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Dall’empirismo allo scettisicismo: David Hume
La filosofia di David Hume prende avvio dal bisogno di criticare scetticamente le credenze proprie degli uomini del suo tempo, in quanto fondate unicamente sul senso comune e su nessuna presunta base razionale. Quelli che la tradizione concepiva come oggetti certi e necessari del pensiero, ovvero l’io, il mondo e Dio, sono considerati dal filosofo scozzese, fin dall’inizio della sua ricerca, come oggetti passibili di una conoscenza meramente probabile, privi di un fondamento metafisico certo. Per comprendere l’atteggiamento scettico di Hume è fondamentale chiarire subito due suoi presupposti: il primo è che l’indagine sulla natura umana dev’essere condotta con lo stesso metodo sperimentale utilizzato nelle scienze naturali, non andando mai oltre i limiti dell’esperienza naturale e fenomenica che abbiamo del mondo; il secondo è che ogni conoscenza umana abbia la sua propria origine e il suo criterio di verità unicamente nell’evidenza che caratterizza le impressioni sensibili in quanto modificazioni dei nostri organi percettivi, con il risultato che non saremo mai in contatto diretto con il mondo “oggettivo”, ma solo con le nostre percezioni: “Fissiamo pure, per quant’è possibile, la nostra attenzione fuori di noi; spingiamo la nostra immaginazione sino al cielo o agli estremi limiti dell’Universo: non avanzeremo di un passo al di là di noi stessi, né potremo concepire altra specie di esistenza che le percezioni apparse entro quel cerchio ristretto” .
Con Hume l’empirismo moderno giunge alla sua posizione più radicale, e sarà apprezzata e utilizzata da molti filosofi successivi e di diverso orientamento, come Kant o Jacobi. Tuttavia l’empirismo radicale di Hume cela in se stesso il motivo del suo necessario rovesciamento in uno scetticismo metafisico. Infatti, paradossalmente, l’appassionata volontà di mantenersi fedeli unicamente ai dati dell’esperienza fenomenica e naturale, lo costringe a considerare la stessa esperienza come una costruzione totalmente soggettiva, priva di qualsiasi oggettività.
Inoltre, il suo scetticismo antidogmatico e antimetafisico si configura, alla fin fine, come un vero e proprio dogmatismo scettico, i cui presupposti non vengono più sottoposti ad alcuna verifica. Dal canto suo, Hume definisce invece il suo pensiero come uno “scetticismo moderato”, per il fatto che, sebbene senza ragioni incontrovertibili, siamo comunque portati a credere, per abitudine e per utilità pratica, all’oggettività del mondo che ci sta attorno. Eppure, leggendo i suoi testi, sembra di trovarsi sul ciglio di un abisso che ingoia e divora ogni certezza e ogni fondamento della realtà, a cui prima eravamo disposti a concedere il nostro assenso razionale, sospesi e aggrappati al cerchio ristretto delle nostre percezioni.
La vita e le opere
Nato nel 1711 a Edimburgo da una famiglia della piccola nobiltà terriera scozzese, Hume, orfano di padre, fu educato da uno zio, pastore presibeteriano, che lo indirizzò allo studio dei classici e alla pratica religiosa. A partire dal 1723 Hume studiò presso la Facoltà delle Arti di Edimburgo, interessandosi al giusnaturalismo, alla filosofia empirista di Locke e Berkeley e al metodo della scienza sperimentale di Newton. Fin dagli anni di studiò Hume coltivò il progetto di applicare il metodo sperimentale non solo all’ambito naturale, ma anche a quello metafisico e morale. Durante i suoi studi Hume maturò la radicale convinzione che il sentimento religioso e la devozione alle autorità ecclesiastiche fosse il mero prodotto di un’abitudine indotta da una lunga educazione e nient’altro, allontanandolo definitivamente dalle esperienze religiose dell’infanzia. L’“ansiosa ricerca di argomenti per confermare l’opinione comune” circa le credenze religiose era in lui continuamente lacerata da “dubbi” che si insinuavano, “tornavano, venivano di nuovo dissolti, si riaffacciavano ancora”, nella lotta continua “di un’inquieta immaginazione contro l’immaginazione, forse contro la ragione” . La fede aveva ormai perso ai suoi occhi ogni valenza razionale e si era ridotta a pura abitudine infantile. Abbandonata la strada della giurisprudenza, scelse invece la via della ricerca filosofica e della letteratura. Tra il 1734 e il 1737 si trasferì a La Fleche, in Francia, dove potè intensificare i suoi studi della filosofia cartesiana, così che, tornato a Londra, tra il 1739 e il 1740, pubblicò i tre libri di cui è composta la sua opera più celebre, il Trattato sulla natura umana , anche se con scarsissimo seguito.
Ristabilitosi in Scozia, Hume pubblicò tra il 1741 e il 1742 i Saggi morali e politici. Accusato di ateismo e di scettiscimo dalle autorità civili e religiose del suo paese, per aver negato l’esistenza e l’immortalità dell’anima e la razionalità della morale naturale, gli fu impedito l’insegnamento accademico di filosofia prima a Edimburgo e poi anche a Glasgow. Riuscì allora a farsi nominare conservatore della Biblioteca della Facolta degli Avvocati di Edimburgo, occupazione che gli permise di dedicarsi alla revisione delle sue vecchie opere e alla stesura di nuove: la Ricerca sull’intelletto umano del 1748, la Ricerca sui principi della morale del 1751, le Quattro dissertazioni del 1757 contenenti la famosa Storia naturale della religione, e l’imponente Storia d’Inghilterra tra il 1754 e il 1762. Accusato nuovamente di ateismo e di irreligiosità, e rischiando addirittura di essere scomunicato, Hume si trasferì a Parigi dal 1763 al 1766 al seguito dell’ambasciatore inglese e strinse buoni rapporti con gli illuministi d’Alambert, Diderot, d’Holbach, Voltaire e Rousseau, che lo considerarono un eroico difensore della ragione contro ogni fanatismo superstizioso. Rientrato in Inghilterra, ottenne l’incarico di sottosegretario agli Affari del Nord fino al 1768, anno in cui decise di ritirarsi a vita privata ad Edimburgo, redigendo la sua autobiografia, La mia vita. Morì di cancro allo stomaco ad Edimburgo il 25 agosto 1776.
Lo studio della natura umana tramite il metodo speriementale.
Hume intende “introdurre il metodo sperimentale di ragionamento negli argomenti morali” , vagliando innanzitutto il concetto fondamentale di “natura umana” (concetto da cui dipendono tutte le nostre azioni e le nostre conoscenze), per scoprire alla fine se sia possibile trovare un fondamento razionale per tutte le nostre credenze . Tutte le questioni più importanti infatti, così come sono state trattate finora dalla tradizione filosofica, dipendono dalla concezione implicita di natura umana che ogni dottrina sottende: la morale, la politica, la religione, la logica, la matematica e la fisica naturale hanno una essenziale relazione con la scienza della natura umana. È necessario allora incominciare l’indagine, secondo Hume, cercando di mettere in luce le capacità e i limiti dell’intelletto umano, intelletto da cui tutte le diverse scienze dipendono e sono generate.
