Riflessioni filosofiche di Heisenberg

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Riflessioni filosofiche di Heisenberg

 

La fisica quantistica fra ontologia ed epistemologia:linguaggio esperimento e realtà nelle riflessioni filosofiche di Heisenberg.
Di Fabio Lelli
Introduzione
Lo scopo di questo lavoro è di rilevare i punti epistemologicamente rilevanti nel pensiero di uno scienziato di assoluto rilievo nella fisica di questo secolo: Werner Heisenberg (1901-1976).
Allievo del famoso fisico danese Niels Bohr e impegnato fin dalla metà degli anni venti nella ricerca sulla struttura atomica, nel 1927 legò per sempre il suo nome ad un formalismo matematico(la meccanica delle matrici)ed al principio di indeterminazione. Su questo principio e su altre peculiarità della fisica moderna, si concentrarono numerosissimi dibattiti sull’oggetto e sul fine della ricerca scientifica. Heisenberg stesso delineò, a partire dalle sue scoperte, una nuova concezione filosofica della conoscenza umana.
La teoria dei quanti,alla quale fanno riferimento le sue ricerche,è il frutto del lavoro di numerosissimi scienziati fra i quali Max Plank,Niels Bohr,Albert Einstein,Luis De Broglie e Erwin Schrödinger,e la ricerca non si è ancora fermata. Quali sono i caratteri rivoluzionari della nuova teoria? Heisenberg apre il suo Fisica e filosofia con l’affermazione che "è nella teoria dei quanta che hanno avuto luogo i cambiamenti più radicali riguardo al concetto di realtà[ …] il mutamento che si manifesta[…]non è una semplice continuazione del passato; esso appare come una vera rottura nella struttura della scienza moderna".Ciò che questa teoria ha portato non sono solo nuove formule su un aspetto della natura che le teorie classiche non riuscivano a comprendere entro i loro schemi, ma anche e soprattutto la necessità di una discussione, o forse ridiscussione critica, degli atteggiamenti guida della ricerca scientifica. Una necessità, questa, che non si è ancora esaurita, e che anzi ha preso nuovo vigore dalle ulteriori svolte che si sono susseguite dal 1935 fino ad oggi. Uno dei protagonisti attuali di questa avventura intellettuale può scrivere nel 1997,con rinnovato entusiasmo, che "uno degli aspetti più specifici della teoria consiste nel fatto che essa[…]pone dei problemi di notevole rilevanza e assolutamente peculiari sul piano concettuale ed epistemologico"
La posizione di Heisenberg negli anni trenta è affine,ma non identica e lo si vedrà, a quella denominata interpretazione di Copenaghen che riuniva fra gli altri Bohr, Max Born, Pascual Jordan e Wolfgang Pauli.Per poterne presentare le caratteristiche,occorre ripercorrere l’evoluzione della fisica atomica dall’inizio del secolo ,ma occorre prima sottolineare un aspetto importante. Le mere formule della teoria governano il comportamento di transistor e circuiti integrati, che sono componenti essenziali di dispositivi elettronici comuni e quotidiani; abbiamo infatti ottime descrizioni matematiche dell’ambito della natura che questa branca della fisica studia, coerenti e facilmente intercambiabiliche hanno permesso rapide e sbalorditive evoluzioni tecniche. Se l’obbiettivo perseguito fosse unicamente l’applicazione pratica non sarebbe sopravvenuto alcun problema, ma ciò a cui la scienza realmente mira è la struttura della realtà. Secondo le parole di Einstein: "Le teorie fisiche tentano di costruire una rappresentazione della realtà" e questa teoria non poteva, e non può tuttora, essere facilmente interpretata come una rappresentazione della realtà, anzi alcuni hanno negato che avrebbe mai potuto esserlo.
La complicazione nasce dal fatto che alla stessa formula si possono associare diverse interpretazioni,tuttavia il tipo di conoscenza alla quale si tende è una vera e propria spiegazione fisica; vale a dire sapere che cosa realmente sta avvenendo nell’ambito che stiamo investigando,quali processi sono coinvolti e a che cosa corrispondano i termini matematici delle nostre equazioni.Nella meccanica quantistica siamo capaci di prevedere con certezza l’evoluzione della formula di Schrödinger,ma non"quello che succede" finchè non associamo una interpretazione ben definita a questa equazione. Vedremo che l’assegnazione di questo preciso significato marca la differenza fra l’interpretazione di Copenaghen, detta anche "interpretazione ortodossa", e altre di stampo più "classico".
Lo scontro fra posizioni filosoficamente divergenti-in quanto la matematica non era più in discussione-è stato stimolato proprio dalla stranezza, e spesso controintuitività delle interpretazioni proposte intorno alla fisica dell’atomo.
Lo sviluppo storico della teoria e le sue prime implicazioni problematiche
Nel 1900 Max Plank propose una nuova descrizione matematica per un fenomeno che non poteva essere descritto attraverso le teorie fisiche accettate.Il rapporto fra calore e radiazione emessa da un corpo nero non seguiva l’equazione prevista dalla termodinamica:la formula non era in accordo con i dati sperimentali.Con la modifica di Plank invece- anche se non giustificata da alcuna considerazione teorica- il confronto fu soddisfacente sia per la descrizione che per la previsione.L’equazione è oramai famosissima: E=hn dove E è l’energia, n la frequenza dell’atomo radiante, e h una costante con un valore estremamente basso(circa 10 alla –34)che prese il nome di costante di Plank. Il procedimento, pensato inizialmente come mero artificio matematico, si associò ad una vera e propria spiegazione della realtà: spostando l’attenzione dalla radiazione all’atomo radiante, l’introduzione della costante rese possibili all’interno di esso, solo scambi discreti di energia, come se fosse divisa in "pacchetti" senza la possibilità di essere frammentata in infinitesimi.
