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1 – La sostanza primordiale
Come abbiamo visto nel capitolo precedente (“Dal mito al logos”), la convinzione che l’universo sia dotato di senso perché intriso di razionalità (= ordine = kòsmos = intelligibilità, e non caos…) porta i primi filosofi alla ricerca di un principio (archè) costitutivo di tutte le cose.
Probabilmente condizionati dalla precedente tradizione poetica, e dalla fondamentale esperienza socio-politica che si stava svolgendo sotto i loro occhi (la funzione unificatrice della legge nella polis democratica), i primi filosofi avevano sviluppato una visione “monistica” della realtà; ovvero erano convinti che alla base della multiforme e mutevole realtà naturale, empiricamente constatabile, vi fosse un unico sostrato materiale che, in qualche modo, costituisse la sostanza di ogni cosa.
Infatti, come ci fa notare Nicola Abbagnano: “In Omero si trova per la prima volta il concetto di una legge che dà unità al mondo umano: l’Odissea è tutta dominata dalla fede in una legge di giustizia, di cui gli dei sono custodi e garanti, che determina nelle vicende umane un ordine provvidenziale per il quale il giusto trionfa e l’ingiusto viene punito. Esiodo personifica tale legge nella dea Dìke (Giustizia), figlia di Zeus, che siede accanto al padre e vigila affinché siano puniti gli uomini che commettono ingiustizia. L’infrazione di questa legge appare nello stesso Esiodo come tracotanza (hybris), dovuta alla sfrenatezza delle passioni e in generale a forze irrazionali… Il poeta tragico Eschilo (VI-V secolo a.C.) è, infine, il profeta religioso di questa legge universale di giustizia, della quale la sua tragedia vuole esprimere il trionfo”.
Così, come la poesia greca aveva giustificato “l’unità della legge al di sotto delle vicende apparentemente disordinate e mutevoli della vita umana associata” , la riflessione dei primi filosofi ha cercato di individuare nella natura quel principio unitario di ordine che i poeti avevano scoperto nel mondo umano. Ma come è possibile spiegare la molteplicità e il divenire delle cose se (dato il “monismo”) la materia di cui esse sono costituite è unica? La soluzione sta nell’ilozoismo comune ai primi filosofi greci, consistente nell’ipotizzare all’interno della materia primordiale una forza che, agendo secondo una legge, presiede a tutte le trasformazioni della materia stessa, spiegandone così il divenire e l’apparente molteplicità. La caratteristica fondamentale della forza è di essere “immanente”, intinseca alla materia, in modo tale da non dover ricorrere a spiegazioni “trascendenti” (di carattere mitico-teologico), tali da compromettere la razionalità della spiegazione naturalistica. La Natura è spiegata solo attraverso la Natura, individuando in essa un principio unitario di ordine e razionalità, senza ricorrere ad interventi esterni di natura divina o, in qualche modo, soprannaturale.
Creazione di Adamo (1511), Michelangelo, Cappella Sistina, Musei Vaticani, Roma
In sintesi, possiamo dire che il principio (arché) cercato dai primi filosofi è, al tempo stesso, materia, forza che la anima e legge che la governa.
2 – I “presofisti”
La ricerca dell’arché coinvolgerà un gruppo di pensatori che, se pur con sfumature diverse, possiamo definire “filosofi della natura” o “fisiologi” (da physis = natura).
Questi filosofi sono chiamati anche “presofisti”, poiché precedono cronologicamente quei filosofi, i Sofisti, che (con Socrate) si occuperanno principalmente dell’uomo e della polis, ovvero dei problemi derivanti dalla convivenza umana, con particolare riguardo alla problematica dei valori.
Per la particolare prospettiva con cui affrontano il problema della natura, possiamo suddividere nel seguente modo i filosofi “presofisti”:
- I filosofi ionici di Mileto: Talete, Anassimandro, Anassimene.
- Eraclito
- Pitagora e i pitagorici.
- I filosofi eleatici: Senofane, Parmenide, Zenone, Melisso.
- I “fisici” pluralisti: Empedocle, Anassagora, Democrito.
3 – I filosofi ionici di Mileto
Nel precedente capitolo (“Dal mito al logos”) si è visto come il tipo di organizzazione socio-economica e politica affermatasi inizialmente nelle città costiere della Ionia (Mileto, Efeso, Colofone, Clazomene, Samo) abbia trasformato e plasmato, al tempo stesso, un nuovo modo di pensare e di affrontare i problemi, non solo quelli pratici, ma anche quelli di natura teoretica.
Questo nuovo modo di pensare è stato sinteticamente definito con il termine logos che, derivato etimologicamente da légo = raccogliere, implicava quasi sempre un duplice significato. Da un lato significava mettere insieme (raccogliere) le parole in modo da costruire un discorso dotato di senso, quindi razionale, coerente, non contraddittorio. Dall’altro lato logos è anche la legge universale che lega insieme tutto ciò che accade, legge razionale che governa l’universo, al di là dell’apparente disordine e accidentalità dei fenomeni che ci circondano.
Le prime testimonianze scritte di questo nuovo modo di pensare il mondo si riferiscono ad un gruppo di filosofi nati e attivi a Mileto, colonia greca dell’Asia Minore, all’inizio del VI secolo a. C.
Il primo pensatore di questa scuola filosofica, secondo le testimonianze, fu Talete, “ingegnoso nelle tecniche” (secondo la definizione di Platone). Nato a Mileto, probabilmente intorno al 624 a.C., oltre a essere considerato uno dei Sette Savi dell’antichità, la tradizione gli attribuisce gesta leggendarie:
l’esatta predizione di un’eclissi totale di sole (probabilmente quella del 28 maggio del 585 che interruppe una battaglia tra Lidi e Medi); il calcolo della distanza delle navi in mare con un metodo che anticipava il teorema di Pitagora; il calcolo dell’altezza delle piramidi egiziane attraverso la misura dell’ombra. Ingegnose furono anche alcune applicazioni tecniche che egli fece del suo sapere teorico: avrebbe deviato il corso di un fiume per permettere il passaggio dell’esercito di Creso e, in base a previsioni meteorologiche di un’annata favorevole al raccolto di olive, si sarebbe arricchito facendo incetta di frantoi per poi rivenderli a prezzi di monopolio.
Questi episodi leggendari sono sintomatici di un atteggiamento completamente nuovo, improntato a “razionalità” e “dominio”, nei confronti della natura, un atteggiamento che non ha uguali nel mondo contemporaneo a Talete. Egli rappresenta una svolta nella storia del pensiero, incarnando in modo emblematico l’origine di tutta la successiva cultura filosofica e scientifica occidentale.
