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Kant Immanuel 1724 - 1804
1. un proclama e un manifesto: il coraggio del sapere contro il pensiero servile; “sapere aude”
2. due nemici del coraggio di pensare: scetticismo, dogmatismo.
3. il coraggio delle scelte dalla scoperta della autonomia del soggetto in campo morale.
4. la ragione e la politica: per una società illuminata e cosmopolita
1. un proclama e un manifesto: il coraggio del sapere contro il pensiero servile; “sapere aude”
1.1. «il coraggio di far uso del proprio intelletto». L’illuminismo èl’età in cui l’uomo accetta il rischio del pensiero: Kant 1784 Che cos’è l’Illuminismo
«L’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’illuminismo.»
1.2. non età illuminata ma età illuministica (il carattere infinito del sapere)
«Se ora si domanda: — Viviamo noi attualmente in una età illuminata? — dobbiamo rispondere: — No, bensì in un’età di illuminismo —. Come stanno ora le cose, la condizione in base alla quale gli uomini presi in massa siano già in grado, o anche solo possano esser posti in grado di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida di altri, èancora molto lontana. Ma abbiamo evidenti segni che essi abbiano aperto il campo per lavorare a emanciparsi da tale stato e che gli ostacoli alla diffusione del generale illuminismo o all’uscita da una minorità a loro stessi imputabile diminuiscano a poco a poco.»
1.3. coraggio del sapere, logica servile, tutori del servaggio, guide al risveglio.
1.3.1. È il sapere ad essere oggetto del coraggio, non dunque un pensiero che procede in qualsiasi direzione voglia, senza guida e senza criteri nella convinzione di vivere ed esprimere così la propria libertà; ci si deve accorgere, se pur con difficoltà, che in tal modo si esprime aderendo a questa o quella opinione senza disporre di uno strumento proprio di controllo e di scelta. L’intera filosofia di Kant si presenta come una filosofia critica, preliminare; non è “illuminata” ma “illuministica”; non presenta sistemi di teorie specifiche già compattate in universi chiusi, ma è dedicata alla ricerca delle condizioni del buon uso delle facoltà del soggetto. Come dichiara Kant vuole rispondere a tre domande fondamentali: «Ogni interesse della mia ragione (così lo speculativo, come il pratico) si concentra sulle tre domande: che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare?». Si tratta di tre direzioni di indagine critica o delle tre “critiche” di tre “facoltà”: della ragione pura (o della conoscenza, Critica della ragion pura), della volontà (Critica della ragion pratica), del sentimento (Critica del giudizio). Un esame preliminare alla costruzione del sapere scientifico.
1.3.2. la logica dell’atteggiamento servile base per il successo di processi autoritari di sottomissione: «La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo fatti liberi da direzione estranea (naturaliter maiorennes), rimangono ciò nondimeno volentieri per l’intera vita minorenni, per cui riesce facile agli altri erigersi a loro tutori. Ed è così comodo essere minorenni! Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che ha coscienza per me, se ho un medico che decide per me sul regime che mi conviene ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione. A persuadere la grande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) che il passaggio allo stato di maggiorità è difficile e anche pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra i loro simili minorenni. Dopo di averli in un primo tempo istupiditi come fossero animali domestici e di avere con ogni cura impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dalla carrozzella da bambini in cui li hanno imprigionati, in un secondo tempo mostrano ad essi il pericolo che li minaccia qualora cercassero di camminare da soli.»
1.3.3. destinatari e guide dell’appello all’uso della ragione. Non è la massa indistinta di persone ad essere il destinatario primo dell’appello e del manifesto per una stagione di illuminismo, la massa infatti cade facile vittima di tutori che mirano a rendere gli uomini sudditi («quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra i loro simili minorenni»). L’appello, come l’elogio, è rivolto in prima destinazione ai regnanti che, ponendo limiti e garantendo la stabilità politica, l’ordine sociale, il rispetto della legge, creano le condizioni storiche in grado di promuovere il libero pensiero. «Un più alto grado di libertà civile sembra favorevole alla libertà dello spirito del popolo, ma pone però ad esso limiti invalicabili. Un grado minore di libertà civile, al contrario, offre allo spirito un campo in cui esso può svilupparsi in tutte le sue forze.»
E, alle spalle dei governanti, come guide di illuminismo, si collocano quei pochi che sono riusciti a sciogliersi dai «ceppi di una eterna minorità» (e sembra con evidenza tornare la scena della caverna platonica): «solo a pochi è venuto fatto con l’educazione del proprio spirito di sciogliersi dalla minorità e camminare poi con passo più sicuro.» Dunque «alcuni liberi pensatori». Si tratta dei philosophes. Sono loro a dare il volto sociale all’Illuminismo, con le loro libere e nuove riunioni, prima che con le loro opere: la conversazione colta dei salotti, caffè, circoli. Il philosophe, che vive di studio e di letture, esercita la sua professione non solo scrivendo articoli e cooperando come autore alla pubblicazione e circolazione di testi, ma anche con una partecipazione attiva al dibattito culturale nei numerosi circoli che sorgono nel XVIII secolo: i salotti dell’aristocrazia e dell’alta borghesia, spesso animati da importanti donne di cultura; i «pranzi dei lumi», gestiti da aristocratici e letterati a imitazione della corte del re, ma spesso critici nei confronti della monarchia e degli apparati feudali che tuttora la circondano; i ritrovi all’aperto dove amici si incontrano per discutere della cosa pubblica e conversare di filosofia; i «caffè», luoghi di riunione e discussione che si caratterizzano per l’attacco spregiudicato ai valori della tradizione, per la vivace e ironica polemica nei confronti delle manierate e intorpidite riunioni dei salotti; le società letterarie che si oppongono alle accademie e alle società culturali di stato; le redazioni tipografiche di giornali e periodici dove editori e autori si confrontano sulle scelte culturali, soprattutto a fronte degli ostacoli frapposti dalla censura politica; i foyers dei teatri dove si rappresentano testi di illuministi e si aprono le polemiche sull’estetica musicale e sulla funzione dell’arte. I salotti di Madame d’Epinay, di Madame Geoffrin, di Mademoiselle de Lespinasse, di Madame Necker si contendono la presenza di D’Alembert, Diderot, Helvétius, Galiani; dai dieci ai venti «uomini di lettere» si riuniscono, due volte la settimana, nella casa del barone D’Holbach e poi in quella di Helvétius, impegnati in dibattiti ritenuti meno salottieri e più produttivi di quelli che si svolgevano presso le dame; nei giardini antistanti il palazzo delle Tuileries, gli stessi filosofi si ritrovano in incontri spregiudicati, vivaci e critici («facevamo circolo - scrive uno di loro, Norellet, criticando l’atmosfera dei salotti - seduti ai piedi di un albero nel grande viale, abbandonandoci a una conversazione animata e libera come l’aria che respiravamo»); nei caffè parigini del Procope, della Régence, al Caveau del Palais Royal, dove l’accesso è libero, fuori dalla ritualità mondana, dalla manierata autocensura e dalla selezione propria dei salotti, i philosophes conversano e dibattono in piena autonomia e franchezza. In tutte queste aggregazioni domina l’arte della conversazione, presentata dagli illuministi non tanto come arte del competere e dell’emergere in società, ma come forma di argomentazione e discussione, strumento indispensabile per attuare il confronto tra diverse posizioni filosofiche, per accelerare la circolazione e la lettura delle opere, per avviare quei processi innovativi che essi teorizzano.
La massa compare come il dichiarato destinatario di questo fervente dibattere e conversare sui temi centrali del vivere comune, ma è anche avvertita come quel contesto in cui la forza del numero, abilmente dominato e tenuto in servitù dal potere politico non illuminato e non illuministico, può soffocare qualsiasi tentativo di rischiaramento della mente umana e qualsiasi promozione di autonomia e libertà critica.
1.3.4. Riprendendo (forse) Kant Simone Weil parlerebbe della «sostituzione della luce interiore che ci dovrebbe guidare nella ricerca universalistica della verità e della giustizia con il dogma custodito dall’istituzione a cui si chiede di "affidarsi" in toto, nell’impossibilità di controllarne personalmente ogni argomento. Come tale, favorisce il vizio e penalizza la virtù. Soprattutto quel vizio dell’ozio che nell’etica della Weil appare il vero peccato capitale: la tentazione, quasi irresistibile, della pigrizia del pensiero («Non c’è nulla di più comodo che non pensare»). Il piacere dell’affidamento a verità ufficiali, brandendo le quali ci si può confrontare con gli altri, distinguendo amici e nemici, ortodossi ed eretici, i "nostri" e i "loro", ognuno murato nelle proprie convinzioni stabilite, ognuno sollevato dalla fatica della ricerca e della contaminazione reciproca. Ognuno legittimato a sorvegliare e punire il dissidente, il solitario, il deviante.» (Weil Simone (1943) Senza Partito. Obbligo e diritto. Per una nuova pratica politica, Feltrinelli, Milano 2013, Premessa di Marco Revelli, 13) «Il movente del pensiero 34 non è più il desiderio incondizionato, ma non definito della verità, ma il desiderio della conformità a un insegnamento prestabilito.» (Weil Simone (1943) Senza Partito. Obbligo e diritto. Per una nuova pratica politica, Feltrinelli, Milano 2013, 34-35).
2. due nemici del coraggio di pensare: scetticismo, dogmatismo.
Il pensiero servile ha alleati e nutrici all’interno dello stesso dibattere, anche quello scientifico e filosofico. Il moltiplicarsi di teorie e di posizioni tra loro spesso contrastanti e in lotta genera le due contrastanti, ma gemellate, situazioni di dogmatismo dispotico, e scetticismo anarchico. Errori, confusioni e lotte senza fine sorgono quando la mente umana fa un uso indebito delle proprie facoltà, non indagandone a priori le possibilità e i limiti, cedendo a usi speculativi che non potranno trovare alcuna giustificazione né nelle forme della ragione, né nei dati dell’esperienza. L’uso indebito della ragione, gli insuccessi ai quali sono esposte, di conseguenza, la filosofia e la scienza, generano sfiducia, disaffezione e scetticismo nei confronti del pensiero, alimentano e giustificano la tendenza anti-illuministica dell’uomo che preferisce non pensare.
2.1. Dogmatici, scettici e la proposta di indagine critica. Nella Critica della ragion pura Kant delinea tre tappe storico-ideali nell’uso della ragione. Un primo passo «dogmatico» in cui la ragione, senza una critica preliminare delle proprie possibilità, si dedica allo studio degli oggetti convinta della sicura bontà dei suoi esiti; le divergenze tra le ipotesi metafisiche del mondo che ne derivano smentiscono tale pretesa. Il secondo passo è «scettico»: se lo scetticismo degli empiristi sveglia la ragione alla prudenza, inducendola a escludere qualsiasi principio che non derivi dall’esperienza, annulla pero la possibilità di costruire il sistema della natura che la ragione invece intende attuare. «Ma è ancora necessario un terzo passo — prosegue Kant — sottoporre ad esame non i fatti della ragione, ma la ragione stessa in tutta la sua potenza e capacità di conoscenze pure a priori: che non è censura, ma critica della ragione.» In quanto svolge un’indagine su di sé, indipendentemente da ogni esperienza, la ragione non può più proporsi di svelare il piano del mondo come accadeva nella convinzione razionalistica; questa consapevolezza non costituisce però uno smacco per la ragione, ma è la strada per sottrarla al lungo destino storico che l’ha resa fonte di illusioni e di lotte senza fine.