Il metodo sperimentale, tanto celebrato negli ambienti accademici inglesi di quel periodo per le acquisizioni della scienza newtoniana, propone di “anatomizzare la natura umana” per scoprirne gli elementi semplici, e di “non trarre conclusioni” che non siano convalidate dall’esperienza. Il metodo sperimentale tuttavia impone di per sé dei limiti gravosi circa la ricerca della natura umana: “a me sembra evidente che, essendoci ignota l’essenza della mente al pari di quella degli oggetti esterni, è ugualmente impossibile farci una nozione dei suoi poteri e delle sue qualità, se non mediante esperimenti accurati ed esatti…E sebbene ci si debba sforzare, per quanto possibile, di rendere tutti i nostri principi universali, elevando i nostri esperimenti al massimo grado di generalità e spiegando gli effetti con poche e semplicissime cause, è tuttavia indubitabile che noi non possiamo andare al di là dell’esperienza, e che, qualunque ipotesi pretendesse di scoprire le qualità ultime e originarie della natura umana, la dobbiamo condannare senz’altro come presuntuosa e chimerica”
Tale limitazione, per quanto gravosa, è però necessaria per assegnare alla nostra ricerca sulla natura umana lo stesso grado di affidabilità e di certezza proprio delle scienze naturali che si attegono unicamente ai fenomeni, così come sono attestati dai sensi, senza introdurre alcuna causa o essenza invisibile delle cose, metafisica o religiosa che sia. Attraverso “una cauta osservazione della vita umana”, considerata nella quotidianità della vita sociale, “potremo – secondo Hume – sperare di stabilire su di essi [esperimenti] una scienza non inferiore in certezza, e molto superiore in utilità ad ogni altra”.
In primo luogo bisogna comprendere sperimentalmente quale origine abbia la conoscenza umana in generale. Nell’esame del funzionamento dell’intelligenza umana, Hume ritiene come valida la tesi tipica dell’empirismo lockiano, per cui ogni nostra conoscenza si genera dall’esperienza.
Hume chiama le “idee” di Locke, ovvero i nostri contenuti mentali, col termine percezioni, e li distingue in impressioni e idee. Tutto ciò che si trova nella nostra mente è una percezione, o in quanto impressione o in quanto idea, e queste differiscono tra loro unicamente per “il diverso grado di forza e di vivacità con cui esse colpiscono la nostra mente”: “Le percezioni che si presentano con maggior forza e violenza, possiamo chiamarle impressioni: e sotto questa denominazione io comprendo tutte le sensazioni, passioni ed emozioni, quando fanno la loro prima apparizione nella nostra anima. Per idee, invece, intendo le immagini illanguidite delle impressioni, sia nel pensiero che nel ragionare […]. Non credo che siano necessarie molte parole per spiegare questa distinzione. Ognuno vede subito da sé la differenza tra il sentire e il pensare.”
Le impressioni sono immagini nitidi e chiare tanto di ciò che ci attestano i sensi esterni (le immagini delle cose fuori di noi), quanto di ciò che proviene dal senso interno riguardo le modificazioni interiori del nostro animo (le emozioni e gli stati d’animo). Le idee, invece, sono “immagini illanguidite” delle impressioni mantenute nella nostra memoria o nella nostra immaginazione. In questo senso Hume assegna al sentire una forza ed una efficacia maggiore rispetto al pensare, e tale eredità è giunta ed è assai diffusa nella nostra mentalità contemporanea. Tutte le idee derivano in egual modo da impressioni, entrambi suddivisibili in semplici o complesse a seconda che siano o meno scomponibili: “le percezioni semplici, impressioni o idee, sono quelle che non permettono nessuna distinzione o separazione, le percezioni complesse, al contrario, possono essere distinte in parti” .
Ad esempio, possiamo ricevere dall’impressione complessa di una arancia l’idea complessa di una arancia, oppure dalla stessa arancia potremo ricevere l’impressione semplice del suo colore, del suo odore, del suo sapore da cui otterremo le idee semplici corrispondenti. Ogni impressione produce dunque un’idea della nostra mente, che può permanere o dileguarsi nella nostra memoria, ma in generale è possibile affermare che “le une [le impressioni] sono cause delle altre [le idee]”. Alcune idee complesse, tuttavia, ad esempio quella di “cavallo alato”, evidentemente non sono prodotte in noi da alcuna impressione sensibile, ma vengono originate nella nostra mente da una nostra facoltà libera e produttiva, l’immaginazione, la quale ha il potere di lavorare sulle idee, modificandole o combinandole tra loro creando così delle idee fittizie: “Dato che tutte le idee semplici possono essere separate dall’immaginazione, e di nuovo unite nella forma che più le piace, le operazioni di questa facoltà sarebbero del tutto inesplicabili se non fosse guidata da principi universali che la rendano in certa misura uniforme in tutti i tempi e luoghi” .
L’immaginazione lavora dunque secondo tre principi universali, tramite i quali viene prodotto, in maniera non arbitraria, tutto il complesso della nostra conoscenza. La rassomiglianza che rinveniamo tra le idee, la contiguità o vicinanza nello spazio e nel tempo e il nesso di causa e effetto che intuiamo tra alcune idee, sono i tre principi che, come “una forza dolce”, organizzano tutto il nostro sapere, facendoci pensare che anche in natura le cose siano tenute insieme nello stesso modo che ci viene presentato dal sistema delle nostre idee. Eppure per Hume non è possibile dimostrare che le somiglianze e le relazioni che otteniamo per l’attività associativa della nostra immaginazione, corrispondano in maniera oggettiva all’essenza delle cose o ad un ordine metafisico proprio della natura. Tutto ciò che possiamo sapere riguardo al funzionamento della nostra mente non va oltre ai tre principi con cui associamo o scomponiamo le nostre idee, mentre le cause di tali principi rimangono a noi sconosciute e possiamo perciò definirli unicamente – e dogmaticamente - come “proprietà originarie della natura umana”.
Le relazioni tra idee e le materie di fatto
Esaminati tutti i diversi generi di pensieri che la nostra mente è in grado di produrre, Hume li classifica in due classi più generali: da un lato abbiamo pensieri che altro non sono se non relazioni di idee, come nel caso degli oggetto della geometria e dell’aritmetica che sono sempre frutto della mente, e quindi certi, intuitivi e dimostrabili, anche se non corrispondono a nulla di reale nell’Universo; dall’altro i nostri pensieri che hanno come oggetto delle materie di fatto, e cioè dipendono dalla percezione sensibile di oggetti esterni (ad esempio la certezza che esiste la sedia su cui ora sono seduto) o dal ragionamento che possiamo fare sull’esperienza (ad esempio che qualcuno deve necessariemte aver prodotto la sedia su cui sono seduto) o dalla testimonianza affidabile offertaci da altri. Nel caso dei pensieri circa le materie di fatto, nota Hume, è sempre possibile pensare il contrario, in quanto sono pensieri che non dipendono dal principio di non-contraddizione: ad esempio, dire che “domani sorgerà il sole” non è in contraddizione rispetto al dire che “domani non sorgerà il sole”, poiché sono pensieri entrambi possibili. Nei pensieri circa le materie di fatto il criterio di conoscenza non si fonda sulla non contraddizione logica, ma sul principio di causa ed effetto, ovvero l’unico che, nei nostri ragionamenti, ci permette “di andare al di là dell’evidenza della memoria e dei sensi”: da una cosa ne deduciamo un'altra, come da un effetto inferiamo sempre una causa. Risulta necessario allora mettere in questione l’oggettività della relazione causa-effetto per verificarne l’oggettività, anche a rischio di minare l’intero sistema delle nostre conoscenze.