Di ciò parve consapevole lo stesso Aristotele quando, nella Metafisica, ricostruisce la ricerca che i primi “fisici” fecero del principio di tutte le cose o arché:
<<Ci dev’essere una qualche sostanza, o una più di una, da cui le altre cose vengono all’esistenza, mentre essa permane. Ma riguardo al numero e alla forma di tale principio non dicono tutti lo stesso: Talete, il fondatore di tale forma di filosofia, dice che è l’acqua (e perciò sosteneva che anche la terra è sull’acqua): egli ha tratto forse tale supposizione vedendo che il nutrimento di tutte le cose è umido, che il caldo stesso deriva da questa e di questa vive (e ciò da cui le cose derivano è il loro principio): di qui, dunque egli ha tratto tale supposizione e dal fatto che i semi di tutte le cose hanno natura umida – e l’acqua è il principio naturale delle cose umide. Ci sono alcuni secondo i quali anche gli antichissimi, molto anteriori all’attuale generazione e che per primi teologizzarono, ebbero le stesse idee sulla natura: infatti cantarono che Oceano e Tetide sono gli autori della generazione [delle cose]… Se dunque questa visione della natura sia in verità antica e primitiva potrebbe essere dubbio, ma Talete senz’altro si dice che abbia descritto la prima causa in questo modo>> .
In questo brano della Metafisica Aristotele coglie l’essenza del mutamento di paradigma operato da Talete nel pensiero occidentale: dalla divinizzazione antropomorfica dei grandi fenomeni della natura, alla razionalizzazione (anche se ancora “ingenua”) dell’osservazione della natura.
Infatti, anche Omero, nell’Iliade, aveva in
qualche modo posto l’acqua a principio di
tutto, ma essa ci appariva nelle sembianze
divine e antropomorfe di Oceano e Teti,
progenitori degli dèi:
<<Vado a vedere i confini della terra feconda,
l’Oceano, principio dei numi, e la madre Teti,
che nelle case loro mi nutrirono e crebbero>>
Talete, chiamando semplicemente acqua
il principio di tutte le cose, designa una
sostanza empiricamente constatabile da
tutti e si impegna anche nella ricerca delle
argomentazioni più adatte per sostenere
la sua tesi (come abbiamo potuto vedere
nel brano di Aristotele sopra riportato:
“…egli ha tratto forse tale supposizione
vedendo che il nutrimento di tutte le cose
è umido…”, ecc.).
Dalla testimonianza di Aristotele non si evidenzia la forza immanente all’acqua che dovrebbe presiedere alle sue trasformazioni, mentre la troviamo in un altro filosofo di Mileto, più giovane di Talete, Anassimandro. Nato probabilmente nel 610 a.C., fu il primo autore di scritti filosofici in Grecia, prese parte attivamente alla vita politica della città, occupandosi sia di problemi teorici (studiò l’intera gamma delle scienze naturali allora esistenti), sia di problemi pratici (la fondazione di una colonia). E’ significativo il fatto che, essendo Mileto una polis marinara, aperta agli scambi commerciali e alla creazione di colonie, Anassimandro elaborò la prima carta geografica del mondo che si conosca.
Per quanto riguarda l’arché, questo filosofo non individua il principio in una sostanza empirica come l’acqua (di Talete) o l’aria (del successore Anassimene), bensì in un concetto astratto, l’apeiron, che, etimologicamente, corrisponde ad una materia indeterminata, indefinita e infinita. Da questa massa indifferenziata primordiale, attraverso un processo di determinazioni successive si sono formati gli elementi (acqua, aria, terra , fuoco) e le cose di cui è costituito il mondo della nostra esperienza quotidiana.
Secondo la testimonianza di Simplicio (l’antico commentatore di Aristotele):
<<Tra quanti affermano che [il principio] è uno, in movimento e infinito, Anassimandro, figlio di Prassiade, milesio, successore e discepolo di Talete, ha detto che principio ed elemento degli esseri è l’infinito, avendo introdotto per primo questo nome del principio. E dice che il principio non è né l’acqua né un altro dei cosiddetti elementi, ma un’altra natura infinita, dalla quale tutti i cieli provengono e i mondi che in essi esistono: “da dove infatti gli esseri hanno l’origine, ivi hanno anche la distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”…..
E’ chiaro che, avendo osservato il reciproco mutamento dei quattro elementi, ritenne giusto di non porre nessuno come sostrato, ma qualcos’altro oltre questi. Secondo lui, quindi, la nascita delle cose avviene non in seguito ad alterazione dell’elemento, ma per distacco dei contrari [dall’infinito] a causa dell’eterno movimento>> .
Dal brano di Simplicio ricaviamo, in primo luogo, l’informazione che Anassimandro fu il primo ad usare il termine arché (principio) per indicare la sostanza primordiale.
In secondo luogo, dall’oscura citazione letterale della celebre frase di Anassimandro (che è quanto ci resta della sua opera), intuiamo una visione ciclica del divenire cosmico: tutti gli esseri hanno origine dall’apeiron e tutti, “secondo l’ordine del tempo”, si dissolveranno nell’apeiron, per poi rigenerarsi in un nuovo ciclo cosmico.
In terzo luogo si fa accenno a quella che potrebbe essere la legge immanente all’apeiron che presiede alla formazione di tutte le cose: il processo di separazione dei contrari. La sostanza infinita è animata da un eterno movimento, in virtù del quale si staccano da essa i contrari (caldo/freddo, asciutto/umido, ecc.) dai quali si formano infiniti mondi che si succedono secondo un ciclo eterno.
Infine, troviamo la spiegazione della scelta del filosofo di non utilizzare come arché nessuno dei quattro elementi sensibili (aria, acqua, terra, fuoco), ma di far ricorso al concetto di apeiron (dal greco: a-, “non”, e péras, “limite”). Infatti, i quattro elementi sono palesemente soggetti alla reciproca trasformazione, ovvero ai passaggi di stato fisico, per cui risultano poco adatti a fungere da principio eterno di tutte le cose. Come ci testimonia l’esperienza quotidiana, e come teorizzerà più tardi il filosofo Eraclito, la vita è un continuo susseguirsi di fenomeni contrari e diversi: se uno di essi si affermasse definitivamente rispetto agli altri, cesserebbe la vita stessa, che è appunto divenire e trasformazione; ma ciò è assurdo, quindi bisogna ammettere che nessun elemento particolare può essere principio di tutti gli altri.
