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KARL MANNHEIM
La consapevolezza che appartenere ad un gruppo sociale, o ad una determinata società storicamente e culturalmente determinata, condizioni il modo di osservare il mondo e di dare giudizi di valore su questo, è un problema di vaste implicazioni per il pensiero filosofico e scientifico attuale.
Il condizionamento sociale del pensiero è certamente un elemento che spinge ad accurate riflessioni perché ci rende conto che il nostro modo di vedere la realtà non è frutto soltanto ed esclusivamente della nostra soggettività ma che ha delle implicazioni oggettive inserite nel contesto nel quale veniamo ad esistere.
Riflettere sulla realtà per capirne determinati aspetti piuttosto che altri, produrre un certo sapere scientifico anziché un altro, definire una certa tecnologia piuttosto che un’altra, sono fenomeni della cultura condizionati dall’evoluzione complessiva della società. Anche se riflessioni particolari sul mondo della vita, sapere e metodo scientifico, sviluppo di una certa tecnologia influenzano, di ritorno, lo sviluppo stesso della società e del suo modo di costituirsi. Possiamo certamente dire che esiste un nesso dialettico tra società e modalità del pensiero nonché tra le forme del pensiero storicamente determinate ed il tipo di sviluppo che assume la società nel suo insieme: tuttavia ed in ultima analisi le condizioni dello sviluppo sociale, il modo con cui gli uomini trasformano la natura attraverso il loro lavoro, forma la sovrastruttura ideologica, il modo con cui il mondo viene pensato e le forme con cui viene vissuto.
E’ nota la concezione di Karl Marx secondo la quale le situazioni oggettive delle classi sociali, vale a dire il modo con cui gli individui organizzati socialmente trasformano con il proprio lavoro il mondo della natura o della realtà, condizionano il pensiero, così che si creano nell’ambito di una società storicamente determinata visioni del mondo diverse relative alle classi stesse.
Ebbene la “sociologia della conoscenza” o Wissenssoziologie è nata come consapevolezza intellettuale e ricerca teorica sulla constatazione che questo nesso tra idee e situazione del contesto storico-sociale sia un dato come problema e come fatto.
Non è certo nuovo il problema del rapporto tra società e pensiero nel senso di un condizionamento di quest’ultimo da parte della prima. Tuttavia si può certamente affermare che la Wissenssoziologie affronta il problema della socialità e della storicità del pensiero in termini globali ed onnicomprensivi. Non si tratta dunque di denunciare che qualcuno possiede un pensiero più condizionato di un altro perché appartiene ad una diversa classe sociale ma di” prendere atto”, come dato e problema allo stesso tempo, della socialità e della storicità del pensiero e dell’insieme delle nostre prospettive sul mondo.
Secondo la Wissenssoziologie il pensiero va inteso in stretto rapporto con la situazione storico-sociale da cui sorge tanto da non potersi pensare una modalità del pensiero, così come un linguaggio, che non abbia le proprie radici in un contesto sociale. Dal momento poi che esistono diverse società e diversificati contesti sociali che mutano nel tempo e nello spazio esistono pure diversi stili di pensiero.
Karl Mannheim è uno dei più famosi ed accreditati studiosi della Wissenssoziologie anche perché egli ha definito in modo piuttosto preciso gli elementi fondamentali di tale disciplina. La sua opera non è conosciuta soltanto dagli specialisti di questa disciplina perché i suoi interessi culturali si muovono in un ambito molto vasto che va dai problemi della filosofia del neocriticismo e dello storicismo a questioni di psicologia sociale.
Possiamo distinguere nella sua vita due periodi, anche se appare opportuno non delimitarli in modo troppo schematico. Innanzi tutto nasce a Budapest nel 1893. Tuttavia anche se di origine ungherese crebbe nel clima culturale tedesco e fin dall’inizio dei suoi studi affrontò il problema dello storicismo e delle sue conseguenze epistemologiche. Nel 1922 consegue il dottorato nell’università di Berlino. Nel 1925 si è già delineato il suo interesse per la sociologia della conoscenza; scrive e pubblica diversi scritti: Historismus, Das Problem einer Sociologie des Wissens etc. Nel 1929 a Bonn esce la sua opera più famosa: Ideologie und Utopie. Insegna all’Università di Francoforte sociologia fin quando, nel 1933, lascia la Germania nella quale si era delineata la dittatura nazista e si reca a Londra dove, nel 1936, pubblica la seconda edizione di Ideologia e Utopia. A Londra tenne la cattedra di pedagogia ed insegnò nella London Schhool of Economics e nell’Institute for Education. Il secondo periodo della sua vita al quale si fa riferimento è quella londinese nella quale i suoi interessi culturali si ampliano focalizzandosi soprattutto sui problemi della crisi storica che l’umanità stava attraversando, dei problemi della dittatura e della necessità di un suo superamento attraverso la programmazione e la ricostruzione di un nuovo equilibrio mondiale.
L’edizione londinese di Ideologia e Utopia risulta ampliata rispetto alla prima edizione ed approfondita in alcuni suoi temi. Muore a Londra nel 1947.
Mannheim individua subito l’oggetto d’indagine della sua ricerca: “Questo libro ha per argomento il concreto pensiero degli uomini. Scopo di questi studi non è pertanto quello di considerare il pensiero quale appare nei testi di logica, ma di osservare in che modo esso funziona nella vita pubblica e nella politica ovverosia come uno strumento di azione collettiva”.
L’idea di considerare il pensiero come uno” strumento di azione collettiva” e non come un presupposto teoretico od ontologico differenzia subito Mannheim e la sua ricerca da quella della filosofia tradizionale. Così come oggi si tende a qualificare il linguaggio come una vera e propria azione, come uno strumento che opera sulla realtà esistenziale, umana e sociale, perché capace di variare tali rapporti, allo stesso modo Mannheim considera il pensiero come uno strumento di azione collettiva perché il valore del nostro pensare ha risvolti pratici collaborando alla modifica della realtà. La modifica della realtà è tanto più incidente quanto più il pensiero stesso è un fatto che coinvolge una molteplicità di individui, è un fatto collettivo.
I nostri pensieri, come le nostre parole, incidono sulla realtà perché modificano i nostri e gli altrui comportamenti. Dunque non è suo interesse quello di studiare il pensiero come un apparato che produce schemi di conoscenza, soggettivi od oggettivi, ma come un sistema che produce risultati nello sviluppo della società e che la società, con il suo sviluppo, condiziona.
Ma vediamo meglio la disciplina che sviluppa tale tipo di indagine. “ La tesi principale della sociologia della conoscenza è che ci sono aspetti del pensare che non possono venire adeguatamente interpretati finché le loro origini sociali rimangono oscure. E’ senz’altro vero che l’individuo pensa. Non esiste sopra o sotto di lui un’entità metafisica, quale ad esempio la coscienza di gruppo, di cui il singolo potrebbe, al più, riprodurre le idee. Nondimeno sarebbe falso dedurre da un tale fatto che le idee ed i sentimenti di un individuo abbiano origine in lui soltanto e possano essere esaustivamente spiegati sull’unica base della sua esperienza.” Allora l’oggetto di indagine della sociologia della conoscenza è il fatto che esistono dei dubbi legittimi non sui pensieri personali di ciascun individuo ma sul fatto che tali pensieri non abbiano altra relazione che con la soggettività personale; che all’origine del nostro modo di produrre determinati pensieri ci sia soltanto la nostra soggettività.