La critica alla relazione causa-effetto
In base a cosa, si chiede Hume, siamo portati a pensare come fondata e ragionevole la relazione di causa ed effetto, relazione da cui, di fatto, dipende la maggior parte delle nostre conoscenze? Risponde Hume stesso: “Oserò affermare, come proposizione generale che non ammette eccezioni, che la conoscenza di questa relazione non si consegue in alcun caso mediante ragionamenti a priori, ma nasce interamente dall’esperienza quando troviamo che certi particolari oggetti sono costantemente congiunti tra loro. […] nessun oggetto manifesta, per mezzo delle qualità che appaiono ai sensi, né le cause che lo hanno prodotto, ne gli effetti che sorgeranno da esso; né la ragione può mai, senza l’aiuto dell’esperienza, trarre alcuna inferenza riguardante esistenze reali e materie di fatto”
Ad esempio, quando vediamo una palla da biliardo rossa colpire e mandare in buca una palla da biliardo gialla, siamo sempre convinti, per via della relazione causa-effetto, che il movimento della palla rossa sia la causa del movimento della palla gialla e perciò di stare effettivamente facendo esperienza di un nesso causale reale. Tale avvenimento però può essere scomposto in tre differenti eventi che si svolgono in rapida successione, quali il movimento della palla rossa, l’urto con la palla gialla e il movimento della palla gialla. Ebbene, nella descrizione di tale fenomeno emergono soltanto tre eventi in succesione tra loro e non si evince nessuna relazione di causa effetto, che appunto, spiega Hume, siamo noi a introdurre in un secondo momento nell’interpretare il fatto accaduto. Cause ed effetti sono di per sé eventi distinti tra loro e chiusi in se stessi e “nessun ragionamento a priori potrà mai giustificare questa preferenza” per la spiegazione causale che gli attribuiamo così volentieri. È invece, allora, solo l’esperienza che ci spinge a unire i due movimenti in un’unica relazione causale, per la regolarità che osserviamo nell’accadere di certi fenomeni.
La regolarità diventa presto in noi un’abitudine, che ci fa pensare come necessarie certe connessioni di fatti. Ma niente può costringerci a pensare che quella regolarità di successione causale tra due fatti o movimenti sia necessaria: “Ne segue allora che tutti i ragionamenti che riguardano la causa e l’effetto sono fondati sull’esperienza e che tutti i ragionamenti che derivano dall’esperienza sono fondati sulla supposizione che il corso della natura continuerà ad essere uniformemente lo stesso. […] noi siamo determinati dall’abitudine a supporre che il futuro sia conforme al passato”
Il principio di causa ed effetto dunque non è qualcosa che appartiene all’essenza della realtà naturale, ma è frutto della nostra abitudine a proiettare al futuro o al passato alcune regolarità che si presentano nella nostra esperienza. Hume definisce questa abitudine come “un principio ultimo della natura umana” o una sorta di istinto originario che applichiamo in ogni nostra decisione, e quindi come “la grande guida della vita umana”.
Risulta evidente che tutti i generi di conoscenze che abbiamo circa le materie di fatto, secondo Hume, sono dello stesso tipo, ovvero fondate su una relazione di causa-effetto che non è mai necessaria né universale, sia per quanto riguarda la conoscenza scientifica della natura, sia per quanto riguarda la conoscenza storica o la cultura in generale. La certezza che ci è concessa in questo genere di conoscenze e soltanto di natura probabile, poiché si fonda sulla credenza empirica che il mondo continuerà a procedere così come lo abbiamo visto procedere nel passato. L’assenso che concediamo a tutte le nostre certezze, da quelle più banali a quelle più degne di nota, si è mostrato infondato razionalmente e frutto di un’esperienza meramente contingente: che il Sole sorga domattina o che una pietra scagliata in alto cada verso terra non saranno mai più conoscenze assolutamente certe e universali, ma soltanto più o meno probabili in base all’abitudine che ne abbiamo. Quindi, per quanto riguarda le materie di fatto, ogni nostra conoscenza si rivela essere soltanto una credenza fondata su basi psicologiche e sentimentali e non più razionali: “In filosofia non possiamo andare più in là dell’affermazione che la credenza è qualche cosa di sentito dalla mente […]. Essa conferisce alle idee maggior peso ed efficacia, le fa apparire di maggior importanza, le rafforza nella mente e ne fa il principio regolatore delle nostre azioni”
La nostra mente funziona dunque per un meccanismo psicologico o un istinto originario dell’intelligenza che ci fa “sentire” connessioni tra idee anche senza averne motivi adeguati: la credenza è dunque un sentimento originario dell’uomo, impossibile “da spiegare perfettamente”, e che appare ora, grazie a Hume, “uno dei più grandi misteri della filosofia”, poiché su di esso riposa tutta l’interpretazione umana della realtà.
Dio, la sostanze materiale e la sostanza spirituale.
Hume critica così alcuni concetti ereditati dal razionalismo cartesiano e considerati dai suoi predecessori come certi e necessari. In primis la certezza dell’esistenza di Dio non è raggiungibile secondo Hume né per con dimostrazione a posteriori né con una dimostrazione a priori: se la relazione causale è frutto dell’abitudine, allora sarà assurdo passare dalla contemplazione di una realtà naturale ordinata alla conclusione che dev’esserci un suo Creatore divino intelligente. Partendo dall’osservazione del mondo, l’esistenza di Dio è ancora una volta soltanto abbastanza probabile, e mai certa o necessaria. Anche la dimostrazioni a priori non regge, poiché l’esistenza di un qualche cosa si può stabilire solo dall’esperienza e allora, l’analisi del concetto di Dio e dei suoi attributi non ci condurrà a nulla di reale: “Quando penso Dio, quando lo penso come esistente, e quando credo alla sua esistenza, la mia idea di lui non si accresce né diminuisce” . Ancora una volta Hume ribadisce che l’esistenza di Dio è una fatto meramente probabile.
Allo stesso modo non possiamo più essere certi dell’esistenza dell’esistenza di vere e proprie sostanze materiali fuori di noi, le stesse che prima abbiamo individuato come origine delle impressioni dei nostri sensi da cui traiamo sempre tutte le nostre idee. Solo successivamente l’uomo attribuisce le idee ottenute dalle sue impressioni ad un presunto sostrato comune, che in sé stesso non è mai dimostrabile: “L’idea di sostanza, come pure quella di modo, non è altro che una collezione d’idee semplici unite dall’immaginazione, e che hanno un nome particolare a loro assegnato, col quale possiamo richiamare in noi stessi e negli altri una collezione. Ma la differenza tra tutte queste idee consiste in ciò, che le qualità particolari formanti una sostanza vengono riferite costantemente a qualcosa di sconosciuto, al quale si suppone che siano intrinseche”
La “sostanza” è dunque soltanto un nome generale e vago e mai qualcosa di realmente esistente: essa funge molto bene come conetto limite a cui affidiamo il ruolo di centro sorgivo delle nostre impressioni, in realtà soltanto ipotetico e mai veramente conoscibile nella sua essenza. L’uomo tende a credere nell’esistenza reale di sostanze materiali solo perché continuiamo a imputare la regolarità e la coerenza di certe impressioni ad un qualcosa che ne sia il sostrato metafisico, ma è ancora una volta soltanto una credenza non giustificabile razionalmente.