Invece il concetto di apeiron, nella sua ambiguità semantica, o meglio, nella sua duplicità di significato (infinito, illimitato, ma anche indefinito, indeterminato) può assurgere a fondamento di tutte le cose determinate. Infatti, così come il triangolo rettangolo è una determinazione del concetto di triangolo, solo da ciò che è massimamente indeterminato (indistinto, totalmente privo di attributi) possono nascere tutte le determinazioni e le specificazioni; mentre ciò che è già determinato (come l’acqua, per esempio) presuppone sempre qualcos’altro a partire da cui si determina, e solo questo qualcos’altro potrà fungere da principio! E’ per questo motivo che l’apeiron non va concepito come una miscela dei quattro elementi, ciascuno dei quali conservi le proprie specifiche qualità, ma come una materia eterna e indistruttibile, in cui gli elementi non sono ancora distinti, e che si distingueranno solo grazie alla legge della separazione dei contrari.
IMMANENTISMO E RAZIONALISMO
Anassimandro è anche l’ideatore di un’ipotesi generale sull’origine della vita sulla terra e, quindi, dell’uomo. Dal fango riscaldato dal sole sarebbero sorte le primissime forme di vita, sviluppatesi successivamente in un ambiente acquatico. Dalla trasformazione dei pesci, adattatisi a vivere sulla terra, sarebbero infine derivati gli uomini. Questi, infatti, non potendo nutrirsi da sé, se fossero nati la prima volta come nascono ora, sarebbero nati originariamente dentro i pesci e, solo dopo aver imparato a sopravvivere da soli, furono gettati sulla terra, dove presero stabile dimora.
Il valore filosofico-scientifico di questa ingenua e fantasiosa ipotesi pre-darwiniana sta nell’atteggiamento razionalistico per cui la natura viene spiegata solo attraverso la natura, quindi da un punto di vista immanentistico, ovvero senza ricorrere all’intervento di divinità trascendenti soprannaturali.
Questo atteggiamento prosegue anche nell’ultimo dei grandi filosofi “fisici” di Mileto: Anassimene, vissuto tra il 586 e il 525 a.C.
Di circa una generazione più giovane di Anassimandro, si occupò di meteorologia e astronomia e scrisse, come il suo predecessore, un’opera in prosa, cui fu successivamente apposto il titolo Sulla natura, di cui ci è rimasto un solo frammento. Da questo frammento, e da altre testimonianze (Plutarco, Ippolito), sappiamo che per Anassimene l’arché è l’aria, chiamato anche soffio vitale (o pneuma):
<<Anassimene, figlio di Euristrato, milesio, fu amico di Anassimandro. Anch’egli dice che una è la sostanza che fa da sostrato e infinita, come l’altro, ma non indeterminata come quello, bensì determinata – la chiama aria. L’aria differisce nelle sostanze per rarefazione e condensazione. Attenuandosi diventa fuoco, condensandosi vento, e poi nuvola, e, crescendo la condensazione, acqua e poi terra e poi pietre e il resto, poi, da queste. Anch’egli suppose eterno il movimento mediante il quale si ha la trasformazione>> .
Come si può notare da questa testimonianza, e da altre simili, il processo di razionalizzazione e l’osservazione della natura, nella scuola di Mileto, avevano raggiunto un alto grado di sviluppo: per spiegare il modo di agire della materia prima (aria) si adducono cause puramente “fisiche”, osservabili e immanenti, come la condensazione e la rarefazione, evidentemente ricavate dai fondamentali passaggi di stato dell’acqua.
L’aria o pneuma è anche il principio dell’anima nell’organismo umano che, paragonato all’organismo dell’intero universo, fa interpretare anche quest’ultimo come un immenso animale che respira; tesi che avrà una certa fortuna nella storia del pensiero, a partire da Platone.
L’aria, anche se può apparire come un ritorno ad un elemento determinato, probabilmente, nelle intenzioni di Anassimene, doveva costituire un perfezionamento della teoria di Anassimandro che ipotizzava un eterno movimento nell’arché, da cui si originavano tutte le cose per differenziazione. Ora l’aria, pur essendo una sostanza determinata, è percettivamente indeterminata e possiede in sé un movimento (di rarefazione/condensazione) cui corrispondono proprio i primi due opposti di Anassimandro, il caldo e il freddo. Se ha lo svantaggio teoretico di essere già determinata, l’aria, ha però il vantaggio scientifico di essere “fisicamente” osservabile, eliminando ulteriormente dalla natura qualsiasi ipotesi immaginaria o di carattere mitico.
Questo processo di razionalizzazione delle spiegazioni naturalistiche lo troviamo, infine, anche nella rielaborazione della carta della Terra di Anassimandro, ad opera di Ecateo di Mileto (550-480 a.C.) che migliora e completa, con l’impiego di schemi geometrici, la carta del maestro. Nella mappa terrestre circolare di Ecateo, con al centro proprio la città di Mileto in Asia minore, possiamo notare che il mitico titano Oceano (“principio dei numi” in Omero) è diventato semplicemente l’anello d’acqua che circonda e chiude le terre emerse.
Oceano, mosaico, Museo Archeologico di Antiochia, Turchia Ricostruzione della carta di Ecateo
4 – Eraclito
Due caratteristiche ricorrenti nell’idea di arché dei filosofi ionici erano l’eterno movimento della materia e la generazione delle cose tramite opposizione: si pensi al processo di separazione dei contrari dall’apeiron, secondo Anassimandro, e alla legge di condensazione/rarefazione dell’aria di Anassimene.
Eraclito di Efeso raccoglie e rielabora questi temi, legati alla problematica dell’arché, ad un maggior livello di consapevolezza filosofica e da un punto di vista di aristocratica superiorità nei confronti della moltitudine dei suoi contemporanei.
Infatti Eraclito, nato attorno al 540 a.C., da famiglia che, secondo tradizione, discendeva da antichi re, avversò l’avvento della democrazia in Efeso, vivendo appartato e sdegnoso, fino a conquistarsi l’appellativo di “solitario”. Egli espresse il suo pensiero con oracoli profondi, ma enigmatici, ispirati a quelli dell’Apollo di Delfi, e per questo i contemporanei lo definirono anche “l’oscuro”.