2.2. Dogmatismo e scetticismo sono tra loro agli estremi, ma li unisce la paura del pensare, la mancanza di coraggio e di libertà. Ostacoli sconfitti alla radice dal paziente studio delle possibilità e dei limiti della ragione nel campo della conoscenza, della volontà e del sentimento. In tale cammino si incontrano altri indicatori come concetti di metodo solitamente considerati anch’essi estremi, e quindi tra loro inconciliabili, ma in grado di segnare, con antinomie apparenti, il campo dell’indagine: possibilità e vincoli, limite e infinito, assoluto e contingenza.
2.2.1. Possibilità e vincoli (limiti): lo studio delle possibilità è l’esame, la scoperta e la presentazione delle forme della mente, forme a priori o trascendentali che diventano le sue condizioni di esperienza. Il quadro della forme produce la consapevolezza del modo specifico con cui l’uomo pensa, vuole e desidera e quindi diventa anche scoperta dei limiti della mente umana. Il limite e la possibilità si rimandano l’un l’altro: i limiti segnano il campo delle possibilità, del buon uso della mente, e lo definiscono con completezza, chiarezza, certezza. Il quadro sembra chiudersi nelle forme della chiarezza definitiva ma esso rende così possibile il procedere della ragione secondo fondatezza empirica e correttezza formale, strumenti di realizzazione del libero pensiero, un pensiero che risulti un pensare e non adattamento servile a tutori.
2.2.2. Vincoli (limiti) e infinito. Il tema delle forme e dei limiti, della chiusura e della possibilità, portato a definitiva chiarezza, completezza e certezza, pone di fronte all’idea di ciò che sta oltre il limite (razionale e naturale) e che si oppone alla mente per la sua inconoscibilità, superandola senza limiti, senza fine o confini, respingendola e ad un tempo attraendola: si tratta dell’infinito e del sentimento del sublime che accompagna la sua scoperta in campo estetico, razionale (matematico) e naturale. Si prenda il caso del “Passaggio dalla facoltà del giudizio del bello a quella del sublime”: « Ma saltano agli occhi anche delle differenze considerevoli. Il bello della natura riguarda la forma dell’oggetto, la quale consiste nella limitazione; il sublime invece, si può trovare anche in un oggetto privo di forma, in quanti implichi o provochi la rappresentazione dell’illimitatezza, pensata per di più nella sua totalità. […] Quindi il sublime non si può unire ad attrattive; e, poiché l’animo non è semplicemente attratto dall’oggetto, ma alternativamente attratto e respinto, il piacere del sublime non è tanto una gioia positiva, ma piuttosto contiene meraviglia e stima, cioè merita di essere chiamato un piacere negativo.» (Critica del giudizio, Laterza 91,92) E, nel breve saggio del 1794 La fine di tutte le cose, Kant esplicita la natura dell’infinito attraverso il sentimento che lo accompagna accostandolo al sublime e alla facoltà che ci permette di avvertirne in qualche modo la presenza e la natura: «E' un’idea terrorizzante e sublime, in parte per la sua oscurità, nella quale l'immaginazione è solita farsi più potente che nella chiara luce. Essa, infine, deve essere intrecciata in modo meraviglioso anche con l'universale ragione umana, perché si trova, sotto una veste od un’altra, in tutti i tempi, fra tutti i popoli che usano la ragione.» (Immanuel Kant 1794 La fine di tutte le cose, Traduzione dal tedesco di Giancarlo Conti e di Silvia Sandrini)
2.2.3. Assoluto e contingenza. La presentazione dell’apriori umano porta ad una filosofia trascendentale che rivendica per sé la completezza nel campo di ciò che le forme rendono possibile. L’esperienza del limite e il conseguente rimando a ciò che sta oltre il limite, pensato ma non percepito, mette di fronte, con attrazione e timore, alla contingenza del conoscere senza metterne in dubbio il carattere dell’assoluto quanto alla certezza, completezza e chiarezza del definire secondo conoscenza. La certezza che la conoscenza raggiunge quando si muove nel rispetto dell’esperienza e delle forme con cui può costituirla in oggetti determinati, sconfigge ogni possibile disprezzo della mente che può provenire da posizioni radicali dei dogmatici o degli scettici; essa tuttavia non può annullare, anzi fa ancor più emergere, il senso della contingenza del conoscere, agire, desiderare formalmente definiti. Anche e proprio nel definire, la mente rimanda ad un infinito e al sentimento del sublime che accompagna emotivamente quella esperienza: «un piacere negativo».
2.3. Filosofia critica o esposizione trascendentale della forme a priori della mente. Le forme della mente, le forme a priori, (il “formalismo” kantiano).
Critica della ragion pura: esposizione trascendentale delle forme a priori della mente. «…altro non è che l'inventario di tutto ciò che possediamo per mezzo della ragion pura, sistematicamente ordinato».
2.3.1. Il ricorrere di un termine, “trascendentale” e il vincolo di un metodo, “indipendentemente dall’esperienza”. Kant imposta la propria teoria gnoseologica su due enunciati di partenza che, formulati in apertura della Critica della ragion pura, sorreggono ogni suo momento di analisi: 1. ogni conoscenza ha la propria origine materiale nei dati immediati e intuitivi dell’esperienza (le intuizioni sensibili empiriche, le sensazioni, i fenomeni); 2. l’esperienza si manifesta, appare ed è gestita dal soggetto secondo i modi di essere propri e a priori della sua sensibilità e, in generale, delle sue facoltà. Un elemento materiale, di origine empirica e quindi a posteriori, e un elemento formale, modo di essere specifico della mente umana e quindi a priori, concorrono a definire la conoscenza come processo in cui il soggetto costituisce secondo forme a priori (trascendentali, pure, cioè non empiriche) il dato indeterminato della intuizione sensibile.
«Il resultato ultimo di tutta questa sezione è dunque il seguente: tutti i principi dell’intelletto puro non sono altro che principi a priori della possibilità dell’esperienza, e a questa soltanto si riferiscono anche tutte le proposizioni sintetiche a priori; anzi la loro stessa possibilità, si fonda totalmente su questa relazione.» (Kant Critica della ragion pura, 242)
2.3.2. L’indagine che studia i principi a priori della conoscenza e segnala «che e come certe rappresentazioni vengono applicate, o sono possibili, esclusivamente a priori» è chiamata da Kant «trascendentale» o formale. La filosofia è dunque trascendentale quando si presenta come teoria della possibilità a priori dell’esperienza in generale e trascendentale è la natura delle forme che appartengono al soggetto. L’esposizione di ciò che e a priori, cioè delle forme della mente o della capacità del soggetto in generale, è indicato anche con l’espressione (propria della vulgata manualistica) “formalismo kantiano”; espressione cui viene talvolta attribuita una valenza negativa o di relativo disvalore. Portare a chiarezza le forme della mente è, in realtà, sostenere la possibilità di pensare, promuovere il pensiero perché contestualmente se ne indicano possibilità e ambiti (potenzialità e vincoli); dare realtà al manifesto e proclama dell’illuminismo: sapere aude. Le forme sono i modi attraverso i quali l’esperienza può essere pensata (cioè gestita secondo intuizioni, nozioni, concetti e relazioni di scienza e di sistema), così come, nel capo etico e politico, i principi e le leggi sono a garanzia e tutela della libertà realizzata.
«Noi abbiamo fin qui non solo percorso il territorio dell’intelletto puro esaminandone con cura ogni parte; ma l’abbiamo anche misurato, e abbiamo in esso assegnato a ciascuna cosa il suo posto. Ma, questa terra è un’isola, chiusa dalla sua stessa natura entro confini immutabili. È la terra della verità (nome allettatore!), circondata da un vasto oceano tempestoso, impero proprio dell’apparenza dove nebbie grosse e ghiacci, prossimi a liquefarsi, danno a ogni istante l’illusione di nuove terre, e, incessantemente ingannando con vane speranze il navigante errabondo in cerca di nuove scoperte, lo traggono in avventure, alle quali egli non sa mai sottrarsi, e delle quali non può mai venire a capo. Ma, prima di affidarci a questo mare, per indagarlo in tutta la sua distesa, e assicurarci se mai qualche cosa vi sia da sperare, sarà utile che prima diamo ancora uno sguardo alla carta della regione, che vogliamo abbandonare, e chiederci anzi tutto se non potessimo in ogni caso star contenti a ciò che essa contiene; o, anche, se non dovessimo accontentarcene per necessità, nel caso che altrove non ci fosse assolutamente un terreno, sul quale poterci fabbricare una casa; e in secondo luogo, a qual titolo noi possediamo questa stessa regione, e come possiamo assicurarla contro ogni nemica pretesa. Sebbene abbiam già risposto sufficientemente a queste domande nel corso dell’Analitica, tuttavia una scorsa sommaria alle soluzioni di essa può rafforzare la nostra convinzione, riunendo i vari momenti di essa in un punto unico.
Infatti noi abbiamo visto che tutto quello che l’intelletto produce da se medesimo, senza prenderlo a prestito dall’esperienza, non lo possiede tuttavia ad altro uso, che per servirsene nella esperienza.» (Kant Critica della ragion pura, 243)
3. il coraggio delle scelte dalla scoperta della autonomia del soggetto in campo morale.
Nella opere di Kant la morale (o la filosofia pratica) è definita attraverso la ricerca dei propri fondamenti, cioè attraverso l’analisi, ancora trascendentale, dei principi della ragione nella sua destinazione pratica. Su questa base di carattere etico si costruisce in termini storico-filosofici un assetto giuridico come ordine naturale, con principi trascendentali. Questa impostazione permette a Kant di fare della politica una questione morale, nelle due direzioni: 1.richiamare la politica ai suoi fondamenti e valori morali, 2. Trasformare in una realtà morale quell’associarsi degli uomini che finora era vissuto in termini di costrizione, di “insocievole socievolezza”. «… si sviluppa così a poco a poco ogni talento, si educa il gusto, e mediante un continuo rischiaramento razionale [Aufklärung] si pongono addirittura le basi di un modo di pensare che col tempo può trasformare in princìpi pratici la rozza naturale inclinazione verso una distinzione morale e così infine trasformare in un tutto morale quell'accordo di associarsi che era una costrizione patologica.» (Tesi III dell’Idea di una storia universale, in Scritti politici cit., pp. 127-8).
L’impresa e l’opera dedicata alla fondazione autonoma della morale si definiva, originariamente, “Critica della ragion pura pratica”: indagine e presentazione delle forme a priori (quindi ragion pura) della ragione pratica o della volontà come principio di azione (quindi ragion pratica ma come ragion pura pratica).
Come la mente umana è facoltà conoscitiva per l’uomo in quanto costituita da proprie forme di percezione, definizione e gestione dell’esperienza, e si tratta di forme a priori, così la volontà dell’uomo, cioè la razionalità pratica che permette di giudicare e scegliere secondo conoscenza, è dotata di forme proprie. In quanto principi dell’agire queste forme si presentano come imperativi etici. Presentare le forme conoscitive e pratiche della mente è portare ad evidenza la ragione come principio universale della mente umana. Su questa universalità fa leva l’appello “illuministico” di Kant che invita al sapere aude e la convinzione: «che un pubblico si illumini da sé è ben possibile e, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. Poiché in tal caso si troveranno sempre tra i tutori ufficiali della gran folla alcuni liberi pensatori che, dopo aver scosso da sé il giogo della tutela, diffonderanno intorno il sentimento della stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé.»