Analogamente Hume critica la certezza nell’esistenza di una sostanza spirituale, ovvero dell’anima e dell’io. Se per Cartesio l’esistenza dell’io era una conoscenza intuitiva, certa e indubitabile, per Hume è impossibile risalire dalle impressioni e dalle sensazioni che abbiamo della nostra interiorità e accedere ad una conoscenza completa del nostro io. L’io è soltanto più “ciò a cui vengono riferite, per supposizione, le diverse nostre impressioni o idee”, e l’idea dell’io è scomponibile in tutte le impressioni che lo compongono: “noi non siamo altro che fasci o collezioni di differenti percezioni che si susseguono con una inconcepibile rapidità, in un perpetuo flusso e movimento. […] la mente è una specie di teatro, dove le diverse percezioni fanno la loro apparizione, passano e ripassano, scivolano e si mescolano con un’infinita varietà di atteggiamenti e situazioni. […] e non si fraintenda il paragone del teatro: a costituire la mente non c’è altro che le percezioni successive: noi non abbiamo la più lontana nozione del posto dove queste scene vengono rappresentate, o del materiale di cui è composta” .
“Io” è dunque una parola ingannatrice, poiché ci induce a ritenere esistente qualcosa che non si dà mai se non come un flusso di percezioni continuo. In sintesi, non esiste “Dio”, non esiste un “mondo” e non esiste alcun “io”. Con Hume è dunque portata a compimento quella frammentazione della realtà iniziata da Ockham nel XIV sec. Rimane comunque aperta e insoluta, come dichiara lo stesso Hume, la domanda su chi realizzi l’associazione di idee di cui è costituito tanto il mondo quanto l’io che ne parla: “Per parte mia, debbo invocare il privilegio concesso ad ogni scettico, e dichiarare che questa difficoltà è troppo forte per il mio intelletto. Io non pretendo, tuttavia, di affermare che sia assolutamente insormontabile: altri forse, o io stesso, dopo più matura riflessione, scoprirà qualche ipotesi che concili queste contraddizioni”
La morale
Chiarite l’origine e il funzionamento dell’intelligenza, Hume può tornare finalmente alla domanda fondamentale della sua filosofia, e cioè quale sia il fondamento razionale della morale.
Se la conoscenza deriva interamente dal mondo delle impressioni così dovrà essere anche per l’ambito delle nostre azioni. Le impressioni che determinano il comportamento umano sono chiamate da Hume con il termine “passioni”. Le passioni sono dirette se hanno origine immediatamente dalle impressioni primarie del piacere o del dolore, come ad esempio i desideri, la tristezza, il disprezzo, etc.; sono indirette se si formano a partire da quelle dirette attraverso procedimenti psicologici più complessi, come ad esempio l’orgoglio, l’umiltà, l’ambizione, l’invidia, etc. Fra le passioni dirette Hume include anche la volontà la quale cessa di essere una facoltà libera dell’anima ma viene considerata una decisione dell’intelligenza sempre determinata dall’avversione che proviamo nei confronti di ciò che ci procura dolore, dalla ricerca di ciò che ci porta piacere e soddisfazione: “Desidero prima di tutto far notare che con volontà non intendo niente altro che quella impressione interna che noi avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della nostra mente”
La volontà, secondo Hume, vuole o non vuole qualche cosa non per obbedire alle verità presentate dalla ragione che renderebbero la volontà stessa libera di decidere a prescindere dalle passioni interne o dalle circostanze esterne, ma perché, essendo vincolata al sentimento di piacere e di dolore, non è che l’effetto necessario delle passioni considerate come cause. La volontà è dunque interamente “schiava delle passioni” e la ragione ha alcun peso nelle sue decisioni. Le passioni, e non più la ragione, diventano il nuovo motore dell’umanità, e così il piano morale si ritrova del tutto separato da quello conoscitivo, poiché se i nostri atti volitivi dipendono dal piacere e dal dolore sarà assurdo cercare di comprendere se sono veri o falsi, cioè contrari o conformi alla ragione, secondo la celebre legge di hume : la morale si fonda dunque e soltanto su basi emozionali o sentimentali. Il piacere e il dolore diventano addirittura i criteri dei giudizi morali, tanto che in base ad essi potremo giudicare una condotta di vita come virtuosa o viziosa: “Un’azione, un sentimento, una qualità sono virtuosi o viziosi: perché? Perché la loro vita provoca un piacere o un dolore di tipo particolare. Quindi, dando ragione del piacere o del dolore, spiegheremo sufficientemente il vizio o la virtù. Avere il senso della virtù non significa altro che sentire una soddisfazione di un tipo particolare nel contemplare una certa qualità. Ed è proprio in questo sentire che risiede la nostra lode o la nostra ammirazione”
La differenza tra bene e male a livello morale, come volevano i sentimentalisti inglesi alla Shaftesbury e Hutcheson, è decisa dal nostro sentimento, chiamato da Hume “senso morale”, più che dal nostro giudizio razionale. Hume non abbandona però la moralità al relativismo dei gusti e delle propensioni individuali, riconoscendo che alcuni comportamenti sono universalmente giudicati come virtuosi (ad esempio l’amore per gli amici e i parenti) sulla base di una naturale tendenza a stabilire rapporti con gli altri che chiama “simpatia”. Chi vive una condotta morale incentrata sulla benevolenza verso il prossimo genera negli altri un sentimento disinteressato e una approvazione generale, le quali spingono Hume a sostenere che tale tendenza originaria alla simpatia genererà una benevolenza universale nell’intera società degli uomini.
Se la simpatia tende a dominare i rapporti tra gli individui, un altro è il sentimento che regola la vita sociale e la politica, e cioè il sentimento dell’“interesse” di raggiungere il maggior numero di beni con il minor costo possibile; in base a tale interesse gli uomini si organizzano in quell’“artificio” che è la società per aiutarsi a soddisfare i propri bisogni e a supplire ai propri limiti naturali: “Solo con la società l’uomo è in grado di supplire alle sue mancanze e di porsi sullo stesso livello degli altri esseri del creato, e anzi di acquistare una superiorità su di essi” .
La tendenza naturale dell’uomo a entrare in società non ha nulla a che fare col discorso filosofico su un presunto “stato di natura” originario, che Hume considera “una semplice finzione filosofica che non ha mai avuto alcuna realtà e che mai avrebbe potuto averne” poiché da sempre gli uomini sono già costituiti in società, per quanto primitive e semplici che fossero. L’interesse di ogni individuo genera il sentimento dell’“egoismo” sul quale si fonda il sentimento della giustizia del bene pubblico che dà vita al governo della società. Le leggi e il rispetto delle leggi non si fondano su nessun contratto sociale ma esistono per l’unico scopo di garantire la proprietà e l’interesse egoistico del singolo cittadino.
La religione
Il Trattato sulla natura umana ci fornisce inoltre la base teorica per rispondere alla domanda che Hume si pone circa il fondamento delle nostre credenze religiose . Il problema infatti non è di poter verificare la verità o l’attendibilità storica della rivelazione divina, bensì di trovare in noi un qualche tipo di percezione capace di giustificare le nostre credenze. La religione infatti, secondo il filosofo scozzese, si deve poter risolvere guardando ai meccanismi propri della natura umana fondati sulle impressioni sensibili, togliendo così ai diversi credi religiosi ogni fondamento razionale. Ogni tentativo di dimostrare razionalmente, a priori o a posteriori, l’esistenza di Dio è risultato fallace o inconcludente con la conclusione che l’esistenza di Dio è razionalmente soltanto probabile. Le credenze religiose devono dunque avere la loro giustificazione in qualche passione dell’anima, più precisamente, nelle emozioni-passioni di timore e di speranza che gli eventi della vita producono nell’uomo.