La tradizione narra che, malato, si rifiutò di lasciarsi curare da medici profani; scese nell’agorà di Efeso, si coprì di sterco e morì divorato dai cani.
Significativo del modo di pensare di Eraclito è un oscuro frammento, riferito ad un enigma subito da Omero, riportato da Giorgio Colli in La nascita della filosofia:
<<Rispetto alla conoscenza delle cose manifeste gli uomini vengono ingannati similmente a Omero, che fu il più sapiente tra tutti quanti i Greci. Lo ingannarono infatti quei giovani che avevano schiacciato pidocchi, quando gli dissero: “quello che abbiamo visto e preso, lo lasciamo; quello che non abbiamo visto né preso, lo portiamo”>> .
Secondo la tradizione, l’enigma che Omero non riuscì a risolvere (e che, per lo scoramento, sarebbe stato addirittura causa della sua morte) venne formulato da giovani pescatori che, non avendo pescato nulla, si stavano spidocchiando.
E’ chiaro che la soluzione superficiale dell’enigma sta nei pidocchi che, “visti e presi” vengono lasciati, mentre “non visti né presi” vengono portati con sé; ma Eraclito intravede nel celebre enigma uno strato più profondo, un enigma nell’enigma, che richiede un’altra soluzione, diversa dai pidocchi.
4.1 – Apparenza e realtà: il pathos del nascosto
Scomponendo e riformulando l’enigma in due parti, la prima parte suonerebbe così: <<le cose manifeste che abbiamo preso, le lasciamo>>. Che significato può avere una simile espressione?
Se, come suggerisce Grigio Colli, la colleghiamo a frammenti come <<morte è tutto ciò che vediamo da svegli>>, oppure <<il sole ha la larghezza di un piede umano>>, si comprende come il Filosofo stia alludendo alla illusorietà della semplice apprensione sensibile: tutte le cose che appaiono fuori di noi (<<le cose manifeste che abbiamo preso>>) ci traggono in inganno e suscitano l’illusione di essere reali, soprattutto perché noi le immaginiamo come permanenti. Eraclito non critica tanto le sensazioni (che, di per sé, sono incolpevoli), bensì il fatto che la maggioranza degli uomini (“i più” o “dormienti”) tendono a trasformare l’apprensione sensibile in qualcosa di stabile, di esistente fuori di noi. L’esperienza dei sensi noi l’afferriamo istantaneamente e poi la lasciamo cadere, se vogliamo fissarla, inchiodarla, la falsifichiamo .
La seconda parte dell’enigma invece, nella trasposizione eraclitea, potrebbe essere riformulata nel seguente modo: <<le cose nascoste che non abbiamo visto né preso, le portiamo>>.
Lo scioglimento di questa seconda parte dell’enigma passa
attraverso l’esplicitazione di due temi essenziali del pensiero
di Eraclito:
1) il pathos del nascosto, ovvero la tendenza a considerare
il fondamento ultimo del mondo come qualcosa di celato, di
accessibile solo ai pochi “svegli”, ossia ai filosofi, che non
si accontentano di uno sguardo superficiale sulle cose, ma
ne cercano il nocciolo segreto: <<la natura primordiale ama
nascondersi>>…. <<l’armonia nascosta è più forte di quella
manifesta>>.
2) La preminenza dell’interiorità rispetto all’illusione del
mondo esterno. “In parecchi frammenti Eraclito sembra
addirittura porre l’anima come principio supremo del
mondo, e Aristotele conferma questa interpretazione.
Tale sembra essere l’allusione del celebre frammento
<< ho indagato me stesso >>, più esplicitamente dice
Eraclito: << i confini dell’anima, camminando, non potrai
trovarli, pur percorrendo ogni strada: così profonda è la sua
espressione >>, e inoltre: << all’anima appartiene
un’espressione che accresce se stessa >> .
Fondendo i due temi in un’unica visione fondamentale (ciò
che è profondo, nascosto ai sensi, può essere accessibile
all’anima), possiamo sciogliere la seconda parte della
formulazione dell’enigma omerico: l’anima, il nascosto, la
sapienza, sono ciò che non vediamo né prendiamo, ma
portiamo dentro di noi; solo la nascosta interiorità permane,
mentre tutte le apprensioni sensibili sono transeunti.
In prima sintesi possiamo dire che Eraclito contrappone la
filosofia al senso comune della maggioranza degli uomini;
questi ultimi, credendo alla realtà e alla stabilità delle loro
opinioni, è come se vivessero continuamente in un sogno
illusorio, incapaci di comprendere il funzionamento del
mondo che li circonda:
<<…agli altri uomini rimane celato ciò che fanno da svegli, allo stesso modo che non sono coscienti di ciò che fanno dormendo…..
Assomigliano a sordi coloro che, anche dopo aver ascoltato, non comprendono; di loro il proverbio testimonia: “Presenti, essi sono assenti” >> .
Invece i filosofi non si fermano alle apparenze immediate, ma riflettono, pensano sia in profondità che in ampiezza, cercando di cogliere i nessi non immediatamente visibili che legano le cose tra loro, riconducendole ad una superiore unità e verità:
<<Un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione per la quale tutto è governato attraverso tutto…..
…..unico e comune è il mondo per coloro che son desti, mentre nel sonno ciascuno si rinchiude in un mondo suo proprio e particolare>> .
Ma, finalmente, cosa scopre il filosofo Eraclito (lo “sveglio”), l’indagatore di se stesso? Che cosa ci rivela la sua visione profonda e, al tempo stesso, complessiva dell’essere?
4.2 – Il “divenire” nell’unità dei contrari
Innanzitutto, se non ci fermiamo alle apparenze immediate dei sensi, ma collochiamo i fenomeni in un contesto temporale più ampio e ne cogliamo le reciproche relazioni, ci accorgiamo che “tutto scorre” (pànta réi), ovvero che ogni cosa “è”, in quanto “diviene”, ogni fenomeno è soggetto al “divenire”, sia nel senso del movimento che del continuo mutamento:
<<Negli stessi fiumi scendiamo e non scendiamo, siamo e non siamo…
Nello stesso fiume non è possibile scendere due volte>> .
Il divenire inesauribile delle cose (come lo scorrere dei fiumi) impedisce che sia possibile ripetere più di una volta la medesima esperienza; non solo, ma se anche fosse ferma l’acqua, saremmo, di volta in volta, diversi noi che, come ogni altra sostanza mortale, non ci presentiamo mai due volte nello stesso stato.
