Fisica Einstein l’evoluzione della fisica

Fisica Einstein l’evoluzione della fisica

 

 

 

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Fisica Einstein l’evoluzione della fisica

Einstein, L’evoluzione della fisica
Albert Einstein 1879 – 1955

L’opera di riferimento:
Einstein Albert, Infeld Leopold 1938, L’evoluzione della fisica, Editore Boringhieri, Torino 1979
e inoltre:
Einstein Albert 1916, Relatività: esposizione divulgativa, Editore Boringhieri, Torino 1967
Infeld Leopold 1957 (?), Introduzione alla fisica moderna, Editori Riuniti, Roma 1972
Born Max 1962,  La sintesi enisteiniana, ed. Boringhieri, Torino 1976
Landau L.D., Rumer G.B., Che cos’è la relatività?, Editori Riuniti, Roma 1977
Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein. Come la visione di Einstein ha trasformato la nostra comprensione dello spazio e del tempo, Codice edizioni, Torino 2005
Klein Étienne 2005, Sette volte la rivoluzione. I grandi della fisica contemporanea, ed. Raffello Cortina, Milano 2006
Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo. Maxwell, Schrödinger, Einstein e i paradossi del mondo, Bollati Boringhieri, Torino
Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, codiceedizioni, Torino 2014
Bellone Enrico 2012 Albert Einstein. Relativamente a spazio e tempo, Gruppo editoriale l’Espresso, Roma
Witten Edward, 2012 La teoria delle stringhe. La teoria del tutto, Gruppo editoriale l’Espresso, Roma

1. Fisica dinamica: la relatività descritta da Galilei e la relatività descritta da Einstein
2. Dalla teoria della relatività il progetto di una nuova fisica generale
3. Da Newton ad Einstein, da  G=   a E=mc2, alla ricerca di una teoria del campo unificato
4. direzioni contemporanee di un lascito scientifico di ricerca: «Il lascito profetico di Einstein» 

 

Perché la scienza:
«Con l'aiuto delle teorie fisiche cerchiamo di aprirci un varco attraverso il groviglio dei fatti osservati, di ordinare e d’intendere il mondo delle nostre impressioni sensibili. Aneliamo a che i fatti osservati discendano logicamente dalla nostra concezione della realtà. Senza la convinzione che con le nostre costruzioni teoriche è possibile raggiungere la realtà, senza convinzione nell'intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza. Questa convinzione è, e sempre sarà, il motivo essenziale della ricerca scientifica. In tutti i nostri sforzi, in ogni drammatico contrasto fra vecchie e nuove interpretazioni riconosciamo l’eterno anelo d'intendere, nonché l’irremovibile convinzione nell’armonia del nostro mondo, convinzione ognor più rafforzata dai crescenti ostacoli che si oppongono alla comprensione.» (Einstein Albert, Infeld Leopold 1938, L’evoluzione della fisica, Editore Boringhieri, Torino 1979, 303)  

 