La storia naturale delle religioni, secondo Hume, dimostra che tanto il politeismo quanto il successivo monoteismo altro non sono se non proiezioni umane dei timori e delle speranze degli uomini, con l’aggravante che i sistemi religiosi monoteisti hanno facilitato la diffusione di chiese intolleranti e violenti. Senza mai sostenere posizioni esplicitamente atee, Hume afferma allo stesso tempo l’origine irrazionale e puramente emotiva delle credenze religiose e, insieme, il loro essere un’espressione originaria dell’uomo di fronte agli eventi del mondo, e, per questo motivo, utili a evitare la riduzione dell’uomo allo stato meramente animale. Il filosofo che voglia mantenersi sulla retta via del pensiero, a giudizio di Hume, dovrò però allontanare da se stesso ogni forma di credenza religiosa, fenomeno tanto umano quanto misterioso e inesplicabile.
Hume - testi
La più famosa argomentazione filoso-fica di Hume è senz'altro quella della negazione della valenza ontologica del principio di causalità, ovvero del principio di ragion sufficiente enunciato da Leibniz.
Le pagine che qui riportiamo sono prese dal Trattato sulla natura umana (1739-40) e contengono la più virulenta critica alla necessità del rapporto tra causa ed effetto. Il loro intento esplicito è quello di dimostrare, come dice lo stesso Hume: «che a) un oggetto, considerato in se stesso, non contiene niente che ci autorizzi a trame una conclusione che vada al di là di esso, e che b) anche dopo aver osservato il frequente o costante congiungimento degli oggetti, noi non abbiamo nessuna ragione di trame un'inferenza riguardante un oggetto che è al di là di quelli di cui abbiamo avuto esperienza».
1. Le prime quattro relazioni che sono a fondamento della scienza: rassomiglianza, contrarietà, gradualità qualitativa, proporzione quantitativa o numerica
Ci sono sette specie di relazioni filoso-fiche: rassomiglianza, identità, relazioni di tempo e di luogo, proporzione di quantità e di numero, gradi di una qualità, contrarietà, causalità. Queste relazioni possono essere divise in due classi: quelle dipendenti interamente dalle idee messe a confronto, e quelle che possono mutare senza che mutino le idee. Dall'idea di un triangolo dipende la relazione di uguaglianza dei tre angoli a due retti, e questa relazione non varia fin che non varia l'idea; invece, la relazione di contiguità e di distanza fra due ossetti può mutare per una semplice alterazione del posto che questi occupano, senza nessun mutamento degli oggetti in se stessi, ossia delle loro idee: e che essi occupino quel posto, dipende da mille imprevedibili accidenti. Questo è anche il caso dell'identità e della causalità: due oggetti, se anche sono perfettamente somiglianti e si mostrano, in diverso tempo, nello stesso posto, possono essere numericamente differenti; così, poiché il potere di un oggetto di produrne un altro non può mai esser scoperto semplicemente dalla loro idea, è evidente che causa ed effetto sono relazioni che veniamo a conoscere con l'esperienza, e non già con ragionamenti o riflessioni astratte. Non c'è un solo fenomeno, anche dei più semplici, del quale si possa dar ragione con le qualità con cui gli oggetti si presentano a noi, o che potremmo prevedere senza l'aiuto della memoria e dell'esperienza.
Di queste sette relazioni filosofiche restano, dunque, soltanto quattro, che, dipendendo unicamente dalle idee, possono essere oggetto di conoscenza e di certezza-, la rassomiglianza, la contrarietà, i gradi di qualità, la proporzione della quantità o del numero. Tre di queste si colgono a colpo d'occhio, e sono oggetto piuttosto d'intuizione che di dimostrazione: la rassomiglianza di alcuni oggetti colpisce subito gli occhi, o meglio la mente, e di rado esige un secondo esame; e lo stesso avviene per la contrarietà e per i gradi di una qualità. Come dubitare che l'esistenza e la non-esistenza non si distruggano l'una l'altra, e non siano perciò del tutto incompatibili e contrarie? È vero che dei gradi di una qualità, come il colore, il sapore, il caldo o il freddo, non si può giudicare con esattezza quando la loro differenza sia molto piccola, - tuttavia è facile giudicare che uno è superiore o inferiore a un altro quando la differenza sia considerevole, e questo giudizio lo formuliamo sempre a prima vista, senza far ricerche o ragionamenti.
Anche per le proporzioni di quantità o di numero può darsi che noi riusciamo a constatare a colpo d'occhio la superiorità o inferiorità fra numeri e figure, specialmente dove la differenza è grande, - ma l'uguaglianza, o altra proporzione esatta, possiamo, a una prima osservazione, soltanto congetturarla, tranne che si tratti di numeri molto piccoli o di porzioni molto limitate di estensione che possano esser abbracciati in un istante, e ci diano la sicurezza di non cadere in grave errore, - e in tutti gli altri casi è giocoforza stabilire le proporzioni con una certa libertà, o procedere in modo più o meno artificioso. [...]
2. Le altre tre relazioni: identità, situazione spaziale o temporale, causalità
Questo è tutto ciò che credo necessario osservare rispetto alle quattro relazioni che sono il fondamento della scienza. Quanto alle altre tre: d'identità, di situazione spaziale o temporale e di causalità, le quali non dipendono dall'idea, e possono essere assenti o presenti anche se quella resta invariata, sarà bene parlarne più in particolare.
I ragionamenti non fanno altro che mettere a confronto e scoprire quelle relazioni, costanti o incostanti, che due o più ossetti hanno tra loro. Questo confronto lo si può fare, sia che entrambi gli oggetti siano presenti ai sensi, o sia presente uno solo, o nessuno. Quando entrambi sono presenti ai sensi insieme alla relazione, noi chiamiamo questa una percezione, non un ragionamento, non essendovi in questo caso nessuna attività o azione, propriamente detta, del pensiero, ma semplicemente un'accettazione passiva delle impressioni attraverso gli organi della sensazione. Posto ciò, non dobbiamo considerare come ragionamenti le osservazioni che uno può fare rispetto all’identità e alle relazioni di tempo e di luogo, poiché in nessuna di queste egli può spingersi, per scoprire la reale esistenza o la relazione, al di là degli oggetti immediatamente presenti ai sensi. La causalità sola produce una tale connessione da darci la certezza che all'esistenza o all'azione di un oggetto seguì o precedette un'altra esistenza o un'altra azione; e anche le altre due relazioni non possono entrare in un ragionamento se non in quanto entrano in quella di causalità. Non c'è niente in un oggetto che ci possa persuadere ch'esso debba sempre esser lontano o contiguo a un altro, e quando con l'esperienza e con l'osservazione scopriamo che in ciò la loro relazione è invariabile, noi concludiamo sempre che c'è una causa segreta che così li separa o unisce. Dicasi lo stesso per l'identità: noi supponiamo senz'altro che un oggetto continua ad essere numericamente il medesimo, benché più volte presente e assente ai sensi, e gli attribuiamo un'identità nonostante l’interruzione delle percezioni, perché pensiamo che, se avessimo tenuto l'occhio o la mano costantemente su di esso, ci avrebbe prodotto una percezione invariabile e ininterrotta. A questa conclusione, che va al di là delle impressioni dei sensi, possiamo giungere soltanto perché ci fondiamo sulla connessione di causa ed effetto-, altrimenti non potremmo avere la certezza che l'oggetto è sempre lo stesso, e non uno nuovo, per quanto questo possa rassomigliare a quello ch'era prima presente ai sensi. [...]