Questi "pacchetti" furono denominati quanti, un termine che diede il nome a tutta la teoria. Plank fu costretto dai suoi stessi calcoli a contraddire la fisica classica e a introdurre la QUANTIZZAZIONE(almeno per alcune quantità fisiche)che è in contrasto diretto con il principio di CONTINUITA’("Natura non facit saltus")accettato da tutta la comunità scientifica.
Nel frattempo, nel paradigma "classico" erano sorti altri problemi di incompatibilità, e l’ipotesi quantistica servì a risolverli, forzando così l’uscita dal blocco di teorie accettate che ,nelle speranze dei loro scopritori, avrebbero dovuto portare alla previsione di ogni evento fisico.
Nel 1908 Rutherford propose per l’atomo il modello "planetario" dell’atomo: un nucleo centrale a carica positiva e delle cariche negative dette elettroni che orbitano a grande distanza.
Se questo modello fosse stato corretto, il sistema "nucleo più elettroni" sarebbe dovuto crollare su se stesso, poiché per le leggi dell’elettromagnetismo classico di Faraday e Maxwell, una carica elettrica in movimento accelerato perde progressivamente energia. Inoltre l’atomo, qualunque fosse la sua struttura, si era rivelato molto stabile rispetto ad interazioni con altri sistemi(manteneva sempre le stesse caratteristiche),e le condizioni iniziali, determinanti per delle normali orbite planetarie, non contribuivano come previsto allo stato finale del sistema. Era chiaro perciò che l’analogia usata da Rutherford non poteva essere accettata a causa di queste vistose differenze. Bohr applicò la quantizzazione a questo modello proponendo una soluzione sorprendente: solo alcune orbite sono "permesse" agli elettroni, e per poter passare dall’una all’altra, occorre una certa quantità(il "quanto" appunto)e non meno. E’ per questo che le piccole differenze nelle condizioni iniziali, o causate da agenti esterni, non provocavano cambiamento: le soglie del mutamento sono date esclusivamente dai multipli del quanto.
Unificando leggi della fisica classica e nascente quantizzazione, la teoria di Bohr era matematicamente un orrore incoerente, ma "conteneva una parte essenziale di verità",cioè "si aveva l’impressione che la teoria di Bohr desse una descrizione qualitativa[…]di ciò che accade dentro l’atomo…".
Anche Einstein intervenne nella questione proponendo una possibile spiegazione in termini quantistici, di uno strano fenomeno riguardante la luce(l’effetto fotoelettrico).
"Da quei giorni un fascio di luce va assimilato ad una cascata, una pioggia di ’quanti’, di granuli di energia."Fu proprio per questo articolo sui quanti di luce che fu insignito del premio Nobel nel 1921.Per mezzo di tali sviluppi, fenomeni considerati ondulatori(come la luce e la radiazione)furono correlati ad un aspetto corpuscolare dovuto al quanto. In modo inverso, De Broglie volle "associare"(in un senso poco chiaro)ad ogni particella un’onda di materia. Mostrò che le orbite permesse degli elettroni, erano tali in virtù di caratteristiche geometriche di questa onda. A conferma del nuovo parallelismo si scoprì che l’elettrone, considerato come un ente, è soggetto al fenomeno della diffrazione proprio come un’onda.
Già prima delle formalizzazioni matematiche di questi strani aspetti, si diffuse fra gli scienziati un ambiguo atteggiamento. E’ ovvio che un ente è o un’onda o una particella, e che se è entrambi si ha una contraddizione. Ma non è sempre necessario considerarlo entrambe le cose e immobilizzarsi davanti a questa aporia: "i fisici […] appresero ad evitare le contraddizioni: sapevano quale fosse la descrizione corretta d’un evento atomico per l’esperimento speciale che era in discussione."Per Heisenberg questo fu il primo passo verso lo spirito della meccanica quantistica. E infatti sarà decisivo nell’interpretazione di Copenaghen.
Nel 1925,sviluppando le intuizioni di Bohr attraverso lo strumento matematico delle matrici, il giovane Heisenberg costruì il formalismo noto come meccanica delle matrici.
E’ un calcolo coerente che giustifica appieno i risultati degli esperimenti. Nel 1926 Schrödinger sviluppò con le funzioni d’onda, incoraggiato dalla teoria delle onde di materia di De Broglie e dall’appoggio di Einstein, un altro formalismo, la meccanica ondulatoria. Qualche anno più tardi fu provato che i due formalismi sono matematicamente equivalenti.
Raggiunti questi risultati, come si pensava di risolvere il problema delle onde e dei corpuscoli? Qual è, realmente, il loro rapporto? Dopo la quantizzazione il dualismo onda-particella è la seconda "stranezza" che si incontra nella teoria dei quanti, che mostra chiaramente che i suoi problemi sono anche di ordine strettamente concettuale. Non era possibile dirimere la questione in base a degli esperimenti, poiché se l’esperimento doveva verificare l’esistenza di aspetti ondulatori, la verificava, ma verificava anche l’esistenza di quelli corpuscolari. E’ chiaro ,infatti, che si sperimenta ciò che ci si prepara a sperimentare.
La soluzione di Bohr è simile a quella degli scienziati che menzionava Heisenberg: la complementarietà è un evitare le contraddizzioni: l’onda e la particella sono due descrizioni della stessa realtà. "Ognuna[…]può essere solo parzialmente vera e sono necessarie delle limitazioni all’uso della teoria corpuscolare così come di quella ondulatoria[…]Se si tien conto di questi limiti[…]le contraddizioni scompaiono."A seconda dell’esperimento è rilevante uno dei due aspetti, mentre l’altro non è neppure rilevabile. Come in direzioni contrapposte, se ci volgiamo verso l’uno non possiamo più vedere l’altro.