Per introdurre.
0.1. L’intenzione del testo Einstein Albert, Infeld Leopold 1938, L’evoluzione della fisica e l’effetto storico culturale. «L'evoluzione della fisica è stato pubblicato nel 1938, ma conserverà la sua freschezza e la sua attualità per molti anni ancora: cosa che non accade di norma per i testi di informazione scientifica. Il fatto è che Einstein e Infeld non hanno voluto aumentare il bagaglio di cognizioni del lettore o provvedere a un aggiornamento delle sue nozioni, ma si son posti un obiettivo molto più impegnativo: quello di dare delle idee e illustrare il processo storico della loro formazione. Proprio perché l’obiettivo ultimo della fisica è di riportare a poche idee fondamentali l’estrema varietà dei risultati che si conseguono nella sperimentazione sui processi fisici naturali, l’evoluzione di tali idee fondamentali è lenta e faticosa. Si richiede un lungo periodo di tempo per l’accumulazione di dati sperimentali, per la loro critica, per l’elaborazione delle prove cruciali, e infine per la maturazione dei presupposti critici e teorici che portano ai nuovi livelli di conoscenza. Negli anni intercorsi dall’uscita del libro questo processo preparatorio ha avuto un formidabile sviluppo quantitativo, ma non si è arrivati a svolte qualitative. Einstein diceva che nessuno scienziato pensa con formule: quindi le idee fondamentali della fisica si possono esprimere con parole. Questo libro è una magnifica e ormai celebre dimostrazione di ciò. Esso mostra com’è possibile creare un linguaggio che permetta la comunicazione tra gli scienziati (e i tecnici) e gli "uomini di cultura" nel senso tradizionale.» (Einstein Infeld 1938, prefazione di Carlo Castagnoli, 5)
0.2. Il momento della teoria o «Il romanzo giallo perfetto». «Dagli ammirevoli racconti di Conan Doyle in poi, in quasi tutti i romanzi gialli viene il momento in cui l’investigatore ha raccolto tutti gli indizi occorrenti per arrivare per lo meno ad una certa tappa sulla via della soluzione. Quei fatti sembrano spesso strani, incoerenti e senza verun rapporto tra di loro. Ciò malgrado l’acuto detective si rende conto che per il momento non è il caso di spingere più oltre le ricerche e che soltanto la pura riflessione perverrà a stabilire una correlazione tra i fatti accertati. Egli si mette allora a suonare il violino o si sprofonda nella sua poltrona fumando la pipa, e, vedi miracolo, ad un tratto scopre la correlazione. Anzi, non soltanto trova una relazione fra gl’indizi che gli sono già noti, ma si rende altresì conto che debbono essersi prodotti taluni altri avvenimenti non ancora constatati. E siccome ora vede chiaramente da che lato bisogna cercare, può, se gli garba, avviarsi a raccogliere ulteriori conferme della sua teoria.  […] Nel nostro grande romanzo giallo non vi sono problemi perfettamente risolti e sistemati per sempre. Dopo ben trecento anni siamo dovuti tornare sul problema del moto, rivederne la procedura investigativa e scoprire indizi rimasti inosservati, per giungere cosi ad una nuova rappresentazione del circostante universo.»  (Einstein Infeld 1938, 16, 47)
0.3. il «compito che nella fisica spetta alla teoria» (Einstein Infeld 1938, 79). La direzione della ricerca e la rilevanza del linguaggio (quotidiano e scientifico). «Lo scopo che ci prefiggiamo con le pagine che seguono è quello di delineare a grandi tratti il lavoro dei fisici imperniato sulla pura ricerca mentale. Ci occuperemo principalmente della parte che, nell’avventuroso inseguimento della conoscenza del mondo fisico, spetta al pensiero ed alle idee. […] All’inizio i concetti scientifici sono sovente quelli stessi dei quali si serve il linguaggio comune per i consueti bisogni della vita; ma in seguito quei concetti sogliono svilupparsi in modo affatto diverso; essi si trasformano, perdono l’ambiguità di cui sono affetti nel linguaggio comune e guadagnano in precisione, così da poter trovare applicazione nel dominio del pensiero scientifico.» (Einstein Infeld 1938, 17, 25-26)
«I concetti fisici sono creazioni libere dell’intelletto umano e non vengono, come potrebbe credersi, determinati esclusivamente dal mondo esterno. Nello sforzo che facciamo per intendere il mondo rassomigliamo molto all’individuo che cerca di capire il meccanismo di un orologio chiuso. Egli vede il quadrante e le sfere in moto, ode il tic-tac, ma non ha modo di aprire la cassa. Se è ingegnoso, egli potrà farsi una qualche immagine del meccanismo che considera responsabile di tutto quanto osserva, ma non sarà mai certo che tale immagine sia la sola suscettibile di spiegare le sue osservazioni. Egli non sarà mai in grado di confrontare la sua immagine con il meccanismo reale e non potrà neanche rappresentarsi la possibilità ed il significato di simile confronto. Tuttavia egli crede certamente che con il moltiplicarsi delle sue cognizioni la sua immagine della realtà diverrà ognor più semplice e sempre più adatta a spiegare domini sempre più estesi delle sue impressioni sensibili. Egli potrà anche credere all’esistenza di un limite ideale della conoscenza, a cui l’intelletto umano può avvicinarsi indefinitamente, e potrà chiamare verità obiettiva tale limite.»