L’indagine si svolge sulla base dell’assunto: «La ragione da se stessa determina la condotta»; essa pone quindi a proprio postulato e fondamento la libertà. Una libertà che non si declina in riferimento alle cose da fare o strade da percorrere, elencate in un quadro già definito di precetti e proibizioni, di vizi e virtù, di fini e mezzi, ma che si colloca alla radice dell’agire stesso ed è fonte dell’azione morale; la libertà intesa dunque come la definizione e l’essenza della moralità, cioè del soggetto come volontà, come fonte di azione. Solo così il soggetto è libero, intrinsecamente ed essenzialmente libero, ed è soggetto morale.
La rivoluzione copernicana [o “tolemaica” (!?)] che ha condotto Kant a porre il soggetto al centro del mondo delle conoscenze di cui è ordinatore e legislatore fa quindi da supporto anche alle ricerche etiche condotte dopo la pubblicazione (1781) della Critica della ragion pura; anche queste indagini seguono l’obiettivo di porre in evidenza l’autonomia dell’uomo nei limiti e nei mezzi delle proprie facoltà esplorando il campo delle possibilità a priori della ragione nel suo aspetto pratico.
3.1. una constatazione e una distinzione: morale eteronoma e morale autonoma
«Per assolvere il nostro compito è di estrema importanza astenersi dal pretendere di trarre la realtà del principio del dovere da una particolare proprietà della natura umana. Infatti il dovere dev’essere una necessità praticamente incondizionata dell’azione e deve pertanto valere per tutti gli esseri ragionevoli (come i soli a cui è possibile in generale che si applichi un imperativo) e soltanto in conseguenza di ciò deve valere come legge per ogni volontà umana. Al contrario, ciò che consegue dalla particolare disposizione naturale dell’umanità, da determinati sentimenti e tendenze e anche, se possibile, da un particolare indirizzo proprio della ragione umana non necessariamente valido per la volontà di ogni essere razionale, può certamente fornirci una massima ma non una legge, un principio soggettivo secondo il quale possiamo agire in base a tendenze e inclinazioni, non un principio oggettivo secondo il quale siamo comandati di agire anche se ogni nostra tendenza, inclinazione o disposizione naturale fosse contraria; sicché la sublimità e la dignità intrinseca del comando del dovere si manifesta tanto più quanto meno le cause soggettive sono favorevoli ad esso, anzi quanto più gli sono contrarie, senza che ciò determini il minimo indebolimento della necessità della legge o ne sminuisca in qualche modo la validità.» (Kant 1785 Fondazione della metafisica dei costumi)
Nel 1785 Kant affida alle stampe la Fondazione della metafisica dei costumi. L’opera non rappresenta il suo primo intervento su temi etici, ma è il primo, dopo la pubblicazione della Critica della ragion pura, in cui il tema etico viene affrontato nella prospettiva della filosofia critica. Seguendo tale prospettiva Kant ricerca i principi a priori dell’agire morale, le forme universali che guidano la volontà umana nella vita pratica, orientandola verso azioni morali.
Il problema morale viene qui affrontato non a partire dall’esperienza dei comportamenti, da sentimenti e tendenze determinate, o dalle norme esteriori al soggetto, ma attraverso la ricerca delle condizioni ideali della perfezione morale dell’uomo. Kant non intende descrivere la realtà di fatto dell’agire morale, i suoi moventi psicologici e particolari, ma le forme universali del «dover essere», i principi a priori secondo i quali si deve agire. In queste analisi si impone quindi, ancor più pressantemente di quanto non fosse nella ricerca dei fondamenti gnoseologici, la necessità di prescindere dall’esperienza per definire le possibilità della ragione e della volontà; la dipendenza della ragione dall’esperienza o da autorità esterne impedirebbe all’uomo di essere autonomo e libero artefice della propria moralità e renderebbe soggettiva ogni ricerca dei fondamenti dell’etica.
3.1.1. morali eteronome (al plurale). Nelle opere in cui Kant affronta, secondo la prospettiva critica, il problema morale (la Fondazione della metafisica dei costumi del 1785, la Critica della ragion pratica del 1788, la Metafisica dei costumi del 1797) si fa sempre più netto il rifiuto delle filosofie morali elaborate dalla tradizione di carattere religioso, politico, consuetudinario:
3.1.1.1. esse si risolvono tutte, a giudizio di Kant, in elenchi di precetti sentiti come obblighi esterni cui l’uomo si piega solo per garantirsi la salvezza, la felicità, l’accettazione, il successo, il riconoscimento, il plauso ecc.; esse prospettano infatti comportamenti orientati verso fini (quali il piacere, la felicità, la salvezza ecc.) che vanno oltre l’azione stessa;
3.1.1.2. nelle loro radici storiche sono tra loro inconciliabili, spesso contraddittorie; difficilmente sono riportabili a condizioni di moralità generale; non trovano nella coscienza e nella libertà del soggetto la propria fondazione, ma si giustificano sul comando di autorità esterne al soggetto: sono morali “eteronome”;
3.1.1.3. non trovando il loro fondamento etico nella volontà dell’uomo e nella sua ragione, ma in autorità, comandi premi e fini esterni, condannano l’uomo alla dipendenza, lo conservano nella minore età. Principale ostacolo alla ragione pratica, nei vari campi del suo impegno di ricerca e proposta, è, secondo Kant, la convinzione che essa trovi le proprie forme non in se stessa, ma in elementi esterni, quali possono essere l’educazione o l’esperienza di vita, o in tavole di norme ispirate da una divinità trascendente. Una simile impostazione conduce l’uomo a rinunciare alla propria ragione e a restare perennemente sotto tutela; ogni atteggiamento servile ha qui la sua premessa. L’agire dell’uomo che si ispira a simili presupposti ed è determinato unicamente da leggi e valori esterni, da inclinazioni, abitudini, passioni, non può dirsi morale in quanto non trova origine e giustificazione nella sua libera volontà e in scelte guidate dalla sola ragione.
3.1.2. morale autonoma (al singolare). Kant progetta, invece, di rifondare la scienza etica sulla sola ragione umana, l’unica fonte di principi che conferisce all’azione i caratteri di universalità e di autonomia indispensabili a rendere un’azione morale; a tale scopo la riflessione morale non parte dall’analisi dei contenuti delle azioni morali, ma delle condizioni della moralità, poste dal soggetto, del tutto a priori o trascendentali, poste cioè dalla ragione nella sua destinazione pratica. Anzi, occorre mettere al bando l’esame dei modi in cui la conoscenza empirica influenza il formarsi di una teoria etica normativa. Come la ragion pura trova nelle proprie forme a priori le regole della sua attività conoscitiva, così la ragion pratica (la ragione in quanto guida all’azione) trova nei propri imperativi formali (si tratta di una ragion pura pratica) i criteri ispiratori di ogni comportamento etico. «La volontà — afferma Kant — non è dunque esclusivamente sottoposta alla legge, ma vi è sottoposta in modo che essa debba essere considerata come istituente essa stessa la legge.» La ragione, oltre a un uso teoretico, ha infatti un uso pratico: essa fornisce all’uomo non solo conoscenze, ma anche indicazioni generali di comportamento; è la ragione, infatti, che determina la volontà ad agire moralmente: «la sua vera destinazione può essere solo quella di produrre una volontà buona, non come mezzo per qualche altro scopo, ma come buona in se stessa».
3.2. la ragion pura pratica, la volontà sommamente buona
In quanto mira a restituire alla morale una piena autonomia e all’uomo la caratteristica di soggetto libero e responsabile, la riflessione filosofica di Kant sul problema etico ha come obiettivo l’indicazione dei principi e dei concetti specifici dell’etica: il fondamento di una morale autonoma è costituito dalla «ragion pratica» o dalla «volontà sommamente buona». Con queste due espressioni Kant indica un unico e identico principio, considerato nel primo caso a partire dalla funzione regolativa generale della ragione, nel secondo caso a partire dalla libertà come condizione imprescindibile di una scelta morale. Si tratta dell’analisi del modo di essere a priori, trascendentale, e quindi formale che caratterizza la ragione nella sua destinazione pratica o la volontà come fonte e principio dell’agire etico dell’uomo. Una simile impostazione, che tende a fornire con completezza le condizioni a priori dell’agire umano, ha il chiaro obiettivo di dimostrare l’assoluta autonomia della ragione umana in campo pratico.
3.3. condizioni di autonomia della morale: la libertà espressa nei principi a priori dell’agire morale (imperativi categorici)
L’autonomia della ragione nel determinare l’azione secondo propri principi oggettivi e universali si fonda sulla libertà; quest’ultima è infatti una condizione a priori della ragione pratica e della volontà etica, il presupposto indispensabile dell’azione morale. Intesa come capacità di determinarsi secondo la sola ragione, indipendentemente da desideri, inclinazioni, sensazioni e passioni, la libertà della ragione e della volontà permette all’individuo di assumere comportamenti scelti per se stessi e non condizionati da sollecitazioni esterne; la volontà è libera in quanto obbedisce al proprio imperativo etico (ricorda Spinoza: libertà – necessità della propria natura) che prescrive a ciascuno di giudicare la sua azione come morale solo se la massima che la ispira può valere come legge universale della ragione.
3.3.1. imperativi categorici. Kant presenta questo principio con l’espressione «imperativo categorico» non perché esso si imponga come un’autorità esterna o in forma coercitiva, ma in quanto si presenta come condizione ideale che non ha altri presupposti e fini all’infuori di quelli rappresentati dalla realizzazione della natura libera e razionale dell’uomo.
Gli imperativi categorici forniscono criteri generali di comportamento, non determinano azioni specifiche, non impongono una precisa condotta; sono principi a priori della ragione nella sua destinazione pratica.
3.3.1.1. Si tratta di imperativi definiti categorici in quanto esprimono un’azione oggettivamente necessaria per se stessa, senza altro fine; sono direzioni o comandi della ragione che si impongono di per sé alla volontà, suggerendole criteri di comportamento e non precetti concreti o azioni definite.
3.3.1.2. Poiché impongono alla volontà di assumere come massima di comportamento quei criteri che possono valere come norme universali, estensibili a tutti gli uomini, sono formali: prescindono dalle concrete situazioni contingenti, si limitano a suggerire i principi etici generali cui l’uomo dovrà uniformare la sua condotta se vorrà agire moralmente.
3.3.2. le tre formule dell’imperativo categorico. Nelle diverse situazioni del vivere quotidiano, l’uomo dovrà agire (ma si tratta di una forma non cogente di dovere) ispirandosi alle indicazioni dell’imperativo categorico.
3.3.2.1. Esso propone di agire seguendo principi universali (il primo comanda: «agisci come se la massima della tua azione dovesse essere elevata dalla tua volontà a una legge universale di natura»),
3.3.2.2. trattando se stessi e gli altri uomini come fine e mai come mezzo dell’azione che si intende compiere (la seconda formula dell’imperativo categorico enuncia: «agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona, sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo»),
3.3.2.3. in piena autonomia, come se ciascuno fosse legislatore di sé (la terza formula ricorda: «agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale»).
3.3.3. i caratteri dell’imperativo categorico e la natura formale dell’etica. Formulati in modo imperativo, i principi della morale kantiana sembrano appartenere a un’etica costrittiva, incapace di rispettare la condizione prima di ogni agire morale: la libertà. In realtà essi sono soltanto la traduzione in forma operativa della ragione pratica. Con essi la ragione pone le condizioni di eticità e non vincola ad alcun contenuto preciso, non presentano all’uomo leggi definite e prescrittive o norme di comportamento e tanto meno precise azioni; se così fosse verrebbe a crearsi una morale eteronoma, in cui il soggetto non è principio, in senso morale, del suo agire ma si limita ad eseguire leggi e precetti considerati validi e morali per se stessi. Proprio in quanto formali, gli imperativi della ragione non contrastano con la libertà, ma esprimono l’essenza della volontà dell’uomo per natura e definizione tesa a sviluppare con pienezza l’intero campo delle azioni etiche; dunque è proprio la natura formale dell’imperativo categorico ad esprimere la libertà dell’uomo e della ragione in termini di autonomia.
