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Baruch de Spinoza
La filosofia di Spinoza esprime un atteggiamento di fondo che è stato e sarà proprio di molti altri filosofi: attraverso la filosofia l’uomo può liberarsi dalla sua condizione mortale e entrare in una dimensione eterna, che permette finalmente di guardare il mondo con gli occhi del divino, ovvero sub specie aeternitatis. Superando tutti i pregiudizi cristallizzati nel sapere tradizionale sarà possibile, nella cornice del metodo assoluto delle scienze matematiche, scoprire la necessità di tutto ciò che c’è, in quanto manifestazione di un Dio unico. Dio, come Sostanza unica, eterna e infinita è l’oggetto privilegiato della riflessione filosofica spinoziana e insieme ne è anche il vero soggetto, poiché appunto si scoprirà che proprio la sapienza filosofica è la modalità più alta, ovvero necessaria e quindi felice, dell’essere di Dio.
Vita e opere
Nato ad Amsterdam nel 1632 in una famiglia ebraica di origini spagnole e portoghesi, Spinoza si forma sulle Sacre Scritture e sul Talmud e lavora nell’azienda commerciale del padre . Nel 1656 viene scomunicato dai rabbini della sua comunità per eresia circa alcune sue convinzioni sull’anima, Dio e l’origine delle Sacre Scritture. Lasciata così l’azienda famigliare, Spinoza si dedica alla molatura delle lenti e contemporaneamente studia le opere di Cartesio e i classici della letteratura latina. Spinoza ebbe sempre intorno a sé un gruppo di amici fedeli di confessione protestante, fra i quali circoleranno i suoi scritti e le sue dottrine. Trasferitosi all’Aja nel 1670, lì decise di rimanere per poter pubblicare le sue opere senza nessun pericolo di censura, anche se la salita al potere da parte di Guglielmo III d’Orange ridusse la libertà di pensiero. Morì all’Aja nel 1677 di tisi.
Spinoza scrisse un Trattato sull’emendazione dell’intelletto (1657-58), un Breve trattato su Dio, L’uomo e la felicità (1661), Riflessioni metafisiche e Principi della filosofia cartesiana (1663), il Tractatus teologico-politicus (1670) e l’Ethica ordine geometrico demonstrata (1674, pubblicata postuma dai suoi discepoli nel 1677).
Conoscere la verità è conoscere l’idea vera: Dio.
Spinoza è convinto che ogni uomo debba convertirsi alla filosofia per poter scoprire quell’unico vero bene, non corruttibile né contingente, il quale “una volta scoperto e acquisito” passa procurare “in eterno una gioia continua e suprema”, poiché solo una cosa realmente eterna può regalare una gioia altrettanto eterna: “Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili, e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla di bene né di male, se non in quanto l’animo ne era turbato, decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l’animo fosse affetto; anzi se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema.”
Il primo passo da compiere per raggiungere tale bene è quello di emendare-liberare la mente dai pregiudizi e dalle cose futili e passeggere per portarla a coincidere con la natura tutta . Spinoza analizza così tutte le modalità con cui ci procuriamo conoscenze, ovvero per acquisizione da altri per sentito dire, o da una esperienza vaga e non razionalmente determinata, o da un metodo induttivo e/o deduttivo eccessivamente frettoloso, oppure dalla percezione intuitiva e immediata dell’essenza di una determinata cosa. Solo quest’ultima modalità, l’intuizione diretta e immediata dell’essenza, conduce alla verità eterna della realtà delle cose, e quindi al sommo bene e alla felicità dell’uomo, ma è molto poco diffusa fra gli uomini. Il metodo proposto da Spinoza si fonda sull’idea che soltanto conoscendo l’essenza vera di una cosa l’uomo possa attingere in sé il criterio stesso della verità in generale.
Il metodo non sarà mai la descrizione astratta di istruzioni o regole da seguire, ma consisterà proprio “nell’intendere che cosa sia l’idea vera” in quanto la stiamo o l’abbiamo conosciuta: il metodo sarà una “conoscenza riflessiva” dell’”idea vera” conosciuta, “cioè l’“idea dell’idea”.
Questa “idea vera”, criterio e pietra angolare del metodo, è per Spinoza l’idea di Dio, ovvero l’idea, già data nella mente dell’uomo, della Causa suprema della natura: conoscere la natura significa infatti conoscere l’idea della causa della natura. Il metodo conoscitivo allora sarà “perfettissimo quando avremo l’idea dell’ente perfettissimo.”
Profondo conoscitore dell’opera di Cartesio, Spinoza ritiene che l’idea di Dio sia l’idea assoluta e essenziale della mente umana, e che tale idea di Dio coincida totalmente e immediatamente con la certezza della sua esistenza, senza alcun bisogno di ulteriori dimostrazioni, tanto da essere l’idea guida e il criterio fondante ogni successiva conoscenza dell’uomo.
L’idea di Dio è quindi all’inizio del metodo Spinoziano: non è la mente umana che fa ricorso all’idea di Dio per garantirsi la conoscenza adeguata del mondo (come per Cartesio), ma è quell’idea che costituisce il modo originario con cui la nostra mente conosce la realtà .
Il Dio di Spinoza è l’unica Sostanza infinita, “un essere del quale viene affermato tutto, cioè infiniti attributi, ciascuno dei quali infinitamente perfetto nel suo genere” , e non è più pensato come creatore del mondo finito, ma come la stoffa stessa di tutto ciò che esiste, poiché tutta la natura cosmica esiste soltanto in Dio stesso e mai in sé stessa.
Spinoza rifiuta dunque decisamente la trascendenza di Dio e lo fa coincidere col mondo stesso nella sua totalità (il “Deus sive natura” di Giordano Bruno).
Questa coincidenza di Dio con il mondo naturale è però pensata secondo lo stile della filosofia cartesiana, per la quale l’essenza necessaria di Dio e del mondo non è più di tipo qualitativo o vitalistico, ma è di tipo strettamente geometrico e meccanicistico. Attento lettore di Cartesio, Spinoza ritiene infatti che tutto debba poter essere spiegata in maniera geometrico-meccanica e che la sua filosofia potrà finalmente completare a livello ontologico e metodologico l’opera che Cartesio avrebbe lasciato incompiuta.
Il metodo con cui Spinoza intende procedere nella dimostrazione di tutto il contenuto della sua filosofia è quello proprio della geometria, costituito da una “lunga serie di definizioni, assiomi, teoremi e problemi” e che lui chiama “sintesi o composizione” (al contrario di Cartesio che aveva utilizzato per lo più il metodo dell’analisi).
Spinoza è convinto che tutte le nozioni fondamentali della filosofia (come ad es. l’ente, l’essenza, il necessario, il possibile, il tempo, l’ordine, l’uno il vero, gli attributi di Dio, etc.) “non solo possono essere concepite da parte nostra in modo chiaro e distinto, ma possono anche essere spiegate nel modo più facile”, a patto che l’intelletto sia condotto per una strada diversa da quella intrapresa da Cartesio, il quale non è stato in grado di giungere ai veri fondamenti del sapere. Spinoza intende elaborare invece un sistema razionalista in grado di raggiungere tali fondamenti ultimi del sapere.