(Einstein Infeld 1938, 43)  (vedi considerazioni analogo in Descartes  I principi della filosofia)
«Qualsiasi teoria fisica ha per obiettivo la spiegazione del maggior numero possibile di fenomeni. Essa si giustifica se e quando riesce a farci comprendere gli eventi.» (Einstein Infeld 1938, 52)
«Possiamo anzi dire di più: non è presumibile che esperimenti simili possano improvvisarsi; è indispensabili che siano preceduti da idee più o meno precise sul loro significato.» (Einstein Infeld 1938, 81)
0.4. il compito che nella fisica spetta alla immaginazione e alle immagini, secondo Einstein: «… i fisici stanno rivalutando il suo lascito, in particolare i suoi processi di ragionamento. Mentre le biografie più recenti hanno minuziosamente scandagliato la vita privata di Einstein alla ricerca di indizi sull’origine delle sue teorie, gli studiosi di fisica sono sempre più consapevoli che esse non si fondano tanto su complessi calcoli matematici (né, tanto meno, sulla sua vita sentimentale), quanto piuttosto su immagini fisiche semplici ed eleganti. Einstein ripeteva spesso che se una nuova teoria non si basava su un’immagine fisica abbastanza elementare da essere compresa da un bambino, probabilmente non valeva nulla. […] Mentre altri scienziati spesso seppellivano la testa nella più oscura matematica, Einstein vedeva le leggi della fisica in maniera chiara, sotto forma di semplici immagini. […] Questa peculiarità, la capacità di cogliere tutto in termini di immagini fisiche, avrebbe rappresentato una delle maggiori caratteristiche di Einstein come scienziato.
[…] Fu precisamente la sua capacità di isolare i principi chiave dietro ogni fenomeno e di concentrarsi sull’immagine essenziale che mise Einstein nelle condizioni di scatenare una rivoluzione scientifica. Diversamente da altri scienziati minori, che spesso si perdevano nella matematica, Einstein pensava in termini di semplici immagini fisiche — treni in accelerazione, ascensori in caduta, razzi e orologi in movimento. Queste immagini l’avrebbero infallibilmente condotto attraverso le più grandi idee del XX secolo. Scrisse: «Tutte le teorie di fisica, a dispetto della loro espressione matematica, dovrebbero prestarsi a una descrizione tanto semplice da poter essere compresa anche da un bambino.».» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein. Come la visione di Einstein ha trasformato la nostra comprensione dello spazio e del tempo, Codice edizioni, Torino 2005, X,19-20, 25)
In applicazione: i primi tre passaggi di questa presentazione delle posizioni di Einstein possono essere consegnati a tre immagini, come guida al progetto in atto sul tema in oggetto (da Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein):
1. La corsa contro un raggio di luce
2. La curvatura dello spazio-tempo
3. La teoria del campo unificato (immagine incompiuta)
0.5. La direzione onesta della ricerca e la rilevanza dell’esperienza: più che cercare conferme, cercare smentite.  Nel 1919, il giovane Karl Raimund Popper assiste a Vienna a una conferenza di Albert Einstein che lo pone a confronto con un nuovo modo di intendere la ricerca scientifica. Popper esce da quella conferenza profondamente colpito: «Quel che più mi impressionò  — ricorda nell’autobiografia — fu la chiara affermazione di Einstein che avrebbe considerato la sua teoria insostenibile ove avesse dovuto fallire in certe prove [...] Qui c’era un atteggiamento completamente differente dall’atteggiamento dogmatico di Marx, Freud, Adler, e quello ancor più dogmatico dei loro seguaci. Einstein era alla ricerca di esperienze cruciali, il cui accordo con le sue predizioni avrebbe senz'altro corroborato la sua teoria; mentre un disaccordo, come fu egli stesso a ribadire, avrebbe dimostrato che la sua teoria era insostenibile. Sentivo che era questo il vero atteggiamento scientifico. Era completamente differente dall’atteggiamento dogmatico che continuamente affermava di trovare verificazioni delle sue teorie preferite. Giunsi così, sul finire del 1919, alla conclusione che l’atteggiamento scientifico era l’atteggiamento critico che non andava in cerca di verificazioni, bensì di prove cruciali; prove che avrebbero potuto confutare la teoria messa alla prova pur non potendola mai confermare definitivamente».