3.3.4. incrocio: imperativo, massima, azione. Kant indica con il termine «massima» i principi soggettivi dell’agire. Il termine non designa né decisioni concrete, né regole pratiche particolari, né norme oggettive secondo le quali agire, ma regole generali che il singolo decide di seguire nelle proprie azioni e che determinano concretamente le sue scelte (ad esempio, aiutare in ogni circostanza chi è nel bisogno, non seguire mai la regola dominante del momento ecc.).
3.3.4.1. cerca la massima. Anche se la massima è il movente prossimo di ogni azione non sempre risulta evidente allo stesso soggetto che agisce quale sia la massima effettiva che determina la sua azione, solo la riflessione sul proprio agire consente all’uomo di individuare le massime e i principi soggettivi del comportamento; spesso infatti questi non vengono professati, restano sottintesi e abitudinari e solo con difficoltà l’uomo riesce a cogliere e formalizzare in modo esplicito e pieno i principi direttivi delle proprie azioni; (il mio gesto di elemosina a quale massima si ispira? voglio aiutare chi è nel bisogno, spero che gli altri facciano altrettanto con me, avverto una gratificazione emotiva, posso parlare della mia generosità, segnalo una distanza sociale a mio vantaggio, ecc.). 3.3.4.2. la massima è considerata da Kant come fonte immediata dell’eticità soggettiva delle azioni umane. Sono gli imperativi categorici a decidere della moralità in quanto forniscono criteri universali per valutare la moralità delle massime con le quali ogni persona tende a regolare le proprie condotte individuali (ad esempio la massima della solidarietà, dell’amicizia, dell’indifferenza, della competizione, ecc.). Ma è la massima a tradurre in agire etico soggettivo, personale, individuale (non lasciandolo nella forma generale universale) l’imperativo categorico.
3.3.5. la distinzione tra mezzi e fini e il concetto eticamente indispensabile e fondante di una realtà fine a se stessa: «Ogni essere razionale esiste come fine in se stesso»
La seconda formula dell’imperativo categorico si fonda sull’esistenza di una realtà fine a se stessa, che non potrà mai, moralmente, essere considerata come un mezzo. «L’imperativo pratico sarà pertanto il seguente: agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo.» (Kant, Fondazione) Con queste parole Kant introduce e spiega questo imperativo. «Ma se si suppone che ci sia qualcosa la cui esistenza in se stessa abbia un valore assoluto, qualcosa che, in quanto fine in se stesso, possa essere il principio di leggi determinate, in esso e soltanto in esso può consistere il principio di un imperativo categorico possibile, cioè di una legge pratica. Ora, io dico: l’uomo e, in generale, ogni essere ragionevole, esiste come fine in se stesso, non semplicemente come mezzo per essere usato da questa o quella volontà; ma in tutte le sue azioni, sia quelle che lo concernono in proprio sia quelle che concernono gli altri esseri ragionevoli, deve sempre essere considerato nello stesso tempo come fine.» (Kant, Fondazione) La seconda formula dell’imperativo categorico ribadisce come al centro dell’etica si collochi l’umanità (non il singolo uomo), proclamata come fine a sé.
4. la ragione e la politica: per una società illuminata e cosmopolita
La realizzazione delle potenzialità delle facoltà dell’uomo, che Kant descrive nelle tre «critiche», esige particolari condizioni politiche e un lungo processo storico che egli studia in numerosi scritti e articoli di agili dimensioni: Idea di una storia dal punto di vista cosmopolitico (1784), Che cos’è l’illuminismo? (1784), Congetture sull’origine della storia (1786), Per la pace perpetua (1795), Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798).
4.1. La fatica storica della ragione. La tesi di fondo di queste opere è che il fine ultimo della storia sia la completa esplicazione delle disposizioni razionali degli uomini; questa crescita della ragione e della cultura è il frutto di un «disegno della natura», una sorta di «provvidenza», di forza storica che agisce dolcemente sugli uomini spingendoli a promuovere «quell’avanzamento che essi stessi ignorano e al quale, anche se lo conoscessero, non farebbero un gran caso». Ma il presupposto necessario perché ciò possa storicamente accadere è la convinzione di una dimensione morale trascendentale propria della ragion pratica come forma a priori universale della volontà umana e principio di un agire morale postulato e fondamento solido per la speranza e per i progetti di una convivenza sociale degli uomini condotta secondo ragione e giustizia.
4.1.1. La visione negativa che Kant formula sulla ignoranza degli uomini nei confronti delle propria condizioni di positivo avanzamento possibile riprende la tesi cristiana dell’esistenza nell’uomo di un «male radicale», di una predisposizione verso il male che si riproduce nell’interiorità dell’uomo; essa viene contrastata non da una religione che si fonda sul culto della rivelazione, ma da una religione che trova espressione nella ragione e fondamento nella morale (La religione nei limiti della ragione, 1793). Così intesa la religione dà vita a una repubblica morale, una «chiesa invisibile» e non istituzionale, fondata sulla virtù e composta da tutti gli uomini giusti.
4.1.2. Il presupposto trascendentale, condizione e fondamento perenne. C’è, secondo Kant, una stretta relazione tra i principi di autonomia morale (gli imperativi che definiscono le condizioni di moralità dell’agire sulla base della sola ragione) e il principio di autonomia giuridica e politica, cioè di autolegislazione (repubblicana o democratica); e la relazione non è unidirezionale ma reciproca.
Osserva Habermas: «Kant capì che i diritti non potevano di nuovo essere fondati ricorrendo a un modello desumibile dal diritto privato. A Hobbes egli rimprovera in maniera convincente d’aver trascurato la differenza strutturale esistente tra il «patto sociale» come modello legittimante e qualunque altro «patto privato» come rapporto di scambio. Effettivamente, dalle parti stipulanti il patto sociale nello stato di natura ci si deve aspettare un atteggiamento diverso da quello meramente egocentrico. «Il patto di fondazione di un costituzione civile (...) è di natura così speciale che (...) si distingue essenzialmente da ogni altro patto» (Kant I. Stato di diritto e società civile, Editori Riuniti, Roma 1995, 153). Mentre di solito le parti stipulano patti per conseguire «un qualche scopo comune (che tutti hanno di fatto)», il patto sociale è unione «fine a se stessa (fine che ognuno deve avere)». Infatti esso fonda «il diritto degli uomini di vivere sotto pubbliche leggi coattive, mediante le quali ognuno possa aver riconosciuto e garantito il suo contro ogni attentato da parte degli altri» (Kant I. Stato di diritto e società civile, 153). In Kant le parti non si accordano per nominare un sovrano cui affidare la competenza legislativa; il patto sociale è l'unico contratto che sia privo di contenuti specifici, presentandosi piuttosto come il modello ideale d’una socializzazione regolata dal principio giuridico. In maniera performativa esso stabilisce a quali condizioni i diritti acquistino validità legittima. Infatti «il diritto è la limitazione della libertà di ciascuno alla condizione che essa si accordi con la libertà di ogni altro, nella misura in cui ciò è possibile secondo una legge universale» (Kant I. Stato di diritto e società civile, 153-154). Visto in questa prospettiva, il contratto sociale serve a istituzionalizzare l'unico diritto «innato» a pari libertà individuali. Questo originario diritto dell’uomo si fonda per Kant sulla volontà autonoma dei singoli individui, i quali come persone morali dispongono a priori della prospettiva sociale d'una ragion pratica verificante le leggi. In questa prospettiva essi possono fondare in termini di moralità, e non solo di prudenza, la loro uscita dallo stato delle libertà non protette. Nello stesso tempo, Kant vede chiaramente che quell'unico «diritto dell’uomo» deve alla fine differenziarsi in un «sistema di diritti» attraverso cui assumano figura positiva sia «la libertà di ogni membro della società in quanto uomo» sia anche «l’eguaglianza del medesimo con chiunque altro in quanto suddito». Ciò accade nella forma di «leggi pubbliche» che possono pretendere legittimità solo come atti della volontà pubblica di cittadini autonomi e associati.» (Habermas Jürgen 1992 Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e Associati, Milano 1996, 115-116)
4.1.2.1. Si tratta di una questione di metodo generale: « Vedere fino a che punto un «sistema dei diritti» sia empiristicamente spiegabile a partire dall’intreccio d’interessi e calcoli d'utilità, nonché dall'incontro stocastico di attori razionali, è questione che da sempre attira l'attenzione e l’intelligenza di filosofi e scienziati sociali. Senonché neppure i moderni strumenti della «game theory» hanno saputo dare risposte soddisfacenti al riguardo. Non fosse che per questo motivo, la risposta di Kant al fallimento di questo tentativo merita d’essere ancora studiata con attenzione.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 115)
4.1.2.2. Una critica al liberismo “estremo”. Kant non concepisce la società come una sorta di accordo tra privati che restano nel loro isolamento o nella loro contrapposizione e vengono utilitaristicamente a patti; la metafora che egli usa per indicare la tendenza estrema di una simile società è quella nota di una “società di diavoli” per la quale comunque servono, talvolta, delle regole, ma non certo derivanti dai principi della loro ragione morale. Si tratta qui di quella società in cui le norme sono vissute come pure e insopportabili costrizioni esterne; società esprimibile con il felice ossimoro usato da Kant: società della “insocievole socievolezza”. Problema che è esplicitamente formulato da Kant: «come dare a una moltitudine di esseri razionali, che ai fini della loro conservazione esigono tutti delle leggi generali alle quali però ognuno nel suo intimo tende a sottrarsi, un ordine ed una costituzione tali che, malgrado i contrasti derivanti dalle loro private intenzioni, queste si neutralizzino tuttavia l’una con l'altra, di maniera che essi, nella loro condotta pubblica, vengano infine a comportarsi come se non avessero affatto tali cattive intenzioni.» (Kant Immanuel, 1795 Progetto per una pace perpetua, in Scritti politici, Torino 1965, p.312)
4.1.2.3. Di contro alla tesi di un diritto naturale soggettivo e privato che avallerebbe il liberismo “estremo” e che trasforma il principio politico in un’autorità estranea (con il rischio di una sua incontrollata degenerazione in autoritarismo) occorre osservare come il diritto soggettivo è sempre intersoggettivo, se è universale (e solo così può essere diritto). Per uscire da una concezione rigidamente liberistica del sociale fondata sulla rivendicazione di diritti soggettivi rigidamente individuali occorre osservare ciò che è, anche ad una breve riflessione, evidente: se i diritti soggettivi individuali, in quanto riferiti all’umanità, sono universali, allora il riconoscimento di un diritto soggettivo è anche il riconoscimento di un diritto intersoggettivo, nel rivendicare il mio diritto soggettivo riconosco, per definizione, il diritto soggettivo naturale di ogni altro uomo.