Infatti: “ Così come sarebbe scorretto cercare di ricostruire un determinato linguaggio dall’osservazione di un solo individuo, che non parla affatto una lingua sua propria, bensì quella dei suoi contemporanei e di quanti lo hanno preceduto, così è errato spiegare l’insieme di una qualsivoglia prospettiva intellettuale facendo esclusivamente ricorso alla sua origine nella coscienza del singolo. Solo in un senso del tutto circoscritto l’individuo crea da se il modo di parlare e di pensare che noi gli attribuiamo. Egli parla nella lingua del suo gruppo e, nello stesso modo, egli pensa nel modo in cui pensa il suo gruppo. Egli trova cioè a sua disposizione certe parole e certi significati. Tali parole e tali significati veicolati dalle stesse parole determinano, in larga misura, le vie di accesso al mondo circostante ed indicano nel contempo da quale angolo di visuale ed in quale contesto di attività la realtà sia stata fino ad ora compresa da un certo gruppo o dall’individuo.” Dunque come sarebbe impreciso ricostruire un linguaggio, con i suoi significanti ed i suoi significati, sentendo parlare un solo essere umano che ha imparato dagli altri esseri umani che lo hanno storicamente preceduto tale linguaggio, allo stesso modo è impreciso ritenere che ciascuno di noi formuli dei pensieri, delle sensazioni, ignorando il fatto che anche noi abbiamo imparato da altri le cose che si pensano, che si possono provare e le situazioni che determinano tali pensieri. Se la società nella quale siamo venuti a nascere non conoscesse l’istituto matrimoniale nessuno di noi penserebbe di poter diventare padre o madre; ed al pari nessuno di noi penserebbe ad un periodo della vita nel quale sarebbe uno studente se la nostra attuale società non conoscesse l’istruzione di massa e la scolarizzazione conseguente. Venendo a mancare queste prospettive nei nostri pensieri, così come nel nostro linguaggio, la prospettiva o l’angolatura sotto cui osserviamo la nostra vita ed i nostri comportamenti sarebbe certamente diversa! Nessuno si attrezzerebbe nella vita per diventare padre o madre e nessuno farebbe degli studi per essere un insegnante. Ebbene la Wissenssoziologie cerca di cogliere le modalità del rapporto che esiste tra i nostri modi di pensare e le forme sociali presenti nella nostra cultura.
“ Il primo punto da mettere subito in evidenza è che la sociologia della conoscenza non parte di proposito dal singolo individuo per poi procedere, come fanno i filosofi, alle cime astratte del pensiero come tale. Piuttosto la sociologia del sapere cerca di comprendere il pensiero all’interno di una situazione storico-sociale, da cui la riflessione individualmente differenziata emerge solo per gradi. Pertanto non dobbiamo credere che siano gli uomini in generale, o le persone isolate, a pensare, ma piuttosto gli uomini che, inseriti in certi gruppi, hanno poi sviluppato un particolare stile di pensiero e caratterizzato la loro posizione attraverso un progressivo adattamento a determinate situazioni tipiche.” Mannheim sottolinea subito e con forza ciò che differenzia la sociologia della conoscenza dal rimanente e costituito pensiero filosofico: Essa non parte dall’individuo singolo per poi porsi il problema del pensiero nella sua possibilità di attingere un’astratta oggettività! Viceversa da per scontata la realtà del pensiero e delle forma operative nel quale esso si determina soggettivamente andandone a trovare la genesi nel contesto sociale ed osservandone il rapporto con i gruppi che si formano nelle società storicamente determinate.
Dirà infatti Mannheim: “ A rigore non è corretto dire che il singolo individuo pensa. E’ molto più esatto affermare che egli contribuisce a portare avanti il pensiero dei suoi predecessori. Egli si trova ad ereditare una situazione in cui sono presenti dei modelli di pensiero ad essa appropriati e cerca di elaborarli ulteriormente, o di sostituirli con altri, per rispondere nel modo più conveniente alle nuove esigenze nate dai mutamenti e dalle trasformazioni occorse nella realtà. Ogni individuo è dunque predestinato in duplice senso dal fatto di nascere e di crescere in una determinata società: da un lato egli trova una situazione ampiamente costituita e dall’altro egli ha a che fare con dei modelli già formati di pensiero e di comportamento.”Come il linguaggio che un individuo parla è il frutto di una sedimentazione storica di significati già pronti e già dati, nello stesso modo ciascuno di noi eredita modelli di pensiero adeguati alla società che viene ad abitare che egli elaborerà ulteriormente per rispondere in modo adeguato alle nuove condizioni che si presentano e ai mutamenti del contesto storico sociale stesso.
Il contesto storico-sociale nel quale il soggetto si viene a trovare determina le modalità del pensiero che egli troverà; pertanto “ La tesi che il processo storico sociale sia di grande importanza per la maggiore parte dei domini del conoscere riceve un appoggio dal fatto che noi riusciamo a capire da molte delle concrete affermazioni degli uomini quando e dove esse nacquero, quando e dove furono formulate. La storia dell’arte ha definitivamente mostrato che le varie espressioni artistiche possono essere datate a seconda del loro stile, in quanto ciascuna di esse è possibile in determinate condizioni storiche e rivela le caratteristiche di quella epoca. Ciò che è vero dell’arte vale, mutatis mutandis, anche per la conoscenza! Come per l’arte possiamo datare particolari forme di questa sulla base del loro rapporto effettivo con un particolare periodo storico, così anche nel caso del sapere noi possiamo riconoscere con crescente esattezza la prospettiva dovuta ad un particolare ordine storico…………………. La prospettiva significa in questo senso la maniera in cui si osserva un oggetto, ciò che si percepisce di esso e come lo si interpreta nel nostro pensiero!” Così come per l’arte è possibile determinare l’appartenenza di un oggetto ad una determinata epoca storica a partire dal suo stile, allo stesso modo è possibile determinare una forma di pensiero in rapporto alla prospettiva che una data epoca storica possedeva. Infatti ogni epoca storica costruisce un sua prospettiva, vale a dire un modo con cui si osservano gli oggetti, come li si percepisce e come li si interpreta. Dunque ogni epoca storica si caratterizza per la prospettiva con cui osserva gli oggetti della realtà. E dalla prospettiva con la quale gli oggetti vengono osservati si può dedurre l’età in cui tale forma di pensiero si è determinata.
Affermare che non si da forma di pensiero senza un contesto sociale, così come non si può pensare un linguaggio che non sia costruito per rivolgersi a qualcuno, è dire già molto ma appare opportuno specificare cosa si intende per” contesto sociale” e per “ pensiero”. Orbene Mannheim in Ideologie und Utopie concepisce il pensiero nel senso più vasto, in qualsiasi sua espressione; mentre il contesto sociale è concepito in termini di attività collettiva! Tuttavia quando il discorso di Mannheim si fa più specifico e deve entrare nei particolari il contesto sociale viene definito come l’insieme di interessi che uniscono o dividono gli individui in gruppi a seconda dell’attività che essi svolgono nell’ambito della struttura economico-politica di una società.
Appare allora l’influsso esercitato su Mannheim dalla teoria dell’ideologia di Karl Marx. E’ nota la concezione di Karl Marx secondo cui le condizioni oggettive delle classi sociali ne condizionano il pensiero così che si creano nell’ambito di una società visioni del mondo diverse relative alle classi. La classe sociale rappresenta un’entità reale nell’ambito della società, con una sua particolare visione della vita in rapporto dialettico con i propri interessi economici. La concezione marxista appare dunque come una vera e propria interpretazione sociologica della realtà. Però, secondo Mannheim, l’interpretazione marxista del rapporto tra classe sociale e forme del pensiero non coglie la portata generale della sociologia della conoscenza perché usa “politicamente” tale scoperta per smascherare il condizionamento dell’avversario. Pertanto Marx, anche se è giunto alla concezione totale dell’ideologia, non è giunto alla concezione sociologica della conoscenza.
Solo quando si esamina qualsiasi concezione del mondo in termini sociologici, cioè la si considera ipoteticamente condizionata in modo specifico dal contesto sociale, si giunge al problema della sociologia della conoscenza. Dal punto di vista sociologico non vi è motivo di considerare le concezioni particolari o la visione del mondo della classe avversaria condizionate socialmente in misura superiore alle proprie. Va comunque brevissimamente rilevato che Marx era pienamente cosciente del fatto che le espressioni della classe proletaria erano tanto condizionate socialmente quanto quelle della classe borghese. Il fatto è che per Marx il problema della sovrastruttura ideologica non è un problema “speculativo”, teoretico, ma un fatto pratico-politico. La classe borghese che nella società capitalistica detiene il potere è condizionata a pensare in termini di conservazione dello status quo, dell’ordine costituito, che le permette di mantenere il potere; la classe proletaria, che non detiene il potere, è invece condizionata a cercare di mutare l’ordine costituito per ottenere quel potere. L’ottenimento di tale potere non è comunque una scelta di parte egoista: il cambiamento, il movimento dialettico della storia, sono secondo Marx il presupposto di un maggiore progresso.