 

1. Fisica dinamica: la relatività descritta da Galilei e la relatività descritta da Einstein
«Prima immagine. La corsa contro un raggio di luce» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 3)
L’opera L’evoluzione della fisica scritta da Einstein e Infeld ricostruisce le prime due tappe del cammino storico della fisica presentando: 1. L’ascesa dell’interpretazione meccanicistica, 2. Decadenza dell’interpretazione meccanicistica. La teoria fisica classica moderna iniziata con i principi di inerzia e di relatività formulati da Galilei e da Descartes è culminata nel testo di Newton con un progetto di carattere meccanicistico, in  grado cioè di fornire l’esatta determinazione dei fenomeni fisici meccanici o trascrivibili comunque meccanicamente. Nella seconda sezione Einstein e Infeld mettono in luce i settori in cui quel progetto e quelle promesse non possono essere mantenute: fluidi elettrici, fluidi magnetici, fenomeni della luce; una consapevolezza che matura dalla fine del ‘700 e nel corso dell’‘800. Nella terza e quarta sezione Einstein e Infeld introducono i nuovi concetti della fisica contemporanea: campo, relatività, quanti. La definizione e il senso della  fisica contemporanea e, più in generale, il fare scienza oggi, sono definiti da Einstein attraverso la ripresa del modello della fisica classica (la fisica galileiana) e la presentazione dei momenti della crisi del determinismo meccanicistico da essa perseguito (è noto infatti che «Tutti i nostri concetti fondati sulla base della fisica classica, hanno un carattere deterministico» Infeld Leopold 1957 (?), Introduzione alla fisica moderna, Editori Riuniti, Roma 1972, 80).     

1.1. Galilei: il principio d’inerzia e di relatività.
1.1.1. Il principio d’inerzia. “semel mota numquam quiescunt”. Un esperimento in laboratorio (o ideale) ma dall’evidenza quotidiana: come fare in modo che un carrello conservi il proprio moto più a lungo dopo una spinta: aumentare la spinta (l’impetus, [fisica antica]) o eliminare ogni attrito (esperimento ideale [fisica moderna])? Nel comportamento comune si è sempre fatto ricorso alle due strategie; ora, isolandole idealmente, occorre studiarne la dinamica naturale. Il tema presentato da Einstein – Infeld. «I mezzi idonei sono diversi e cioè ungere le ruote e spianare meglio la strada. Quanto più facilmente gireranno le ruote e quanto più liscia sarà la strada e tanto più a lungo seguiterà a muoversi il carrello. Ma che cosa è avvenuto in realtà con la lubrificazione delle ruote e con il levigamento della strada? Semplicemente questo: le influenze o resistenze esterne sono state ridotte. Gli effetti di ciò che si chiama «attrito» tanto fra le ruote ed il carrello, come fra le ruote e la strada, sono scemati. Questa è già una interpretazione teorica dei fatti osservabili. Ancorché tale interpretazione possa sembrare arbitraria, atteniamoci ad essa e facciamo un altro decisivo passo innanzi; troveremo l’indizio buono. Figuriamoci una strada perfettamente piana e liscia, nonché ruote assolutamente senza attrito. In tal caso nulla arresterebbe più il carrello, cosicché esso potrebbe continuare a muoversi indefinitamente. Siamo giunti a questa conclusione valendoci di un esperimento ideale che in realtà non può mai venire eseguito, poiché è materialmente impossibile eliminare tutte le influenze esterne. Questo esperimento ideale conduce all’indizio basilare della meccanica del moto. Confrontando i due metodi di abbordare il problema vediamo che secondo l’idea intuitiva quanto maggiore è la forza, tanto maggiore è la velocità, e perciò la velocità indica se forze esterne agiscono o no su di un corpo. Invece, secondo il nuovo indizio scoperto da Galileo, un corpo né spinto, né tirato, né comunque sollecitato, od in altre parole un corpo sul quale non agisce nessuna forza esterna, si muove uniformemente, vale a dire sempre con la stessa velocità e lungo una linea retta. Pertanto la velocità non denota affatto se forze esterne agiscono su di un corpo. La conclusione di Galileo, che è la giusta, venne enunciata una generazione più tardi da Newton, sotto forma della legge d’inerzia. Questa è generalmente la prima cosa, in fatto di fisica, che a scuola s’impara a memoria e che forse qualcuno dei lettori ricorda ancora. E cioè: Ogni corpo persevera nel suo stato di riposo, oppure di moto rettilineo uniforme, a meno che non sia costretto a cambiare tale stato da forze agenti su di esso. (Einstein Infeld 1938, 19-21)
1.1.2. Il principio di relatività (in un sistema inerziale). La descrizione in esperimento ideale di Galilei: gli ingredienti necessari: una nave di moto rettilineo uniforme; una stanza sottocoperta con oggetti comuni nei loro quotidiani movimenti (mosche, gocce d’acqua cadenti, vaso con pesci, persone che camminano…); la possibilità di salire sopra coperta e vedere altri corpi (riva, isole). «SALVIATI. … E qui, per ultimo sigillo della nullità di tutte le esperienze addotte, mi par tempo e luogo di mostrar il modo di sperimentarle tutte facilissimamente. Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili animaletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso; e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stile cadenti entreranno tutte nel vaso sottoposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno eguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazi passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succeder così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; ché (pur che il moto sia uniforme e non fluttuante in qua e in là) voi non riconoscerete una minima mutazione in tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la nave cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazi che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso la poppa che verso la prua…» (Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo)  È impossibile stabilire lo stato di quiete o di moto di un sistema inerziale stando al suo interno e senza un punto di riferimento esterno; si tratta dunque di un moto relativo ad un punto di riferimento.
1.1.3. Come un bilancio: il risultato e gli obiettivi della fisica e della scienza in generale al termine della stagione moderna: da Galilei a Newton, nelle parole di Einstein – Infeld.
«La meccanica ci consente di predire esattamente il futuro della traiettoria di un corpo in movimento, nonché di dischiuderne il passato, sempreché la posizione attuale del corpo stesso e le forze che agiscono su di esso siano note. Così ad esempio, possono prevedersi le traiettorie future di tutti i pianeti. In questo caso le forze agenti sono le forze gravitazionali di Newton, dipendenti unicamente dalle distanze. Gl’incontestabili successi della meccanica classica suggeriscono che l’interpretazione meccanicistica può coerentemente estendersi ad ogni ramo della fisica e che tutti i fenomeni possono spiegarsi con le azioni di forze, consistenti in attrazioni o ripulsioni dipendenti unicamente dalla distanza ed agenti su particelle immutabili.
Con la teoria cinetica della materia, vediamo come tale interpretazione, derivante da problemi d’ordine meccanico, si estenda ai fenomeni calorifici e conduca ad una rappresentazione della struttura della materia, che ha registrato notevoli successi.» (Einstein Infeld 1938, 75) 