Mentre “i più” credono che alcune cose siano ferme e immutabili (per esempio questo sasso vedo davanti ai miei occhi) il filosofo comprende che anche ciò che appare statico in realtà è dinamico (questo sasso levigato dal fiume prima era un pezzo di roccia, staccatosi dalla montagna, caduto nel torrente, e poi sarà un granello di sabbia in riva al mare).
Eraclito però non si limita ad enunciare una teoria ricavabile dall’esperienza quotidiana, anche se la maggioranza degli uomini non compie neppure questo semplice distacco dal “qui ed ora”, ma ne enuncia la legge immanente che la sottende: la legge dell’opposizione di tutte le cose, nella loro inscindibile unità, ovvero la legge dell’unità dei contrari.
Anche Anassimandro aveva individuato nel processo di separazione dei contrari dall’apeiron la legge dell’eterno divenire delle cose; ma nel filosofo di Mileto l’opposizione dei contrari (caldo/freddo, secco/umido…) comportava, anche se in modo oscuro ed enigmatico, un’ingiustizia nei confronti dell’arché, dovendone infatti pagare “l’uno all’altro la pena e l’espiazione…secondo l’ordine del tempo”, avendo infatti nell’apeiron “distruzione secondo necessità” al termine del ciclo cosmico.
Eraclito invece concepisce la lotta dei contrari come l’essenza stessa della vita:
<<Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose, di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi e gli altri liberi.
Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù.
Immortali mortali, mortali immortali, viventi la loro morte e morienti la loro vita…
La stessa cosa sono il vivente e il morto, lo sveglio e il dormiente, il giovane e il vecchio: questi infatti mutando son quelli e quelli di nuovo mutando son questi>> .
L’ultimo frammento è particolarmente importante poiché ben evidenzia il legame tra la dialettica degli opposti e il divenire: <<la pace nasce dalla guerra, la guerra dalla pace, si riscaldano le cose fredde e si raffreddano quelle calde. Anzi, nel divenire, tanto il contrasto e l’opposizione delle cose, quanto l’unità degli opposti si presentano nel modo più manifesto: basta che qualcosa si realizzi, ad esempio la gioventù, che subito il suo contrario la raggiunge e la gioventù precipita nella vecchiaia e vi si identifica. Nel divenire ogni cosa diventa il suo contrario, e in ciò è l’espressione visibile di quell’”armonia nascosta” in cui consiste il Dio come unità degli opposti>> .
Eraclito, infatti, identifica panteisticamente Dio con l’Universo, un Dio-Tutto, concepito come l’unità di tutti i contrari:
<<Il dio è giorno-notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame, e muta come < il fuoco >, quando si mescola ai profumi e prende nome dall’aroma di ognuno di essi…
Per la divinità tutte le cose sono belle, buone e giuste; gli uomini invece alcune cose ritengono ingiuste ed altre giuste…
Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira>> .
Ancora una volta ci rendiamo conto di come lo sguardo profondo del filosofo si discosti dal senso comune. Infatti, mentre la moltitudine degli uomini ritengono ed auspicano che un opposto possa vivere senza l’altro (ad esempio, il bene senza il male, la salute senza la malattia, la vita senza la morte...), la teoria del divenire e la legge dell’unità dei contrari che la sottende, ci dimostrano quanto sia illusoria tale credenza. Metaforicamente parlando, è come se gli uomini, per avere solo strade in discesa, eliminassero tutte le salite, ottenendo come risultato un mondo piatto, immagine della quieta morte dell’universo.
È necessario quindi che gli uomini non si fermino a considerare i singoli aspetti della realtà, approvandoli o respingendoli secondo il loro particolare tornaconto, ma che, elevandosi così una visione complessiva, comprendano la complementarità di tutti i contrari.
4.3 – Il Fuoco o Logos
La visione complessiva della realtà, come incessante divenire di tutti i contrari, è resa possibile dal Logos, un termine che in Eraclito ha un valore polisemico. Esso significa sia la legge del pensiero o discorso razionale (derivando etimologicamente da légo: legare insieme le parole in modo da formare un discorso dotato di senso); sia la legge universale che governa il mondo attraverso la complementarità dei contrari; sia il principio fisico che costituisce tutte le cose, denominato indifferentemente Fuoco o Logos.
Probabilmente la scelta del fuoco come arché ha più un valore
simbolico che sostanziale. Anche se Eraclito si sofferma ad
indicare il processo fisico della trasformazione di tutte le cose
dal fuoco, secondo un processo di condensazione (la “via all’in
giù”) e di rarefazione (la “via all’in su”), simile a quello dell’aria
di Anassimene, è evidente che il fuoco, rappresentando
l’elemento distruttore per eccellenza, simboleggia
perfettamente la continua metamorfosi delle cose, costituendo
l’essere come divenire.
L’aspetto filosoficamente più importante del principio, quindi,
non è tanto il suo essere Fuoco, quanto il suo essere Logos:
<<Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno intelligenza,
sia prima di averlo ascoltato sia subito dopo averlo ascoltato; benché
infatti tutte le cose accadono secondo questo logos, essi assomigliano
a persone inesperte, pur provandosi in parole e in opere tali quali sono
quelle che io spiego, distinguendo secondo natura ciascuna cosa e
dicendo com’è…
Quest’ordine universale, che è lo stesso per tutti, non lo fece alcuno
tra gli dèi o tra gli uomini, ma sempre era è e sarà fuoco sempre
vivente, che si accende e si spegne secondo giusta misura…
Un’unica cosa è la saggezza, comprendere la ragione [logos] per la
quale tutto è governato attraverso tutto.
Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via,
tu potrai mai trovare i confini dell’anima: così profondo è il suo logos.
Ascoltando non me, ma il logos, è saggio convenire che tutto è uno>>
Con “tutto è uno” Eraclito sostiene con forza il principio che ha
guidato la filosofia ionica fin dall’inizio, ovvero l’identità della
diversità, in una nuova prospettiva.
Tutte le cose sono uno, non solo perché costituite e trasformate
dalla stessa sostanza (il “fuoco”), ma soprattutto perché in ogni
cosa è identica la legge immanente della “contesa” che presiede
tutte le generazioni o mutamenti dei fenomeni.
In ogni manifestazione fenomenica, anche se apparentemente irrazionale, è sempre presente lo stesso Logos, comprendendo il quale si comprende l’essere, ovvero il divenire.