L’Etica e il metodo geometrico
L’Etica , l’opera principale di Spinoza, è stesa secondo uno stile rigoroso, geometrico e deduttivo, e fu in grado di affascinare moltissimi lettori, come se si trattasse di un’esperienza di liberazione interiore e di affermazione coraggiosa della verità .
Spinoza stesso non faceva che seguire la sua vocazione filosofica, cercando di evitare annose dispute teologiche e rifiutando il dialogo con la comunità scientifica del suo tempo (al contrario di Cartesio), proprio al fine di mantenere la sua libertà di pensiero e di azione .
L’Etica comunque si diffuse moltissimo grazie alla propaganda dei suoi fedeli discepoli e divenne il centro di una nuova pratica della filosofia, intesa come iniziazione alla vera sapienza e via che conduce alla felicità.
L’Etica, articolata in cinque parti, si occupa di Dio in quanto unica Sostanza, della mente umana, degli affetti, della schiavitù umana dovuta agli affetti e, infine, della libertà umana permessa dalla potenza dell’intelletto.
A partire da definizioni (ovvero idee chiare e distinte) sempre vere e necessarie Spinoza procede con dimostrazioni deduttive altrettanto vere, non perché le definizioni descrivono la realtà delle cose così com’è fuori dalla mente umana, ma proprio perché tali definizioni si fondano sulla necessità con cui l’intelletto pensa le essenze vere delle cose in base al principio logico di non-contraddizione.
Le definizioni vengono accompagnate da assiomi e postulati (ovvero i principi primi della nostra conoscenza) e la dimostrazione consta di una rigorosa concatenazione di proposizioni affiancate da corollari, spiegazioni e scolii (ovvero annotazioni in forma argomentativa): Spinoza mette così in risalto la differenze tra il comune modo di fare filosofia, le dottrine tradizionali e le sue nuove verità geometriche e necessarie.
L’Etica ordine geometrico demonstrata tratta dunque di tutto il percorso della filosofia spinoziana, la quale, attraverso la conoscenza ordinata e necessaria di tutta la realtà, intende condurre alla realizzazione compiuta della libertà umana: lo scopo di tutta la filosofia di Spinoza è proprio il tentativo di superare il distacco tra l’ordine necessario della natura scoperto dalla ragione e il dominio del libero arbitrio che fa capo alla volontà umana. In fin dei conti per Spinoza la vera libertà umana (l’etica) si realizza come scoperta della necessità della natura.
La Sostanza spinoziana
Spinoza all’inizio dell’Etica parte dalla definizione della causa sui, ovvero di qualcosa che implica immediatamente e da sé la certezza della propria esistenza: “Per causa di sé [causa sui] intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente” .
La nostra mente, per natura, è dunque in grado di concepire qualcosa come necessariamente esistente, qualcosa che non ha bisogno di altro da sé per esistere ma che esiste da sé necessariamente.
La filosofia di Spinoza parte dunque dalla constatazione di un’idea chiara e distinta nella nostra mente (e non da un dato dell’esperienza), un’idea di una evidenza inconfutabile, l’idea di Dio come causa sui!
Tale idea di Dio, secondo Spinoza, non dev’essere dimostrata attraverso il procedimento del dubbio cartesiano, poichè è l’idea prima e originaria che troviamo chiara e distinta nella nostra mente, e propria tale idea di Dio sarà il punto di partenza di ogni riflessione e deduzione successiva. L’idea di Dio è quella di un ente perfettissimo, che dunque non può essere solo possibile ma che dev’essere necessariamente esistente.
Dopodichè Spinoza introduce la definizione di tutto ciò che è “finito nel suo genere” e che “può essere determinato da una cosa della stessa natura” , ovvero la definizioni dei corpi materiali e dei nostri pensieri.
Solo ora, avendo presente la definizione della causa sui e delle cose finite, possiamo capire la definizione spinoziana della Sostanza: “Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia ciò il cui concetto non esige il concetto di un’altra cosa, a partire dal quale debba essere formato.”
Sostanza è dunque tutto ciò che non ha bisogno di nient’altro da sé per esistere e per essere conosciuta, ovvero ogni sostanza è ciò che ha in sé stessa la ragione esauriente della propria esistenza e della propria conoscibilità.
Quindi vera e propria sostanza è soltanto la causa sui e non i corpi o i pensieri, che sono finiti e determinabili da altre cose della stessa natura.
I corpi, i pensieri e le cose del nostro mondo dell’esperienza perdono secondo Spinoza la dignità di sostanza e si rivelano pure manifestazioni particolari della Sostanza, aprendo così il problema di spiegare il rapporto che c’è tra l’unica sostanza necessaria e le molteplici cose del mondo.
Gli attributi e i modi dell’unica Sostanza
La soluzione di Spinoza al problema di che rapporto ci sia tra le cose finite del mondo e l’unica sostanza causa sui è quella di far rientrare tutte le molteplici cose finite (tutti i corpi e tutti i pensieri) nella sostanza stessa, come suoi attributi e come suoi modi: “Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza.”
Per Spinoza la sostanza unica e infinita possiede infiniti attributi, ovvero infinite modalità di darsi che costituiscono la sua essenza.
La sostanza è tutt’intera nei suoi diversi attributi, e i suoi diversi infiniti attributi coincidono ciascuno con l’infinità della sostanza stessa. Tuttavia la nostra mente è in grado di cogliere della sostanza soltanto due di questi infiniti attributi, ovvero il pensiero e l’estensione (e cioè la res cogitans e la res extensa di cartesiana memoria ma non più pensate come sostanze bensì appunto come attributi della sostanza): ne consegue che la sostanza, cioè Dio stesso, è insieme “cosa pensante” e “cosa estesa”.
Il nostro intelletto, in quanto pensante, allora farà parte dell’attributo del pensiero, così come il nostro corpo, in quanto materico, farà parte dell’attributo dell’estensione, ovvero sono concepiti da Spinoza come modi degli attributi della Sostanza: “Per modo intendo le affezioni di una sostanza, ossia ciò che esiste in altro, per mezzo del quale è anche concepito.”
La molteplicità delle cose finite sta in rapporto all’unica sostanza necessaria nel senso che le singole cose esistono non necessariamente in sé stesse ma “in altro”, ovvero negli attributi necessari del pensiero e dell’estensione, di cui sono una modificazione, sotto forma di singoli pensieri e di singoli corpi in relazione: le singole cose (i corpi e le menti singole) sono dunque modi finiti -ovvero sono “dedotti” dalla modificazione- degli infiniti attributi del pensiero e dell’estensione dell’unica Sostanza necessaria. Gli enti finiti e molteplici in questa prospettiva non sono più considerati come enti creati e contingenti, bensì come modi necessari della Sostanza: tutta la realtà comincia a rivestirsi della necessità assoluta propria della sostanza.
La Sostanza è dunque Dio: “Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita.” In questa definizione Dio perde definitivamente i tratti personali del Dio creatore della tradizione ebraico-cristiana, e diventa l’ente perfetto e necessario a cui tutte le singole cose finite risultano immanenti secondo una irrevocabile necessità: comprendere Dio non sarà più dunque compito della religione e della teologia, bensì della filosofia.