1.2. La trasformazione nel corso dell’‘800: crisi e “rivoluzione”.
1.2.1. Come un secondo bilancio: le insolvenze del modello meccanicistico (di lettura meccanica di tutti i fenomeni naturali) di fronte ai settori naturali della elettricità, del magnetismo e della luce.
1.2.1.1. «Decadenza dell’impostazione meccanicistica» o come «rovinò la convinzione che tutti i fenomeni possano spiegarsi con il criterio meccanicistico» (Einstein Infeld 1938, 95). Al termine di analitici passaggi, teoretici e sperimentali, Einstein e Infeld concludono la parte seconda intitolata: Decadenza dell’interpretazione meccanicistica. «Nelle antiche teorie dei fluidi elettrici, come anche nelle teorie, sia corpuscolare, che ondulatoria della luce, assistiamo ad ulteriori tentativi per l'applicazione del criterio meccanicistico. Tuttavia nell’ambito dei fenomeni elettrici ed ottici, tale applicazione incontra gravi difficoltà. Una carica elettrica in movimento agisce sopra un ago magnetico. Ma la forza invece di dipendere unicamente dalla distanza, dipende altresì dalla velocità della carica. Inoltre la forza non esercita né attrazione né repulsione, ma agisce perpendicolarmente alla linea congiungente l’ago e la carica. Nel dominio dell’ottica dobbiamo decidere a favore della teoria ondulatoria e contro la teoria corpuscolare della luce. La rappresentazione di onde che si propagano in un mezzo composto di particelle, fra le quali agiscono delle forze, risponde ad un criterio prettamente meccanicistico. Ma qual è il mezzo attraverso il quale si propaga la luce e quali sono le sue proprietà meccaniche? Fintantoché questo quesito non riceva risposta, è vano sperare di poter ridurre i fenomeni ottici a fenomeni meccanici. Ma le difficoltà sollevate da questo problema sono così gravi, che dobbiamo rinunciare a risolverlo, il che conduce fatalmente a rinunciare altresì ad una interpretazione generale d’ordine meccanico.» (Einstein Infeld 1938, 132)
Ricorda Odifreddi Piergiorgio, 2014, Sulle spalle di un gigante. E venne un uomo chiamato Newton, Longanesi, Milano, 213: «La conferma sperimentale mise i fisici di fronte al dilemma di dover scegliere tra due teorie contrapposte, ciascuna delle quali spiegava proprietà diverse della luce. Ma nel 1917 Einstein ebbe un altro colpo di genio: invece di scegliere fra le due teorie, egli propose di accettarle entrambe! Sostenne, cioè, che non era necessario dover decidere se la luce fosse fatta di particelle oppure di onde. Bastava riconoscere che fosse fatta di particelle e di onde, simultaneamente, così come d’altronde anche l'acqua del mare è fatta simultaneamente di gocce e di onde.» [lo stesso si può dire dell’aria: molecole e onde…].
«Nel discorso di Einstein [Salisburgo 1909] faceva la sua apparizione per la prima volta nella storia il concetto di dualità nella fisica, per cui la luce può avere qualità duplici — come onda, come aveva suggerito Maxwell nel secolo precedente, o come particella, come aveva ipotizzato Newton. Che si vedesse la luce come particella o come onda dipendeva dall’esperimento. Per gli esperimenti a bassa energia, in cui la lunghezza d’onda del raggio di luce è ampia, l’immagine delle onde è più utile. Per i raggi ad alta energia, in cui la lunghezza d’onda è estremamente esigua, è invece più adatta l’immagine delle particelle. Questo concetto (che decenni dopo fu attribuito al fisico danese Niels Bohr) si dimostrò un’osservazione fondamentale della natura della materia e dell’energia, oltre a una delle fonti più ricche per la ricerca sulla teoria dei quanti.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 53)
1.2.1.1.1. Il problema si ripresenta nella meccanica quantistica, ma non crea difficoltà o non pone di fronte a contraddizioni visto il ruolo del modello scientifico esplicativo; osserva Jim Al-Khalili con riferimento alla meccanica quantistica: «Oggi abbiamo imparato a convivere con questi due modi di vedere il mondo quantistico: la visione matematica astratta di Heisenberg e quella ondulatoria di Schrödinger. Entrambe vengono insegnate agli studenti, funzionano egregiamente, e i fisici quantistici imparano a saltare facilmente dall’una all’altra a seconda del problema che devono risolvere. Il fatto è che entrambe queste descrizioni forniscono le stesse previsioni sul mondo ed entrambe sono in spettacolare accordo con i risultati sperimentali. In realtà, altri pionieri quantistici, come Wolfgang Pauli e Paul Dirac, mostrarono nei tardi anni venti che i due modi di descrivere la materia dal punto di vista matematico sono esattamente equivalenti, ed è solo una questione di convenienza quale dei due usare per comprendere una particolare caratteristica degli atomi e dei loro costituenti. Un po’ come dire la stessa cosa in due lingue diverse.» (Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo. Maxwell, Schrödinger, Einstein e i paradossi del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 195)  E Odifreddi: «La doppia natura della Natura  La conferma sperimentale mise i fisici di fronte al dilemma di dover scegliere tra due teorie contrapposte, ciascuna delle quali spiegava proprietà diverse della luce. […]  Questo modo di pensare, che in seguito verrà detto complementare o duale, fu esteso [oltre al tema della natura “doppia”, onda/corpuscolo della luce per la cui soluzione va ripresa l’analogia con l’acqua formulata da Einstein nel 1917 “anche l'acqua del mare è fatta simultaneamente di gocce e di onde”] nel 1924 dal principe Louis de Broglie, che propose di associare a ogni onda una particella con proprietà analoghe ai quanti di luce di Einstein. E a ogni particella un’onda con proprietà simmetriche. Il suo lavoro fu subito considerato fondamentale, e Einstein dichiarò nella sua suggestiva maniera oracolare che «era stato sollevato un lembo del grande velo». Anche questa volta gli esperimenti diedero presto ragione a entrambi. Nel 1923 Arthur Compton misurò le proprietà corpuscolari dei quanti di luce previste da Einstein. E nel 1937 Clinton Davisson e George Thomson fecero lo stesso per le proprietà ondulatorie dell’elettrone previste da de Broglie.» (Odifreddi 2014, 213)
1.2.1.1.2. Alla base si pone una scelta di metodo generale: non pensare in termini di sostanze e, conseguentemente, non andare alla ricerca di essenze che le definiscano, ma opera in termini di misurazione come è proprio della fisica, in uscita dalla metafisica e suo definitivo abbandono.