«Sul piano concettuale i diritti non devono essere pensati come riferiti a individui atomisticamente alienati, egoisticamente irrigiditi l’uno contro l’altro. Come elementi dell'ordinamento giuridico, essi presuppongono piuttosto la collaborazione di soggetti che si riconoscano a vicenda — nei loro diritti e doveri — come liberi ed eguali consociati. Questo riconoscimento reciproco è costitutivo per un ordinamento da cui discendono diritti individuali azionabili. In questo senso i diritti «soggettivi» sono cooriginari al diritto «oggettivo». (Habermas 1992 Fatti e norme, 111) Occorre dunque « cogliere il senso intersoggettivo implicito allo stabilimento giuridico delle libertà d'azione soggettive. In altre parole … quel rapporto tra autonomia privata e autonomia civica in cui entrambi i momenti devono farsi integralmente valere.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 112)
4.1.2.4. Il ruolo non costrittivo di una costrizione sociale politica educativa. « Per quanto leggera sia la costrizione esercitata dalle pretese normative, perché gli attori non la percepiscano come una violenza imposta dall’esterno occorre che essi la facciano propria come una costrizione morale, ovvero che la convertano in una motivazione personale. Durkheim si sforza di tradurre in termini sociologici quella «autonomia» con cui Kant, fondando sull’intelligenza dell'individuo il vincolo a imperativi sovraindividuali, voleva intendere qualcosa di diverso dalla mera «libertà di scelta». Bisogna far nascere una simmetria tra l’autorità morale delle norme sociali vigenti e il corrispondente autocontrollo che si àncora nelle strutture della personalità. […]
Il processo d’interiorizzazione che procura base motivazionale agli orientamenti di valore non è quasi mai esente da repressione. Esso sfocia però in un’autorità della coscienza morale che nell'individuo è sempre accompagnata da una consapevolezza di autonomia. Solo in questa consapevolezza il carattere obbligatorio degli ordinamenti sociali «vigenti» trova un destinatario che si lascia spontaneamente «vincolare». (Habermas 1992 Fatti e norme, 84-85)
4.1.3. Perché si compia l’età della ragione e dell’autonomia, autolegislazione, Kant ritiene necessario che si realizzi un nuovo assetto politico internazionale: l’antagonismo («insocievole socievolezza», gli uomini si uniscono in società per opporsi reciprocamente) che è stato nella storia degli uomini, indirettamente, anche uno stimolo a progredire, a superarsi, deve essere controllato, regolato da costituzioni che perseguono, mediante il diritto, l’ordine, la pace e la giustizia. Kant prospetta, in proposito, una federazione di stati con governi repubblicani i cui reggitori esercitino il potere in conformità con la legge espressa dalla volontà generale; un parlamento sovranazionale si assumerà il compito di dirimere i conflitti, mediare gli antagonismi, orientando il suo impegno e le sue disposizioni verso la pace.
La ragione filosofica: «in virtù del loro contenuto semantico i diritti fondamentali richiedono una società cosmopolitica, giuridicamente amministrata sul piano internazionale.» (Habermas 1992 Fatti e norme, 539) (Ma forse, solo la concretezza e le istituzioni di partecipazione e partecipabilità create da Stati locali può garantire quanto affermato dai diritti universali (non locali)]
4.2. una visione cosmopolita dell’idea regolativa di umanità (in richiamo del secondo imperativo categorico: l’uomo come fine e non come mezzo). Una visione che trova un doppio fondamento.
4.2.01. Il primo è messo in luce dalla filosofia critica ad impostazione trascendentale: l’esposizione delle forme e delle possibilità che caratterizzano l’uomo come natura umana; si tratta cioè di forme comuni e universali, al di là della fatica storica al loro emergere e realizzarsi, interessano l’intera umanità e ne segnano teleologicamente il corso storico. L’assenza di tale prospettiva riduce l’umanità a un fatto meramente biologico e la priverebbe di storia e di divenire, di cultura e di libertà. «Senza universalità non ci sarebbe umanità, se non come aggregazione ad una specie biologica; la storia dell’umanità non esisterebbe, così come non esiste la storia della gattità o della cavallinità.» (Eric Voegelin, Order and History, citato da Sloterdijk Peter 2001 L’ultima sfera. Breve storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2002, 163)
4.2.02. Il secondo è espresso da una impostazione storico giuridica del problema sociale che non parte, come accade alla tradizione moderna del pensiero politico, dal problema della guerra e dalle conseguenti competenze politiche e giuridiche dello Stato, ma da un progetto di pace e dalla fondamenti che la motivano e delle scelte che la rendono stabile. Kant, a differenza delle tradizioni precedenti (come quelle formatesi a partire da Grozio e da Hobbes), «non ha cercato le giustificazioni delle guerre, ma le condizioni della pace.» (Gozzi Gustavo 2010 Diritti e civiltà. Storia e filosofia del diritto internazionale, il Mulino, Bologna, 95). E le ha cercate nel campo dei diritti: diritti dell’uomo più che i diritti dello Stato e unendo il tema dei diritti dell’uomo con il tema del diritto cosmopolitico.
Applicativamente: il percorso in sintesi (e dunque non sufficientemente analitico) e la ripresa di alcune delle posizioni della filosofia critica trascendentale di Kant come elementi di fondazione del progetto cosmopolita sulla base del diritto e per la pace perpetua.
4.2.1. Occorre riprendere il tema delle garanzie di una impostazione trascendentale e del ruolo formale dei principi così individuati.
La presentazione delle forme a priori delle facoltà umane, esaminate e considerate «indipendentemente dall’esperienza» e, conseguentemente, la loro natura formale, diventa la condizione di fondazione, di autonomia e di corretto svolgimento per le facoltà dell’uomo nel campo della conoscenza, dell’azione e del sentimento. In situazione analoga si trova l’esposizione del diritto condotta a partire da una impostazione trascendentale. Come più volte affermato da Kant, ciò che è a priori o trascendentale definisce la natura umana ed è universale.
4.2.2. Occorre riprendere l’intreccio tra empirico e a priori, tra materiale e formale; in altri termini: le ragioni dell’empirico e la sorte (la natura, il ruolo e il destino) dell’universale. Ricordando la metafora usata da Kant, il nostro intelletto è un’isola ferma che ci permette di stare un po’ fermi nel mare dell’esperienza («vasto oceano tempestoso…dell’apparenza»), ma questo (piccolo) approdo non deve essere esplorato al punto da voler ignorare il mare e vivere presso la sicurezza dei concetti acquisiti, organici tra di loro, trasformati in sistemi metafisici della realtà, allontanati dal salutare turbamento materiale del divenire dell’esperienza e della sua imprevedibilità.
4.2.2.1. Del resto, la ragione che costruisce teorie presentate come il sistema totale dell’esperienza è condannata a cadere in sofismi, paralogismi e antinomie che rischiano di generare o dogmatismo o scetticismo e con essi l’abbandono del pensiero e l’acquiescenza a tutori. L’antinomia, spostata come osservatorio di metodo in campo politico, è in grado di svelare la fallacia di proposte totali e mettere di fronte alla positiva contingenza delle proposte. Occorre qui richiamare l’utilità e il danno delle antinomie nella costruzione di percorsi interpretativi in forma di teoria di sistema, così come sostenuto nella dialettica trascendentale della Critica della Ragion pura di Kant. Sfocia in un uso speculativo che porta ad antitesi e contraddizioni se l’antinomia è intesa in senso metafisico, come se i suoi poli facessero riferimento a realtà o soggetti effettivamente esistenti ed operanti, se vi fosse cioè una reificazione delle tesi o ipotesi di metodo adottate; acquista invece una utilità e quasi necessità metodologica se l’antinomia annulla la tentazione metafisica delle tesi interpretative prodotte e soprattutto se definisce in modo analitico e di chiarificazione il percorso dell’osservazione, la natura e gli aspetti del problema.
4.2.2.2. l’irrompere dell’empirico storico nelle forme della libertà e lo svelarsi dell’universale; in senso ancor più legato: l’affermarsi della libertà individuale come necessità universale (in stretto intreccio quindi l’empirico e l’a priori) nell’accadere dei fatti della Rivoluzione francese.
«Già Kant era consapevole di questo paradosso quando espose la sua idea dell’entusiasmo per la Rivoluzione francese nel Conflitto delle facoltà (1795). La vera importanza della Rivoluzione non risiede in ciò che avveniva effettivamente a Parigi che per lo più era terrificante e coinvolgeva esplosioni di passione omicida — ma nella reazione entusiastica che gli eventi parigini generavano agli occhi degli osservatori simpatizzanti della Rivoluzione in tutta Europa: «La rivoluzione di un popolo ricco di spirito, che noi abbiamo visto svolgersi ai nostri giorni, può riuscire o fallire... [Essa] trova però negli animi di tutti gli spettatori (che non sono coinvolti essi stessi inquesto gioco) una partecipazione,quanto al desiderio, che rasenta l’entusiasmo e la cui manifestazione comportava un pericolo: una partecipazione, quindi, che non può avere altra causa che una disposizione morale del genere umano.» … La realtà di quello che accadeva a Parigi appartiene alla dimensione temporale della storia empirica; l’immagine sublime che generava entusiasmo appartiene all’eternità...» (Žižek Slavoj 2007 La violenza invisibile, Rizzoli, Milano 2007 p.57)
La condizione logica che qui si concreta, l’incontro cioè tra esperienza e universale ma nell’affermazione dell’urgenza di una esplorazione dell’a priori trascendentale, è presentata nella sua universale regolarità nella Critica della Ragion pura a proposito dell’esplorazione dell’intelletto puro: «…l’intelletto che è occupato semplicemente nel suo uso empirico e non riflette sulle fonti della sua conoscenza, può, è vero, andare avanti benissimo; ma una sola cosa non può fare, ossia determinare a se stesso e sapere i limiti del suo uso, ciò che può trovarsi al di dentro o al di fuori di tutta la sua sfera» (Kant Critica della Ragion pura, p 244)
4.2.3. Occorre riprendere il momento dell’incontro tra un doppio antinomico: libertà e limiti.
L’incontro dei binomi della morale e del diritto: libertà e legge, diritto e legge (ius e lex), è un incontro necessario; si tratta di binomi caratterizzati da una intrinseca relazione in quanto la definizione dell’uno non può ottenersi senza il riferimento all’altro; non si tratta dunque di una relazione che abbia lo scopo di avviare una moderazione dell’un termine con l’altro allo scopo di evitare estremizzazioni distruttive del patto sociale e della civile convivenza.
4.2.3.1. libertà e legge. «Dalla lettura della Metafisica dei costumi abbiamo compreso che i diritti di libertà (tra i quali in particolare il diritto di proprietà) non possono consistere in un atto di arbitrio unilaterale, ma che al contrario essi trovano nella legge, in cui si esprime la volontà comune, la condizione della loro garanzia. Abbiamo anche evidenziato che la legittimazione del diritto discende dal rispetto dei diritti di libertà. […] Con queste premesse si chiarisce infine il carattere del contratto sociale come criterio della legge: la legge ottiene la sua legittimazione nella garanzia dei diritti di libertà. (Gozzi 2010, 103)
La difesa e presentazione della libertà va di pari passo con la presentazione della necessità dei suoi limiti scoperti non come ostacolo ma, al contrario, come fonte della sua esistenza e del suo sviluppo; è dunque definita dalla messa in evidenza dei suoi limiti allo scopo di cogliere le condizioni e gli ambiti delle competenze umane (conoscenza, azione, sentimento). Un doppio limite e una doppia fonte: il limite empirico o materiale (tutto proviene dall’esperienza, unica fonte materiale di conoscenza); il limite a priori o formale (tutto è conosciuto grazie e secondo le forme delle facoltà umane, di ciò che è trascendentale o a priori).
Quell’incontro, e l’impostazione che lo sorregge, delinea il tema del diritto. Il diritto è fonte e limite (quindi garanzia) della libertà civile, cioè dell’uomo in relazione. La formazione della libertà civile sulla base del diritto è presentato da Kant attraverso la ricostruzione dei processi di definizione delle varie forme e delle varie sedi del diritto.