La presenza dell’onda, comunque considerata, introdusse altri problemi legati alla sua peculiare natura: da questo dualismo, ancor prima della sua deduzione matematica, Heisenberg ricavò le relazioni di indeterminazione attraverso un esperimento mentale. Vale la pena di sottolineare che questo tipo di indagine, che risale a Galileo, fu la privilegiata in questo ambito, poiché e permette una più centrata discussione sui fondamenti senza doversi soffermare sui risultati effettivi di ogni possibile esperienza. Tornando ad Heisenberg, immaginiamo un’onda luminosa/fascio di fotoni che deve superare una fessura di un ostacolo lungo il suo percorso. Più tale fessura sarà stretta, più conosceremo accuratamente la posizione dei fotoni che la superano; ma, come onda, quando incontra una fessura la cui misura è paragonabile alla sua ampiezza, si ottiene un effetto di diffrazione: l’onda si "apre" a formare una figura "a campana", un’immagine "allargata" del foro.La conclusione è che più conosciamo con precisione la posizione, più perdiamo la capacita di conoscere dove la particella si propaga(se prosegue in linea retta, se si curva verso l’alto o verso il basso)vale a dire il suo impulso. Queste due quantità sono associate inscindibilmente: il prodotto del loro possibile spettro di valori non può essere minore di una certa costante, e ciò vale anche per l’energia e il tempo (in formule D D p³ h e D D t³ h).
Tali rapporti discendono anche dal formalismo, perciò non sono specifici di un qualche sperimento o metodo di misura: sono ineliminabili. Può così sembrare che le particelle non possiedano un valore definito per queste caratteristiche fisiche dette coniugate.
L’onda associata alla particella, governata dall’equazione di Schrödinger (detta comunemente y ), descrive lo sviluppo temporale del sistema ,e non della stessa particella, in quanto i due aspetti sono complementari. Vale a dire che se si indaga l’aspetto corpuscolare ci è preclusa la conoscenza dello sviluppo temporale, indicato solo da y . Fra i due estremi non è nemmeno possibile stabilire una chiara relazione uno-uno se non in pochi casi ben definiti. Si ponga, ad esempio, un ostacolo nella traiettoria di un fotone: possiamo associare con sicurezza un’onda allo "stare prima" ed una allo "stare dopo" l’ostacolo. Ma se le due onde si sommano? E’ un risultato matematicamente possibile, e rientra fra i possibili valori di un onda.Ecco perché nel famoso "effetto tunnel" la particella è in uno stato che è la somma delle onde dello "stare prima" e "stare dopo" la barriera. Quando ci si trova in questa situazione, come si deve pensare alla particella? In realtà non ci si deve pensare: i due aspetti sono complementari, e potremmo commettere lo sbaglio di credere che la particella sia o prima o dopo anche se noi non sappiamo dirlo. La teoria ortodossa, invece, assicura che non c’è alcuna altra informazione che potrebbe descrivere meglio la situazione. Questa è l’assunzione di completezza della teoria. Se vogliamo conoscere qualcosa della particella occorre eseguire una misurazione effettiva, cioè un esperimento di stampo corpuscolare, ma con due limitazioni: la prima è che le grandezze coniugate devono sottostare alle relazioni di indeterminazione, la seconda che, così facendo, perdiamo ogni conoscenza dello sviluppo temporale del sistema.
Quindi una proposizione come "’la particella ha superato la barriera’ o ‘la particella non ha superato la barriera’" è vera, ma non perché uno dei due disgiunti sia vero (almeno finché non lo misuriamo):lo è perché i valori assegnati dall’onda ai due stati coprono tutte le possibilità.
L’onda, perciò, ci indica la proporzione fra i due aspetti.
Ma allora, cos’è la funzione d’onda, o meglio, che cosa rappresenta? Max Born diede una risposta che definì il carattere fondamentale dell’interpretazione ortodossa: l’onda da la probabilità di osservare la particella, ad esempio, in una certa posizione, se in quel momento si esegue la misura, vale a dire il passaggio all’aspetto corpuscolare. Il risultato di tale misura sarà perciò probabilistico e non deterministico; inoltre i nostri stessi mezzi sperimentali (quali che siano)produrranno una interferenza con l’oggetto studiato tale da rendere valide le relazioni di indeterminazione. Questo passaggio stocastico e detto riduzione del pacchetto d’onda, ed è l’aspetto più caratteristico e discusso della interpre-tazioneueQQ di Copenaghen.
La coesistenza di due descrizioni incompatibili, l’interferenza del processo di misura non eliminabile neppure in via di principio, la sovrapposizione degli stati e il cambiamento indeterministico fra "probabilità" e "attualità", sono gli aspetti più dirompenti di quella che può essere definita una vera e propria rivoluzione scientifica. Nel 1927 si aprì la fase di interpretazioni e controinterpretazioni durante la quale non tutti coloro che avevano partecipato alla costruzione della teoria si trovarono concordi.

Copenaghen come terza via
Di fronte a tali problemi, la comunità scientifica si spaccò, mettendo a nudo le esigenze teoriche e metodologiche dei suoi membri. Come è risaputo, uno dei più aspri critici della scuola di Copenaghen fu Einstein. Questa opposizione fu spesso letta dagli stessi scienziati antagonisti come razionalmente ingiustificata, e dovuta solo a questioni di principio, cioè alla inflessibilità della visione del mondo che lo scopritore della relatività si era costruito. Si pensava che novità sconvolgenti, come l’abbandono del determinismo classico (se non si conoscono con precisione i parametri della particella a causa dell’indeterminazione, non è possibile una previsione assoluta, ma solo probabilistica)o l’introduzione delle peculiarità matematiche delle onde in un ambito anomalo, non riuscissero a fare breccia nelle sue convinzioni. Tali considerazioni furono semplicistiche per due motivi. Innanzitutto "la posizione di Einstein subì dei notevoli cambiamenti nel corso degli anni", definendo sempre meglio quale fosse il vero punto critico della polemica; il quale è più sottile e penetrante del semplice rifiuto di certe particolarità matematiche. In secondo luogo molti suoi oppositori non compresero il suo pensiero ,tanto che lo stesso Pauli accusò Born di essersi costruito "un Einstein fantoccio per suo uso personale per poi poterlo abbattere con grande piacere." E’ curioso pensare che l’uomo che ha riformato i concetti newtoniani di spazio e di tempo abbia una mente non adatta al cambiamento; occorre ricordarsi che luì stesso contribuì alla nuova teoria con il rivoluzionario fotone, e che appoggiò entusiasticamente il tentativo di interpretazione assolutamente innovativo di Schrödinger.