1.2.1.2. La logica scientifica del meccanicismo e le ragioni intrinseche della sua crisi: la tendenza del meccanicismo a introdurre nuove sostanze per poter spiegare “meccanicamente” i dati, antichi e nuovi. Sembra esservi un prolungato effetto del legame storico della scienza moderna con la metafisica, quasi una sorta di dipendenza stregata, nella tendenza del modello meccanicistico «a descrivere tutti i fenomeni per mezzo di forze di attrazione e di repulsione, dipendenti unicamente dalla distanza ed agenti fra particelle invariabili» (Einstein Infeld 1938, 93); la “maledizione” della sostanza; la tendenza, già antica (come accadeva per impetus, flogisto, effluvi vari…), a spiegare i fenomeni fisici introducendo sostanze, dichiarandole contemporaneamente imponderabili: fluidi elettrici, fluidi magnetici, corpuscoli ottici dai diversi colori, etere («Nulla è rimasto di tutte le proprietà dell’etere, eccetto quella per la quale venne inventato, ovvero la facoltà di trasmettere le onde elettromagnetiche» Einstein Infeld 1938, 184) e infine la stessa energia… «Le forze sono semplici: le forze della gravitazione, le forze elettriche e quelle magnetiche possono tutte venir rappresentate allo stesso modo. Ma il prezzo pagato per questa semplicità è elevato; esso consiste nell’introduzione di nuove sostanze imponderabili,  ossia di concetti piuttosto artificiosi e senza rapporto con la sostanza fondamentale: la massa.» (Einstein Infeld 1938, 94)  «Siamo già tanto abituati ad introdurre nuove sostanze, ove ciò sia necessario per una spiegazione meccanicistica, che possiamo farlo una volta di più, senza esitare. Questi corpuscoli dovranno attraversare lo spazio in linea retta, con la velocità che ci è già nota, portandoci così dei messaggi dei corpi che emettono luci.» (Einstein Infeld 1938, 106)
1.2.2. il tema affrontato da una prospettiva più ampia, storico filosofica, in riflessioni epistemologiche sulla transizione tra le teorie scientifiche; in due passaggi analitici: la transizione tra teorie e il persistere del loro legame.
1.2.2.1. la transizione: «Nella scienza non esistono teorie eterne. Presto o tardi taluni fatti previsti dalla teoria vengono refutati dall'esperimento. Ogni teoria ha il suo periodo di sviluppo graduale e di trionfo, dopo di che può anche subire un rapido declino. Ascesa e caduta della teoria del «calore sostanza», precedentemente discussa, ne sono un esempio. Casi analoghi, più gravi ed importanti, saranno esaminati più innanzi. Nella scienza quasi tutti i grandi progressi nascono dalla crisi di una teoria invecchiata e dagli sforzi fatti per  trovare una via d’uscita di fronte alle difficoltà emergenti. Ancorché appartengano al passato dobbiamo esaminare idee e teorie antiche, poiché questo è il solo mezzo per bene intendere 1’importanza delle nuove e l’estensione della loro validità.» (Einstein Infeld 1938, 84-85) In quest’ultima battuta si indica una relazione che si intende e si deve conservare con la teoria che viene superata; la relazione presenta più aspetti.  
«Difficoltà di tal fatta, subitanei ed inattesi ostacoli lungo la via del trionfo di una teoria, sorgono di frequente nella scienza. Una semplice generalizzazione di vecchie idee può talvolta offrire, almeno temporaneamente, una via d’uscita. Nel caso presente, ad esempio, potrebbe parere sufficiente di ampliare il punto di vista meccanicistico ammettendo che le forze agenti fra particelle elementari siano di carattere più complesso. Ma sovente risulta impossibile rappezzare una vecchia teoria, e le difficoltà incontrate, finiscono per condurre alla sua caduta ed al sorgere di nuove vedute.» (Einstein Infeld 1938, 100)  
1.2.2.2. il persistere di un certo legame con le teorie “abbandonate”. «Possiamo tuttora applicare la vecchia teoria, ogni qualvolta abbiansi ad investigare fatti che non escono dai limiti della sua validità. Ma possiamo anche applicare la nuova teoria, giacché tutti i fatti conosciuti rientrano nell'ambito della validità di quest’ultima. Ricorrendo ad un confronto potremmo dire che creare una nuova teoria non è come demolire una vecchia tettoia per sostituirla con un grattacielo. È piuttosto come inerpicarsi su per una montagna, raggiungendo nuovi e più vasti orizzonti e scoprendo inattesi rapporti fra il nostro punto di partenza e le bellezze dei suoi dintorni. Tuttavia, il sito dal quale partimmo è sempre lì e possiamo tuttora scorgerlo, ancorché paia più piccolo e non sia ormai più che un dettaglio nella vasta veduta raggiunta superando gli ostacoli che si opponevano alla nostra avventurosa ascesa.» (Einstein Infeld 1938, 162)  
1.2.3. Di contro, in uscita dal meccanicismo, è in atto una impostazione radicalmente nuova, una nuova concezione della realtà e dello sguardo scientifico costruito nei suoi confronti e che ruota, in particolare, attorno ai concetti di onda e di campo e alla teoria della relatività. Non sostanze ma stati di materia come il concetto di onda (a partire dalla teoria ondulatoria della luce formulata già da Christiaan Huygens, contemporaneo di Newton), ove si parla quindi di un trasferimento di energia e non già di sostanza, e il concetto di campo, cioè tutte le linee di forza collocate in prossimità di un punto materiale (dal sole, come nel caso di un campo gravitazionale, ad ogni punto delle spazio come nel caso del campo elettromagnetico espresso dalle equazioni di Maxwell; il tema: Peruzzi Giulio, La teoria elettromagnetica della luce, in Glashow Sheldon Lee, Maxwell.  Elettricità, magnetismo e luce, una sola famiglia, Gruppo editoriale l’Espresso, Roma 2012). 
1.2.3.1. ad esempio: il “campo come rappresentazione”; cioè la rilevanza fisica del campo sulla presunta “sostanza” come sua “fonte” o causa.
1.2.3.2. in un modo ancor più decisivo e determinante nelle equazioni di Maxwell.
«La definizione quantitativa, ovvero matematica, del campo si riassume nelle equazioni che portano il nome di Maxwell. […] La formulazione di queste equazioni costituisce l’avvenimento più importante verificatosi in fisica dal tempo di Newton in poi e ciò non soltanto per la dovizia del loro contenuto, ma anche perché   esse fornito il modello di un nuovo tipo di legge. […] le equazioni di Maxwell sono leggi che definiscono la struttura del campo. […] Le equazioni di Maxwell definiscono la struttura del campo elettromagnetico. Sono leggi valide nell’intero spazio e non soltanto nei punti in cui materia o cariche elettriche sono presenti, com’è il caso per le leggi meccaniche. Rammentiamo come stanno le cose in meccanica. Conoscendo posizione e velocità di una particella, in un dato istante, e conoscendo inoltre le forze agenti su di essa, è possibile prevedere l'intero futuro percorso della particella stessa. Nella teoria di Maxwell invece basta conoscere il campo in un dato istante per poter dedurre dalle equazioni omonime in qual modo l’intero campo varierà nello spazio e nel tempo. Le equazioni di Maxwell permettono di seguire le vicende del campo, così come le equazioni della meccanica consentono di seguire le vicende di particelle materiali.» (Einstein Infeld 1938,153,156)  
1.2.4. Si apre la strada alla presentazione dei concetti e delle teorie nuove intorno a: onda, campo, relatività, quanti destinati a determinare il tramonto del modello meccanicistico. La relatività, in particolare, mette in crisi il modello meccanicistico classico (galileiano-newtoniano) intervenendo sui concetti fondamentali di spazio, movimento, velocità. L’episodio di partenza, fornito da Einstein quasi in parallelo con l’esperimento del “gran navilio” di Galilei, è l’esperimento, sempre ideale, del treno, impostato allo scopo di definire operativamente il concetto di simultaneità. 