2) Pensiero ed attività collettiva
Il rapporto tra l’attività del pensiero e l’attività collettiva viene da Mannheim così specificata: “ Gli uomini non si limitano, come membri di un gruppo, a coesistere gli uni accanto agli altri. Essi…………….non si comportano come esseri solitari. Al contrario agiscono e interagiscono l’uno con l’altro all’interno di gruppi differentemente organizzati, ne diversamente procede il loro pensiero. Tali persone lottano per cambiare il circostante mondo della natura e della società o tentano di conservarlo in una determinata condizione, in conformità con il carattere e la posizione dei gruppi a cui appartengono. E’ proprio questa volontà, innovatrice o conservatrice del gruppo di appartenenza, a guidare i loro problemi, i loro concetti e le loro forme di pensiero. A seconda del particolare tipo di attività collettiva a cui prendono parte gli uomini tendono sempre a vedere il mondo che li circonda in modo diverso.” Se dunque la società, o le società storicamente determinate, hanno nel loro interno dei gruppi diversi che diversamente lottano per modificare il mondo naturale e sociale attorno a loro, chi volendolo cambiare e chi desiderando che le cose non mutino, proprio queste differenze portano ciascun individuo a vedere il mondo circostante in modo diverso. E così Mannheim continua: “ E’ del tutto erroneo pensare che l’individuo riesca ad elaborare una concezione del mondo procedendo dai soli dati della sua esperienza. Non possiamo neppure credere che egli confronti la propria con le idee degli altri, egualmente costruite in modo indipendente e che quindi, dopo una specie di discussione, venga alla luce la vera concezione del mondo e questa sia accettata da tutti. Contro una tale tesi è molto più legittimo scorgere nella conoscenza, fin dall’inizio, un processo cooperativo che nasce dalla vita del gruppo, dove ciascuno sviluppa il proprio sapere sullo sfondo di un fine e di un’attività comuni e superando le medesime difficoltà. Di conseguenza i risultati del processo cognitivo sono già, almeno in parte, differenziati, in quanto non tutti gli aspetti del mondo entrano nella prospettiva dei membri di un gruppo, ma solo quelli che pongono al gruppo delle difficoltà e dei problemi specifici. Anche questo mondo comune appare differente ai gruppi subordinati, inseriti in una società più vasta. Esso appare diverso perché i gruppi subalterni hanno, in una società funzionalmente differenziata, una diversa esperienza della medesima realtà.” In ultima analisi il processo di formazione del pensiero, più che fare riferimento ad un astratto confronto tra membri diversi di una determinata società, è da addebitarsi ad un processo cooperativo all’interno dei gruppi sociali che si determinano all’interno di una certa società storicamente determinata.
Per quanto riguarda la specificità del rapporto tra struttura sociale e forme del pensiero Mannheim così sottolineerà il rapporto: “ Se si dovesse rintracciare per ogni singolo caso L’ORIGINE ed il RAGGIO DI DIFFUSIONE di un certo modello di pensiero si potrebbe scoprire la particolare affinità che esso ha con la posizione sociale di dati gruppi e la loro maniera di interpretare il mondo. Con questi gruppi noi non intendiamo semplicemente le classi, come vorrebbe ritenere un tipo dogmatico di marxismo, ma anche le generazioni, i ceti, le sette, i gruppi di lavoro, le scuole, ecc. Se non si prestasse una scrupolosa attenzione a questi gruppi altamente differenziati e alle “diversità” corrispondenti nell’ordine dei concetti, delle categorie, dei modelli, se il problema della relazione tra sovra e sottostruttura non fosse approfondito a dovere, sarebbe impossibile dimostrare come alle molteplici forme di pensiero che sono apparse nel corso della storia corrispondono uguali differenze nella struttura della società. Beninteso noi non intendiamo negare che di tutti i raggruppamenti e di tutte le unità sociali summenzionate la “classe” sia la più importante. In ultima analisi tutti gli altri gruppi sociali nascono e si trasformano in rapporto alle più fondamentali condizioni della produzione e del potere. Nondimeno lo studioso che davanti alla varietà dei tipi di pensiero cerchi di determinarli rigorosamente non può appagarsi di un concetto indifferente alla classe ma deve fare i conti con le unità sociali esistenti ed i fattori che comunque condizionano una posizione in società.”
Dunque il nucleo da osservare per determinare i diversi stili di pensiero è la società nel suo insieme! Tuttavia Mannheim non può sottolineare che, in ultima analisi, è la classe sociale quella che determina i modelli più organicamente ideologici.
Il titolo stesso dell’opera principale di Mannheim, Ideologie und Utopie, esplicita il nucleo teorico della ricerca del Nostro
Al centro della riflessione sono posti questi due concetti, queste due categorie che formano un originale paradigma interpretativo, che esprimono la dinamica stessa a cui si può ridurre la dialettica di ogni società storicamente determinata e di ogni successivo sviluppo od entropia.
L’ideologia, secondo un significato molto estensivo, è l’insieme delle asserzioni coordinate allo schema prevalente che assume una determinata società. Sono le proposizioni, i pensieri, gli stili di pensiero ed i concreti comportamenti che rappresentano i valori egemonici di una determinata società. Sono ragionamenti di integrazione e di conformità.
Così ad esempio nella nostra società sono valori egemonici la produzione delle merci ed il loro consumo. Da ciò derivano tutti i pensieri ed i comportamenti che rientrano, direttamente o indirettamente, coscientemente o inconsciamente, in questo paradigma. Ad esempio: il clima della terra è sottoposto ad una rapida mutazione a causa dell’inquinamento industriale e di altre attività antropiche connesse allo sviluppo industriale! Occorre applicare al sistema un insieme di strategie atte a ridurre l’impatto dell’inquinamento sull’ambiente: l’uso di depuratori! Ma tali strategie hanno dei costi che riducono i margini del profitto e per mantenere elevato il saggio di interesse e la produzione delle merci o non si applicano i depuratori oppure si licenziano dei lavoratori; oppure si rimuove il problema e poi si vedrà. Ma se si vendono meno merci l’insieme dell’economia, e dunque il sistema stesso, entra in crisi: vi sono individui e intere classi sociali che temono più la crisi del sistema, il quale bene o male garantisce un certo benessere ed una certa gratificazione e/o sicurezza che uno sconvolgimento mondiale dei cicli naturali ed un’entropia generalizzata. Ed è per tale motivo che continuiamo a produrre e a consumare perché, al di là di tale modo di concepire l’esistenza, non riusciamo a pensare. Non riusciamo ad intravedere alternative: ed è questo il mondo del pensiero ideologico. L’ideologia è il paradigma del pensiero così legato al potere costituito da non riuscire a scorgere alternative alla situazione del momento. Dirà Mannheim: “ Il concetto di ideologia riflette una scoperta che è venuta emergendo dalla lotta politica; vogliamo alludere alle convinzioni e alle idee dei gruppi dominanti, le quali sembrano congiungersi così strettamente agli interessi di una data situazione da escludere qualunque comprensione dei fatti che potrebbero minacciare il loro potere. Con il termine ideologia noi intendiamo affermare che, in talune condizioni, i fattori inconsci di certi gruppi nascondono lo stato reale della società a sé e agli altri e pertanto esercitano su di esso una funzione conservatrice”. Mannheim insiste sull’elemento inconscio e comunque non consapevole del meccanismo della costruzione ideologica. Ma specifica in modo altrettanto preciso la “funzione conservatrice” dell’ideologia! L’ideologia infatti tende a conservare, nel momento in cui l’esprime, l’assetto della società di cui essa è espressione e prodotto.
Contrapposta all’ideologia è l’utopia!
Il concetto di utopia nasce nella cultura moderna da un testo di Thomas More così titolato nel quale si raccontano le condizioni di vita di un’isola sconosciuta, chiamata appunto Utopia, che possiede istituzioni diverse e migliori di quelle esistenti nelle altre società reali. Tuttavia il significato di tale isola felice e diversa dalle rimanenti società è quello di “luogo che non c’è!” ovverosia “ciò che non si trova in nessun luogo” (ou topos: non-luogo). Con tale termine si è indicata successivamente La Repubblica di Platone o La Città del Sole di Campanella! Questo perché tanto La repubblica di Platone quanto La città del sole di Campanella rappresentavano condizioni sociali non realizzate storicamente da alcuna società. Erano paradigmi teorici di strutture sociali-economiche nelle quali si realizzavano principi sociali e politici diversi dalla normalità perché finalizzati alla prospettiva di una società migliore per la realizzazione dell’umanità. Platone stesso afferma che la sua Repubblica non è mai stata realizzata e che forse è irrealizzabile: ma che tuttavia rappresenta una idea limite, un modello teorico, che indica un possibile sbocco alla crisi della democrazia ateniese e ad una migliore realizzazione dell’umanità intera.
Pertanto il termine utopia ha assunto una valenza piuttosto negativa ad indicare ogni ideale politico, sociale o religioso di difficile o impossibile attuazione. Tuttavia, grazie soprattutto a Mannheim e ad altri sociologi, il termine ha assunto anche il significato di aspirazione al rinnovamento di una realtà insoddisfacente, proponendosi come spinta ideale che sostiene un’autentica volontà innovatrice.