Di qui si vede che, delle tre relazioni che non dipendono meramente dalle idee, la causalità è la sola che possa spingersi al di là dei sensi ed informarci dell'esistenza di oggetti che non vediamo né sentiamo. Cercheremo, quindi, di spiegare questa relazione esaurientemente, prima di abbandonare il nostro esame dell'intelletto.
3. Gli elementi che sono alla base dell'idea di causalità: contiguità, successione temporale, connessione necessaria
Per cominciare con ordine, dobbiamo considerare l'idea di causalità e vedere quale ne è l'origine. Non si può, infatti, ragionare bene, se non s'intende pienamente l'idea di cui si ragiona, ed è impossibile intendere perfettamente un'idea se non se ne rintraccia l'origine, e non si esamina quella prima impressione dalla quale essa nasce. L'esame dell'impressione da chiarezza all'idea, e l'esame dell'idea da una uguale chiarezza a tutti i nostri ragionamenti.
Diamo, dunque, uno sguardo a due di quegli oggetti che chiamiamo causa ed effetto, e rivolgiamoli da tutti i lati, al fine di trovare quell'impressione che produce un'idea d'importanza così prodigiosa. Vedo subito che non devo cercarla in nessuna delle particolari qualità degli oggetti, poiché, qualunque di queste io scelga, trovo oggetti che non la possiedono, e tuttavia sono chiamati cause o effetti. Ed invero non esiste nulla nell'oggetto né esternamente né internamente, che non si possa considerare o come causa o come effetto, sebbene sia evidente che non c'è nessuna qualità che appartenga universalmente a tutte le cose e dia loro diritto a questa denominazione.
L'idea, dunque, di causalità deve derivare da qualche relazione esistente tra gli oggetti, e questa relazione dobbiamo cercar di scoprire. In primo luogo, trovo che gli oggetti considerati come causa ed effetto sono contigui; e che niente potrebbe agire su altro se tra essi ci fosse il minimo intervallo di tempo o di spazio. Benché, infatti, oggetti distanti possano talora sembrar produttivi l'uno dell'altro, di solito, esaminando bene, si trova che sono uniti da una catena di cause contigue sia tra loro sia con gli oggetti distanti; e anche quando quest'unione non la possiamo scoprire, presumiamo sempre che esista. Dobbiamo, quindi, considerare il rapporto di contiguità come essenziale a quello di causalità, o, per lo meno, supporre che sia tale, come è anche opinione generale, finché non troveremo occasione più propizia per chiari-re la questione, esaminando quali oggetti sono e quali non sono capaci di giustapposizione e di congiungimento.
La seconda relazione che io considero come essenziale a quella di causalità non è universalmente riconosciuta, anzi è controversa, e consiste nella priorità di tempo della causa sull'effetto. [...]
Ci contenteremo, allora, di queste due relazioni di contiguità e di successione, come se ci dessero un'idea completa della causalità? In nessun modo. Un oggetto può esser contiguo e anteriore a un altro, e non esser considerato come sua causa. Bisogna prender in considerazione la relazione di connessione necessaria, che ha un'importanza ben maggiore delle due precedenti.
Qui, di nuovo, esamino l'oggetto da tutti i lati, per scoprire la natura di questa connessione necessaria e l'impressione, o le impressioni, da cui può essermi derivata la sua idea. Dalle qualità conosciute degli oggetti, si vede subito, quella relazione di causa e di effetto non dipende affatto. Delle loro relazioni non ne vedo altre che quelle di contiguità e di successione: e le ho già dichiarate insoddisfacenti. Mi farò lecito, per disperazione, di affermare ch'io sono qui in possesso di un'idea non preceduta da un'impressione somigliante? Sarebbe una troppo grande prova di leggerezza e d'incostanza: il principio contrario, infatti, è stato già così solidamente stabilito, da non ammettere più dubbio: almeno, finché non abbiamo esaurientemente esaminata la presente difficoltà.
Dobbiamo, quindi, procedere come coloro che, essendo in cerca d'una cosa nascosta, e non trovandola nel luogo dove speravano, rovistano tutto all'intorno senza meta precisa, nella speranza che la buona fortuna li guidi. Bisogna abbandonare lo studio diretto della natura della connessione necessaria, che fa parte della nostra idea di causa ed effetto, e cercare qualche altra questione, di cui l'esame possa giovarci a chiarire la presente difficoltà. Due sono le questioni che mi accingo a esaminare:
1 ) Per quale ragione diciamo necessario che tutto ciò che ha un cominciamento debba avere anche una causa?
2) Perché affermiamo che certe cause particolari debbono necessariamente avere certi particolari effetti? Qual è la natura di quest'inferenza, per cui passiamo dalle une agli altri, e della nostra credenza in essa?
Prima di procedere innanzi, faccio osservare che, sebbene le idee di causa e di effetto derivino da impressioni di riflessione, così come da quelle di sensazione, tuttavia, per brevità, mi riferirò a queste ultime come origine di tali idee, ma desidero che ogni cosa ch'io dico di queste venga estesa anche alle prime. Le passioni, infatti, sono connesse con gli oggetti e tra loro, non altrimenti che i corpi esterni; sì che la relazione di causalità è la stessa nel l'un caso e nell'altro.
4. Infondatezza razionale della tesi secondo cui tutto ciò che esiste ha necessariamente una causa
Per cominciare dalla prima questione, riguardante la necessità d'una causa, è massima generale in filosofia che tutto ciò che comincia ad esistere deve avere una causa della sua esistenza. Lo si ammette in tutti i ragionamenti senza dare né richiedere nessuna prova. Si suppone che la verità di questa massima sia intuitiva, e che sia una di quelle, di cui, anche negate a parole, nessuno può realmente dubitare nel suo cuore. Ma, se esaminiamo questa massima alla luce della idea della conoscenza su esposta, non vi vedremo nessun segno di tale certezza intuitiva: al contrario, troveremo ch'essa è di una natura affatto estranea a questo tipo di convinzione.
Ogni certezza, infatti, nasce dal confronto di idee e dalla scoperta di relazioni inalterabili fin che le idee continuano ad essere le stesse. Tali relazioni son quelle di ras-somiglianza, di proporzione quantitativa o numerica, di grado di una qualità e di contrarietà; nessuna delle quali è implicita nella proposizione: Tutto ciò che ha un principio ha anche una causa della sua esistenza. Questa proposizione non è, quindi, intuitivamente certa. Per lo meno, chi volesse affermare ch'essa ha una certezza intuitiva, dovrebbe negare che quelle siano le sole relazioni infallibili, e trovarne qualche altra del genere implicita in essa. E allora sarebbe sì il caso di esaminare la cosa.