4.2.3.1.1. diritto naturale, chiamato diritto privato (cioè dell’individuo). Qui la formazione della società civile è studiata attraverso la modalità di acquisizione delle proprietà (come nelle opere di Locke e di Rousseau)
4.2.3.1.2. diritto positivo, chiamato diritto civile o pubblico (non sociale). Nessuna volontà privata (come es. l’atto di appropriazione) diventa obbligazione universale ma resta contingente se non si fonda su di una volontà generale. Una legge regolatrice delle libertà “consente che ognuno possa avere sul suolo comune un possesso particolare determinato” (Gozzi 2010, 99): è il passaggio dallo stato di natura allo stato giuridico, allo stato di diritto, del diritto.
«In tal modo il possesso comune viene superato da una legge regolatrice delle libertà, la quale consente che ognuno possa avere sul suolo comune un possesso particolare determinato. Questa legge può solo derivare da una volontà originariamente e a priori collettiva. Si può affermare che il diritto pubblico appaia a Kant come la sanzione del diritto privato naturale. Il diritto pubblico fornisce quelle «condizioni sotto le quali “viene assicurata l’esecuzione” delle leggi di ragione della condizione naturale» (H. Hofmann). In tal modo Kant fonda il passaggio dallo stato di natura allo stato giuridico. Si tratta della forma dello Stato di diritto (Rechtsstaat)che, pur non espressamente enunciata, è tuttavia chiaramente riconoscibile.» (Gozzi 2010, 99)
4.2.3.1.3. la persistenza del diritto naturale e la sua funzione in relazione con il diritto positivo: il diritto naturale si configura come idea regolativa per la costruzione e realizzazione del diritto positivo. «L’interrogativo che avevamo posto inizialmente relativamente al rapporto tra diritto naturale e diritto positivo trova una sua possibile interpretazione: il diritto naturale non viene «superato» nel diritto positivo; al contrario esso si conserva anche nello stato giuridico — come criterio di legittimazione della legge. Questa distinzione viene ribadita a chiare lettere da Kant: «la suddivisione principale è qui in diritto innato e in diritto acquisito,dove il primo è quel diritto che indipendentemente da ogni atto giuridico spetta a ognuno per natura e il secondo è quello per il quale un tale atto giuridico è invece richiesto» (Metafisica dei costumi). Sulla base di questa suddivisione il diritto di natura riveste in Kant il significato di un’idea regolativa per la progressiva realizzazione di una costituzione repubblicana che è la sola in cui la libertà sia il principio che legittima ogni costrizione effettuata con la legge.Nell’assunzione del diritto naturale come criterio di legittimazione del diritto positivo consiste la radicalità e l’attualità del pensiero di Kant anche per il dibattito contemporaneo sul problema dei diritti e della democrazia.
Nella legge si esprime infatti il principio di maggioranza, mentre i diritti dell’uomo hanno il carattere dell’universalità: «Il diritto innato è uno solo. La libertà […] è quest’unico diritto originario spettante a ogni uomo in forza della sua umanità» (Metafisica dei costumi). Ma come conciliare l’universalismo dei diritti con il principio di maggioranza? Kant pone i termini di un problema che appare centrale nelle odierne democrazie. La soluzione kantiana consiste nel porre il primato dei diritti rispetto alla legge, come si deduce chiaramente dalla sua riflessione, in Sul detto comune (Sul detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la prassi, 1973),sul carattere «inalienabile» e «irrinunciabile» dei diritti dell’uomo. (Gozzi 2010, 103-104)
4.2.3.1.4. I passaggi, le implicazioni connesse, il complesso intreccio: diritto naturale e diritto positivo; libertà e diritto; etica e diritto. «Nella Metafisica dei costumi Kant affronta il problema del fondamento, ossia dell’origine e della giustificazione dei diritti. Mi ha sempre colpito il modo in cui Kant ha posto il problema, in quanto è facile riscontrare il passaggio da un ordine del discorso ad un altro. Scrive infatti Kant: «Il dirittoinnato è uno solo. La libertà (indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui, in quanto essa può coesistere con la libertà di ogni altro secondo una legge universale, è quest’unico diritto originario spettante ad ogni uomo in forza della sua umanità» (I, Suddivisione generale del diritto, B). Dopo l’affermazione di Kant secondo cui il diritto innato è uno solo, ci aspetteremmo l’enunciazione di questo diritto. Ma Kant scrive: «La libertà» [enunciato etico], invece del «diritto alla libertà» [enunciato giuridico]. Che rapporto sussiste tra la libertà «innata», ossia originaria, e il «diritto» alla libertà?
Kant lo esplicita nell’articolazione della frase: la libertà intesa come «indipendenza dall’arbitrio costrittivo altrui» deve coesistere con la libertà di ogni altro uomo in forza di una legge universale.
È questa legge positiva universale l’origine del diritto alla libertà di ogni uomo. La riflessione kantiana segna, come è noto, la fine del giusnaturalismo e stabilisce la centralità della legge positiva - il «diritto perentorio» di cui parla nella Metafisica dei costumi - che limita l’originaria libertà naturale e fonda i diritti alla libertà individuale. Non vi è dunque, nella prospettiva kantiana alcun diritto di natura, bensì solo una libertà naturale dell’uomo che può coesistere con la libertà di ogni altro uomo solo traducendosi in diritto alla libertà del cittadini sulla base di una legge coattiva universale, ossia accettata da tutti.
Ma che cos’è l’originaria libertà «naturale» e quali sono le conseguenze della sua limitazione ad opera del diritto positivo? È sulla base di questo rapporto che si apre nel pensiero kantiano la prospettiva morale.
Nel testo intitolato Persino un popolo di diavoli ha bisogno dello Stato O. Höffe riprende il noto passo di Kant nella Pace perpetua, in cui si legge che «il problema dell’instaurazione dello Stato è risolvibile [...]anche da un popolo di diavoli (purché abbiano intelletto)» e osserva che la frase kantiana «riassume con grande chiarezza qual è il compito fondamentale di chi intende legittimare l’esistenza dei diritto e dello Stato». Infatti, continua Höffe, i «diavoli» — ossia gli uomini rigorosamente egoisti — debbono anche coesistere e debbono perciò necessariamente cooperare per non lasciare spazio alla illimitata manifestazione della libertà naturale. Solo la rinuncia alla libertà naturale fonda i diritti di libertà. «Il diritto alla libertà non è altro che il lato positivo della rinuncia alla libertà (naturale, parentesi dell’A.).» (Gozzi 2010, 324-325)
Dunque, la libertà va intesa non tanto come “diritto di natura” ma la condizione naturale dell’uomo; senza libertà non c’è umanità; quindi siamo qui in situazione morale. La politica trasforma quella libertà in diritto, allo scopo di garantirne la fruizione; questa situazione comporta che si regolamenti la libertà naturale nella forma di un diritto positivo a garanzia della libertà stessa, quindi della umanità e della società civile. Il diritto positivo è riconoscimento della dignità umana.
«L’essere umano e dunque una realtà pre-giuridica, di cui il legislatore riconosce la dignità, che comporta il conferimento di diritti per la sua piena realizzazione. La dignità è pertanto un’idea regolativa (kantiana) che postula l’attribuzione di diritti umani. I diritti umani non sono dunque «diritti naturali»: essi sono invece un postulato, ossiaun imperativo, fondato sul riconoscimento della dignità della persona, rivolto al legislatore perché dia ad essi una forma giuridica positiva.» (Gozzi 2010, 332) Ritorna la centralità del principio di moralità: «la prospettiva kantiana ha posto l’essere umano sempre e solo come fine e mai come oggetto.» (Gozzi 2010, 333)
4.2.4. Occorre riprendere il punto di vista fondativo secondo la logica dell’a priori anche da un’altra sede della filosofia trascendentale di Kant, quella dedicata alla ragione pratica, e va ripreso il concetto espresso negli imperativi categorici (in particolare nella terza formulazione): l’idea di una volontà universalmente legislatrice che, in campo giuridico-politico diventa “giustizia pubblica”: «…il principio formale della possibilità di questo stato, considerato dal punto di vista dell’idea di una volontà universalmente legislatrice, si chiama giustizia pubblica…» (Kant, Metafisica dei costumi, 132)
Occorre cogliere la centralità e la rilevanza, nel campo giuridico-politico, del concetto – fondamento a priori segnalato dalla idea di volontà universalmente legislatrice. Con questo concetto Kant infatti: [1.] «anticipa la stagione del giuspositivismo tedesco del XIX secolo» (Gozzi 2010,100); [2.] al diritto è sottratta definitivamente ogni finalità eudaimonistica: «la felicità appartiene, per Kant, all’ambito delle morale.» (Gozzi 2010,100) e quindi il diritto opera nel campo del giusto e non nel campo del bene; viene cioè richiamato al proprio ruolo formale di garante della libertà e non al ruolo di decisore di come vivere la propria libertà (situazione che ci consegnerebbe ad una morale eteronoma, facendoci piombare in condizioni servili); [3.] va oltre la dimensione dello Stato nazionale per impostare il dibattito sul problema dei diritti universali e sul tema delle condizioni della pace universale. Anche qui è in azione la natura formale del diritto (come accade nel campo morale negli imperativi categorici) e di conseguenza la sua necessaria universalità, dichiarata necessaria “anche in una società di diavoli”. La situazione (dei diavoli) è articolata: «…il problema dell’instaurazione dello Stato, per quanto ciò possa suonare aspro, è risolvibile anche da un popolo di diavoli (purchè abbiano intelletto) (da Per la pace perpetua)» (Gozzi 2010, 101) «I diavoli dotati di intelletto - individui rigorosamente egoisti - coopereranno là dove lo ritengano vantaggioso, ma agiranno senza scrupoli dove la cooperazione non si riveli vantaggiosa. Così gli individui rinunceranno reciprocamente alla loro libertà naturale per ottenere il riconoscimento dei diritti. La rinuncia reciproca alla libertà naturale - si può osservare - fonda i diritti di libertà.[…]
Anche un popolo di diavoli, ossia di individui che mirano esclusivamente al soddisfacimento del loro interesse personale, ha dunque bisogno dello Stato!» (Gozzi 2010, 101,102) Se l’obiettivo è quello di avere in forma di diritto, quindi in modo garantito, ciò che si possiede in forma naturale, ma in modo precario, ciò può essere utile anche in una società di diavoli, se è società e se son dotati di intelletto (premessa perché sorga una qualsiasi forma di società o il principio sociale stesso).
4.2.5. Occorre riprendere un terzo momento, dalla sezione dialettica trascendentale della Critica della ragion pura: il ruolo dell’idea per una ragione che tende per definizione al sistema completo in un campo definito (io, cosmo, Dio); essa indica il progetto di una completezza possibile, empiricamente irraggiungibile e quindi non dato dall’esperienza, ma punto prospettico che sorregge l’intero cammino conoscitivo. Anche il concetto di volontà generale è un’idea, come un’idea è il processo storico in cui quella volontà potrebbe prendere forma: il contratto o patto sociale. Sul tema Kant attua una definitiva chiarificazione: il contratto o pactum sociale non è un fatto storico, nemmeno un fatto giuridico implicito ma è un’idea e condivide dell’idea (come accade alle forme a priori della ragione chiarite nella dialettica trascendentale della ragion pura) la natura di progetto per il sistema o punto prospettico in vista di una completezza ideale possibile; qui la completezza è pensata nel campo sociale e secondo una impostazione politica fondata sul diritto.