Questo non deve stupire ,anzi, è un ottimo indizio per comprendere realmente la sua posizione. Lo sviluppo del pensiero scientifico di fronte a radicali novità avrebbe potuto portare,(non senza resistenze, è ovvio) ad una ridefinizione ontologica delle entità considerate fondamentali. Questa fu in effetti la via tentata da Schrödinger: considerando fondamentale l’onda rispetto alla particella e spiegando la seconda come caso particolare della prima, lo scienziato austriaco prospettava un mondo unicamente composto da onde. Anche questa teoria avrebbe potuto rendere conto delle conseguenze quantistiche: "non si deve attaccare nessun significato particolare al cammino dell’elettrone […] l’onda ..[…] si estende addirittura notevolmente in tutte le sue direzioni."Successivamente la sua soluzione andò incontro ad insolubili problemi di natura matematica e fu perciò abbandonata, anche se Schrödinger stesso non la lasciò mai. Anche se il desiderio di Einstein era un mondo atomico e subatomico fatto di particelle con una traiettoria che fosse conoscibile, in linea di principio, con precisione arbitraria, l’interpretazione interamente ondulatoria era per lui migliore di quella di Copenaghen. C’era, infatti, un punto di fondamentale importanza in comune fra i due scienziati, e non di natura matematica o ontologica , ma schiettamente filosofica. Lo si può trovare accennato proseguendo nel brano di Schrödinger già citato: "si è perfino messo in dubbio che quello che accade in un atomo possa inquadrarsi in uno schema spazio-temporale. Da un punto di vista filosofico, io considererei una decisione conclusiva in questo senso come equivalente ad una resa incondizionata."
Questo riferimento è proprio alla scuola ortodossa. Leggiamo in Heisenberg 20che gli sviluppi della funzione ondulatoria "sono completamente determinati[…]ma non permettono una descrizione nello spazio e nel tempo."21 Perciò "la descrizione spazio-temporale degli eventi atomici è complementare alla loro descrizione deterministica."22 (Dove "complementare" è inteso nel senso di Bohr)
Allora Heisenberg prospetta un cambiamento nei nostri stessi mezzi conoscitivi, che si potrebbero denominare trascendentali, quali lo spazio e il tempo? Tutt’altro. "Dobbiamo tener presente questa limitata applicabilità dei concetti classici mentre li applichiamo, ma non possiamo e non dovremmo sforzarci per migliorarli."23 I "concetti classici" non indicano solamente quelli della vera e propria fisica classica, poiché per questo autore "sviluppiamo un linguaggio scientifico che può essere considerato come una naturale espansione del linguaggio ordinario adattato ai nuovi campi della conoscenza scientifica."24Non disponiamo di un linguaggio(cioè una gamma di concetti)adatta alla realtà. La nostra "conoscenza classica" è forzatamente deterministica e di impianto spazio-temporale. Allora come ci sarà possibile risalire dai nostri esperimenti alla realtà? I nostri apparecchi di sperimentazione sono descrivibili in un linguaggio "classico", e i loro risultati possono essere letti solo così. Ma la realtà che l’apparecchio indaga non è di questo genere; non è possibile ricostruire una catena causale dall’evento all’indicatore che lo "amplifica", semplicemente perché non lo "amplifica", ma interferisce in modo irreversibile con esso. L’incertezza alla base delle relazioni di indeterminazione, e la stessa complementarietà fra onda e particella, non è eliminabile in via di principio proprio per questa incolmabile divisione fra oggetto della ricerca e strumento. Ora avviene il decisivo cambiamento di mentalità: invece di considerare questi aspetti come difficoltà da superare, o comunque un fallimento della ragione umana, tutto ciò viene accettato come parte integrante della teoria: è il modo peculiarmente umano di conoscere la natura. Ciò che era una contrad-dizione è ora un punto di partenza: "l’interpretazione di Copenaghen parte da un paradosso"25,non lo risolve e non vuole farlo. Il paradosso è l’uso inevitabile dei concetti classici, che si "estendono" nei nostri apparecchi e che compromettono la conoscenza di una realtà diversa, non adatta a questi concetti, e perciò per se stessa inconoscibile.
Ecco perché l’interpretazione dell’onda di Schrödinger non riguarda la "realtà", ma la nostra conoscenza di essa. Assunto questo punto di vista si devono rifiutare entrambe le ontologie (corpuscolare e ondulatoria) proprio perché non è lecito avanzarne di nessun tipo. Sono ingiustificati di conseguenza, tutti i tentativi di prendere le mosse da questa teoria per arrivare al libero arbitrio o ad una qualsiasi visione più o meno mistica della realtà.25 Oltre al pericoloso sconfinamento del proprio ambito, si ignora il fatto che questa teoria, così interpretata, non parla della realtà.