Invece, ecco un argomento che prova senz'altro non esser quella proposizione né intuitivamente né dimostrativamente certa. Infatti, non si può affermare la necessità di una causa per ogni nuova esistenza, o nuova modificazione d'esistenza, senza dimostrare nello stesso tempo l'impossibilità che una cosa cominci mai a esistere senza un principio produttore: qualora la seconda proposizione non potesse esser dimostrata, neppure potremmo sperar mai di dimostrare la prima. Orbene, che la seconda proposizione sia assolutamente incapace di una prova dimostrativa, ci è assicurato dalla considerazione che, siccome le idee distinte sono separabili, e le dee di causa e di effetto sono evidentemente distinte, è facile per noi concepire un oggetto non esistente in questo momento ed esistente il momento dopo senz'unirvi l’idea, da esso distinta, di una causa o di un principio produttore. [... ] Ma se non è dalla conoscenza né da un ragionamento scientifico che ci formiamo l'opinione della necessità d'una causa a ogni nuova produzione, tale opinione bisognerà che ci venga dall'osservazione e dall'esperienza. Si presenterebbe, quindi, ora, naturalmente il problema: come un tal principio ciò venirci dall'esperienza? Ma meglio è rimandare la questione a più innanzi, e per ora ridurla in questi termini: Perché diciamo che certe particolari cause debbono avere di necessità certi particolari effetti, e perché facciamo quest'inferenza da quelle a questi! Forse finiremo col trovare una stessa risposta a tutte due gli interrogativi.
5. Tutti i nostri ragionamenti sulle cause e gli effetti sono ipotetici
Benché la mente nei suoi ragionamenti sulle cause e gli effetti si spinga di là degli oggetti che vede o ricorda, non li perde tut-: 3via mai completamente di vista né ragiona Duramente su idee, perché a queste non può non mescolare impressioni, o per lo meno dee di memoria, equivalenti alle impressioni. Quando inferiamo degli effetti da certe cause, dobbiamo pur constatare l'esistenza di queste cause; e per questo non ci sono se non due vie: o la immediata percezione di ciò che sentiamo o ricordiamo, ovvero un'inferenza da altre cause, delle quali dobbiamo, poi, nello stesso modo accertarci o con un'impressione presente, o con un'inferenza da altre cause, e così di seguito fino a che giungiamo a un oggetto presente al senso o alla memoria. È impossibile spingere infinitamente le nostre inferenze, e la sola cosa che le possa arrestare è un'impressione della memoria o dei sensi, oltre la quale non c'è più posto per dubbi o investigazioni.
Prendiamo, per esempio, un punto della storia, e consideriamo la ragione per cui ne ammettiamo o respingiamo la veridicità. Noi ammettiamo che Cesare fu ucciso in senato alle idi di marzo, e ciò perché di questo fatto sono unanimi le testimonianze degli storici, che assegnano all'avvenimento quel luogo e quella data. Qui, innanzi alla memoria o ai sensi, non abbiamo se non caratteri e lettere, che ricordiamo esser stati adoperati come segni di certe idee: queste idee o furono nella mente di chi si trovò presente all'evento e le ricevette immediatamente dall'esistenza di esso, o furono derivate dalla testimonianza di altri, e questa da altri, finché, con un ovvio regresso, arriviamo a coloro che furono testimoni oculari e spettatori dell'avvenimento. È chiaro che tutta questa catena di argomenti o connessioni di cause ed effetti dipende da quei caratteri o lettere veduti o ricordati, e che senza l'autorità dei sensi o della memoria tutto il nostro ragionamento sarebbe campato in aria: ogni anello della catena sarebbe sospeso a un altro, e non ci sarebbe niente di fisso a un capo, capace di sostenere il tutto; e per conseguenza non ci sarebbe nessun'evidenza o credenza. E questo è il caso di tutti gli argomenti ipotetici, ossia dei ragionamenti fondati sopra una supposizione, dove non esiste né un'impressione attuale né la credenza di una reale esistenza. [...]
È pertanto vero che tutti i ragionamenti riguardanti le cause e gli effetti mossero in origine da qualche impressione: nello stesso modo che la certezza di una dimostrazione si fonda sempre su un confronto di idee, anche se questo viene dimenticato, non per ciò scompare la certezza.
6. La base del ragionamento di causalità è la credenza
Nei ragionamenti sulla causalità si adoperano, dunque, materiali di natura mista ed eterogenea, i quali, benché connessi, sono tuttavia essenzialmente diversi. Tutte le argomentazioni riguardanti le cause e gli effetti constano di un'impressione di memoria o di senso, e, in più, dell'idea di quell'esistenza che produce l'oggetto dell'impressione o è prodotta da esso. Qui, allora, abbiamo da spiegare tre cose: 1) l'impressione originaria; 2) il passaggio all'idea, che vi connettiamo, di causa o di effetto; 3) la natura e le qualità di questa idea.
Quanto alle impressioni provenienti dai sensi, la loro causa ultima è, a mio avviso, assolutamente inesplicabile dalla ragione umana, e sarà sempre impossibile decidere con certezza se provengono immediatamente dall'oggetto o sono prodotte dal potere creativo della mente, oppure le abbiamo dall'autore del nostro essere. [...]
Quando cerchiamo quel che distingue propriamente la memoria dall'immaginazione, ci accorgiamo subito che la differenza non può consistere semplicemente nelle idee che con la memoria abbiamo presenti: poiché en-trambe queste facoltà ricavano le loro idee semplici dalle impressioni e non possono mai oltrepassare la percezione originaria. E neppure basta a distinguerle l'ordinamento diverso delle idee complesse; poiché è ben vero che proprietà peculiare della memoria è di conservare l'ordine primitivo e la posizione delle idee, mentre l'immaginazione le traspone e cambia a suo piacimento; ma questa differenza non è sufficiente per distinguerne le operazioni e la natura, poiché è impossibile richiamare alla mente le impressioni passate per confrontarle con le idee presenti e vedere se l'ordinamento è esattamente lo stesso. Se, quindi, la memoria non ci si mostra tale né per l'ordine delle sue idee complesse né per la natura delle sue idee semplici, ne segue che la differenza fra essa e l'immaginazione sta nella superiorità della sua forza e vivacità. Un uomo può abbandonarsi alla sua fantasia e fingere che gli sia accaduta una serie di avventure: egli non può distinguere queste dal ricordo di altre simili, se non perché le idee di queste, immaginarie, sono più deboli e oscure. [...]
Più recente è la memoria e più chiara è l'idea, e quando, dopo un lungo intervallo, ritorniamo alla contemplazione dell'oggetto, troviamo l'idea sempre più languida, se non del tutto svanita. Per cui, riguardo alle idee della memoria, siamo spesso in dubbio, quando diventano troppo deboli e fiacche, e non riusciamo a determinare se un'immagine proviene dall'immaginazione o dalla memoria, quando essa non si presenti con quei colori vivaci che distinguono quest'ultima facoltà. Mi pare di ricordare un tal avvenimento, dice uno, ma non ne sono sicuro: il lungo tempo l'ha talmente oscurato nella mia memoria che sono incerto se non sia un parto della mia fantasia.
E come un'idea della memoria, perdendo la sua forza e vivacità, può degenerare a tal punto da esser presa per un'idea dell'immaginazione, così, d'altra parte, un'idea dell'immaginazione può acquistare tale forza e vivacità da passare per un'idea della memoria, e imitarne gli effetti sulla credenza e sul giudizio. I mentitori, com'è noto, con la frequente ripetizione delle loro bugie, finiscono per crederle e rammentarle come cose vere: la consuetudine e l'abitudine avranno in questo caso, come in molti altri, la stessa influenza della natura sulla mente, e scolpiranno l'idea con uguale forza e vigore.