«Il contratto o pactum sociale, come unione di tutte le volontà private in una volontà comune non è infatti, afferma Kant, un fatto, bensì una semplice idea della ragione. Questa «idea della ragione» non mira a giustificare l’origine dello Stato, bensì a porne il fondamento giuridico: in altri termini, essa rappresenta il criterio che impone di formulare la legge come espressione della «volontà comune» e consente pertanto di valutarne il carattere giusto o ingiusto. » (Gozzi 2010, 102)
4.2.6. Occorre riprendere infine la distinzione tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti espressa da Kant, in particolare, nella Critica del giudizio. Il giudizio determinante segue la logica della necessità e applica le forme a priori al dato dell’esperienza per definire concettualmente e legare scientificamente secondo necessità e universalità. Il giudizio riflettente considera il risultato conoscitivo, la realtà che ne emerge, alla luce di un fine la cui realizzazione non prevede un termine storico o fisico, ma si configura nella dimensione morale della immortalità: si tratta di una ripresa in gestione della realtà dal punto di vista di una finalità che trasmette al reale e all’agire in esso un nuovo principio di significato. In questa prospettiva l’azione politica e l’intera vicenda storica mette in luce sia la propria contingenza sia la propria tensione finalistica interna.
4.3. Diritto cosmopolitico: le condizioni morali, storiche e politiche della sua realizzazione e il divenire degli Stati, della società, dell’umanità.
L’impostazione cosmopolitica delle tesi che Kant esprime in scritti di carattere storico politico e giuridico, oltre ad avere il proprio fondamento trascendentale nell’analisi delle forme a priori e quindi universali della conoscenza, della volontà e del sentimento umani, derivano da analisi e prese di posizione di carattere storico, sociale e politico svolte sia da una prospettiva di filosofia della storia, ad impostazione teleologica, sia da uno studio delle condizioni che permettono di costruire un sistema giuridico in grado di permettere ai cittadini / sudditi la partecipazione alla società civile e quindi una situazione di pace.
4.3.1. Diritto cosmopolitico: condizione giuridica partecipazione e pace.
«Le condizioni per la creazione di uno stato giuridico che consenta di assicurare reciprocamente ai cittadini i loro diritti di libertà rappresentano, al tempo stesso, il primo articolo necessario, secondo Kant, per raggiungere lo stato della «pace perpetua». […] la partecipazione dei cittadini ai processi di formazione della volontà politica li sconsiglierà dall’intraprendere una guerra le cui conseguenze ricadrebbero su di loro. […] La riflessione di Kant sul problema della pace e del diritto internazionale ha attraversato una complessa evoluzione che lo ha portato a considerare a)le condizioni istituzionali della pace tra i popoli e b)i principi di un nuovo diritto il diritto cosmopolitico quale esito finale del cammino verso la pace.» (Gozzi 2010, 104-105)
4.3.2. Un procedimento analogico tra stato di natura e relazione storica tra Stati (situazione internazionale) e la ripresa di una situazione di contratto. «Le considerazione dello stato di natura tra gli Stati, assunto sulla base di un’analogia con lo stato di natura tra gli individui, viene costantemente ripresa e sviluppata da Kant. Così nello scritto Per la pace perpetua egli afferma che per gli Stati non vi è altra possibilità per «trarsi fuori dallo stato senza legge, in cui c’è soltanto guerra, se non che rinuncino, proprio come i singoli uomini, alla loro libertà selvaggia (senza legge), si adattino a leggi pubbliche coattive e così formino (certo progressivamente) uno Stato di popoli (civitas gentium) che infine comprenderà tutti i popoli della terra».» (Gozzi 2010, 105)
4.3.3. Ipotesi di un diritto internazionale e problemi attuativi per la sua efficacia. «Gli individui sono indotti ad abbandonare la provvisorietà dello stato di natura per i rischi cui è esposta la loro libertà naturale. E gli Stati? Sono forse indotti a sottoporsi a leggi pubbliche coattive per i rischi cui è esposta la loro sovranità in uno stato di guerra? L’abbandono dello stato di natura da parte degli individui è la condizione per il loro comune assoggettamento a leggi coattive poste da un sovrano.L’analogia tra gli individui e gli Stati qui si interrompe e Kant coglie lucidamente in questo nodo teorico le difficoltà connesse alla realizzazione istituzionale della pace tra gli Stati. La riflessione di Kant individua infatti con chiarezza la necessità di introdurre delle leggi che si impongano coattivamente agli Stati sovrani, ma riconosce la difficoltà di far valere sovranamente questa coazione.» (Gozzi 2010, 107)
4.3.4. Un progetto di federazione che coniuga autonomia e relazioni (di pace). «Nello scritto Sul detto comune Kant ammette che, essendoci il rischio che una costituzione cosmopolitica possa condurre «al più terribile dispotismo», gli Stati saranno spinti ad accettare una condizione che «non è un corpo comune sotto un capo, ma è tuttavia uno stato giuridico di federazione secondo un diritto delle genti stabilito in comune». … non suppone un sovrano comune (come in una costituzione civile), in quanto questa confederazione è soltanto «una associazione (confederazione)», ossia un’unione«che può essere disdetta in ogni tempo e che per conseguenza deve essere periodicamente rinnovata» (Metafisica dei costumi).» (Gozzi 2010, 107)
4.3.5. La natura ideale del progetto, ma occorre richiamare (ancora) la natura insopprimibile e imprescindibile dell’idea (e dell’ideale), come elemento strutturale costituente della ragione umana, individuale e sociale (Critica della ragion pura, dialettica trascendentale). «Kant è dunque ben consapevole della difficoltà di realizzare una condizione giuridica in cui tutto il diritto delle genti sia garantito perentoriamente mediante un’unione tra gli Stati simile a quella mediante la quale un popolo diventa uno Stato. Non può che concludere che la «pace perpetua» è un’idea impraticabile malgrado essa rappresenti la meta ultimadel diritto delle genti. Tuttavia la forza normativa di questo fine ultimo è insopprimibile, a giudizio di Kant. Egli fonda questo progetto sulla natura umana …»(Gozzi 2010, 108) « …l’originalità di Kant consiste nel ricondurre anche l’analisi del sistema internazionale delle relazioni tra gli Stati ad una fondazione antropologica.» (Gozzi 2010, 113)
4.3.5.1. Non è nelle aspirazioni di Kant superare realisticamente il sistema degli Stati; «la sua posizione si fonda invece sulla costante tensione tra l’esistente sistema degli Stati e la possibilità di trascenderlo in un orizzonte cosmopolitico.» (Gozzi 2010, 113) «La società cosmopolitica ècertamente un’idea impraticabile — e di cui Kant èpienamente consapevole — ma essa rappresenta anche un’idea regolativa che può guidare ogni sforzo verso la pace. […] Il fondamento della critica ècostituito dai principi del diritto cosmopolitico che rappresenta, come si èosservato, l’idea regolativa che pone le basi per un giudizio certo sia sul diritto dei popoli, sia sulle sue interpretazioni dei popoli extra europei. Comprendiamo qui tutte le implicazioni di questa idea regolativa, che pone le condizioni per un diritto della pace tra i popoli della terra. Esso infatti racchiude l’implicito riconoscimento della pari dignità di tutti gli uomini e di tutti i popoli come titolari di un «diritto al possesso comune della superficie della terra». Solo sulla base di questo riconoscimento è possibile un pacifico diritto di visita e, corrispettivamente, il dovere di un comportamento ospitale.» (Gozzi 2010, 116-117) E un futuro cosmopolita di società multiculturali e di individualità interculturali [tema ripreso in 4.4.]
4.3.6. Condizione necessaria e garanzia di attuazione del diritto internazionale è la sua natura formale; allo stesso modo che il formale, per Kant, è condizione a priori di possibilità e di libertà. «Negli scritti politico giuridici Kant affianca all’analisi del diritto delle genti, la fondazione del diritto cosmopolitico la cui natura consiste nel riconoscere non tanto i principi delle relazioni tra gli Stati (che sono l’oggetto del diritto delle genti), quanto piuttosto nel porre la necessità della garanzia dei diritti degli individui rispetto agli Stati.» (Gozzi 2010, 109)
4.3.7. In conclusione e sintesi, le direzioni dell’innovazione in più ambiti: l’articolazione del diritto nei suoi livelli, il divenire degli Stati, della società, dell’umanità.
4.3.7.1. «… sono tre gli elementi fondamentali del pensiero internazionalistico di Kant: a)il primo aspetto è la necessità di considerare la realtà internazionale come una società globale dell’umanità rispetto alla quale il sistema degli Stati èsolo un ordinamento residuale; b)il secondo aspetto èla credenza che non vi siano conflitti insolubili e che essi siano solo la conseguenza di una mancanza di illuminismo; c) infine il terzo elemento del pensiero di Kant è l’accentuazione della centralità della moralità come fondamento del cammino verso la pace.» (Gozzi 2010, 111)
4.3.7.2. Con il tema del diritto cosmopolitico internazionale federativo… prende forma il quadro complessivo dei livelli del fare diritto, secondo Kant, e la funzione organica della distinzione secondo livelli. «La questione del fondamento dei diritti umani si pone su diversi piani: a)nei diritto interno degli Stati; b)su di un livello internazionale; c)nel rapporto tra Stati appartenenti a diverse tradizioni culturali.» (Gozzi 2010, 125)
«Una debole fondazione dei diritti — per la persistente affermazione della sovranità degli Stati nazionali e per il rifiuto del loro universalismo da parte degli Stati non-occidentali — rappresenta il confine cui è giunto attualmente il cammino del diritto internazionale.
Il rischio connesso ad una debole fondazione è soprattutto quello di una strumentalizzazione dei diritti umani per l’affermazione degli interessi degli Stati nazionali.
Questo rischio può essere esorcizzato — come auspicava Kant — da un’opinione pubblica critica capace, da una parte, di demistificare le strumentalizzazioni dei diritti umani, ma anche, dall’altra, di respingere le critiche rivolte ai diritti umani da parte dell’antiumanismo «realistico». Tali furono, ad esempio, le critiche formulate da C. Schmitt.» (Gozzi 2010, 127)
In questo contesto Kant segnala e apre una doppia direzione: [1.] «… un approccio essenzialmente sociologico al diritto internazionale […da considerare non] come il prodotto di una volontà sovrana, bensì come espressione di una coscienza popolare […] l’espressione di una coscienza giuridica popolare, nella quale il diritto internazionale trovava il proprio fondamento e, in questa prospettiva, quei giuristi [i giuristi riuniti nell’Institut de droit international, fondato a Gand nel 1873] considerarono la professione giuridica come organo di quella coscienza popolare.» (Gozzi 2010, 135); fino a presentarla e farla diventare « diritto comune (common law) del genere umano.» (Gozzi 2010, 160); [2.] la traduzione del diritto internazionale in diritto positivo: «È particolarmente importante affrontare il rapporto tra diritto naturale e diritto internazionale positivo, giacché in questa relazione viene posto da alcuni autori il fondamento dell’universalismo del diritto internazionale occidentale.» (Gozzi 2010, 141-142) Ipotesi che si indirizza «…fino ad una visione giuspositivistica del diritto internazionale, all’interno della quale viene formulata l’idea di una società degli Stati retti dal diritto internazionale.» (Gozzi 2010, 156); ma senza che su tale direzione attecchiscano e si sentano legittimati progetti colonialistici: «le norme del diritto internazionale generale «devono adattarsi a gruppi sociali […] di civiltà profondamente diverse» (D. Anzilotti).» (Gozzi 2010, 147)
4.3.8. La speranza, l’evoluzione e il proposito in contesto cosmopolitico federativo: «… gli stati …sotto la spinta del loro proprio pericolo, anche se non costretti da una legge, si offrono come arbitri, e per tal modo tutto si prepara per una grande futura federazione di stati, di cui le generazioni passate non ci hanno dato alcun esempio. Sebbene questa federazione di stati appaia oggi soltanto abbozzata, comincia però a destarsi un presentimento in tutti i membri interessati alla conservazione del tutto, e ciò dà a sperare che, dopo qualche crisi rivoluzionaria di trasformazione, sorga finalmente quello che è il fine supremo della natura, cioè un generale ordinamento cosmopolitico, che sia la matrice, nella quale vengano a svilupparsi tutte le originarie disposizioni della specie umana.» (Kant Immanuel, Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, VIII, pp. 135-36) ( Bonanate Luigi 1976 Diritto naturale e relazione tra gli stati, Loescher, Torino)
Nella cornice di questa comunità internazionale di stati che propugnano come più alto valore la pace, l’umanità potrà dispiegare la propria razionalità, realizzando simultaneamente le proprie potenzialità e quelle della storia, i fini della cultura e quelli della politica. Questo è il regno dei fini in cui culmina l’agire etico degli uomini, oltre la loro vicenda personale.