1.3. Einstein: il principio di relatività (della relatività ristretta)
Ripartire da Galilei.  «Giunti a questa pagina del nostro romanzo, dobbiamo tornare al punto di partenza e cioè alla legge d’inerzia di Galileo. Citiamola nuovamente: “Ogni corpo persevera nel proprio stato di riposo o di movimento uniforme e rettilineo, a meno che non sia costretto a modificare tale stato, da forze agenti su di esso”. Una volta inteso il concetto d’inerzia, ci si stupisce che possa esserci ancora qualcosa da dire in proposito. Ma benché già discusso a fondo, il problema è tutt’altro che esaurito.» (Einstein Infeld 1938, 164)
1.3.1. Il richiamo del principio di inerzia diventa un invito ad entrare di nuovo nelle stanza sotto coperta del “grande navilio” di cui parlava Galilei, con evidente riferimento alla terra, caratterizzata da una situazione ideale descritta dal principio di inerzia. Einstein propone di guardare con una nuova attenzione a questa stanza-terra, a riprenderla in scrupolosa osservazione. «Un osservatore costretto a passare tutta la vita in una stanza rotante ed a farvi tutti i suoi esperimenti, perverrebbe a leggi meccaniche diverse dalle nostre. Ma sempreché entri nella stanza munito di cognizioni profonde e di ferma fede nei principi della fisica, egli potrà spiegare il crollo apparente della meccanica, ricorrendo alla supposizione che la stanza ruoti. Mediante esperimenti meccanici potrà anche riuscire a sapere come essa ruoti. Perché mai dobbiamo interessarci tanto dell’osservatore nella sua stanza rotante? Semplicemente perché sulla nostra Terra siamo fino ad un certo punto, nella stessa situazione. Dall’epoca di Copernico sappiamo che la Terra ruota intorno al proprio asse e gira intorno al Sole.» (Einstein Infeld 1938, 165)  «La Terra è il nostro sistema di coordinate.» (Einstein Infeld 1938,166)  
1.3.2. Un sistema di riferimento, un Sistema di coordinate, [SC] è il doveroso punto di attenzione (e di relatività). «Per poter determinare la posizione dei corpi, dobbiamo dunque valerci di ciò che chiamasi un sistema di riferimento. […] Finora tutte le nostre affermazioni concernenti i fenomeni fisici presentavano una lacuna. Non avevamo tenuto conto del fatto che tutte le osservazioni debbono farsi in un determinato SC. Invece di fornire una descrizione di tale SC, trascuravamo la sua esistenza. Quando, ad esempio, scrivevamo: «un corpo si muove uniformemente…» avremmo in realtà dovuto scrivere: «un corpo si muove uniformemente, relativamente ad un determinato SC.»  La nostra avventura con la stanza in rotazione ci ha insegnato che i risultati degli esperimenti meccanici possono dipendere dal SC prescelto.» (Einstein Infeld 1938, 167)  «Non si può parlare di moto uniforme assoluto, in forza del principio galileiano di relatività.» (Einstein Infeld 1938, 180)
1.3.3. il noto esperimento: «Supponiamo che un treno molto lungo...»,  il treno, un segnale luminoso e due osservatori uno esterno e uno interno.
«Il fulmine ha colpito le rotaie della nostra linea ferroviaria in due punti A e B, molto lontani l'uno dall’altro. Aggiungo l’affermazione che i due colpi di fulmine sono avvenuti simultaneamente. Ove ponessi al lettore la domanda se tale mia affermazione è sensata, la risposta sarebbe un reciso «sì». Se ora però gli chiedessi di spiegarmi in maniera più precisa il senso di quell’affermazione, egli, dopo un po’ di riflessione, troverebbe che la risposta a tale domanda non è così facile come sembra a prima vista. [ …] Questo concetto non esiste per il fisico fino a quando egli non ha la possibilità di scoprire nel caso concreto se tale concetto si verifichi oppure no. Abbiamo perciò bisogno di una definizione di simultaneità capace di fornirci il metodo per mezzo del quale decidere sperimentalmente, nel caso attuale, se entrambi i colpi di fulmine sono avvenuti simultaneamente o no. Finché non viene soddisfatto tale requisito, io, come fisico (e lo stesso vale naturalmente anche per il non fisico), mi abbandono a un inganno, quando immagino di poter attribuire un significato all'affermazione di simultaneità. (Vorrei chiedere al lettore di non procedere oltre finché non sia pienamente convinto su questo punto.) […] Ora però si presenta, come conseguenza naturale, la seguente domanda: due eventi (per esempio due colpi di fulmine A e B) che sono simultanei  rispetto alla banchina ferroviaria saranno tali anche rispetto al treno? Mostreremo subito che la risposta deve essere negativa. Allorché diciamo che i colpi di fulmine A e B sono simultanei rispetto alla banchina intendiamo: i raggi di luce provenienti dai punti A e B dove cade il fulmine si incontrano l’uno con l’altro nel punto medio M dell’intervallo A    B della banchina. Ma gli eventi A e B corrispondono anche alle posizioni A e B sul treno. Sia M’ il punto medio dell’intervallo A  B sul treno in moto. Proprio quando si verificano i bagliori del fulmine, questo punto M' coincide naturalmente con il punto M, ma esso si muove verso la destra del diagramma con la velocità v del treno. Se un osservatore seduto in treno nella posizione M’ non possedesse questa velocità, allora egli rimarrebbe permanentemente in M e i raggi di luce emessi dai bagliori del fulmine A e B lo raggiungerebbero simultaneamente, vale a dire s’incontrerebbero proprio dove egli è situato. Tuttavia nella realtà (considerata con riferimento alla banchina ferroviaria), egli si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B, mentre corre avanti al raggio di luce che proviene da A. Pertanto l’osservatore vedrà il raggio di luce emesso da B prima di vedere quella emesso da A. Gli osservatori che assumono il treno come loro corpo di riferimento debbono perciò giungere alla conclusione che il lampo di luce B ha avuto luogo prima del lampo di luce A. Perveniamo così al seguente importante risultato: gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno e viceversa (relatività  della simultaneità); ogni corpo di riferimento (sistema di coordinate) ha il suo proprio tempo particolare: un’attribuzione di tempo è fornita di significato solo quando ci venga detto a quale corpo di riferimento tale attribuzione si riferisce.» (Einstein Albert, Relatività: esposizione divulgativa, Editore Boringhieri, Torino 1967, 58-62)