A questo livello di analisi dovrebbe essere chiaro il motivo dei numerosi sconvolgimenti e dibattiti che si susseguirono. Si era in realtà toccato uno dei nervi nascosti della ricerca scientifica; uno dei presupposti per lo meno "impliciti" che mai si sarebbe pensato di dover mettere in discussione: "una teoria che presenti le cose stesse e non soltanto la probabilità della loro apparizione"26 si contrappone a "possiamo parlare sempre e solo dei processi che avvengono quando vogliamo inferire il comportamento della particella dall’interazione tra essa e […]l’apparecchio di misurazione"27

Bohr e Heisenberg
Bohr giunse a questo risultato per la sua attenzione al linguaggio: "Egli riflette sulla pratica scientifica e osserva che, di fatto, tutti i ricercatori usano nelle loro ricerche apparecchi di misura macroscopici i cui risultati vengono poi comunicati nel linguaggio appropriato per questo tipo di sistemi fisici, vale a dire quello della fisica classica."28La fisica classica e tutto il suo bagaglio concettuale è un prerequisito a qualsiasi teoria.29Ma quello che caratterizza Bohr all’interno della scuola ortodossa, è la sua tendenza alla visualizzazione dei processi atomici, anche se la teoria stessa vieta una qualsiasi pretesa ontologica sulla natura. Ciononostante Bohr propose il modello planetario dell’atomo, e lo fece in più occasioni. A confermare questa permanenza di un certo "buon senso classico", si può ricordare il suo "principio di corrispondenza il quale richiede che, al limite per grandi numeri quantici[..]le previsioni quantistiche debbano ridursi a quelle classiche."30Il tutto sembra condurre ad una concezione unitaria della scienza31, nel quale tutte le conoscenze fisiche si possono unire coerentemente, di modo che certi aspetti peculiari si rivelino solo se si entra nel loro ambito(ad es. gli effetti relativistici sono sensibili a velocità vicine a quella della luce, gli aspetti quantistici lo sono quando la costante di Plank diventa significativa),lasciando la zona intermedia completamente coerente col senso comune.
Una posizione "sfumata" che non collima appieno con la divisione netta, posta proprio dalla interpretazione di Copenaghen, fra classico (lo strumento) e non classico (l’oggetto). La tensione fra la visualizzazione e la rinuncia orgogliosa dell’indagine realistica della natura, sotto il pungolo costante dei gedanken experimente dell’irriducibile Einstein, resero confuso il suo pensiero, e ambigua la natura della divisione oggetto-strumento.32
Un aspetto che non si può trascurare a causa dell’importanza che Bohr stesso gli attribuì, fu la sua ossessione per il "complementare" che lo portò ad elevarlo a filosofia di tutta la conoscenza umana. Nel 1937 disegnò il suo stemma familiare sulla base del simbolo cinese che rappresenta il rapporto fra yin e yang. Il motto in calce è "contraria sunt complementa". Era di ritorno da un viaggio in Cina, e "scoprì elementi di similitudine tra la rappresentazione del mondo33 che deriva dalla meccanica quantistica e l’idea che aspetti opposti della realtà possano essere fra loro complementari"34,idea propria del misticismo cinese. Sembra quasi che si allinei a coloro i quali "pretendono di trovare nella meccanica quantistica valide ragioni di sostegno per la parapsicologia, i fenomeni paranormali, le filosofie orientali, e così via"35. Il giudizio di Bell in proposito è molto duro: "la concezione basata sulla Complementarietà è una di quelle che io chiamerei le ’visioni romantiche’ del mondo ispirate dalla teoria quantistica."36
Il ritratto di Bohr è complesso da tracciare e le sue reali concezioni sono difficili da individuare. Pur cosciente che "è sbagliato pensare che sia compito delle fisica scoprire come è fatta la natura" e che "la fisica riguarda quello che si può dire della natura"37,sembra non accoglierlo fino in fondo. Chi lo comprese e ne accettò senza rimpianti le profonde conseguenze, fu il suo giovane allievo Werner Heisenberg. Ben più coerente e solido, il pensiero di Heisenberg, nutrito anche di filosofia antica, riprese il tema del linguaggio, dello strumento e degli esperimenti specifici, portandoli a pieno sviluppo.
Heisenberg rifiuta ogni tentativo di visualizzazione dei processi atomici considerandolo insensato. In "Natura e fisica moderna" ricorda le grottesche rappresentazioni degli atomi sui libri di scuola, e li giudica con una lucidità fuori dal comune: "se gli atomi sono conformazioni rappresentabili così grossolanamente come vorrebbe farci credere il libro, se hanno una forma complicata al punto da possedere perfino ganci e occhielli, è impossibile che siano i più piccoli, indivisibili elementi della materia."38 Queste visualizzazioni, che possono talvolta essere di sprone alla ricerca, qui sono per lui contro-producenti. Richiede perciò di "rinunciare alla visualizzazione in senso tradizionale[…]e di sostituirla con una nuova visualizzazione che trova il suo unico fondamento nello schema formale e matematico che sta alla base della nuova teoria."39 Perciò la posizione intellet-tuale di Heisenberg non è altro che l’attuazione del programma che il suo maestro faticava ad assimilare. Solo così il dualismo onda-particella può essere considerato non contraddittorio: non riguarda la realtà della natura, ma unicamente il nostro modo di conoscerla. Come poteva Bohr rappresentare l’elettrone "al tempo stesso come un oggetto che descrive un’orbita e come una collezione di oscillatori?"40Anche se Bohr si espresse con le stesse parole, solo Heisenberg comprese realmente che ciò con cui veniamo a contatto sono i risultati dei nostri esperimenti, e che questi devono essere necessariamente espressi nel nostro usuale linguaggio. Per ciò che non rispetta l’apparato concettuale del nostro linguaggio, non c’è alcuna possibilità di "comprensione" nel senso usuale del termine, ne tantomeno di visualizzazione. Non si possono trarre conclusioni classiche sul mondo atomico, come presupporre la traiettoria di un ente senza averla realmente osservata, conoscendo solo partenza e arrivo. Parlare di- e cioè, in un certo senso, visualizzare- ciò che è successo fra le due osservazioni è "un uso improprio di un linguaggio"41, cioè del nostro.