5 – Pitagora e il “pitagorismo”
Nato a Samo, un’isola della Ionia vicino alla costa tra Mileto ed Efeso, attorno al 570 a.C., Pitagora è un filosofo per gran parte avvolto nel mistero. Legato, come Eraclito, alla tradizione aristocratico-sacerdotale, nel 530 si trasferì a Crotone (nella Magna Grecia) per ostilità al governo del tiranno Policrate che conduceva una politica avversa all’aristocrazia terriera.
A Crotone fondò una setta iniziatica di
Ispirazione mistico-religiosa che era, al tempo
stesso un centro di studi matematici (una
numerologia con valore metafisico e morale) e un
centro di potere politico ad indirizzo ultraconservatore
(ne è testimonianza la distruzione della democratica
Sibari, nel 510, voluta da Pitagora e giustificata come
Una sorta di “guerra santa” contro l’immoralità dei
sibariti). Attorno al 500 una rivolta democratica
cacciò i pitagorici da Crotone e Pitagora fuggì,
forse, a Metaponto dove, si narra, si lasciò morire
di fame nel tempio delle Muse.
Altri pitagorici fondarono nuove comunità, come
quelle di Archita a Taranto e di Filolao a Tebe,
dando vita al cosiddetto “secondo pitagorismo”;
ma, dai frammenti rimastici noi, come accadeva già
ad Aristotele (che nella Metafisica parla in generale
dei “cosiddetti pitagorici”) non siamo in grado di
distinguere nettamente i due periodi della scuola,
così come non sappiamo quasi nulla della dottrina
direttamente insegnata da Pitagora. Incertezze e mistero dovute a diverse ragioni: al fatto che probabilmente Pitagora non scrisse nulla; alla religiosa segretezza che circondava la sua dottrine, che venivano tramandate oralmente e non dovevano essere note all’esterno della setta; all’aura sacrale che ben presto, ancor vivo, circondò la sua persona, attorno alla quale fiorirono numerose leggende.
La tesi che unanimemente gli viene attribuita (ma che, per la verità, è tipica anche dell’orfismo) è quella della metempsicosi, ovvero della trasmigrazione delle anime dopo la morte e della loro reincarnazione, fino alla completa liberazione dai corpi ottenuta grazie alle pratiche purificatrici trasmesse da Pitagora. Egli stesso si diceva discendente dal dio Apollo, attraverso successive reincarnazioni della sua anima!
La purificazione comportava diversi gradi spirituali dei quali faceva parte la “scienza” pitagorica del numero, chiamata, secondo varie testimonianze, per la prima volta da Pitagora “filosofia”.
5.1 – Il numero come arché
La tesi centrale di tutto il pitagorismo è che il numero sia la sostanza delle cose. Così Aristotele, nella Metafisica, ci spiega la teoria dei “cosiddetti pitagorici”:
<<Essi per primi si applicarono alle matematiche e le fecero progredire e, nutriti delle medesime, credettero che i principi di queste fossero principi di tutti gli esseri. E, poiché nelle matematiche i numeri sono per loro natura i principi primi, e appunto nei numeri essi ritenevano di vedere, più che nel fuoco, nella terra e nell’acqua, molte somiglianze con le cose che sono e che si generano… e inoltre, poiché vedevano che le note e gli accordi musicali consistevano nei numeri; e, infine, poiché tutte le altre cose, in tutta la realtà, pareva a loro che fossero fatte a immagine dei numeri e che i numeri fossero ciò che è primo in tutta quanta la realtà, pensarono che gli elementi dei numeri fossero gli elementi di tutte le cose, e che tutto quanto il cielo fosse armonia e numero. E tutte le concordanze che riuscivano a mostrare fra i numeri e gli accordi musicali e i fenomeni e le parti del cielo e l’intero ordinamento dell’universo, essi le raccoglievano e le sistemavano. E se qualche cosa mancava, essi si ingegnavano a introdurla, in modo da rendere la loro trattazione in tutto coerente>> .
Dal testo aristotelico si evince, innanzitutto, uno strettissimo rapporto tra i numeri, l’ordine e l’armonia. Come abbiamo già visto in Eraclito, per il quale l’arché, prima di essere materia (fuoco) era la forma contraddittoria della realtà (lotta dei contrari), anche nel pitagorismo il numero non è primariamente “sostanza” in quanto “materia” delle cose, ma fondamentalmente in quanto ordine aritmeticamente e geometricamente misurabile dei fenomeni e della realtà in generale.
Aristotele ci suggerisce anche quali tipi di esperienze hanno probabilmente portato i pitagorici ad elaborare la loro teoria del “matematismo” universale:
- le osservazioni e le conoscenze astronomiche (ereditate soprattutto dall’astronomia babilonese) che offrivano lo spettacolo dei moti regolari, ordinati e immutabili dei corpi celesti che, in quanto tali, risultavano perfettamente misurabili e quindi traducibili in numeri, i quali finivano per rappresentare l’intelligibilità dei fenomeni presi in considerazione (1 giorno per l’alternarsi del dì e della notte, 365 giorni per l’anno solare, 3 mesi per ogni cambio di stagione, 28 giorni per le fasi lunari, ecc.);
- gli studi sull’armonia musicale (arte apollinea per eccellenza) che portarono i pitagorici a scoprire una relazione costante (e quindi misurabile) tra la lunghezza delle corde della lira e gli accordi fondamentali: 1:2 per l’ottava, 3:2 per la quinta, 4:3 per la quarta.
La coincidenza, affascinante in sé, ma che colpì soprattutto i pitagorici, è che quelle relazioni
armoniche comprendevano tutti e solo i primi quattro numeri naturali (1, 2, 3, 4) la cui somma dava il numero 10, considerato sacro presso il tempio di Apollo a Delfi e rappresentato dalla seguente figura “perfetta” (la sacra tetraktýs):
.
. .
. . .
. . . .
Questo modo di rappresentare il numero 10 (un triangolo fatto di punti, che ha quattro unità per ogni lato) è rivelativo del principio pitagorico per cui “tutte le cose sono numeri” anche in un altro senso, rispetto all’idea generale per cui tutto è misurabile.
Infatti i pitagorici, non distinguendo ancora tra aritmetica e geometria, concepivano l’unità come
un punto geometrico che, a sua volta, veniva
concepito in termini reali e, quindi, come un
punto materiale, che essi rappresentavano
simbolicamente con un sassolino, in modo tale da
formare la serie dei numeri in modo “geometrico”,
attraverso la combinazione di unità concrete.