Mannheim infatti usa questo concetto di utopia nel senso dell’insieme dei ragionamenti di negazione che caratterizzano una parte della società stessa. Infatti dato il fatto che nelle società storicamente determinate convivono più classi sociali, quelle non egemoni, non partecipi ai processi di integrazione e di stabilizzazione, tendono a negare alcune, o l’insieme, delle concezioni del mondo predominanti nell’interesse della classe egemone.
Dirà infatti Mannheim: “Il concetto di utopia pone in luce una seconda e del tutto opposta scoperta: esistono dei gruppi subordinati, così fortemente impegnati nella distruzione e nella trasformazione di una determinata condizione sociale, da non riuscire a scorgere nella realtà se non quegli elementi che essi tendono a negare. Il loro pensiero è incapace di una diagnosi corretta della società presente. Tali gruppi non si occupano affatto di ciò che realmente esiste, bensì cercano con ogni mezzo di mutarlo. Il loro pensiero non è mai un quadro obiettivo della situazione ma può essere usato soltanto come una direzione per l’azione. Nella mentalità utopica l’inconscio collettivo che è mosso essenzialmente dai progetti per il futuro e da una decisa mentalità pragmatica, finisce con il trascurare certi aspetti della realtà. Esso volge le spalle a quanto potrebbe minacciare la sua convinzione profonda o paralizzare il suo desiderio di rivoluzione.”
Ideologia e utopia appaiono dunque come una condizione dell’equilibrio sociale che permette ad ogni società di oscillare tra mantenimento degli equilibri costituiti e spinte verso il cambiamento. Tuttavia se nelle società storicamente determinate prevalessero soltanto le forze della conservazione, ideologiche, si andrebbe irrimediabilmente verso l’entropia, la stagnazione e la crisi: fatto che storicamente si è spesso verificato con le grandi civiltà del passato. Quando una civiltà non riesce a rinnovarsi finisce con l’esaurire la propria spinta al mantenimento e per estinguersi.
Se immaginiamo una società come una struttura fisica nella quale agiscano forze dinamiche che ne mantengono la coesione possiamo pensare la stessa come un sistema fisico che per mantenersi impiega una certa quantità di energia; ma tale energia, se non è rinnovata, si disperde nell’ambiente circostante determinando uno stato di entropia sociale: la società non è più in grado di rispondere all’insieme delle richieste degli individui o dei gruppi. La complessità dei vari sistemi sociali storicamente determinati non trova risposte adeguate. L’ideologia, come sistema di integrazione nel sistema costituito, non è più capace di creare rinnovamenti: si ha una stagnazione economica frutto a sua volta di una stagnazione teorica o progettuale che dire si voglia. Se non intervengono “utopie”, ragionamenti di negazione al sistema costituito, nuovi progetti per rendere disponibili svolte rinnovatrici, cancellare ordini costituiti e proporre alternative, il sistema nel suo insieme finisce per collassate su se stesso: entra nella sfera dell’entropia, del disordine e del conseguente caos sociale.
E’ proprio la funzione della negazione, dell’utopia, quella di correggere un sistema ed all’occorrenza negarlo per costruirne uno nuovo!
Proprio in questa prospettiva di rinnovamento sociale-strutturale va letto il senso progressista che Mannheim attribuisce all’utopia. Le società storicamente determinate ad un certo punto del loro sviluppo evocano al loro interno processi mentali di critica cosciente, consapevole, che tendono a negare l’esistente costituito a favore di alternative nuove che permettono di rinnovare il sistema e di dare eventuali risposte ai nuovi bisogni, ai nuovi interessi che si vanno determinando. L’utopia appare pertanto la molla del cambiamento e delle trasformazioni che impediscono ad una società l’entropia attraverso il rinnovamento. Il senso mannheiano dell’utopia è il significato “progressista” di ogni rinnovamento fondato storicamente e razionalmente. Pertanto il termine utopia assume una connotazione positiva che non significa programma privo di concretezza ed impossibile ma piuttosto spinta ai cambiamenti che rendono possibile un nuovo sviluppo della società. Se l’ideologia tende a mantenere le forme costituite l’utopia tende alla variazione ed al cambiamento.
A Karl Mannheim non sfuggì il fatto che la disciplina con la quale egli si misurava intellettualmente era anche essa il prodotto sociale di un processo di sviluppo storico che richiedeva una analisi delle condizioni del condizionamento del pensiero. In altri termini come mai degli studiosi si erano posti il problema del condizionamento sociale del pensiero in una certa e determinata epoca storica; quali processi sociali avevano indirizzato verso lo studio e l’analisi dei fenomeni sociali che condizionano i modi del pensiero.
Egli così esprimerà la sua consapevolezza: “ Non è affatto un caso che il problema delle origini sociali e pratiche del pensiero sia emerso con la nostra generazione. Né è un caso che i fattori inconsci che hanno fino ad ora condizionato il nostro pensiero e la nostra attività siano stati portati, un poco alla volta, ad un livello di consapevolezza e resi quindi accessibili al controllo razionale. Mancheremmo al nostro scopo se non ci rendessimo conto che la riflessione sulle radici sociali del nostro sapere deriva da una particolare condizione della società. E’ una delle fondamentali tesi della Sociologia della conoscenza che il processo per cui i motivi collettivi inconsapevoli divengono espliciti avviene solo in una particolare situazione e non in qualsiasi epoca e condizione storica-culturale. Questa situazione è sociologica mente determinabile. Possiamo infatti individuare, con relativa precisione, le condizioni che spingono le persone a riflettere più sul pensiero che sulle cose del mondo e mostrare come, in questo caso, non tutto si faccia questione di una verità assoluta, quanto del fatto, in se allarmante, di una stessa realtà che appare diversa a differenti osservatori”.
Abbiamo riportato per intero questo brano di Ideologia ed utopia perché esprime una problematica storico-culturale rilevantissima per la Sociologia della conoscenza. Infatti uno dei presupposti metodologici di tale disciplina è che le forme e gli stili di pensiero nascono come risposta a ben determinate condizioni storiche e sociali: non si da pensiero senza contesto sociale! Anche l’attività “critica” che si sviluppa riflettendo coscientemente sulle condizioni della realtà e sui modi con cui questa viene costruita è socialmente indotta e determinata. In particolare, afferma Mannheim, l’attività dell’analisi concettuale emerge quando si ha coscienza che fatti uguali possono essere interpretati in modo diverso. Quando il contesto sociale assume consapevolezza di ciò scatta il metodo della riflessione sulle cose piuttosto che sull’accettazione passiva delle stesse. Quando cominciamo ad avere consapevolezza che esistono una pluralità di interpretazione sulla realtà cominciamo ad non accettare più le cose come sono date dalla nostra sociocultura e cominciamo a riflettere sul come tutto ciò sia possibile. La sociologia della conoscenza è il prodotto culturale della consapevolezza che esistono modi diversi di leggere e di commentare la realtà. Wittgenstein afferma che la filosofia comincia con la frase: “non mi ci raccapezzo!”, vale a dire mi accorgo che esiste un problema a cui non riesco a dare immediata soluzione e risposta. Proprio in quel momento nasce un processo mentale con il quale cerco di rendermi conto di come stanno le cose. In modo quasi analogo Mannheim afferma che il pensiero riflessivo comincia quando ci rendiamo conto che esistono modi diversi di interpretare gli stessi fatti. Ebbene, da un punto di vista sociologico, quando avviene questa consapevolezza? Secondo Mannheim in primo luogo quando all’interno di una società prevalgono elementi di disaccordo: se siamo in accordo sui fatti e sulla disposizione delle cose, se accettiamo l’ordine esistente, non abbiamo motivo per cominciare ad accorgerci che alcune cose non funzionano. Dirà Mannheim: “ Finché i significati delle parole e i modi del ragionamento permangono gli stessi per ogni membro del gruppo una divergenza del pensiero non può esistere in quella società”.
Fino a quando le forze di condivisione rimangono forti non ci si accorge delle diverse prospettive e l’individuo si trova perfettamente integrato nel gruppo e nella Weltanschauung che questo esprime.
Affinché la molteplicità dei modi del pensiero riesca ad essere percettibile e diventi un argomento di riflessione occorre che si sviluppi la mobilità sociale in verticale oltre a quella orizzontale.