Nella prospettiva spinoziana anche il termine natura muta di significato, e viene considerato come una totalità infinita e necessaria, come una sostanza perfetta al pari di Dio necessariamente esistente – così che “natura” non indica più l’essenza aristotelica degli enti e nemmeno la totalità degli enti fuori di noi.
Deus sive natura: Dio e la natura coincidono, ovvero tutto ciò che esiste è immanente a Dio e Dio è in tutte le cose necessariamente. Infatti “dalla natura divina devono seguire infinite cose in infiniti modi” e, di conseguenza, “tutte le cose sono determinate dalla necessità della natura divina ad esistere e ad operare in un certo modo.”
Dio risulta così una potenza infinita e unica, causa efficiente, assolutamente prima, “per sé e non per accidente”, in grado di esplicarsi in infiniti effetti altrettanto e sempre necessari: la sostanza causando sé stessa causa contemporaneamente e necessariamente i propri infiniti effetti (ovvero gli infiniti attributi e gli infiniti modi finiti degli attributi). Dio inoltre è causa libera dei suoi effetti, ma non perché vuole creare il mondo secondo una atto volitivo, bensì perché, secondo la necessità della sua essenza causale, non può che esplicarsi nei suoi effetti. In Dio libertà e necessità coincidono. Dio, infine, è causa immanente di tutte le cose , poiché coincidendo nella loro causa ed essenza, non vi è più differenza o distacco tra Dio e le cose stesse: “soltanto Dio possiede l’essere e tutte le altre cose non sono esseri, ma modi [dell’essere di Dio]”.
La sostanza (che abbiamo definito sia come causa di sé, sia come causa libera e immanente di tutte le cose) può essere guardata nel suo esplicarsi liberamente nei suoi attributi eterni e infiniti, e viene definita allora come natura naturans; se invece guardiamo la sostanza attraverso i modi necessari (gli enti finiti) in cui si è già manifestata, secondo la necessità della natura divina, allora Spinoza la definisce come natura naturata .
Inoltre, poiché tutto è in Dio, niente potrà essere definitio buono o cattivo, perfetto o imperfetto: tutte le cose invece sono buone e perfette in quanto il bene e la perfezione coincidono con l’essenza divina di ogni cosa. Sono soltanto i nostri pregiudizi umani a farci definire le cose come buone o cattive, come se fossero valori ed enti in sé, non necessariamente dipendenti dall’infinità della sostanza.
Spinoza attacca duramente l’idea che le cose e gli uomini esistano secondo uno scopo o un fine da raggiungere in quanto mero pregiudizio o superstizione; egli afferma infatti che tutte le cause finali sono un’elaborazione immaginifica degli uomini, o più semplicemente “finzioni umane” da cui ci dobbiamo liberare (come ad es. che gli eventi terribili siano punizioni divine e che gli eventi positivi siano premi degli dei concessi agli uomini). Se Dio agisse secondo un fine, vorrebbe dire che ancora gli manca qualcosa e che Dio sarebbe un Dio desiderante qualcosa d’altro da sè, il chè risulta contraddittorio con l’idea stessa di Dio. Anche per quanto riguarda gli uomini lo stesso concetto di causa finale è assurda e falsa, poiché viene introdotta soltanto per difendersi dall’ingnoranza della vera essenza delle cose: parlare di “volontà di Dio” o di “provvidenza” o di “miracoli” significa, secondo Spinoza, tentare di sfruttare lo “stupore” ancora ingenuo degli ignoranti al fine di tenerli succubi del potere dei teologi e dei politici. Grazie alla filosofia invece potremo conoscere la verità necessaria ed eterna di tutte le cose (la Sostanza, gli attributi e i modi), e così, secondo Spinoza, “eliminata l’ignoranza, viene meno anche lo stupore” .
Il rapporto tra mente e corpo e la corrispondenza tra idee e cose
Se Dio è la sostanza unica e infinita a cui appartengono infiniti attributi, di esso il nostro intelletto è in grado di conoscere soltanto gli attributi dell’estensione e del pensiero e i relativi modi finiti della mente e del corpo. Mente e corpo non sono sostanze separate come sosteneva Cartesio, bensì due modi che si coappartengono nella sostanza divina. Spinoza infatti scrive che nella sostanza “l’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine a alla connessione delle cose” poiché “Dio, l’intelletto di Dio e le cose comprese dallo stesso intelletto di Dio sono un solo e medesimo essere” .
Ad esempio, secondo Spinoza, in Dio c’è piena coincidenza tra l’idea di cerchio e un cerchio realmente esistente in natura poiché entrambi non sono altro che due modi diversi di manifestarsi della sostanza nei due attributi del pensiero (l’idea di cerchio) e della estensione (il cerchio realmente esistente). Come in Dio si attua questa identità dei diversi attributi, così anche nell’uomo mente e corpo vanno intesi come due modi degli attributi del pensiero (la mente) e dell’estensione (il corpo) di un unico individuo: ogni uomo è un’identità ontologica che si manifesta come mente e come corpo, e quindi ad ogni pensiero seguirà una modificazione corrispondente del corpo e ad ogni atto del corpo corrisponderà un pensiero della mente. La nostra mente per Spinoza non è che “l’idea di una cosa singola esistente in atto” e “l’oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione esistente in atto, e nient’altro” .
La distanza incolmabile fra res cogitans e res extensa posta da Cartesio è risolta all’origine, poiché mente e corpo stanno in una corrispondenza perfetta in quanto vivono secondo il necessario parallelismo che caratterizza gli attributi e i modi che dipendono dall’unica sostanza. L’unità di mente e corpo è necessaria poiché entrambi questi modi esistono e derivano necessariamente dall’unica sostanza divina. La nostra mente individuale, così come il nostro corpo individuale, non è che una manifestazione di Dio stesso, in qualche modo è Dio stesso: “la mente umana [modo] è parte dell’intelletto infinito [attributo] di Dio. Perciò quando diciamo che la mente umana percepisce questo o quello, non diciamo altro se non che Dio, non in quanto è infinito, ma in quanto si esplica mediante la natura della nostra mente, ossia in quanto costituisce l’essenza della mente umana, ha questa o quell’idea” .
La nostra mente è individuale proprio e soltanto per il fatto di essere l’idea di un corpo, ovvero del nostro corpo individuale. E siccome il nostro corpo individuale è composto da molteplici parti che lo costituiscono e sta in relazione con diversi altri corpi che lo modificano, allora la nostra mente sarà anch’essa composta da molteplici idee , ciascuna corrispondente alle diversi parti del corpo e alle sue diverse attività.
E come la nostra mente procede a conoscere? In primo luogo la mente conosce per opinione o immaginazione (la conoscenza che si fonda sulla sensibilità e sui segni, ed è perciò “vaga”, confusa e senza ordine, ed è perciò l’unica causa della falsità e degli errori); in secondo luogo conosciamo attraverso la ragione, che ci offre nozioni comuni e idee adeguate delle proprietà delle cose (è una conoscenza che si sa come necessaria in quanto ancorata alle proprietà comuni delle cose); in terzo luogo conosciamo secondo la scienza intuitiva, per la quale vediamo le singole cose sotto una certa specie di eternità (sub specie aeternitatis).