In questa aritmo-geometria pitagorica, il numero 1
rappresenta il punto (e viceversa); il numero 2 due
punti e quindi la linea; il numero 3 il triangolo, quindi
la superficie; infine il numero 4 la piramide che, a sua volta, rappresenta la genesi di tutti i corpi solidi:
Fu Filolao (originario della Magna Grecia, fuggito in Grecia dopo la rivolta democratica del 454 a.C., attivo in Tebe fino alla fine del V secolo, tra i primi pitagorici a mettere per iscritto le dottrine della setta) ad elaborare in modo definitivo la suddetta teoria dei numeri - punti - figure geometriche, costruendo quello che Mari Vegetti chiama il modello “cristallografico” della generazione dei corpi fisici a partire dall’unità .
Filolao giunse anche, coerentemente, a spiegare la differenza fra gli elementi naturali (aria, acqua, terra, fuoco) con la diversa forma geometrica delle particelle di materia di cui sarebbero composti, una concezione che ritroveremo ancora nella storia del pensiero filosofico e scientifico, a partire da Democrito, lo “scopritore” degli atomi.
Si noti inoltre che, come era già accaduto per gli accordi musicali, ancora una volta vengono impiegati i primi quattro numeri naturali, la cui somma dà il “sacro” numero dieci:
<<Il dieci è <numero> perfetto; ed è conforme a ragione e a natura il fatto che noi Greci e gli altri uomini tutti, sempre, nel trattare i numeri, ci incontriamo spontaneamente in esso. Perché esclusivamente sue sono molte proprietà del
numero perfetto; e molte altre proprietà esso possiede che, se non sono esclusivamente sue, tuttavia il numero perfetto deve possedere… nel dieci sono compresi tutti i rapporti… ci sono inoltre i numeri lineari e quelli piani e quelli solidi, perché l’uno è punto, il due è linea, il tre è triangolo, il quattro piramide: e questi son tutti primi, e principi di ciascun numero dello stesso genere>> .
Questa visione matematica delle
cose e della realtà in generale
entrerà a costituire un aspetto
importante della grande filosofia
di Platone e del successivo
neoplatonismo, fino a costituire
il fondamento metafisico della
moderna concezione della natura,
in particolare della fisica di Galileo,
sia per quanto riguarda il modo di
indagare i fenomeni (il cosiddetto
“metodo sperimentale”), sia per la
concezione della stessa struttura
geometrica della realtà.
5.2 – La cosmologia pitagorica
La mistica del numero dieci ritorna anche nell’originalissima cosmologia pitagorica, anch’essa attribuibile quasi certamente a Filolao. Infatti, se riprendiamo un precedente passaggio della Metafisica di Aristotele, leggiamo che:
<<…se qualche cosa mancava, essi si ingegnavano a introdurla, in modo da rendere la loro trattazione in tutto coerente. Per esempio: siccome il numero dieci sembra essere perfetto e sembra comprendere in sé tutta la realtà dei numeri, essi affermavano che anche i corpi che si muovono nel cielo dovevano essere dieci; ma, dal momento che se ne vedono soltanto nove, , allora essi ne introducevano di conseguenza un decimo: l’Antiterra>> .
Secondo Filolao l’Antiterra non sarebbe osservabile perché antipode della Terra e di moto contrario ad essa, ma spiegherebbe le eclissi. L’aspetto comunque più importante di questa astronomia è certamente il fatto che i corpi celesti, compresa la Terra, ruotano attorno a un grande fuoco centrale (<<focolare del tutto e casa di Zeus>>) generatore e ordinatore del mondo sferico circostante.
Anche la Terra è sferica (e non più cilindrica, come sosteneva per esempio Anassimandro), assieme a tutti gli altri corpi celesti, poiché i pitagorici vedevano nella sfera la figura solida perfetta e armonica, essendo tutti suoi punti equidistanti dal centro.
Filolao è stato quindi il primo pensatore che, oltre ad aver teorizzato la sfericità terrestre, non ha posto la Terra al centro dell’universo, contrastando lo spontaneo geocentrismo dei suoi contemporanei e del senso comune.
Ricordandoci dell’importanza che ha avuto la musica nell’elaborazione della teoria pitagorica del numero come arché, è interessante notare anche che gli astri, nel loro moto rotatorio, produrrebbero un suono accordato secondo proporzioni perfette, generando un’armonia delle sfere celesti, non udibile dall’orecchio umano poiché il suono è ininterrotto.
5.3 – Limite (peras) e illimitato
Se “tutte le cose sono numeri”, ovvero se i numeri sono l’essenza della realtà, allora le proprietà dei numeri sono anche le proprietà delle cose. Ora i numeri si dividono in pari e dispari, un’opposizione fondamentale da cui dipendono tutte le opposizioni della realtà. Infatti ai numeri dispari viene attribuita la caratteristica positiva della finitezza, poiché l’unità che rimane dopo la divisione ne impedisce l’ulteriore divisione all’infinito. Ma ciò che è “finito” è bene e perfezione, poiché limitato, misurabile, calcolabile e, quindi, dotato di un principio d’ordine, commisurato alla mente umana; per contro il pari è “infinito”, illimitato, incommensurabile, quindi male e imperfezione.
Inoltre la vita del saggio è tutta dedita a far prevalere l’ordine e la misura nei confronti delle passioni e degli istinti corporei, sia nella vita individuale che in ambito politico, persuadendo con tutti mezzi i governati a rispettare i criteri d’ordine stabiliti dai governanti.
Come si vede, su questo punto il pitagorismo affronta, dalla sua particolare prospettiva matematizzante, la grande tematica dell’opposizione dei contrari già incontrata in Anassimandro e in Eraclito.
A questo proposito, sempre dalla Metafisica di Aristotele, leggiamo:
<<… costoro [i pitagorici] sembrano ritenere che il numero sia principio non solo come costitutivo materiale degli esseri, ma anche come costitutivo delle proprietà e degli stati dei medesimi. Essi pongono, poi, come elementi costitutivi del numero il pari e il dispari; di questi, il primo è illimitato, il secondo limitato. L’Uno deriva da entrambi questi elementi, perché è, insieme, e pari e dispari. Dall’Uno, poi, procede il numero; e i numeri, come s’è detto, costituirebbero tutto l’universo.
Altri pitagorici affermarono che i principi sono dieci, distinti in serie <di contrari>:
(1) limite-illimite,
(2) dispari-pari,
(3) uno-molteplice,
(4) destro-sinistro,
(5) maschio-femmina,
(6) fermo-mosso,
(7) retto-curvo,
(8) luce-tenebra,
(9) buono-cattivo,
(10) quadrato-rettangolo>> .