“E’ anzitutto l’intensificarsi della mobilità sociale a distruggere l’illusione, dominante nelle società statiche, secondo cui ogni cosa può mutare ma il pensiero rimane eternamente lo stesso. Comunque le due forme della mobilità sociale, l’orizzontale e la verticale, contribuiscono in differente maniera a rivelare questa molteplicità dei modi del pensiero. La mobilità orizzontale ci mostra che i vari popoli o gruppi pensano in maniera diversa…………………………Solo quando la mobilità orizzontale è accompagnata da un’intensa mobilità verticale, cioè da un rapido movimento tra i diversi strati nel senso di un’ascesa o di un declino sociale, la fiducia in una eterna e generale validità delle proprie forme di pensiero viene spezzata. La mobilità verticale contribuisce in modo decisivo a rendere le persone incerte e scettiche nei confronti della loro tradizionale concezione del mondo.”
Dunque alla radice della nascita della Sociologia della conoscenza vi è un’epoca storica caratterizzata dalle forze della disgregazione dovute alla rapidità della mobilità sociale, soprattutto verticale, che permette agli individui di accorgersi dell’esistenza di diverse prospettive con cui è possibile osservare le cose e la realtà e che li obbliga ad una riflessione su questa consapevolezza. In una società statica e con scarsa mobilità sociale è difficile che ci si accorga delle differenze relativa all’osservazione delle cose.
Se provengo da una famiglia contadina e trascorro tutta la vita a contatto con la natura, con i ritmi ripetitivi e ciclici del mio lavoro di coltivatore, finirò inconsapevolmente con il ritenere che tutte le cose del mondo abbiano una loro ciclicità e che i problemi del mondo intero sono quelli delle poche persone che frequento saltuariamente nel mio piccolo paese. Ma se mando mio figlio a scuola nel paese viciniori; se questo si accultura e viene in contatto con problematiche diverse, magari apprese sui libri o dai suoi insegnanti o dai compagni che non provengono solo da famiglie contadine; se infine mio figlio decide di dedicarsi agli studi universitari di agraria nell’università della vicina città, alla fine egli si troverà a capire che le verità, i ritmi della natura o il senso del piacere, del tempo libero, delle stesse tecniche e dei problemi della vita non si risolvono in una unica prospettiva già data e costituita una volta per tutte in un orizzonte limitato. Acquisterà piuttosto una visione allargata e molteplice dei problemi della vita e si renderà conto che esistono molte soluzioni possibili e differenziate: dopo di che assumerà coscienza e consapevolezza della molteplicità dei punti di vista e delle soluzioni possibili. Diventerà scettico ed insicuro rispetto alle soluzioni di cui prima disponeva in modo quasi acritico. Si porrà interrogativi e finirà di immaginare il mondo come un continuum scontato e rassicurante.
Una delle parti dell’opera di Mannheim che contiene più implicazioni filosofiche è certamente quella che fa riferimento alla problematica emersa da tutto l’ambito di studio della Wissenssoziologie. Infatti se il pensiero è comunque condizionato dai modi di essere storico-sociale quale spazio resta alla libera scelta dell’individuo? Ed ancora: in una società che determina ideologicamente i modi di pensare e di interpretare il mondo fino a quale punto l’individuo può sentirsi autonomo nella sua soggettività di scelta; oppure nelle sue responsabilità etiche e morali?
Insomma il problema del condizionamento sociale del pensiero attraverso l’ideologia che ci integra, in modo spesso per noi inconsapevole, all’interno dei valori sociali costituiti, si riversa all’interno della condizione umana mostrando non pochi interrogativi consequenziari e fortemente problematici.
In questa sede non possiamo dilungarci approfondendo in pieno la portata del problema. Tuttavia la risposta dello stesso Mannheim può già considerarsi uno spunto di riflessione, o di soluzione, non indifferente. Egli così si esprime sul problema: “ Noi diventiamo padroni di noi stessi quando le cause inconsapevoli che, prima di saperle, ci erano nascoste,irrompono improvvisamente nel dominio della conoscenza e si prestano ad una direzione razionale. L’individuo raggiunge un sapere obiettivo……………………….. attraverso l’esame ed il confronto di se medesimo. Criterio di tale presa di coscienza è che non solo la realtà ma noi stessi diventiamo oggetto di una possibile conoscenza. In alti termini scopriamo noi stessi non già come astratti soggetti pensanti ma come uomini direttamente impegnati e coinvolti in una situazione fino a qui sconosciuta e premuti da condizioni di cui prima non eravamo consapevoli………………….Di qui il paradosso che sta alla base di queste esperienze secondo cui la possibilità di emanciparci, seppure in modo relativo, dalle determinazioni della società cresce in proporzione alla conoscenza che ne abbiamo.”
E’ certamente vero che attraverso le indagini della sociologia della conoscenza noi perveniamo alla conoscenza che il nostro modo di pensare la realtà subisce dei condizionamenti! Ma è altrettanto vero che questa consapevolezza ci permette di stare attenti, e di operarne un controllo critico, a quegli stessi condizionamenti e di tenerli sotto controllo in modo tale che questi non ci sopraffacciano a nostra insaputa e non possano agire operando in modo per noi incontrollabile. Dunque non si può non giungere all’affermazione secondo cui prendere coscienza dei fattori che “determinano” il pensiero conduce certamente ad un maggiore grado di libertà in quanto tali fattori agiscono come forze incontrollate fin quando non vengono portate al livello della coscienza ed a tale livello è possibile un certo margine di controllo su di essi, una certa libertà da essi. Solo la consapevolezza che alle nostre spalle si muovono forze che costringono l’orizzonte delle nostre scelte ci rende più autonomi perché capaci di eseguire un controllo su tali stesse forze.
Dirà a tale proposito Mannheim che: “ Le persone che più discorrono dell’umana libertà sono poi quelle che finiscono con l’essere più soggette alla determinazione sociale: esse sono infatti lungi dl sospettare in quale elevata misura la loro condotta sia condizionata da specifici interessi. Diversamente da costoro sono proprio coloro che insistono sull’influenza, spesso non percettibile, esercitata dai fattori sociali sul comportamento, a cercare di superarli. Essi intendono scoprire i motivi inconsci della condotta per trasmutare queste forze in oggetti di consapevole decisione razionale.”
Connesso al problema della “libertà” è il tema “dell’intellighentsia”, vale a dire il ruolo e la funzione che hanno gli intellettuali all’interno delle società contemporanee. Ruolo tanto nella creazione del livello ideologico quanto nella produzione dell’utopia.
Mannheim ritiene che la persona culturalizzata partecipa alle varie tendenze ed alle diverse pressioni sociali non limitandosi soltanto ad integrarsi, ad assorbire la Weltanshauung di un gruppo particolare al quale egli appartiene. Questo perché gli intellettuali, in epoca soprattutto contemporanea, vengono reclutati da settori molto ampi della vita sociale. Soprattutto con l’ascesa della borghesia questo processo si viene ad accentuare e la classe degli intellettuali, di coloro cioè che lavorano producendo apparati concettuali sia scientifico-tecnici che umanistici, viene captata da classi diverse. La collocazione sociologica di tale classe è piuttosto particolare. Infatti: “ Sebbene sia situato tra le classi tale ceto non costituisce una formazione di centro. Non che codesto gruppo sia sospeso in un vuoto sociale dove non penetrano degli interessi sociali; al contrario esso accoglie in se tutti quei fermenti di cui la vita della società è permeata”.
Questo significa che in questo ceto vi è una grande ricchezza ed un pieno riconoscimento della diversità delle prospettive esistenti in un contesto sociale storicamente determinato. La classe degli intellettuali dunque ha una conoscenza delle diverse prospettive che esistono nella società e non è aprioristicamente legata a nessuna prospettiva rigidamente ideologica. In questo senso essi hanno maggiore consapevolezza delle prospettive relative degli altri ed anche della loro particolare prospettiva di sapere vedere un insieme diversificato di prospettive. Pertanto subiscono meno il condizionamento, perché ne sono consapevoli, ed ottengono margini di maggiore liberta ed autonomia dagli stessi condizionamenti.
La concezione mannheiana per la quale la consapevolezza di fattori che condizionano il nostro pensiero ed il nostro agire ci permette di esplicare una maggiore autonomia rispetto al fatto di non saperlo, e di ottenere così un maggiore grado di autonomia e libertà, è certamente vicina a quello di un altro grande intellettuale dell’epoca contemporanea: Sigmund Freud.