La scienza intuitiva è possibile solo quando “la mente umana ha una conoscenza adeguata dell’essenza eterna e infinita di Dio” , il che avviene quando concepiamo la nostra mente, il nostro corpo e i corpi esterni esistenti in atto come modi degli attributi dell’unica sostanza. Scopriamo così che la nostra mente non è libera e che la nostra volontà non è autonoma, ma che coincidono quando contempliamo il mondo sub specie aeternitatis.
Dunque, poichè tutto accade in Dio, anche la nostra libertà e il nostro intelletto sono perfettamente connessi, corrispondenti e coincidenti, tanto che Spinoza considera la volontà stessa come una finzione, nei fatti irreale.
Gli affetti dell’uomo e il ‘conatus’: la meccanica umana
Poiché Spinoza concepisce Dio come l’ordine e la connessione geometrica dei suoi infiniti attributi e dei rispettivi modi finiti degli attributi, il suo sistema filosofico è definibile come un monismo (un’unica Sostanza) geometrico (rigorosamente costituita) panteista (necessaria): Dio non è una Persona, ma coincide con l’impersonale ordine geometrico che regge l’universo. Dio non è creatore, non ha fini particolari, non deve scegliere tra necessità e libertà, bene e male, giusto e ingiusto. Ogni cosa è come deve essere, per la sua appartenenza alla necessaria armonia della Sostanza. In questo orizzonte Spinoza tratta gli affetti, le azioni e i vizi umani con metodo geometrico, ovvero con un ragionamento certo egli spiega anche quei moti dell’anima umana che ci appaiono irrazionali o assurdi. Scrive Spinoza: “Questo è il mio ragionamento: in natura non si dà nulla che possa essere attribuito a un suo difetto. La natura, infatti, è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire sono ovunque una e medesima. […] Dunque gli affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia, etc., considerati in sé, conseguono dalla stessa necessità e potenza della natura dalla quale conseguono le altre cose singole. Perciò ammettono cause certe mediante le quali si comprendono, e hanno proprietà determinate degne della nostra conoscenza al pari delle proprietà di qualunque altra cosa, dalla cui sola contemplazione traiamo diletto. Tratterò dunque della natura e delle forze degli affetti, come anche del potere della mente su di essi, con lo stesso metodo con il quale nelle parti precedenti ho discusso di Dio e della mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici o di corpi” .
Spinoza definisce gli “affetti” sia come le “affezioni del corpo, dalle quali la potenza di agire dello stesso corpo è aumentata o diminuita, favorita o inibita”, sia come le “idee di queste affezioni” che abbiamo nella mente. Quando la potenza del corpo è aumentata da affezioni che hanno una causa interna all’uomo stesso l’affetto è chiamato azione; quando invece la potenza del corpo diminuisce poiché le affezioni derivano da una causa esterna al corpo stesso, l’affetto è definito come passione. Così si può dire che la mente agisce quando possiede idee adeguate allo stato del corpo, e che patisce quando possiede idee inadeguate ad esso. Azioni e passioni riguardano parallelamente (ma senza reali interferenze) il corpo e la mente: la mente in quanto idea del corpo, il corpo in quanto oggetto della mente.
Tutte le azioni, degli uomini come delle cose naturali, si fondano su una azione, pulsione o sforzo originario, il conatus, per il quale “ogni cosa, per quanto sta in essa, è spinta a perseverare nel suo essere” non occasionalmente, bensì essenzialmente.
Il conatus si manifesta come volontà, quando parliamo dell’attività della mente, o come appetito, quando parliamo dell’attività del corpo. L’essenza umana è dunque un originario istinto all’autoconservazione, né libero né arbitrario, bensì necessario. Quando l’uomo diventa consapevole del proprio conatus allora si parla di desiderio o cupidità (ovvero “l’appetito unito alla coscienza di sé”). L’uomo consapevole tende così alla conservazione, alla perseveranza e alla perfezione del proprio essere, ma non per un ideale di perfezione da raggiungere o per un mero istinto psicologico di conservazione, bensì per un dinamismo necessario, meccanico, neutrale ed impersonale, proprio della natura umana. La perfezione da raggiungere infatti non è altro che la conoscenza perfetta del modo di essere proprio dell’uomo.
Per Spinoza tutti gli impulsi, le volizioni e gli appetiti dell’uomo ruotano intorno a questa tendenza fondamentale che è la cupiditas, la quale, in base alle diverse circostanze esterne, muta continuamente così che “l’uomo è trascinato in direzioni diverse e non sa dove volgersi” .
La maggiore o minore perfezione dell’uomo è dovuta proprio al rapporto tra gli affetti e la mutevolezza dell’uomo che ne consegue: quando si incrementa la propria perfezione l’esistenza si colora dell’affetto della laetitia, la gioia, invece, quando si tende a diminuire la propria perfezione la vita si modifica nella tristizia, la tristezza. Gioia e tristezza non hanno qui valore emotivo o sentimentale bensì sono veri e propri atti percettivi che derivano dalla maggiore o minore perfezione raggiunta a livello ontologico. Il “desiderio di essere”, come tendenza necessaria dell’uomo all’autoconservazione, si colora di gioia o di tristezza in base al tipo di perfezione raggiunta nel dominio delle proprie passioni.
Se tutti gli affetti dell’uomo – la gioia, la tristezza, la speranza, il disprezzo, l’ammirazione, l’amore, l’odio, etc. -dipendono dalla sua tendenza naturale e necessaria all’autoconservazione allora per giudicare gli affetti e distinguerli in buoni e cattivi sarà decisivo comprendere che “bene” e “male” sono concetti che rimandano rispettivamente a ciò che è utile o danno per la conservazione del proprio essere.
L’uomo sarà schiavo della forza dei propri affetti quando risulterà incapace a governarli e a frenarli. Solo il governo delle passioni permette all’uomo di non finire in balia della fortuna e del fato e di riconoscersi come “signore di sé”. L’uomo si trova immerso nella natura e soverchiato da forze ben più potenti di lui ed è quindi passivo di fronte alla maggiore potenza delle cause esterne. L’uomo allora potrà controbilanciare la propria passività soltanto attraverso un’azione altrettanto naturale, ovvero attraverso la conoscenza chiara e distinta delle cause dei propri affetti: la passività potrà così diventare attività solo quando l’uomo si dedicherà interamente alla conoscenza delle cause dei propri affetti, mettendo da parte ogni religione rivelata, ogni morale fatta di obblighi e divieti e ogni saggezza meramente mondana. L’uomo, sebbene continuerà ad essere determinato dalla natura a lui circostante, sarà però consapevole della necessità per cui si ritrova sottomesso alle passioni e potrà tentare di governarle. Secondo Spinoza dunque l’unica vera virtù propriamente umana è quella di agire e vivere conservando il proprio essere secondo ragione, in vista del bene inteso come utile, e cioè in vista della perfetta comprensione della meccanica dei propri affetti.