4.4. una visione cosmopolita e interculturale dell’idea regolativa di umanità: una prospettiva cosmopolita a fondamento della visione etica, politica e giuridica di una idea regolativa di umanità. «Questa società cosmopolitica costituisce un’idea regolativa che presiede al cammino del genere umano» (Gozzi 2010, 124)
«Nello scritto Sul detto comune Kant dichiara, come noto, di discutere del rapporto della teoria con la prassi secondo tre diversi punti di vista: 1) il punto di vista dell’uomo pratico; 2) quello dell’uomo di Stato e, infine 3) quello dell’uomo cosmopolitico (o cittadino del mondo in generale). Quest’ultima prospettiva è quella cosmopolitica, in considerazione — precisa Kant — «del bene del genere umano nella sua interezza, e precisamente in quanto esso sia concepito in progresso verso quel bene nella serie delle generazioni di tutti i tempi a venire».» (Gozzi 2010, 123)
4.4.1. Il soggetto storico: l’umanità nella sua evoluzione culturale ed etica. «Per Kant il soggetto della storia universale è rappresentato non dai singoli individui, bensì dal genere umano, il cui cammino è concepito come un progresso incessante, all’interno del quale possono pienamente svilupparsi tutte le potenzialità dell’umanità. Solamente nella totalità può infatti manifestarsi, a suo giudizio, il valore dell’esistenza dell’uomo. Il punto di osservazione di questo processo incessante è occupato, secondo H. Arendt, dal “cittadino del mondo”». (Gozzi 2010, 123)
4.4.2. Il soggetto umanità e il corrispettivo culturale del pluralismo. «La prospettiva del cittadino del mondo è quella di un individuo capace di trascendere il proprio egoismo e di aprirsi alla possibilità del pluralismo. Il pluralismo del «cittadino del mondo» implica il superamento di quel modo di pensare che «abbraccia nel proprio io tutto il mondo» e ammette, ai di fuori della propria esistenza, «quella di altri esseri che stanno in comune con me (quel che si dice il mondo)».» (Gozzi 2010, 123-124)
4.4.3. «Il pluralismo come connotato di una società cosmopolitica dei cittadini del mondo ha al suo fondamento una disposizione morale. » (Gozzi 2010,124) «Se ci chiediamo se il genere umano sia una razza buona o cattiva, non c’è molto da rallegrarsi, afferma Kant, giacché si tratta di una moltitudine di persone viventi che «non possono evitare di essere costantemente in guerra le une con le altre». Ma proprio questo giudizio negativo «attesta in noi una disposizione morale, un’innata esigenza della ragione di lavorare contrariamente a quella inclinazione» al male e, dunque, di rappresentare l’umanità in un continuo sviluppo verso una progressiva organizzazione composta cosmopoliticamente di «cittadini del mondo». Questa società cosmopolitica costituisce un’idea regolativa che presiede al cammino del genere umano…» (Gozzi 2010, 124)
4.4.4. Lettura etica della tesi sulla immortalità dell’anima o il significato etico-storico e non metafisico della immortalità; da postulato dell’oggetto dell’imperativo categorico morale, la tesi dell’immortalità dell’anima diventa fondamento etico e politico di una partecipazione plurale alla società (in direzione diacronica e sincronica).
4.4.4.1. i concetti etici del sommo bene, della immortalità dell’anima, del «regno dei fini»:
«… tutto sembra ricondurci a limitare ogni idea della ragione soltanto alle condizioni del suo uso pratico. Infatti, non vediamo nulla davanti a noi che ci possa, già da ora, informare sul nostro destino in un mondo futuro, se non il giudizio della nostra coscienza, cioè quello che la nostra presente condizione morale, per quanto noi la conosciamo, ci consente di giudicare razionalmente a questo proposito: di giudicare, cioè, che quei principi della nostra condotta, dominanti in noi stessi sino alla fine (siano essi quelli del bene o del male), sopravviveranno anche dopo la morte, senza che noi abbiamo la minima ragione per pensare ad una loro futura modificazione.» (Immanuel Kant 1794 La fine di tutte le cose)
L’oggetto dell’imperativo categorico, considerato come la piena realizzazione (ideale) di una morale fondata sugli imperativi categorici come principi etici regolativi, è indicato con i termini: il sommo bene. La ragione di un simile oggetto ideale (oggetto di un concetto o versione oggettiva di un concetto pratico): l’efficacia di un sistema teorico si misura anche a partire dalla idea della sua completa realizzazione; la versione oggettiva di una teoria completamente attuata e, con ciò, l’idea di perfezione e quindi di uno scopo, fanno sorgere la teoria come realtà e come oggetto. Non è in questione (né è possibile) la dimostrazione dell’esistenza di tale realtà completa; si tratta solo di delineare il modello in studio con completezza e individuare, come processo ulteriore di ricerca, le condizioni e i postulati (perciò non dimostrati) su cui la teoria si deve fondare per raggiungere proprio quella completezza che il sistema teorico richiede per potersi considerare “scientificamente” legittimato. Tale è il concetto di “sommo bene” in Kant: non la descrizione di una situazione etica oggettiva, ma la versione oggettiva della teoria etica, l’oggetto di un concetto indicante il fine immanente e la definizione della legislazione morale in piena attuazione; la situazione che si delinea nell’ipotesi di una piena realizzazione degli imperativi categorici e non è un fine che si collochi all’esterno dell’azione etica e dei suoi principi.
Il sommo bene ha una funzione euristica: l’analisi del sommo bene porta infatti alla scoperta e indicazione di tutte le condizioni di cui l’etica ha bisogno per la sua piena pensabilità e ideale realizzazione (sempre concettuale); condizioni che vengono indicate come postulati del sommo bene, cioè postulati dell’oggetto dell’imperativo categorico (o postulati della teoria etica in generale definita con completezza sistematica); e sono: l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima. Anch’essi non dimostrabili quanto alla loro fisica esistenza, sono qui postulati necessari di una teoria, costituiscono cioè il necessario presupposto perché l’uomo possa sperare di raggiungere in una dimensione etica che raccoglie e supera le esperienze storiche individuali, quel sommo bene, unione di felicità e virtù, precluso alle singole persone. In tale prospettiva Dio (il concetto di Dio) si presenta come il garante assoluto di tale unione, l’immortalità dell’anima come la condizione oggettiva di tale possibilità. «È necessario che tutta intera la nostra vita sia subordinata a massime morali; ma è insieme impossibile che ciò accada, se la ragione non unisce con la legge morale, che è una semplice idea, una causa efficiente, che per la condotta a norma di quella determini un esito esattamente corrispondente ai nostri fini supremi, sia inquesta, sia in un’altra vita. Senza dunque un Dio e senza un mondo per noi ora invisibile ma sperato, le idee sovrane della moralità sono bensì oggetti di approvazione e di ammirazione, ma non motivi di proposito e di azione, poiché esse non adempiono tutto il fine, che per ogni essere ragionevole è, naturalmente e dalla stessa ragion pura, determinato a priori, e necessario.» (Kant, Critica della ragion pura, 617)
4.4.4.2. la ripresa storica, etica e politica, di concetti metafisici: immortalità dell’anima, Sommo bene, regno dei fini.
La motivazione teleologica e teologica del concetto etico del Sommo bene (o imperativo categorico in versione oggettiva) introdotta in contesto storico a indicarne il procedere positivo. «Infatti, non potrebbe certo esserci un sistema, secondo cui tutti fossero destinati ad essere dannati, in quanto, altrimenti, non ci sarebbe alcun motivo per giustificare il fatto che gli uomini siano stati creati; l'annientamento di tutti mostrerebbe una sapienza che ha fallito nel raggiungere il suo scopo, e che, insoddisfatta della propria opera, non conosce altro mezzo, per riparare alle deficienze della stessa, che distruggerla.» (Immanuel Kant 1794 La fine di tutte le cose)
Immortalità dell’anima: un postulato etico a valenza storica culturale sociale e politica.
L’affermazione dell’immortalità dell’anima, presentata nel campo dell’indagine morale (non nel campo della analisi dimostrativa e deduttiva delle forme a priori della ragione), non si presenta come una affermazione metafisica (o fisica) di esistenza né dell’anima, né della sua immortalità, ma è la versione etica della teoria e delle convinzioni diffuse circa l’immortalità. Il sommo bene, non raggiungibile dai singoli individui (ma a cui nessun individuo intende moralmente rinunciare nelle proprie aspirazioni e, soprattutto, in coerenza con la logica della propria ragione espressa dagli imperativi categorici, secondo «il fine, che per ogni essere ragionevole è, naturalmente e dalla stessa ragion pura, determinato a priori, e necessario.») ha un contesto di realizzazione se l’azione etica degli uomini non cessa con la loro esistenza, li supera, sopravvive alla loro vicenda personale e diventa costitutiva di una umanità veramente etica in cui l’azione degli uomini e dei popoli si ispira agli imperativi pratici della ragione, eredita, partecipa e condivide nel proprio agire quei principi e l’esito etico culturale che hanno prodotto. Da qui parte il sogno kantiano di una civiltà mondiale ispirata alla pace in cui gli individui si formino attraverso una partecipazione culturale di carattere cosmopolitico.
La spinta del regno dei fini: « Annotazione. Poiché, qui, noi abbiamo a che fare semplicemente con idee (o giochiamo con idee), che la ragione si crea da se stessa, gli oggetti delle quali (se esse ne hanno) si trovano totalmente al di sopra del nostro orizzonte, idee che, tuttavia, benché vadano oltre la conoscenza speculativa, non sono da ritenere vuote da ogni punto di vista, bensì ci sono date in una prospettiva pratica dalla ragione legislatrice stessa, non tanto per rimuginare sui loro oggetti, [su] cosa essi siano in sé e secondo la loro natura, bensì per indicarci come dobbiamo pensarle in relazione alle massime morali, riguardanti il fine ultimo di tutte le cose (per cui esse, che altrimenti sarebbero totalmente vuote, ricevono una obiettiva realtà pratica): - allora abbiamo un campo libero davanti a noi, per suddividere questo prodotto della nostra propria ragione…» (Immanuel Kant 1794 La fine di tutte le cose, Traduzione dal tedesco di Giancarlo Conti e di Silvia Sandrini)
Fonte: http://www.terzauniversita.it/corsi_13-14/dispense/corso3_lez1.doc
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