Anche la concezione di Freud si fonda sull’idea che esiste un livello inconscio della nostra personalità, formato dalle pulsioni primarie, che costituisce una serie di idee, di comportamenti che spesso sfuggono alla nostra comprensione. Ciò perché non ci rendiamo conto da dove provengano quelle idee, quelle sensazioni, quelle immagini e quei comportamenti che tanto spesso ci lasciano interdetti e magari sconcertati ed impauriti. Il fatto è che il livello del “ logico” e del ” razionale” non è che una punta di quel continente sommerso formato dall’insieme delle nostre pulsioni primarie, biologiche e dovute al nostro vissuto infantile. Il continente dell’inconsapevolezza emerge di tanto in tanto proponendoci idee, sensazioni e desideri che mai sospetteremmo che albergassero in noi. Dunque fin tanto che tali pulsioni vengono represse nell’inconscio noi non possiamo controllarle: ma quando ne otteniamo conoscenza analizzando noi stessi o conoscendo le nostre sofferenze coscienti, possiamo meglio controllarle, magari non soffocandole con la censura e con la pressione del superio.
Dunque, sia pur partendo da due ambiti disciplinari differenti, tanto Freud quanto Mannheim convergono nel fatto che una cosa conosciuta permette un controllo maggiore che ci rende certamente più liberi ed indipendenti.
L’ultimo tema rilevante, soprattutto all’interno dell’ orizzonte filosofico, appare certamente quello legato ai problemi dell’epistemologia mannheiana.
Se infatti appartenere ad un gruppo, ad un contesto sociale, significa essere condizionato in talune forme del proprio pensiero, ciò comporta il correlato di una libertà limitata nell’orizzonte delle possibilità storicamente realizzate. L’unica possibilità che permette un certo controllo sui condizionamenti operanti a nostra insaputa è di avere consapevolezza di questi condizionamenti e di poterli, così, in qualche modo controllarli e tenerli a bada. Questo avviene con una certa frequenza nell’ambito dell’intellighentsia, della classe cioè degli intellettuali, i quali provenendo da classi diverse, percepiscono meglio degli altri la pressione sociale e cercano di restarne all’esterno preservando così una sfera più ampia di libertà. Tuttavia se si individua un condizionamento sociale del pensiero il corollario più evidente è che non si possa parlare di una libertà assoluta, vale a dire etimologicamente “sciolta” dalle coordinate storico-sociali, ma che si debba parlare di una libertà relativa ai contesti sociali e culturali nella misura in cui siamo vigili e consapevoli che questi condizionamenti esistono e che dobbiamo tenerli a bada con il nostro pensiero critico.
Ma accanto al problema della “libertà” si affianca quello della “verità”. Dal momento che i contesti sociali sono molti e diversificati sono i conseguenti “stili di pensiero” come si può stabilire chi ha ragione e chi non ha ragione, chi vede le cose nel giusto modo e chi li vede in modo sbagliato o comunque parziale? Mannheim avverte il bisogno di fare chiarezza su questo problema cruciale della Wissenssoziologie, di definire il problema della possibile verità.
Egli segue un discorso estremamente lucido e coerente sotto il profilo della logica della sociologia della conoscenza. Infatti: “…..il fatto che ogni misura nello spazio dipende dalla natura della luce e dalla sua velocità non significa che le nostre misure siano arbitrarie quanto piuttosto che esse sono valide in relazione alla luce; allo stesso modo è il “relazionismo”, e non già il relativismo e l’arbitrarietà in esso implicita, che si applica alle nostre discussioni. Il relazionismo non significa che manchino criteri di verità nella discussione. Secondo esso è proprio della natura di certe affermazioni il non potere venire formulate in assoluto, ma solo nei termini della prospettiva posta da una determinata situazione.”
Secondo il “relazionismo” il significato di una proposizione, di un discorso o di una azione, è correlato alla situazione nella quale si determina il significato della proposizione, dell’azione o del discorso. Se i tempi storici e le condizioni dell’evoluzione sociale non permettono a due persone di divorziare, e dunque debbono scegliere altre strategie di comportamento, ciò non significa che il problema dell’impossibilità del divorzio sia un errore rispetto ad un’altra fase storico-sociale. Significa solo che le condizioni relazionali non permettono di operare una separazione giudiziale tra due coniugi. Dunque ogni verità è in rapporto alle situazioni ed alle prospettive all’interno della quale ciascuno si trova. Ed all’interno di quelle prospettive che ciascuna cosa può essere giusta o sbagliata. Quindi all’interno della prospettiva nella quale ciascuno si trova le sue verità avranno un senso o meno.
Tuttavia affermare che ogni visione del mondo è sempre necessariamente in relazione ad un certo contesto sociale e la sua validità e limitata a tale contesto non significa superare l’istanza scettica e relativistica. Significa piuttosto affermare che la verità non è mai data tutta in una volta, non è mai radicata, una volta e per sempre, in qualche parte conosciuta. Ma piuttosto che questa si costituisce all’interno dei diversi ambiti storico-sociali e che rappresenta un’approssimazione a quell’insieme di verità che costituiscono il patrimonio scientifico tecnico e quello delle istituzioni civili.
Il fatto che il punto di vista da cui osservo il mondo sia all’interno di una prospettiva condizionata non significa che tale punto di vista sia falso o non vero! Significa solo che il mio punto di vista, i giudizi di valore che questo contengono, le azioni che ne derivano, può essere vero all’interno di quella prospettiva. Fuori da tale prospettiva potrebbe essere condizionato, distorto o non vero.
E tuttavia nella misura in cui mi rendo conto di non avere una verità certa, che dietro al mio pensare ed agire si nascondono forze che operano fuori la portata della mia consapevolezza, posso anche stare in guardia dalle certezze presuntuose, dogmatiche ed irrazionali che ogni tanto mi fanno pensare che ho più ragione degli altri. Se ho la certezza di questo “ dubbio” la verità si può anche pensare di trovarla, sia pure parzialmente, in compagnia degli altri.
Serafino Busacca.
Insegnante di Filosofia, Psicologia e Scienze dell’educazione
Presso L’Istituto Giuseppe Lombardo Radice di Catania.
La fama di Karl Mannheim è sostanzialmente legata all’analisi della sua opera più famosa, Ideologia e Utopia. In tale opera il sociologo di Budapest tende allo smascheramento del contenuto del pensiero ideologico, cioè legato alla struttura storica ed economica di una determinata società. L’ideologia rappresenta la modalità del pensiero integrato nei valori di una determinata società: essa è praticamente inconscia, non propone nessuna trasformazione delle strutture economiche e sociali con le quali è in rapporto; ha dunque una funzione integratrice e conservatrice!
L’utopia si configura al contrario come l’insieme dei ragionamenti di negazione allo stato di fatto esistente; crea nuove forme di pensiero e nuove visioni del mondo e, in una parola, propone progetti di cambiamento sociale.
Il pensiero di Mannheim e la sua attualità riflettono il desiderio della cultura contemporanea per nuove e più concrete forme del sapere dopo la crisi della metafisica ottocentesca ed il relativismo dell’epistemologia novecentesca. Tale pensiero appare ulteriormente attuale per la crisi delle grandi sintesi ideologico e politiche e l’apparire del “pensiero debole” sostenuto anche dalla psicoanalisi.
Come molti intellettuali del periodo nazifascista viene espulso dall’università di Francoforte nel 1933 e ripara in Inghilterra. In tale nazione tiene la cattedra di Pedagogia all’università di Londra ed insegna anche nell’Istitute for Education. Proprio in tale periodo elabora un insieme di riflessioni sul problema dell’educazione. Il suo modo di affrontare tale problematica appare nuovo rispetto al passato e si indirizza prevalentemente ad analizzare il rapporto tra elementi dell’educazione e sviluppo socio-economico delle varie società. Si tratta di un’educazione non più considerata come forma astratta di un’egualmente astratta società: ma piuttosto come una modalità dello sviluppo sociale e dei fattori che la società, nel suo insieme, richiede all’educazione nel forgiare l’essere umano.
Il punto di partenza di Mannheim è centrato sul rapporto tra famiglia ed integrazione sociale. Egli tende a vedere nell’educazione un fattore di profondo rinnovamento al fine di creare un consenso su alcune nuove strutture sociali della società occidentale postbellica. Dobbiamo infatti ricordare che l’esperienza della dittatura nazifascista, l’obbligo di esilio per gli intellettuali dissidenti e di origine non ariana, nonché le atrocità del secondo conflitto mondiale, lo avevano spinto ad accettare positivamente l’avvento delle democrazie liberali che caratterizzavano l’occidente anglo americano. Tali forme di democrazia apparivano a Mannheim come il nuovo, l’utopico rispetto alle dittature del Novecento. Pertanto i processi di scolarizzazione dovevano essere diretti a stimolare un consenso verso tale forma sociale che aveva assunto la società occidentale postbellica: la forma della democrazia parlamentare.