L’amore intellettuale di Dio
La comprensione della necessità delle proprie affezioni – ovvero delle modificazioni che l’uomo subisce da parte delle cause esterne - ci permette di riconoscere l’uomo come parte dell’infinita Sostanza che coincide con la Natura, e di vedere così l’essenza divina dell’uomo. Essendo l’uomo un modo finito dell’infinita Sostanza sarà impossibile non accettare la necessità della nostra condizione finita e cominciare a “desiderare solo ciò che è necessario”, sopportando i nostri limiti e armonizzando i nostri impulsi con quelli esterni e contrari: “Nella vita dunque è utilissimo perfezionare, per quanto possiamo, l’intelletto e la ragione, e in questo soltanto consiste la suprema felicità o beatitudine dell’uomo. E la beatitudine certamente non è altro che lo stesso acquietamento dell’animo, che nasce dalla conoscenza intuitiva di Dio. Ma perfezionare l’intelletto non è altro che intendere Dio, gli attributi di Dio e le azioni che seguono dalla necessità della sua natura. Perciò il fine ultimo dell’uomo guidato dalla ragione, ossia il supremo desiderio mediante cui si opera a moderare tutti gli altri desideri, è quello dal quale è portato a concepire adeguatamente sé stesso e tutte le cose che possono cadere sotto la sua intelligenza”
L’uomo dunque è libero solo per la potenza del suo intelletto di conoscere, tramite un’intuizione intellettuale, la necessità di ogni singola cosa che viene così considerata sub specie aeternitatis, come modo finito degli attributi infiniti di Dio. L’intuizione della necessità eterna di ogni singola cosa porta l’intelletto ad una tale pienezza e soddisfazione da trasformare la conoscenza in amore. La mente, liberata dalla falsità e dai pregiudizi, si riempie della conoscenza di Dio e, in questo senso, Lo ama nell’accettazione consapevole della Sua necessità “geometrica”.
Abbandonando l’idea di Dio come Creatore che liberamente ama e vuole le sue creature per esserne riamato, Spinoza rigetta come assurda l’idea di una possibile rivelazione storica da parte di Dio stesso in quanto negherebbe l’assoluta necessità, infinità ed eternità della Sostanza. L’uomo si salva dunque da solo e ottiene la felicità grazie alla comprensione perfetta della propria natura finita ma necessaria e sussistente in Dio. È lo stesso Dio spinoziano a non aver alcun bisogno dell’uomo, poiché l’uomo è già e necessariamente una determinazione finita della Sostanza divina. L’uomo ama Dio non perché lo vuole, ma perché, acuendo l’intelligenza del proprio intelletto, scopre di non poter fare altrimenti: l’amore intellettuale dell’uomo per Dio si rivela così “parte dell’amore infinito con il quale Dio ama se stesso” La felicità dell’uomo saggio non sarà dunque il premio futuro di una buona condotta di vita ma coincide, già nel presente, con la sua stessa virtù razionale. la filosofia di Spinoza è dunque un cammino arduo che però ha il potere di liberarci dalla paura della morte facendocela accettare come necessità naturale e quindi “come modalità inveitabile della gloria di Dio” .
La critica alle religioni rivelate e il compito dello Stato
L’ardua strada filosofica alla felicità sembrerebbe però facilmente superata dalle religioni rivelate, che propongono un Dio storico accessibile a tutti. Spinoza cercò di mostrare la falsità di tutte le religioni rivelate nel suo Trattato teologico-politico del 1670.
Spinoza sottolinea in primis l’importanza del fatto che lo Stato difenda sempre la libertà del pensiero, contro ogni censura e impedimento, tanto da affermare “non soltanto che la libertà di filosofare si può concedere senza danno per la pietà e la pace dello Stato, ma anche che essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato” .
Spinoza esalta il libero esame delle Scritture come l’unica possibilità perché la società civile non sia preda dei fanatismi violenti intrinseci ad ogni dogmatismo politico-religioso. La stessa Bibbia non può essere parola rivelata di Dio poiché, in questa ipotesi, si ridurrebbe la conoscenza di Dio a puri segni e immagini storiche frutto dell’immaginazione dei profeti e ci negheremmo l’accesso al divino tramite intuizione intellettuale.
La stessa Legge biblica non è che un richiamo di ordine morale alla giustizia e alla carità tra i membri del popolo e, non potendo essere applicata per una mera evidenza razionale, dev’essere imposta dai sacerdoti come un comando divino. Il popolo ebraico non può nemmeno elevarsi a popolo eletto da Dio, poiché tutta l’umanità è già da sempre affratellata sulla base del proprio intelletto razionale che tende naturalmente alla conoscenza di Dio. I miracoli sono altrettanto impossibili da accettare, poiché negano l’eternità delle leggi di Natura e la necessità della struttura geometrica della Sostanza. Infine gli stessi riti religiosi non sono altro che una modalità storica con cui la casta sacerdotale cerca di tenere sottomesso il popolo.
Spinoza attacca poi la modalità tradizionale di interpretare le Sacre Scritture che, a suo giudizio, dev’essere sostituta da un metodo storico: le Scritture devono essere interpretate con lo stesso metodo con cui il filosofo cerca di interpretare la natura, ovvero come un prodotto storico di cui possiamo mettere in luce le origini linguistiche e culturali, le intenzioni degli autori e la falsità dovute alla loro redazione e trasmissione.
Solo in questo modo il saggio comprenderà il vero senso delle Sacre Scritture, che consiste nell’insegnare e trasmettere la fede in “un ente supremo, che ama la giustizia e la carità e a cui tutti, per esser salvi, sono tenuti ad obbedire, adorandolo nel culto della giustizia e dell’amore del prossimo” . In questo modo Spinoza riesce nel suo intento di separare radicalmente la fede dalla filosofia in quanto quest’ultima ha lo scopo di conoscere la verità, mentre la fede ha lo scopo di trasmettere l’obbedienza e la pietà. Solo considerando filosoficamente le Sacre Scritture potremo evitare di rimanervi sottomessi in maniera superstiziosa.
La filosofia stessa si è dimostrata in grado di pervenire razionalmente e naturalmente al nocciolo di verità proposto dalle Scritture, così da rendere di fatto vana ogni obbedienza confessionale a religioni rivelate, nell’orizzonte comunque di una libertà di pensiero e di parola circa le verità di fede secondo ciò che ciascuno sente.