Come si può notare dal brano aristotelico, la coppia originaria degli opposti fondamentali (dispari = limite e pari = illimitato) costituisce l’essenza e il criterio di interpretazione di tutte le opposizioni della realtà.
Interpretazione che, se in alcuni casi ha una certa coerenza logica (ciò che è fermo e stabile è controllabile rispetto a ciò che è mosso e instabile; la luce è un bene per la vista, mentre la tenebra non lo è, ecc.), in altri casi funge solo da legittimazione ideologica di stereotipi sociali o convinzioni politiche: al maschio (culturalmente dominante) viene attribuita perfezione, mentre alla femmina imperfezione; la destra, parte più attiva del corpo per la maggioranza degli uomini, sarebbe un bene, mentre la sinistra un male; l’uno (l’unico legislatore o i pochi aristocratici) costituirebbe un principio d’ordine, mentre il molteplice (come la moltitudine del demos) sarebbe foriero di disordine e caos.
LA CRISI DEL PITAGORISMO
La metafisica dei pitagorici, ovvero la loro aritmo-geometria come criterio di interpretazione di tutta la realtà, entrò in crisi con la scoperta, dovuta agli stessi pitagorici, delle grandezze incommensurabili tra loro, come, per esempio, la diagonale e il lato del quadrato.
Se AB = 1 e BC = 1, per lo stesso teorema di Pitagora,
la diagonale AC (che è anche ipotenusa del triangolo ABC)
sarà 2 = 1,414213562…... all’infinito.
Questo significa che alcune grandezze geometriche,
rapportate tra loro danno come risultato un numero irrazionale.
La scoperta dei numeri irrazionali (che vanno all’infinito dopo la virgola), ovvero di numeri che esprimono grandezze tra loro non commensurabili, per un sistema filosofico-teologico che si fondava sulla misurabilità di tutta la realtà e, quindi, sulla finitudine e sull’ordine delle cose, rappresentava una sconfitta insanabile poiché la contraddizione dimorava nelle stesse fondamenta del sistema.
Infatti la scoperta fu ritenuta così pericolosa da essere tenuta nascosta per parecchio tempo, finché non fu svelata al di fuori della setta dal pitagorico Ippaso di Metaponto, che di conseguenza fu cacciato dalla scuola. Sull’episodio fiorirono leggende, alcune delle quali narrano che i pitagorici eressero una tomba a Ippaso, ancora in vita, come se fosse morto, e che Zeus stesso gli dette la morte, facendolo naufragare in mezzo al mare.
I PRIMI FILOSOFI E LA
RICERCA DELL’ARCHÉ
PAROLE CHIAVE
Ápeiron: etimologicamente “senza limiti”, ovvero indefinito, infinito, indeterminato. È il nome del principio da cui tutte le cose derivano, per separazione dei contrari, secondo il filosofo Anassimandro.
Archè: “principio” costitutivo di tutte le cose che contiene in sé una “forza”, la quale, agendo secondo una “legge” necessaria, presiede a tutte le trasformazioni nell’incessante divenire del mondo.
Aritmo-geometria: matematica pitagorica che non distingueva tra aritmetica e geometria, attribuendo ad ogni unità numerica un punto geometrico che, a sua volta, veniva concepito come un punto materiale in modo tale da formare la serie dei numeri in modo “geometrico”, attraverso la combinazione di unità concrete.
Dio-Tutto: unità di tutti i contrari: <<giorno-notte, inverno estate, guerra pace, sazietà fame…>>.
Divenire: incessante movimento e mutamento delle cose nel tempo (pànta réi = “tutto scorre”).
Fisiologi: “filosofi della natura” (dal greco physis = natura), come vengono chiamati i primi filosofi ionici, per il particolare tipo di interessi mostrati e di ricerche da essi condotte.
Ilozoismo: dal greco hýle (materia) e zóon (vivente): concezione della materia come dotata di una forza intrinseca che, agendo secondo una legge, presiede a tutte le trasformazioni della materia stessa, spiegandone così il divenire e la molteplicità.
Immanente: si dice di un principio interno, intrinseco, connaturato a ciò di cui si parla.
Nel caso dei primi filosofi ionici, per esempio, la Natura veniva spiegata solo attraverso la Natura, individuando in essa un principio unitario di ordine e razionalità, senza ricorrere ad interventi esterni di natura divina o, in qualche modo, soprannaturale.
Metempsicosi: nell’orfismo e nel pitagorismo, significa la trasmigrazione delle anime dopo la morte e la loro reincarnazione, fino alla completa liberazione dai corpi ottenuta grazie a pratiche purificatrici.
Monismo: dal greco mónos (unico): concezione del mondo per la quale alla base della multiforme e mutevole realtà naturale, vi è un unico principio che, in qualche modo, costituisce la sostanza di ogni cosa.
Numeri irrazionali: numeri che esprimono il rapporto tra grandezze che tra loro non sono commensurabili; ovvero grandezze per cui non è possibile trovare un numero finito di volte in cui l’una è compresa nell’altra, dando come risultato un numero che, dopo la virgola, va avanti all’infinito.
Trascendente: si dice di un principio “esterno” a ciò di cui si parla, ma da cui la cosa stessa dipende.
Tipico esempio di un principio trascendente è il Dio della Bibbia che agisce dall’esterno, e in modo “arbitrario” (creazione dal nulla), rispetto al mondo e all’uomo di cui è la causa e l’essenza.
I PRIMI FILOSOFI E LA
RICERCA DELL’ARCHÉ
BIBLIOGRAFIA UTILIZZATA
• Abbagnano-Fornero, La filosofia. Dalle origini ad Aristotele, Pearson Paravia Bruno Mondatori spa, 2009
• I Presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni e altri, Laterza, Bari, 1981
• I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Tr. Di R. Laurenti, Laterza, Roma-Bari, 1986
• Omero, Iliade, XIV, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1977
• Giorgio Colli, La nascita della filosofia, Adelphi, MI, 1985
• Emanuele Severino, Filosofia. Lo sviluppo storico e le fonti, Vol. 1, Sansoni, Firenze, 1991
• Aristotele, Metafisica, 985b-986a. Tr. it. di G. Reale, Rusconi, Milano, 1978
• Vegetti-Alessio-Fabietti-Papi, Filosofie e società, Parte prima, Zanichelli, BO, 1981
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