Si deve però non sottovalutare le radicalità del suo pensiero, ad esempio sul concetto di realtà: "L’idea della obbiettiva realtà delle particelle elementari si è quindi sorprendentemente dissolta, e non nella nebbia di una qualche nuova, poco chiara o ancora incompresa idea di realtà, ma nella trasparente chiarezza di una matematica che non rappresenta più il comportamento della particella, ma il nostro sapere sopra questo comportamento."42 Ancora più esplicitamente: "si potrebbe essere indotti a supporre che dietro il mondo statistico percepito si nasconda un mondo ’reale’ in cui valga il principio di causalità. Ma tali speculazioni, lo sottolineiamo esplicitamente, ci sembrano senza frutto e prive di senso."42 E’ un abbandono decisivo del realismo? Come potremmo allora definire la sua posizione filosofica?

La filosofia della scienza e l’oggetto della ricerca
Abbiamo visto che per Heisenberg la scienza non indaga la natura stessa, ma solo i risultati dei nostri esperimenti. Avanzare postulati su ciò che ne sta dietro è privo di senso: le nostre affermazioni devono forzatamente rife-rirsi a ciò che sperimentiamo. Un "requisito di senso" come questo può far pensare che Heisenberg sia stato influenzato da una scuola filosofica europea che fra gli anni 30 e 60 riscosse molti consensi. In effetti il circolo di Vienna, con la sua filosofia neoempirista (detta anche positivismo logico) riprese e arricchì la teoria del "fondamento empirico" professata dagli empiristi fra 1600 e 1700 e dai positivisti nel 1800. La possibilità di verificare un dato evento era il requisito per la sensatezza della sua espressione linguistica. Ghirardi stesso sottolinea il legame fra questa epistemologia e la teoria quantistica di Copenaghen; "fin dal suo nascere, l’interpretazione ortodossa del formalismo trova sostegno e al tempo stesso fornisce supporto scientifico al positivismo logico."44 Assumere una posizione positivista di fronte alla scienza può facilmente portare a una visione strumentalista della stessa. Vale a dire, le leggi naturali non spiegano un fenomeno, ma ne rendono conto matematicamente, sono cioè strumenti per la previsione, e non per la reale conoscenza della natura. Tenuto conto di questo aspetto, e ricordando il maggior rigore di Heisenberg rispetto a Bohr, si può affermare che la sua posizione epistemologica è positivista e strumentalista; positivista perché giudica sensate solo le conoscenze sperimentali(e, se sono sperimentali, sono lette in maniera forzatamente "classica"), strumentalista perché crede che le leggi della fisica quantistica non parlino di come è effettivamente la realtà.
Prima di trarre conclusioni da ragioni di principio, si deve sottolineare che in un libro della maturità, Fisica e filosofia del 1958, Heisenberg stesso parla del circolo di Vienna. L’attenzione è subito incentrata sul linguaggio: "questa corrente di pensiero esprime un atteggiamento critico contro l’uso ingenuo di certi termini[..],per mezzo del postulato generale che si dovrebbe sempre pienamente e criticamente esaminare il problema se una data proposizione ha un significato o meno."45 Il problema è la chiarificazione logica di ogni asserto, un’esigenza dovuta alla tesi filosofica che "ogni conoscenza è in definitiva fondata sull’esperienza"46; in pratica, chi non dovesse basarsi sull’esperienza, potrebbe asserire proposizioni insensate logicamente, come ad esempio giudizi sull’anima e su Dio o sulla traiettoria di un elettrone.
Questa costruzione di una conoscenza direttamente verificabile e logicamente ineccepibile sembrerebbe decisamente consona al suo pensiero, se non che, poco dopo, egli pone dei dubbi, e lo fa proprio su questa ossessione verso la chiarezza e sensatezza("Il procedimento della scienza naturale è raffigurato come l’applicazione dei simboli ai fenomeni[…]una combinazione di simboli in disaccordo con le regole non è falsa ma priva di significato."47)che pure sembra guidarlo nelle sue sconvolgenti interpretazioni. Il suo rifiuto di questo aspetto potrebbe forse modificare il nostro giudizio sulla sua visione della scienza.
E’ l’ossessione sulla sensatezza che trova Heisenberg in parziale disaccordo. Che riconosca questa esigenza per il concetto di realtà indipendente dalle osservazioni è indubbio, ma il suo atteggiamento è molto più articolato: "in genere lo schema positivistico[…]risulta troppo ristretto in una descrizione della natura che necessaria-mente usa parole e concetti che sono soltanto vagamente definiti."48 Se Heisenberg fosse un neopositivista, questa osservazione non sarebbe giustificabile. Quale sarebbe il motivo di usare termini poco chiari in un contesto puramente empirico e logico? Non dovrebbe esserci alcun tipo di termine "vagamente definito": ogni termine significa una certo osservabile, ed è legato agli altri per mezzo di specifiche relazioni logiche. Tuttavia questa pretesa non viene accettata nella pratica scientifica. Può capitare di lavorare, e spesso si è costretti a farlo, con termini anche privi di significato. Eppure Heisenberg aveva indubbiamente posto un pesante vincolo di senso, tanto da bloccare ogni speculazione insensatamente realistica. Il criterio non è quindi la verificazione neopositivista, ma, e si cercherà di mostrarlo, l’applicabilità in un contesto. In realtà concetti come "posizione" e "velocità" erano perfettamente definiti nella meccanica newtoniana, ma non lo sono più in quella quantistica, o meglio sono stati limitati: "non possiamo sapere in anticipo quali limita-zioni verranno imposte all’applicabilità di certi concetti all’estendersi della nostra conoscenza", ecco perché "siamo obbligati qualche volta ad usare i nostri concetti in modo non giustificato e che non porta ad alcun significato."49
Ora si può riformulare l’esigenza linguistica di Bohr con una nuova efficacia. Riferendosi a Kant, che aveva posto i fondamenti concettuali della fisica classica come "filtro" ineliminabile della nostra conoscenza scientifica egli dice: "ciò che Kant non aveva previsto era che questi concetti a priori potessero essere le condizioni per la scienza ed avere, nello stesso tempo, soltanto un’area limitata di applicabilità."50 Era ciò che Bohr faticava ad assimilare in pieno, sognando una possibile raffigurazione dell’atomo e postulando il principio di corrispondenza, estremo richiamo ad una visione unitaria della scienza, coesa da un unico campo di applicabilità. Pur non trovandosi "nella lettera" di Bohr, questo era il risultato implicito dei suoi dibattiti con Einstein50 che avrebbe portato alla sconfitta di una interpretazione non rigorosa come Heisenberg la prospettava. La sua visione è invece estremamente più matura e motivata da nuove considerazioni epistemologiche che sembra trarre come morale di tutta la teoria.