Spinoza si chiede tuttavia se la libertà del pensiero risulterà utile o dannosa per la convivenza degli uomini all’interno dei moderni stati europei. La sua risposta è che solo tramite la libertà di pensiero si potrà garantire l’ordine sociale e l’autorità dello Stato. Secondo Spinoza infatti il cittadino ha per natura “pieno diritto su ciò che è in suo potere, ossia […] il diritto di ciascuno si estende sin dove si estende la sua determinata potenza” . Ogni cittadino dunque per vivere in pace aliena il suo diritto nella mani del sovrano sottomettendosi volentieri al suo volere a patto che non gli impedisca di esercitare i propri diritti naturali, primo fra tutti quello della libertà di parola e di pensiero. Inoltre l’uomo non potrà mai essere felice da solo, ma solo all’interno di una comunità di uomini felici, ed è per questo motivo che lo stato deve porsi come il potere ordinatore della scietà che garantisca l’ordine e la sicurezza di tutti. La libertà di espressione potrà dunque essere limitata solo nel caso in cui leda l’integrità del patto sociale e, a questo scopo, le autorità religiose non dovranno mai interferire con il potere dello Stato ma dovranno sempre obbedirgli. Sarà dunque lo stesso Stato a stabilire cosa sia “pio”o “empio” e a regolare con decreti civili la pratica della carità e della giustizia, al fine di evitare parzialità e fanatismi dannosi all’utilità del corpo sociale. La difesa della libertà individuale diventa allora possibile solo se lo Stato controllerà in ogni suo aspetto l’apparato religioso, inglobando la libertà di ciascuno nel regno della necessità geometrica del potere tipica dello Stato moderno.
Spinoza - testi
l’Ethica ordine geometrico demonstrata
l. l’Etnica di Spinoza è un'opera unica nel suo genere che, riallacciandosi al procedimento espositivo-dimostrativo degli Elementi di Euclide, porta il metodo deduttivo-geometrico alle estreme conseguenze. L'opera si scandisce infatti secondo definizioni, assiomi, lemmi, postulati, proposizioni, dimostrazioni, corollari, scolii (o delucidazioni), ed è divisa in cinque parti: I. Dio, - II. Natura e origine della mente, - III. Origine e natura desii affetti; IV. La schiavitù umana, ossia le forze desii affetti; V. La potenza dell'intelletto, ossia la libertà umana. Qui riportiamo le definizioni e gli assiomi della parte I, più alcune proposizioni accompagnate da dimostrazione; inoltre, per dare un'idea dell'intreccio e de I la rigorosa concatenazione dell'esposizione di Spinoza, proponiamo tutte le altre proposizioni di raccordo della suddetta parte, limitandoci però alla loro enunciazione. Dai frequentissimi rinvii interni dell'opera deriva la necessità di mantenere l'originaria numerazione spinoziana di definizioni, assiomi e proposizioni.
Parte I. Dio
Definizioni
1 Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l'esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente.
2 Dicesi nel suo genere finita, quella cosa che può essere delimitata da un'altra della medesima natura. Per esempio, un corpo si dice finito, perché ne concepiamo un altro sempre maggiore. Parimenti un pensiero è delimitato da un altro pensiero. Ma un corpo non è delimitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo.
3 Per sostanza intendo ciò che è in sé, ed è concepito per sé: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un'altra cosa, da cui debba essere formato.
4 Per attributo intendo ciò che l'intelletto percepisce della sostanza, come costituente la sua essenza.
5 Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per cui anche viene concepito.
6 Per Dio intendo l'ente assolutamente infinito, cioè la sostanza che consta di infiniti attributi, di cui ognuno esprime eterna e infinita essenza.
7 Spiegazione. Dico assolutamente infinito, e non nel suo genere, - possiamo infatti negare infiniti attributi a tutto ciò, che solo nel suo genere è infinito; appartiene invece all'essenza di ciò che è assolutamente infinito, tutto quel che esprime essenza e non implica alcuna negazione.
8 Si dice libera quella cosa, che esiste per sola necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola: mentre necessaria, o piuttosto coatta, quella che è determinata da altro ad esistere ed operare secondo una certa e determinata ragione.
9 Per eternità intendo la stessa esistenza, in quanto si concepisce seguire necessariamente dalla sola definizione della cosa etema.
Spiegazione. Infatti tale esistenza viene concepita, come eterna verità, quale essenza della cosa, e perciò non si può spiegare con la durata o con il tempo, anche se la durata è concepita mancare di principio e di fine.
Assiomi
a. La sostanza in generale
Proposizioni
10. Ogni attributo di una stessa sostanza dev'essere concepito per sé.
b. Dio esiste necessariamente ed è l'unica sostanza
11. Dio, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, di cui ognuno esprime eterna ed infinita essenza, necessariamente esiste.
Dimostrazione. Se lo neghi, concepisci, se può avvenire, che Dio non esista. Allora (per l'assioma 7) la sua essenza non implica l'esistenza. Ma ciò (per la proposizione 7) è assurdo. Dunque Dio esiste necessariamente. C. d. d.
Altrimenti: Di qualsiasi cosa si deve assegnare la causa, o ragione, sia del perché esiste, sia del perché non esiste. Per esempio, se il triangolo esiste, si deve dare la ragione o causa del perché esiste, - se invece non esiste, si deve ancora dare la ragione o causa che impedisce che esista, ossia che toglie la sua esistenza. E questa ragione o causa poi, o deve essere contenuta nella natura della cosa, o deve essere al di fuori di essa. Per esempio, la ragione perché non esiste un circolo quadrato, la indica la stessa natura sua; senz'altro perché implica contraddizione. Perché viceversa la sostanza esista, segue ancora dalla sua sola natura, poiché cioè implica l'esistenza (vedi la proposizione 7). Ma la ragione perché il circolo o il triangolo esiste, o non esiste, non segue dalla loro natura, ma dall'ordine dell'universa natura corporea, - da esso infatti deve seguire o che necessariamente il triangolo esiste già, o che è impossibile che il triangolo esista già. Ma ciò è manifesto per sé. Ne deriva che esiste, necessariamente, ciò di cui non si da nessuna ragione né causa, che gli impedisca di esistere. Se dunque nessuna ragione né causa si possa dare, che impedisca che Dio esista, cioè che tolga la sua esistenza, bisogna allora concludere in pieno che necessariamente esiste. Ma se si desse una tal ragione o causa, essa dovrebbe darsi o nella stessa natura di Dio, o al di fuori di essa, cioè in un'altra sostanza di un'altra natura. Perché se fosse della medesima natura, per ciò stesso si concederebbe che si da Dio. Ma la sostanza che fosse di diversa natura, non avrebbe niente in comune con Dio (per la proposizione 2), e perciò non potrebbe né porre, né togliere la sua esistenza. Visto allora che la ragione o causa, che tolga l'esistenza di Dio, non si può dare al di fuori della divina natura, dovrà necessariamente darsi, nel caso che non esista, nella sua stessa natura, che perciò implicherebbe contraddizione. Ma ciò è assurdo affermarlo dell'ente assolutamente infinito e sommamente perfetto, dunque non si da, né in Dio né fuori di Dio, alcuna causa o ragione che tolga la sua esistenza, e perciò Dio esiste necessariamente. C. d. d.
Altrimenti-. Poter non esistere è impotenza, e viceversa poter esistere è potenza (come per sé evidente). Dunque se ciò, che già di necessità esiste, non consiste se non in enti definiti, gli enti finiti sono allora più potenti dell'ente assolutamente infinito: ma ciò (come per sé chiaro) è assurdo. Quindi, o niente esiste, o necessariamente esiste anche l'ente assolutamente infinito. Ma noi esistiamo o in noi, o in altro che necessariamente esiste (vedi assioma 1 e proposizione 7). Dunque l'ente assolutamente infinito, ossia (per la definizione 6) Dio, esiste necessariamente. C. d. d.