La funzione dell’educazione a proporre e supportare tale rinnovamento verso una società democratica non può essere effettiva, reale e concreta, secondo Mannheim, se l’educazione viene considerata solamente un momento transitorio dell’esistenza.
Egli infatti dirà: “ La scuola può adempiere alla funzione di creare un consenso attorno alla scelta della democrazia se non viene considerata come una istituzione all’interno della quale passiamo soltanto i nostri anni giovanili! Ma piuttosto come qualche cosa che è al servizio, in un modo o in un altro, dell’intero sistema sociale e della vita adulta. In altre parole noi concepiamo l’uomo come un essere che impara eternamente”.
Allora l’educazione può avere la funzione di esprimere un consenso ed una vera e propria adesione al modello della democrazia se non si limita ad essere il presupposto di un periodo limitato dell’esistenza: quello degli anni giovanili e della scolarizzazione in senso stretto. Ma piuttosto, dal momento che l’essere umano impara per tutto l’arco dell’esistenza, l’educazione deve essere intesa come una modalità costante che partecipa a fortificare il consenso verso la democrazia. Se la consideriamo come un periodo della vita essa rischia di rimanere un contenuto appartenente al periodo giovanile e scollato dallo sviluppo dell’individualità adulta. Aderire ad un sistema complesso come la democrazia implica un costante aggiornamento del sapere, un partecipare al rinnovamento del sapere attivamente e con impegno.
Comunque Mannheim si spinge più lontano nella definizione dell’educazione e della sua funzione. Egli parla infatti di una educazione che sia “ un’educazione al mutamento”. Egli affermerà infatti che negli Stati Uniti i corsi di aggiornamento post universitari sono della massima importanza perché: “ essi fanno sì che anche colui che è molto ben preparato si renda conto che in un’età di rapido mutamento sociale e tecnologico nessuno può essere certo che ciò che egli ha imparato in gioventù lo accompagnerà tutta la vita”.
Oggi stiamo sempre più verificando la precisione di tale osservazione mannheiana. In una società statica e ripetitiva, a basso sviluppo tecnologico, le conoscenze acquisite sono sufficienti per tutto l’arco dell’esistenza. Ma quando i ritmi di evoluzione sociale e tecnologico si fanno rapidi il patrimonio cognitivo deve essere costantemente aggiornato e riveduto.
Attualmente sappiamo benissimo e soprattutto abbiamo consapevolezza che i contenuti cognitivi che esprime la scuola hanno una valenza essenzialmente “metodologica” perché la rapida evoluzione dei saperi non consente soste agli apprendimenti ed il patrimonio scientifico- tecnico cambia così rapidamente da doversi costantemente aggiornare sui nuovi contenuti. Ma anche il patrimonio delle istituzioni civili si evolve con grande rapidità obbligandoci ad adattarci a nuove situazioni sociali, ad una più accentuata mobilità sociale orizzontale ed ai conseguenti adattamenti lavorativi e professionali. Insomma ciò significa che uscendo dall’istruzione superiore o dalla stessa università ci accorgiamo rapidamente che le nostre conoscenze sono obsolete e superate rapidamente e dobbiamo riaggiornarci costantemente: insomma non finiamo mai di imparare perché ciò che sappiamo cambia in continuazione.
A Mannheim non sfuggono i paragoni storici e nota che “mentre la scuola del passato era costituita da un’atmosfera libresca separata dal tessuto connettivo della vita reale in un periodo nel quale le mutazioni culturali e sociali sono rapidissime ciò non può essere più accettato” e la scuola deve adempiere funzioni diverse da quella di stimolare soltanto apprendimenti esteriori e libreschi. In particolare la scuola non può essere considerata “ un terreno di addestramento in vista di un adattamento imitativo ad una società stabilita” proprio perché la condizione della società contemporanea è quella di mutare rapidamente nei suoi contenuti culturali e sociali.
Dunque la scuola non può avere una funzione integratrice e di adattamento al semplice costituito perché tale costituito, il definito scientifico-tecnico ed il patrimonio delle istituzioni civili, varia incessantemente con sempre maggiore rapidità.
Egli afferma che nessuno può prospettare per i propri figli una educazione simile a quella da lui ricevuta perché l’ambiente e le circostanze nelle quali essi vivranno saranno certamente diversi da quelle precedenti: “ Nemmeno il più conservatore dei genitori si aspetta che i suoi figli vivano in un mondo quale lui ha conosciuto. Egli è obbligato a scegliere l’educazione al mutamento e non quello all’adattamento imitativo, un’educazione basata cioè sul presupposto che il proprio figlio dovrà fare fronte alle nuove sfide del futuro! Ancora oltre la scuola può essere considerata non solo un’introduzione in una società già dinamica ma un agente dello stesso mutamento sociale”.
Ci limitiamo ad osservare come con atteggiamento estremamente predittivo Mannheim osserva una funzione che poi la scuola ha effettivamente svolto nel secondo cinquantennio del Novecento in tutti gli stati: cioè di essere un agente delle stesse trasformazioni sociali! Dunque la scuola non può che assumere un atteggiamento dinamico nei confronti della stessa società proponendo il rinnovamento dei contenuti del sapere e dell’apprendimento. Nella trasformazione ormai in atto della famiglia patriarcale di origine contadina in famiglia nucleare spetta alla scuola assumere i compiti che una volta spettavano alla famiglia.
Questo nuovo compito di promuovere il cambiamento sociale e di assumere funzioni prima patrimonio della famiglia può essere sviluppato se la scuola assume uno status meno libresco e più aperto ai problemi della vita concreta.
Tutto ciò, secondo Mannheim, stava già avvenendo perché “L’istruzione in se stessa ha cambiato significato”. Nelle civiltà del passato la cultura era considerata come uno scopo sacro, lontana dalla vita reale e quotidiana! Questo perché la società arcaica tende ad estendere il formalismo del consenso attraverso la ripetizione dei comportamenti che hanno mostrato di avere successo e che garantiscono le sicurezze. Il sapere antico “ giovava a pietrificare la conoscenza, a istillare venerazione per il sapere del passato e inibizioni verso lo scardinamento del vecchio in favore del nuovo………..L’idea non era di creare una mente in espansione ma una mente ristretta e limitata alla dottrina accettata ed approvata”.
A causa dei profondi e radicali mutamenti economici e tecnologici che ha subito la civiltà occidentale con la seconda rivoluzione industriale e con la civiltà del macchinismo e della tecnologia e, attualmente, dell’informatica e della telematica, il carattere sacrale della cultura e dei saperi è venuto meno! Mannheim ritiene che la civiltà contemporanea tende a produrre idee nuove, nuovi comportamenti, nuove regole e, dunque, appare necessaria un’educazione che si occupi del mutamento, un’educazione al mutamento!
Mannheim riprende in modo sostanziale il celebre motto educativo dei Romani: non scholae sed vitae discimus! In modo sostanzialmente uguale G. Burns ha scritto: “ Per l’uomo moderno l’educazione è un aprirsi ad un mondo più ampio………….. il compito della scuola è di mostrare come imparare più efficacemente per la vita, come trarre corrette conclusioni dall’esperienza, come diventare educatori di se stessi.”
La visione che Mannheim ha dell’educazione è certamente condivisibile. Non è infatti ignorabile che le conoscenze e le competenze richieste dalla moderna società, dalla nostra società nella quale la velocità di cambiamento del patrimonio scientifici-tecnico e di quello delle istituzioni civili è rapidissima, sono in costante evoluzione e variano incessantemente. Ciò significa che non possiamo dare contenuti di conoscenza che valgano in eterno e che fissino una realtà che non esiste più. Il prezzo di una simile scelta corrisponderebbe allo sparire della scuola stessa che perderebbe la sua funzione di stimolare gli apprendimenti e l’area cognitiva. Resterebbe il contesto della socializzazione e dei collegati processi ma scomparirebbe la funzione di definire una serie di conoscenze e di competenze che permettano le attività produttive e lavorative, quelle che permettono, in ultima analisi, la trasformazione della realtà attraverso le conoscenze o la preservazione dello stesso mondo della natura dalle aggressioni dello sfruttamento irrazionale.