Per ogni ambito della ricerca sulla natura, l’uomo deve costruirsi un sistema chiuso di concetti che applica per conoscerla. Ma quando si ottengono dei risultati, la frapposizione del sistema chiuso non deve essere vista come limite a un tipo di realtà indipendente, perché non esiste niente come questa realtà: l’oggetto della conoscenza scientifica è perciò la correlazione uomo più natura, nella quale non ha senso dividere un termine dall’altro. Ma questa correlazione è ciò che dovremmo chiamare, come d’altronde è sempre stato fatto, realtà. Ecco il motivo di tanta confusione e incomprensione: Heisenberg e i suoi avversari non parlano lo stesso linguaggio: Heisenberg può essere chiamato strumentalista solo da chi intenda realtà nel senso ontologico classico; la teoria ortodossa dei quanti spiega la realtà, ma in un senso completamente altro. Questo è il risultato della divisione "per ambiti", e di tutte le conseguenze linguistiche che esso comporta.
Riassumendo, la presenza di diversi schemi di comprensione, non permeabili linguisticamente fra di loro, e il nuovo significato di realtà che ne deriva sono i due punti fondamentali della considerazione epistemologica di Heisenberg, e fondano, in un modo estremamente più solido delle incertezze di Bohr, le "stranezze" di questa teoria. Sono anche i punti centrali delle sue opere.
In Fisica e filosofia egli delinea diversi tipi di realismo. Posto che "noi ‘oggettiviamo’ un’affermazione se preten-diamo che il suo contenuto non dipenda dalla condizione sotto la quale essa può essere verificata", per il realismo pratico "ci sono delle affermazioni che possono essere oggettivate e[…]in effetti la massima parte della nostra esperienza della vita di ogni giorno consiste di tali affermazioni."51 Diversamente il realismo dogmatico "pretende che non ci siano affermazioni riguardanti il mondo materiale che non possano essere oggettivate."52 Il più radicale è il realismo metafisico che "compie ancora un passo al di là del realismo dogmatico affermando che ‘le cose esistono realmente’."53 Heisenberg si riconosce in quello pratico, sottolineando così non solo di essere realista, ma di esserlo anche in modo oggettivante nei confronti della fisica newtoniana, e questo perché la meccanica classica non deve essere cambiata se considerata come sistema chiuso: come tale è definitivo: "la parola "definitivo", nelle scienze esatte, significa dunque ,evidentemente, che esistono sistemi di concetti e di leggi in se chiusi, matematicamente rappresentabili, adatti a certi ben definiti campi di esperienza[…]senza essere passibili di mutamenti o di correzioni di sorta"54, neanche di stampo concettuale. Le caratteristiche di un sistema chiuso possono essere definite con grande chiarezza :"Il primo criterio di una ‘teoria chiusa’ è l’assenza di contraddizioni all’interno di essa. Deve essere possibile precisare i concetti che derivano dall’esperienza e determinare le loro relazioni attraverso definizioni e assiomi, in modo tale che si possano assegnare ai concetti simboli matematici tra i quali si sviluppa un sistema logico di equazioni."55 E’ quindi un mezzo idealizzante e assiomatizzato che riconosce nella matematica il mezzo privilegiato di conoscenza.
Esistendo molteplici sistemi chiusi a seconda dell’ambito indagato, Heisenberg non può certamente essere favorevole a un riduzionismo fisicalista, in quanto i mezzi di conoscenza della fisica sono adatti solo a questa. Una nuova scienza allargata ad altri campi porterebbe a "una nuova coerente serie di concetti, cui la fisica e la chimica possono appartenere come ’casi limiti’."56E’ decisamente un atteggiamento nuovo e "sfumato" rispetto alle classiche prese di posizione sulla scienza. "Le tradizionali suddivisioni del mondi in soggetto e oggetto[…]non sono perciò più adeguate e ingenerano difficoltà. Anche nella scienza oggetto della ricerca non è più quindi la natura in se, ma la natura subordinata al modo umano di porre il problema."57

Conclusione: la fine della fisica
Dai suoi studi di fisica nucleare Heisenberg ricavò una vera e propria filosofia della scienza, che è gravida di significato anche per la pratica scientifica. L’interpretazione ortodossa non ha sempre raccolto unanimi consensi, e col passare degli anni i suoi oppositori trovarono argomenti più convincenti di una semplice opposizione di principio. Dopo i dibattiti fra Bohr e Einstein, dall’esito non sempre univoco, l’importantissimo articolo di Einstein, Podolsky e Rosen nel 1935, e numerose altre vicende, negli anni 60 gran parte della comunità scientifica si spostò verso una posizione "classica", trascinata da nuovi studiosi come Bell. Mentre in precedenza non si era neppure riusciti a immaginare in che modo si potessero aggirare le paradossali conclusioni di Copenaghen, in questa fase si aprì la possibilità logica e matematica di un completamento della teoria in senso deterministico. Essa rimane comunque una posizione di principio non suffragata da alcun dato, ma che il progresso scientifico possa essere guidato anche da questi atteggiamenti, non è una novità.