Scolio. In quest'ultima dimostrazione, ho voluto dimostrare l'esistenza di Dio a posteriori, affinchè più facilmente si afferrasse la dimostrazione; non certo per il fatto che da questo medesimo fondamento non segua a priori l'esistenza di Dio. Dato infatti che il poter esistere è potenza, segue che quanta più realtà spetta alla natura di una cosa, tante più forze essa ha da se stessa per esistere, - e perciò l'ente assolutamente infinito, cioè Dio, ha da se stesso una potenza di esistere assolutamente infinita, e perciò assolutamente esiste. Forse tuttavia molti non potranno constatare facilmente l'evidenza di questa dimostrazione, per essersi assuefatti a contemplare solo quelle cose, che procedono da cause esterne, e da quelle cose che sono prodotte rapidamente, cioè che facilmente esistono, vedono anche che rapidamente periscono, e giudicano al contrario come cose più difficili a farsi, cioè non tanto facili ad esistere, quelle a cui concepiscono appartenere più cose. Ma perché si liberino da cedesti pregiudizi, io non ho bisogno qui di dimostrare per quale ragione questo enunciato, secondo il quale ciò che presto vien prodotto presto perisce, sia vero, e neanche se, considerando tutta quanta la natura, tutte le cose siano egualmente facili o no. Ma basta solo notare questo, che io qui non parlo delle cose che sono prodotte dalle cause esterne, bensì delle sole sostanze, che (per la proposizione 6) non possono essere prodotte da nessuna causa esterna. Infatti le cose che sono prodotte da cause esterne, sia che constino di molte, sia di poche parti, qualsiasi perfezione o realtà abbiano, tutto ciò è dovuto alla virtù della causa esterna, e dunque la loro esistenza sorge dalla sola perfezione della causa esterna e non già dalla loro. Qualsiasi perfezione, al contrario, abbia la sostanza, essa non è dovuta ad alcuna causa esterna, - perciò anche la sua esistenza deve seguire dalla sua sola natura, che dunque non è altro che la sua essenza. Quindi la perfezione di una cosa non toglie l'esistenza, ma anzi la pone, - è l'imperfezione che viceversa la toglie. Per questo, di nessuna cosa possiamo essere più certi che dell'esistenza dell'ente assolutamente infinito, ossia perfetto, vale a dire Dio. Dato infatti che la sua essenza esclude ogni imperfezione, e implica un'assoluta perfezione, perciò stesso toglie ogni causa di dubitare della sua esistenza, e da somma certezza di essa, il che, credo, sarà chiaro anche a chi ha prestato appena un po' d'attenzione.
Dimostrazione. Dato che Dio è l'ente assolutamente infinito, di cui nessun attributo, che esprime l'essenza della sostanza, si può negare (per la definizione 6), e che esso necessariamente esiste (per la proposizione 11); se si desse qualche sostanza oltre Dio, essa si dovrebbe spiegare mediante qualche attributo di Dio, e così esisterebbero due sostanze del medesimo attributo, il che (per la proposizione 5) è assurdo, - e perciò nessuna sostanza oltre Dio può essere data e, di conseguenza, neanche concepita. Se infatti si potesse concepire, dovrebbe di necessità
essere concepita come esistente, - ma ciò (per la prima parte di questa dimostrazione) è assurdo. Al di fuori di Dio, dunque, non si può dare né concepire alcuna sostanza. C. d. d.
Corollario 1. Ne deriva chiarissimamente, in primo luogo, che Dio è unico, cioè (per la definizione 6) che nella natura delle cose non si da se non una sola sostanza, e che essa è assolutamente infinita, come già abbiamo accennato nello scolio alla proposizione 10.
Corollario 2. Segue, in secondo luogo, che la cosa estesa e la cosa pensante, o sono attributi di Dio, oppure (per l'assioma 1) affezioni di attributi di Dio.
15. Tutto ciò che è, è in Dio, e niente può essere né essere concepito senza Dio.
Dimostrazione. Oltre Dio, non si può dare, né si può concepire alcuna sostanza (per la proposizione 14), cioè (per la definizione 3) alcuna cosa che è in sé e per sé è concepita. I modi invero (per la definizione 5) non possono né essere né essere concepiti senza la sostanza, - per la qua I cosa possono essere solo nella natura divina, e mediante essa sola essere concepiti. Ma oltre le sostanze e i modi niente è dato (per l'assioma 1). Dunque niente senza Dio può essere né essere concepito. C. d. d.
e. Dio è causa immanente ed è eterno
Dimostrazione. Dio (per la proposizione precedente) e tutti i suoi attributi sono eterni, cioè (per la definizione 8) ognuno dei suoi attributi esprime l'esistenza. Dunque i medesimi attributi di Dio, che (per la definizione 4) manifestano l'eterna essenza di Dio, manifestano insieme anche la sua eterna esistenza, vale a dire: la stessa cosa che costituisce l'essenza di Dio, costituisce nello stesso tempo la sua esistenza, e perciò questa e la sua essenza sono una sola e medesima cosa. C. d. d.
Corollario 1. Di qui segue, in primo luogo, che l'esistenza di Dio, come la sua essenza, è verità eterna.
Corollario 2. Segue, in secondo luogo, che Dio, ossia tutti gli attributi di Dio, sono immutabili. Se infatti si mutassero per ragione di esistenza, dovrebbero anche (per la proposizione precedente) mutarsi per ragione di essenza, cioè (come per sé noto) da veri diventerebbero falsi, il che è assurdo.
24. L'essenza delle cose prodotte da Dio non implica l'esistenza.
Dimostrazione. È evidente dalla definizione 1. Solo ciò la cui natura (in sé considerata) implica l'esistenza, è causa di sé ed esiste per la sola necessità della sua natura.
Corollario. Ne discende, che non solo Dio è causa che le cose comincino ad esistere, ma anche che perseverino nell'esistere, ossia (per usare un termine scolastico) che Dio è la causa esserteli delle cose. Infatti, sia che le cose esistano, sia che non esistano, tutte le volte che consideriamo la loro essenza, vediamo che essa non implica né l'esistenza né la durata, - perciò, la loro essenza non può essere causa né della loro esistenza né della loro durata, -ma causa è solo Dio, alla cui sola natura appartiene di esistere (per il corollario 1 della proposizione 14).
ta ad operare, se non sia determinata ad esistere ed operare da un'altra, che anche è finita e ha un'esistenza determinata, e così all'infinito.
B. Spinoza, Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico, trad. di S. Giannetta, Boringhieri
Ad Amsterdam gli ebrei vivevano in un quartiere molto vivace e ricco, sia materialmente che culturalmente, tanto che lo stesso Spinoza esaltò la sua città per lo spirito di tolleranza religiosa che lì si respirava: “In questo Stato assai fiorente e in questa città notevolissima tutti gli uomini, di qualunque nazione o setta essi siano, vivono in grande concordia. E per affidare i loro beni a qualcuno si preoccupano soltanto di sapere se è ricco o povero, e se sia solito agire con lealtà o con inganno. Per il resto non si curano affatto né di religione né di setta, poiché questo non giova in nulla a vincere o perdere una causa davanti al giudice. E purchè non facciano del male a nessuno, diano a ciascuno il suo e vivano onestamente, non c’è setta, per quanto odiosa sia, i cui seguaci non siano protetti e difesi dalla pubblica autorità dei magistrati”, Spinoza, Trattato teologico-politico, XX, 15. Spinoza fu aiutato finanziariamente dallo stesso Jan de Witt, gran pensionario d’Olanda.