Il fatto di non potere dare contenuti di conoscenza che valgano per sempre perché quegli schemi non proporrebbero più comportamenti efficaci nel mondo attuale significa che la scuola può offrire essenzialmente metodi di apprendimento e schemi flessibili di comportamento sociale. Viceversa, limitarsi alle nozioni inerenti strettamente alle discipline, significa condannare l’alunno ad uscire dalla scuola o dall’università con nozioni obsolete che debbono essere subito rimesse in discussione. Insomma la scuola non è più l’unica agenzia di informazione culturale e sociale: molti di tali apprendimenti appartengono ad altre agenzie ed in particolare all’universo Marconi delle comunicazioni di massa. E da tale universo che i giovani dell’attuale generazione ricavano la maggiore parte delle loro informazioni e dei loro conseguenti stili di pensiero e di comportamento.
Dunque l’idea di “un’educazione al mutamento” proposta da Mannheim è certamente condivisibile sul piano epistemologico. Altrettanto condivisibile appare l’idea che la scuola deve abbandonare la “veste libresca” per affrontare maggiormente i problemi del mondo della vita come ad esempio le culture alternative del recitato e del musicato, le problematiche dell’integrazione e della differenza oppure i più contemporanei problemi che nascono dalla civiltà masmediale e della trasparenza globalizzata.
Insomma campi del vissuto reale che diventano spendibili nell’ambito del vivere sociale e che non lasciano in ombra o che rimuovano le epocali trasformazioni della civiltà del terzo millennio.
Pertanto una scuola che abbia il “ paradigma dell’adattamento al mutamento” appare certamente una scuola capace di trasformare l’alunno in un individuo potenzialmente capace di affrontare la società nelle sue rapide evoluzioni e di capitalizzare una serie di competenze spendibili sul piano della vita.
Tuttavia il problema del mutamento e dell’adattabilità ad esso non appare esaustivo in se e per se. Non è infatti scritto da nessuna parte che i mutamenti del patrimonio scientifico-tecnico come quelli delle istituzioni civili siano sempre e comunque positivi e non vadano all’occorrenza criticati e smussati. Non è infatti storicamente provato che ad ogni cambiamento corrisponda un progresso. La scuola, secondo Mannheim, deve farsi anche promotrice del cambiamento, o che dire si voglia, deve potere indirizzare il cambiamento lungo assi che corrispondano ad un’evoluzione dei rapporti umani. Se il mutamento consiste nel definire strategie di sviluppo cognitive che inibiscano l’uso critico, dialettico, della razionalità, la scuola deve poterle declinare al suo interno in modo da indirizzarle. Così ad esempio l’universo masmediatico ha comportato l’assoluta trasparenza di tutto: il villaggio globale che è diventato il mondo in cui ogni notizia è raggiungibile rende possibile a tutti di prendere la parola. Qualsiasi minoranza e qualunque individualità può prendere la parola ed esprimere il suo punto di vista. Appare questo un livello massimo di trasparenza e di democrazia planetaria.
Il risultato di tale totale trasparenza è che nel mondo non esistono più centri! Non esistendo centri da cui provengono visioni generali e tutta la realtà assume i contorni della soggettività: le ideologie scompaiono e sopravvivono a fatica soltanto le grandi sintesi religiose che comportano una visione complessiva e forte del mondo. Diciamo spesso che i nostri alunni non hanno idee forti, forti ideali: la realtà è che non ci sono più idee forti perché ci sono milioni di idee che appartengono a milioni di individui che prendono la parola e dicono la loro idea del mondo. La comunicazione masmediatica ha cancellato il centro sostituendolo, con trasparenza e democrazia, con una pluralità infinita di centri e di verità. E sappiamo bene tutti che quando le “verità” sono troppe non ne rimane concretamente nessuna.
Con una metafora molto aggressiva possiamo dire che la scuola sta attualmente operando bene appropriandosi dei sistemi di comunicazione di massa e che l’unico gradino che manca è quello di riuscire a privilegiare l’ascolto piuttosto che la vista. Nell’universo della parola scritta l’osservazione della parola, del simbolo, la sua vista costituivano l’addestramento fondamentale: doveva emergere dall’educazione un’ermeneutica del senso dello scritto. La vista veniva privilegiata prima di ogni altro senso. Nell’epoca della parola disponibile per tutti, della telematica come senso della comunicazione, l’ascolto dovrebbe predominare nel senso di discernere dal caos della comunicazione stessa le voci dell’integrazione e del conformismo, dell’ideologia in senso mannheiano, rispetto all’autonomia del costituirsi di senso delle parole. Non sono importanti le parole ma il loro numero ed è sulla cernita del numero che bisogna educare l’orecchio.
L’educazione al mutamento e non quella all’adattamento imitativo impone un nuovo e più forte sforzo! L’universo masmediatico non contiene necessariamente novità positive: ma per saperlo occorre conoscerlo sia nei suoi mezzi tecnici, nel suo valore d’uso, che nelle possibili conseguenze cognitive e di influenza nella formazione dell’ideologia. Nell’universo masmediatico il tempo si riduce ad una sorta di eterno presente senza storia: l’informazione è qua ed adesso e domani ci saranno altre storie che si sostituiranno alle vecchie che sono capitate solo ieri. L’attuale società appare senza storia perché la quantità dell’informazione è troppo elevata per soffermarci sul senso dei fatti: la memoria muore il giorno dopo. Nel contempo possiamo vivere nuove storie attraverso la soggettività degli altri e dimenticarci della nostra realtà, degli orizzonti limitati ed angusti del mostro soggettivo e frustrante principio di realtà.
Ma non basta! La struttura iconica, sintetica, del linguaggio al quale ci abitua il computer inibisce le strutture del pensiero sequenziale, analitico al quale siamo abituati. Decodificare la scrittura significa operare analisi di segni che danno come prodotto un significato e, quindi, sviluppare un pensiero analitico. L’iconografia appare come un significato già tutto dato, intuitivo e sintetico: molto simile al linguaggio dell’arte che non si capisce ma si intuisce.
Il pensiero analitico che vive di scomposizioni viene sostituito dal pensiero sintetico nel quale il senso è completamente consegnato al ricevente e l’arrivo per sequenze scomposte si trasforma in un traguardo già ottenuto e bello e pronto. Non occorre ulteriormente trovare un’interpretazione: essa è già sintetizzata dal computer; non occorre nessuno sforzo di analisi per giungere ad una sintesi conclusiva: la sintesi è già pronta.
Rischiamo di pensare, nel giro brevissimo di qualche generazione, per icone già costituite e di non avere una nostra autonomia. Quando chiediamo ai nostri alunni di esporre in modo sequenziale il pensiero di un determinato autore, facendo dunque delle considerazioni, queste ultime sono assolutamente evanescenti. Se siamo noi che le abbiamo formulate può andare bene; altrimenti appare un’incapacità che non può attribuirsi al fatto che gli alunni di oggi sono superficiali e disinteressati ai problemi e che si rifiutano di riflettere. E’ molto probabile che non sappiano operare un processo cognitivo al quale il cervello non è più abituato o non è mai stato educato.
Certamente Mannheim ci suggerisce positivamente quando afferma che la scuola al mutamento deve assumere gli strumenti informativi che costituiscono il presente: ma non allo scopo di un conformismo! Piuttosto il fine deve essere quello di declinare le nuove conoscenze per valutarle e spingerle verso un uso positivo.
Ancora una volta lo scopo dell’educazione appare nell’orizzonte dell’abitudine a pensare, a riflettere in modo non conforme alle richieste presenti nell’universo sociale e produttivo e comunque l’adattabilità deve essere consapevole dei rischi e dei costi. La scuola al mutamento è questa consapevolezza! Non è sviluppo di abilità che fanno risparmiare le imprese di produzione che vengono esonerate dai costi di un tirocinio professionale! Non è l’inserimento in un contesto sociale già dato o ritenuto valido! Non è l’apprendimento di regole stabili perché non ce ne sono! L’unica cosa munita di un senso razionale è che potrebbe essere un “non mi raccapezzo” e devo cercarmi soluzioni migliori verso cui indirizzare il mutamento.
Forse questa possibilità resta ad una scuola del terzo millennio ed è questa possibilità che resta in eredità dall’idea Mannheiana di educazione al mutamento.
Prof. Serafino Busacca
Insegnante di Filosofia e Scienze umane
Nell’Istituto Statale G. Lombardo Radice
di Catania.
Fonte: http://www.lombardoradicect.it/rinoparlante/KARL-MANNHEIM.doc
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