Ciononostante la posizione di Heisenberg rimane di un’assoluta coerenza: anche se c’è la possibilità di modificare la teoria per trovare ciò che ci si aspetta di trovare, non c’è alcun motivo di considerarla. Prima di tutto perché la fisica quantistica ha raggiunto un sistema chiuso assolutamente coerente, e soprattutto perché accettare l’interpretazione ortodossa (per lo meno nella prospettiva heisenberghiana) non vuol dire rinunciare al realismo, ne nel dominio dell’esperienza quotidiana/clas-sica, ne nella stessa meccanica dei quanti. Si tratta di ridefinire che cosa si intende per realismo.
Un filosofo difensore del realismo nella versione che Heisenberg avrebbe chiamato dogmatica fu Karl Popper. Estremamente critico nei confronti di Bohr e Heisenberg, incentrò le sue obbiezioni nel rifiuto di due punti fondamentali: il soggettivismo e la tesi della fine della strada. Il soggettivismo è per Popper l’esatto contrario del realismo, che l’interpretazione ortodossa, e in parti-colare di Heisenberg porta a rifiutare. Popper allinea la posizione di Heisenberg ad alcune delle filosofie che si sono opposte al realismo, e che stavano sfruttando le nuove scoperte per "un rifiuto positivistico, idealistico o soggettivistico del realismo, motivato dalla convinzione che una fisica […] statistica vada spiegata mediante una fondamentale e irriducibile barriera alla nostra conoscenza."58 Nel 1934 lo stesso Popper propone una diversa interpretazione delle relazioni di indeterminazione che non si incentra più sulla conoscenza dello stato fisico, ma su una obbiettiva diffusione di stati. Va da se che le formule rimarrebbero comunque le stesse, ma "riempite" di un significato che ci porta al confronto con la natura. Priva di qualsiasi altra motivazione che non sia una sorta di morale della scienza, questa proposta, a prescindere dalla sua validità matematica, è comunque una petizione di principio. Non è possibile prospettare una risoluzione definitiva e assolutamente soddisfacente fra le due posizioni, soprattutto perché non parlano lo stesso linguaggio. Ciò che Popper chiama "soggettivismo" non corrisponde realmente alla visione di Heisenberg che, come si è visto, ha superato la definizione classica di "soggetto" e di "oggetto". Heisenberg potrebbe rispondere con sicurezza che la teoria dei quanti parla dell’oggetto, dove la parola "oggetto" non ha più lo stesso significato. Allo stesso modo l’accusa che Heisenberg portò "un intera generazione di fisici ad accettare l’assurda idea che la meccanica quantistica insegna che ‘la realtà oggettiva è svanita’"59 non tiene in considerazione che cosa realmente indichi l’espressione "realtà oggettiva". Poiché la definizione di Popper di "soggettivo" e "oggettivo" si fonda su una rigida divisione di soggetto e oggetto che in Heisenberg non c’è più, l’accusa non è centrata. A conferma di questo, si può vedere come Popper riconosca, ma limiti in modo sostanziale, l’elemento prettamente umano della conoscenza della natura. Se, da un lato, riconosce con Kant la centralità delle teorie che l’uomo elabora autonomamente per la conoscenza della natura, dall’altro si rifiuta di riconoscere il sistema chiuso. Se per Heisenberg ogni sistema si fonda su dei concetti validi al suo interno, ma con una limitata area di applicabilità, Popper sottolinea che, per non cadere in posizioni strumentaliste, "è importante riconoscere quanto sia errato pensare che una teoria T1 è vincolata all’uso di un certo sistema concettuale C1"60. Diventa poi molto radicale in questi giudizi: "è chiaramente un errore identificare una teoria con il suo quadro concettuale ‘sottostante’[…]teorie incompatibili possono venire espresse entro il medesimo quadro concettuale."61 Essendosi posto ai suoi antipodi, per Popper è difficile comprendere cosa Heisenberg volesse realmente intendere.
Tutto ciò vale anche per la seconda obbiezione: "l’interpretazione di Copenaghen[…]era, ridotta all’osso, che la meccanica quantistica costituiva l’ultima, definitiva, mai più superabile rivoluzione nella fisica […] la fisica era giunta alla fine della strada"62. Ancora una volta, non è della stessa "fine" che si sta parlando, tant’è vero che in un saggio del 1970, chiamato proprio "Fine della fisica?", Heisenberg vi si oppone: "anche una teoria chiusa delle particelle elementari […] deve essere considerata una idealizzazione […] possono esserci ancora altri fenomeni che i concetti di questa idealizzazione non sono in grado di abbracciare […] proprio in funzione di […] collegamenti con campi adiacenti, non è corretto parlare di conclusione della fisica."63 L’infinito lavoro da compiere è riesaminare continuamente la validità dei nostri concetti rispetto ai campi ai quali si applicano, ricercare nuovi campi di applicazione dell’intelletto umano, ridiscutere i confini fra le scienze per cercare "un modo di pensare unitario nei suoi presupposti fondamentali".64 Se, come Popper, si pensa che le relazioni di indeterminazione interpretate come limiti alla conoscenza portino alla fine di ogni ricerca fisica, allora non si potrà cogliere il significato della "tremenda impressione" che riportò Heisenberg dopo la formulazione della teoria, che per lui fu una vera e propria "illuminazione"65. "Finale" era solo il sistema chiuso costruito per la meccanica dell’atomo, ma "illuminante" era la nuova concezione che ne aveva tratto.

Fonte: http://terzadecade.it/download/lise_meitner_-_microfisica_inquieta/10%20-%20Fabio%20Lelli%20-%20Linguaggio%20esperimento%20e%20realt%C3%A0%20nelle%20riflessioni%20filosofiche%20di%20Heisenberg.doc

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