Alla morte del padre, nel 1654, condurrà l’azienda di importazione di frutta esotica insieme al fratello anche se con molte difficoltà, a causa dei molti debiti derivati dal naufragio di una loro nave.
Spinoza dal 1655 frequentava un ebreo eterodosso, Juan de Prado, che predicava una fede di stampo deista, avversa al concetto di rivelazione e di Dio, concepito come persona.
Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, par. 1, in Opere, a cura di F.Mignini, trad. di F.Mignini e O.Proietti, Mondatori, Milano 2007
“Questo è dunque il fine al quale tendo: acquisire tale natura e sforzarmi affinché molti l’acquisiscano. Ciò significa che è costitutivo della mia felicità anche adoperarmi a che molti altri intendano la stessa cosa che intendo io, affinché il loro intelletto e i loro desideri convengano pienamente con il mio intelletto e i miei desideri”, B. Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, par. 14, in op. cit.
Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, par. 49, in op. cit.
Porro-Esposito, op. cit. Vol. II, p 174.
Spinoza, Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, cap. 2, par.1, in Opere, a cura di F.Mignini, trad. di F.Mignini e O.Proietti, Mondatori, Milano 2007.
Spinoza pubblicò nel 1663 i Principi della filosofia di Descartes, opera in cui espone rigorosamente il pensiero cartesiano nella convinzione che il cartesianesimo sia l’unica vera nuova strada percorribile dalla filosofia moderna. Spinoza cerca poi di mostrare come la propria filosofia sia l’unica in grado di proseguire l’opera di Cartesio e di portarla infine a compimento.
Iniziata intorno al 1660, la stesura dell’Ethica ordine geometrico demonstrata viene interrotta da Spinoza tra il 1665 e il 1670 per la composizione del Trattato teologico-politico e fu terminata nel 1677 e pubblicata postuma soltanto nel 1677 per timore delle censure. Il testo dell’Etica veniva letto e studiato dagli amici e dai discepoli di Spinoza, come sappiamo da alcune lettere: “Per quanto concerne il circolo, il lavoro è organizzato in questo modo: uno (ma a turno) legge, dà una spiegazione secondo la sua comprensione e mostra tutto secondo la serie e l’rodine delle tue proposizioni. Quando accade che l’uno non possa soddisfare l’altro, abbiamo ritenuto importante annotare la questione e scriverti, affinché, se è possibile, ci sia resa più chiara e, sotto la tua guida, possiamo difendere la verità contro quelli che sono religiosi e cristiani in modo superstizioso, resistendo all’assalto di tutto il mondo.” Lettera 29, di Simon De Vries a Spinoza, 1663. De Vries era un ricco mercante che apparteneva ai “collegianti”, ovvero una comunità aperta a cristiani di ogni confessione fondata sulla tolleranza religiosa, a cui appartenevano alcuni ferventi discepoli di Spinoza.
L’Etica di Spinoza si rifà al trattato geometrico di Euclide, gli Elementi (IV-III sec. a.C.): muovendo da principi primi – definizioni, assiomi e postulati – si procede facendo derivare col metodo deduttivo le conseguenze di tali principi.
Cfr. Costantino-Porro, op. cit. p. 176.
Spinoza rifiutò la nomina di professore presso l’Università di Heidelberg per preservare la sua libertà di pensatore.
Spinoza, Etica, I, def.1, in Opere, a cura di F.Mignini, trad. di F.Mignini e O.Proietti, Mondatori, Milano 2007.
Spinoza, Etica, I, def.II.
Spinoza, Etica, I, def.III.
Spinoza, Etica, I, def.IV.
Spinoza, Etica, I, def.V.
Spinoza, Etica, I, def. VI
Spinoza, Etica, I, prop. XVI e XXIX
Nella filosofia spinoziana il termine potenza non indica il “poter esistere” contrapposto all’esistenza reale, bensì significa l’attività propria di tutto ciò che è. In Dio la potenza è la capacità di esistere infinitamente e necessariamente; nelle cose finite la potenza è la tendenza a perseverare nel proprio essere, anch’essa coincidente con la natura di Dio. La potenza propria dell’uomo sarà allora la virtù, ovvero il “vivere sotto la guida della sola ragione”, mentre l’impotenza coinciderà per l’uomo con il lasciasi determinare dalle cose esterne. Solo seguendo la potenza del proprio intelletto l’uomo realizzerà la sua piena libertà.
La legge necessaria della natura divina è quella di un’unica sostanza, che esiste secondo infiniti attributi e si esplica nelle infinite determinazioni dei modi finiti. Cfr. Costantino-Porro, op. cit. p. 181.
Dio (causa della natura) coincide con la natura (l’effetto dell’azione causale di Dio) senza distanza né differenza alcuna. In Dio coincidono quindi la Natura naturans e la Natura naturata. La natura naturans è la natura secondo l’infinità della sua essenza, generante i diversi fenomeni naturali. La natura naturata è la natura secondo l’infinità delle sue manifestazioni, quando ormai si presenta già generata secondo necessità.
Spinoza, Etica, I, Appendice.
Spinoza, Etica, II, prop.VII.
Spinoza, Etica, II, prop.XIII
Spinoza, Etica, II, prop.XI, corollario.
Se esistono diverse parti del corpo a cui corrispondono diverse idee/menti, come è possibile parlare del corpo e della mente di un individuo? Spinoza per individuo intende la relazione costante e regolare di più corpi (ovvero la relazione costante tra le diverse parti del nostro corpo) e considera la mente di un individuo come l’idea di una cosa singola che consta di un aggregato di corpi che sono fra loro in rapporti costanti. Cfr. Esposito-Porro, op. cit., p. 184.
Spinoza, Etica, II, prop.XLVII.
Spinoza, Etica, III, Prefazione
Spinoza, Etica, III, Prefazione
Spinoza, Etica, III, prop.IV.
Spinoza, Etica, III, Definizione degli affetti, I, spiegazione.
Per affetto (affectus) si intende generalmente lo stato o la qualità prodotta dall’aver subito un’azione e dall’esserne stati modificati o influenzati. Spinoza distingue l’affetto dalla passione (pathos) ritenendo la passione un affetto di cui si ignorano le cause; gli affetti invece sono modificazione del nostro essere di cui conosciamo le cause necessarie così che non le subiamo più passivamente ma l’uomo si ritrova attivo nei loro confronti, e infatti Spinoza in questo senso li chiama azioni.
Spinoza, Etica, IV, appendice, cap.IV.
Spinoza, Etica, V, prop. XXXVI.
Esposito-Porro, op. cit., p. 189
Spinoza, Trattato teologico-politico, sottotitolo.
Spinoza, Trattato teologico-politico, XIV, 10.
Spinoza, Trattato teologico-politico, XVI, 2
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