Da ciò si vede come la credenza o l'assenso, che sempre accompagna la memoria ed i sensi, non consiste in altro che nella vivacità delle loro percezioni, le quali in questo solo si distinguono dalle idee della immaginazione. Credere è, in questo caso, sentire una impressione immediata dei sensi, o la ripetizione di quest'impressione nella memoria. Soltanto la forza e vivacità della percezione è quella che costituisce l'atto primitivo del giudizio e pone le basi di quel ragionamento che di lì passa alla relazione di causa ed effetto.
7. In che modo l'idea di causa ed effetto deriva dall'esperienza
Ma nel porre questa relazione è facile osservare che l'inferenza dalla causa all'effetto non è tratta dall'osservazione degli oggetti particolari, né da una penetrazione della loro essenza che possa scoprirci la dipendenza dell'uno dall'altro. Non vi è oggetto che implichi l'esistenza di un altro, se consideriamo questi oggetti in se stessi e non guardiamo al di là delle idee che di essi ci formiamo. Una simile Inferenza dovrebbe valere come una conoscenza e implicare l'assoluta contraddizione e impossibilità di concepire una cosa altrimenti. Ma, poiché tutte le idee distinte sono separabili, è evidente che non ci può essere impossibilità di questo genere. Quando passiamo da un'impressione presente all'idea di un oggetto, è sempre possibile che abbiamo separata l'idea dall'impressione e in sua vece sostituita un'altra idea.
Con la sola esperienza, dunque, possiamo Inferire l'esistenza di un oggetto da quella di un altro. Quest'esperienza consiste in ciò: noi ci ricordiamo di aver avuto frequenti esempi dell'esistenza di una specie di oggetti, e rammentiamo anche che certi esponenti di un'altra specie di oggetti li hanno sempre accompagnati con una regolarità costante di contiguità e successione. Così, ricordiamo di aver visto quella specie di oggetto che chiamiamo fiamma, e di aver sentito quella specie di sensazione che chiamiamo calore. Noi ricordiamo parimenti il loro costante congiungimento in tutti i casi passati. Senza tante cerimonie chiamiamo la prima causa e il secondo effetto, e inferiamo l'esistenza di questo dall'esistenza di quella. In tutti i casi particolari di quel congiungimento, tanto la causa quanto l'effetto furono percepiti dai sensi e insieme presenti alla memoria. Ma, quando ci mettiamo a ragionare su essi, noi percepiamo o rammentiamo soltanto uno dei termini, e suppliamo l'altro in conformità dell'esperienza passata.
D. Hume, Trattato sulla natura umana, trad. di A. Carlini (1926), riveduta da E. Lecaldano ed E. Mistretta (1971), Laterza
Blaise Pascal
Nato nel 1623 e morto nel 1662, matematico e filosofo vicino alla corrente giansenista nata dall’opera Augustinus scritta dal vescovo Cornelio Giansenio (1585-1638) nel 1641.
I giansenisti riprendono la teoria agostiniana della grazia contro il lassismo dei gesuiti che così volevano favorire l’opera della Controriforma riavvicinano al cattolicesimo il più persone possibile.
Pascal scrive le Lettere provinciali in difesa dei giansenisti, che erano anche molto influenzati dal cartesianesimo.
Antoine Arnauld scrisse nel 1662 la Logica di Port Royal o arte di pensare.
Pascal accoglie lo spirito di geometria, l’esprit de geometrie, ma critica la riduzione della conoscenza umana a pura esperienza geometrica.
Egli ammette anche una ragione non geometrica, un lumen naturale, una spontaneità intuitiva immediata, che definisce esprit de finesse che precede ogni dimostrazione formalmente rigorosa.
Tale tipo di uso della ragione è indispensabile per affrontare i problemi dell’esistenza e del suo significato.
L’uomo ignora il suo futuro e l’esistenza di Dio e perciò è costretto a scommettere…
Il Dio di Cartesio, che impone alla macchina del mondo il primo movimento, è il Dio dei filosofi; un Dio astratto che nasconde un sostanziale ateismo del pensiero moderno.
Il Dio concreto è quello della fede e del sentimento, che si rivela nei momenti dell’estasi mistica, e che l’umana parola non può né esprimere né spiegare.
D. Hume, Trattato sulla natura umana, I, Parte II, sez. 6, in Opere filosofiche, trad. di E.Lecaldano e E.Minstretta, vol. I, Laterza, Roma-Bari 2008 e anche trad. di P.Guglielmoni, testo inglese a fronte, Bompiani, Milano 2001. D’ora in poi Trattato.
Il dogmatismo è quella posizione filosofica che ritiene possibile il cogliere la sostanza metafisica della realtà mediante le idee presenti nella nostra mente.
Hume, Lettera a Elliot di Minto, 10 marzo 1751, in Lettere, trad. di M.Del Vecchio, Franco Angeli, Milano 1982
Il Trattato sulla natura umana è composto di tre libri: Sull’intelletto, Sulle passioni (pubblicati nel 1739) e Sulla morale (pubblicato nel 1740).
In questi anni Hume lavorò ai Dialoghi sulla religione naturale, pubblicati postumi, in cui viene ribadita l’assoluta irrazionalità di ogni forma di fede religiosa.
È il sottitolo del Trattato.
Cit. “Il solo mezzo per ottenere dalle nostre ricerche filosofiche l’esito che ne speriamo, è di abbandonare il tedioso, estenuante metodo seguito fino a oggi; e invece che impadronirci, di tanto in tanto, di un castello o di un villaggio alla frontiera, muovere invece direttamente alla capitale, al centro di queste scienze, ossia alla stessa natura umana: una volta padroni di esso, potremo sperare di ottenere ovunque una facile vittoria. Muovendo di qui potremo estendere la nostra conquista su tutte le scienze più intimamente legate alla vita umana, e procedere poi con agio ad approfondire quelle che sono oggetto di mera curiosità”. Hume, Trattato sulla natura umana, Introduzione
Hume, Trattato sulla natura umana, Introduzione
Hume, Trattato, I, parte I, sez. I.
Hume, Trattato, I, parte I, sez. I.
Hume, Trattato sulla natura umana, libro I, parte I, sez. 4
Hume, Ricerche sull’intelletto umano, sez. 4, parte I
Hume, Estratto del Trattato sulla natura umana.
Hume, Ricerche sull’intelletto umano, sez. 5, parte III
Hume, Trattato, I, parte III, sez. 7, cit.
Hume, Trattato, I, parte I, sez. 6
Hume, Trattato, Libro I, parte IV, sez. 6
Hume, Trattato, Appendice
Hume, Trattato, libro II, parte III, sez. 1
“In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l’autore va avanti per un po’ ragionando in modo consueto, e afferma l’esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutt’a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule ‘è’ e ‘non è’ incontro solo proposizioni che sono collegate con un ‘deve’ o un ‘non deve’. Si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti dato che questi ‘deve’ o ‘non deve’ esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati o spiegati, e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile, ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti” Hume, Trattato, libro III, parte I, sez 1
Hume, Trattato, libro III, parte I, sez 2
Hume riconosce anche l’esistenza di “un naturale appetito tra i sessi” che sfocia nell’unione tra l’uomo e la donna in vista del mantenimento della prole.
Hume, Trattato, libro III, parte II, sez 2
Il problema religioso è specificamente trattato da Hume in due opere, ovvero i Dialoghi sulla religione naturale e la Storia naturale della religione.
Fonte: https://www.liceomalpighi.it/didattica/mferrari/downloads/Hume.doc
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