso in una sola lezione, fui accusato di diffamazione e quindi arrestato, processato e convinto a pentirmi sotto pena di scomunica. Ammisi la mia colpevolezza ma dovetti lasciare Ginevra, non senza conservare in me un forte risentimento. Quasi per reazione allora mi recai a Tolosa, in quegli anni baluardo dell'ortodossia cattolica nella Francia meridionale, dove cercai, senza ottenerla, l'assoluzione presso un confessore gesuita. In compenso ottenni un posto di lettore di filosofia nella locale università e per due anni circa commentai il De anima di Aristotele. Nel 1581 lasciai anche Tolosa, dove si profilava una recrudescenza delle lotte religiose fra cattolici e ugonotti e mi recai a Parigi dove tenni, in qualità di "lettore straordinario" (quelli "ordinari" erano tenuti a frequentare la messa, cosa a me interdetta come apostata e scomunicato) un corso in trenta lezioni sugli attributi divini. La notizia del successo del corso pervenne al re Enrico III al quale dedicai subito dopo (1582) il "De Umbris idearum" con l'annessa " Ars memoriae", ottenendo la nomina di "lettore straordinario e provvisionato". L'appartenenza al gruppo dei "Lecteurs royaux" mi consentiva una certa autonomia anche nei confronti della Sorbona, della quale non mancò occasione per criticarne il conformismo aristotelico. Fu questo un periodo di grande fecondità per la mia produzione filosofica e letteraria; pubblicai in breve successione il " Cantus circaeus", il "De compendiosa architectura et complemento artis Lullis", e "Candelaio". Con il favore del re diventai "gentilomo" (ma ben presto apprezzato amico) dell'ambasciatore di Francia in Inghilterra Michael de Castelnau, che raggiunsi a Londra nel 1583. Continuai così a pubblicare opere importanti: " Ars reminiscendi", "Explicatio triginta sigillorum" e "Sigillum sigillorum" in un unico volume e subito dopo la " Cena delle ceneri", il "De la causa principio et uno", il "De infinito, universo et mondi", e lo "Spaccio della bestia trionfante".
Nell'anno seguente, sempre a Londra, diedi alle stampe "La cabala del cavallo pegaseo"e il "Degli eroici furori". Venuto a contatto con la famosa Università oxoniana, sospinto dall'irruenza del mio carattere, durante un dibattito misi in difficoltà, senza troppi riguardi, uno stimato docente: John Underhill, restando così inviso a una parte dei suoi colleghi che non mancarono in seguito di manifestare la loro animosità. Ottenuto infatti, dopo qualche mese, l'incarico di tenere una serie di conferenze in latino sulla cosmologia,
fui accusato di aver plagiato alcune opere di Marsilio Ficino e costretto a interrompere le lezioni. Ma al di là dei risentimenti personali, confliggevano con la temperie culturale e religiosa inglese del tempo alcune mie idee di fondo, quali appunto la mia visione cosmologica ed il mio profondo antiaristotelismo. L'episodio del giorno delle ceneri del 14 febbraio (1584) fu significativo: ero stato invitato dal nobile inglese Sir Fulke Greville ad esporre le mie idee sull'universo. Due dottori di Oxford presenti, anzichè opporre argomento ad argomento, provocarono un violento diverbio ed usarono espressioni che ritenni tanto offensive da abbandonare la sala. Da questo fatto nacque "La cena delle ceneri"che contiene acute e non sempre diplomatiche osservazioni sulla realtà inglese contemporanea, attenuate poi, anche per la reazione di alcuni che si sentivano ingiustamente coinvolti in tali giudizi, nel successivo "De la causa, principio et uno". Tornato in Francia a seguito del rientro del Castelnau, mi occupai di una recente scoperta di Fabrizio Mordente, il compasso differenziale, per presentare il quale, scrissi su invito dell'inventore, una prefazione in latino nella cui stesura prevalevano a tal punto le applicazioni che facevo dello strumento, per avvalorare le mie tesi filosofiche sul limite fisico della divisibilità, da oscurare o ridurre ad un fatto "meccanico" l'invenzione. Offeso il Mordente si affrettò a comprare tutte le copie disponibili e le distrusse. A quel punto la tentazione di rinfocolare la polemica era troppo forte, decisi così di pubblicare un dialogo dal titolo e dal tono sarcastico "Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras deo" che indirettamente rese più difficile la permanenza a Parigi, essendo il Mordente un cattolico ligio alla fazione del duca di Guisa, che di lì a poco avrebbe raggiunto il massimo della sua parabola ascendente, mentre io ribadivo la totale fedeltà ad Enrico III. Reazioni negative suscitarono a Cambrai le tesi antiaristoteliche contenute nell'opuscolo "Centum et viginti articuli de natura ed mundo adversos peripateticos" discusse a nome del maestro dal suo discepolo J. Hennequin. L'intervento critico di un giovane avvocato che sapevo appartenere alla sua stessa parte politica, mi convinsero che rimanere ancora a Parigi non era più possibile. Di nuovo ramingo per l'Europa, approdai nel giugno 1586 a Wittemberg, in Germania, dove insegnai per due anni nella locale università come "doctor italus" e al termine dei quali mi congedai (anche per il prevalere in città della parte calvinista) con una "Oratio valedictoria", ringraziando l'università per avermi accolto senza pregiudizi religiosi. L'orazione mi diede anche occasione per un caloroso elogio di Lutero, coraggioso oppositore allo strapotere della Chiesa di Roma, sulla cui dottrina comunque rimanevo fermamente critico. Dopo un breve soggiorno a Praga, alla fine del 1588 mi recai ad Helmstedt dove, per poter insegnare nella locale "Accademia Iulia" dovetti aderire al luteranesimo. Ma i problemi di fondo rimasero: dopo nemmeno un anno fui scomunicato dal locale pastore Gilbert Voet per motivi non ben specificati. Riuscii comunque a pubblicare gran parte delle mie opere definite "magiche": "De magia", "De magia mathematica", "Theses de magia" ecc. Il 2 giugno 1590 giunsi a Francoforte dove mi fu rifiutato il soggiorno e fui ospitato precariamente in un convento di carmelitani. Pubblicai tre poemi in latino ("De triplice minimo", "De monade", "De innumerabilis") e dopo alcuni mesi di permanenza a Zurigo dove tenni lezioni di filosofia, tornai a Francoforte, dove nella primavera del 1591 ricevetti due lettere del nobile veneziano Giovanni Mocenigo che mi invitava a Venezia per insegnargli l'arte della memoria. Rientrare in Italia comportava gravissimi rischi, ma anche in Europa, ormai, scomunicato dalle chiese riformate non meno dalla cattolica, in rotta con gli ambienti puritani e ostacolato da stolti e pedanti in cui continuavo ad inciampare, ero costretto a continue fughe. Avevo fiducia nella tradizionale autonomia della Repubblica veneta rispetto al Papa, dove di fatto sopravvivevano circoli aristocratici orientati in senso "liberale", e decisi quindi di accettare l'invito. Con l'intenzione di occupare la cattedra di matematica dell'università di Padova, allora vacante, nel marzo del 1592 giunsi in casa Mocenigo a Venezia, ma dopo pochi mesi questi, forse insoddisfatto nella sua aspettativa di chissà quali mirabolanti poteri magici da utilizzare per governare le menti altrui e indispettito dai miei comportamenti non assoggettabili ad insulse pretese e formalismi, mi rinchiuse in una stanza e mi denunciò alla locale inquisizione, affermando di avermi sentito proferir bestemmie e frasi eretiche. Dopo un paio di mesi peraltro il processo, subito iniziato, mi si presentò in maniera abbastanza favorevole. Mi difesi sostenendo di aver formulato ipotesi filosofiche e non teologiche e che per quanto riguardava le cose di fede mi rimettevo pienamente alla dottrina della Chiesa chiedendo perdono per qualche frase sconsiderata che potevo aver pronunciato. Ebbi inoltre attestazioni favorevoli o per lo meno non ostili da parte di diversi testimoni del patriziato veneto. Ma quando tutto faceva sperare in una rapida assoluzione, giunse improvvisamente da Roma la richiesta del trasferimento del processo al tribunale centrale del S.Uffizio. La prima risposta del senato, geloso custode dell' autonomia della Serenissima, fu negativa, ma dietro le insistenze vaticane, il baratto di indulgenze per i nobili influenti e nella considerazione che l'inquisito non era cittadino veneziano e che il suo processo era iniziato prima del suo arrivo nella città lagunare (ci si riferiva ai fatti del 1575) giunse alla fine il nulla-osta e nel febbraio del 1593 il mio gran peregrinare terminò in una fredda cella del nuovo palazzo del S.Uffizio, fatto costruire da Pio V nei pressi di Porta Cavallegeri.
Del processo, che si protrasse per ben sei anni e durante il quale si ricorse alla tortura, rimane una "sommario", ritrovato nell'archivio personale di Pio IX e pubblicato da A.Mercati nel 1942.
Cercai di attenuare e talvolta accettare di ripudiare alcune mie posizioni in aperto conflitto con la dottrina cattolica, ingenuamente convinto, nonostante tutto, di trovare nel Monarca una mente illuminata e disponibile ad una riforma che diradasse per sempre le tenebre dell'ignoranza e della superstizione, e che ponesse fine alle continue guerre di religione che insanguinavano Inghilterra, Francia e Spagna, ma fu tutto inutile. Di fronte all'imposizione, per salvarmi, di rifiutare in blocco le mie idee e rinnegare le mie profonde convinzioni, giudicate incompatibili con l'ortodossia cristiana il mio rifiuto fu fermo e quanto mai sprezzante. Il 20 gennaio 1600 Clemente VIII, considerando ormai provate le accuse e rifiutando la richiesta di ulteriori torture avanzate dai cardinali, ordinò che, fossi consegnato al braccio secolare come "eretico impenitente", "pertinace" e "ostinato". Ciò significava, nonostante la presenza nella sentenza della solita ipocrita formula che invocava la clemenza del Governatore, la morte per rogo. L'8 febbraio nella casa del cardinale Madruzzo ascoltai la sentenza, leggendo negli occhi di chi me ne pronunciava la formula maggior timore di quanto ne provassi io nel riceverla. Il successivo giovedi 17 febbraio 1600 -anno santo- fui condotto a Campo de' Fiori "con la bocca in giova" cioè con una mordacchia che mi impediva e bloccava la lingua, e qui spogliato nudo, legato ad un palo e bruciato vivo, mentre mi si ostentava ripetutamente un crocifisso, che volevano farmi apparire come carnefice, dal quale distolsi lo sguardo.
Fonte: http://www.esolibri.it/testi/giordano%20bruno/Autobiografia%20di%20Giordano%20Bruno.doc
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Autore del testo: indicato nel documento di origine
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