1.3.4. per compiere l’esperimento: gli “ingredienti”:
[1] il sistema di coordinate (SC) di riferimento (stazione ferroviaria, treno); «Per poter determinare la posizione dei corpi, dobbiamo dunque valerci di ciò che chiamasi un sistema di riferimento. Al descrivere le posizioni degli oggetti e degli uomini in una città, le strade e le piazze costituiscono il sistema al quale noi le riferiamo. […] Questo sistema, idealmente costituito da aste rigide invariabili, ed al quale noi riferiamo tutte le nostre osservazioni, chiamasi sistema di coordinate. … SC.» (Einstein Infeld 1938, 167); 
[2] due osservatori e il loro relativo sistema di coordinate di riferimento per la propria osservazione (nell’esperimento ideale: uno sul treno, l’altro sulla banchina della stazione);
[3] un segnale luminoso e, ovviamente, la situazione fisica dinamica della luce: «la velocità della luce… riveste importanza fondamentale nella teoria della relatività» (Einstein Infeld 1938,191), «la velocità della luce è la stessa in tutti gli SC» (Einstein Infeld 1938,195) perché essa è la velocità limite dell’universo («la velocità della luce è infatti il limite massimo per tutte le velocità» Einstein Infeld 1938, 203-204), è la velocità dell’universo, è la realtà dinamica base dell’universo (nell’universo, nel vuoto) ed è di 300.000 km circa al secondo. «La velocità della luce è sempre la stessa in tutti i SC, sia che la sorgente emittente si muova o meno, e comunque essa si muova. […] La velocità della luce nello spazio vuoto è sempre la stessa, indipendentemente dal moto della sorgente o del ricevitore della luce.» (Einstein Infeld 1938, 179, 185 [e 183, 187, 195) E non può essere infinita, cioè istantanea; la contraddizione fisica di una velocità infinita: «…secondo la legge di Newton, la forza di attrazione tra due corpi dipende soltanto dalla distanza; il tempo non conta. La forza dovrebbe dunque passare da un corpo all'altro, nel tempo zero! Ma … un movimento qualsiasi con velocità infinita non è razionalmente concepibile…» (Einstein Infeld 1938, 137).
«Le equazioni di Maxwell dimostrano che le onde luminose viaggiano in qualsiasi direzione alla stessa velocità (la velocità della luce), indipendentemente da come sono state create. Per esempio, se lancio una palla, questa ha una certa velocità, ma se la lancio mentre viaggio sul tetto di un treno, la palla avrà una velocità superiore: la velocità del treno più la velocità con cui lancio la palla. Di conseguenza, la velocità di una palla quando la lancio non è solo una sua proprietà, ma dipende anche dalla mia condizione di moto al momento del lancio. Le equazioni di Maxwell affermano invece che la luce ha sempre la stessa velocità in qualsiasi direzione, indipendentemente da come è stata creata!» (Witten Edward, La teoria delle stringhe. La teoria del tutto, Gruppo editoriale L’Espresso, Roma 2012, 9-10)    
«Dall’articolo di Einstein del 1905 a oggi migliaia di esperimenti non hanno fatto che confermarlo e, anzi, buona parte dell’edificio della fisica moderna si fonda in maniera cruciale sulla sua correttezza. Il punto fondamentale non è che la luce sia qualcosa di speciale, bensì il fatto che questo limite di velocità è scritto nel tessuto dello spazio-tempo.» (Al-Khalili 2012, 235)
«I campi … sono piuttosto diversi dalle forze teorizzate da Newton. Queste ultime, sosteneva Newton, agiscono istantaneamente in tutto lo spazio, così che un disturbo che dovesse verificarsi in un punto dello spazio si percepirebbe immediatamente in tutto l’universo. La brillante osservazione di Maxwell fu che gli effetti magnetici ed elettrici non viaggiano istantaneamente come le forze di Newton, ma impiegano del tempo e si muovono a velocità definite. […] Maxwell decise dunque di calcolare la velocita di quegli effetti magnetici ed elettrici, e di usarla per risolvere il mistero della luce, dando vita a una delle maggiori conquiste del XIX secolo.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 10) la luce ha una velocità finita ed è la velocità limite dell’universo.
«Come sospettava, scoprì che non c’erano soluzioni delle equazioni di Maxwell in cui la luce fosse cristallizzata nel tempo. Ma poi comprese qualcos’altro. Con sua sorpresa capì che nella teoria di Maxwell i raggi di luce viaggiavano sempre alla stessa velocità, a prescindere da quanto in fretta ci si muovesse. Era quella, finalmente, la risposta finale all’enigma: non si potrebbe mai raggiungere un raggio di luce, perché sfreccia continuamente via da noi alla stessa velocità. Questo, però, violava qualunque cosa il suo buon senso gli dicesse del mondo. Ci sarebbero voluti altri anni per svelare i paradossi dell’osservazione chiave per cui la luce viaggia sempre alla stessa velocità.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 25)   «…la luce si propaga davvero alla velocità c in tutti i riferimenti. È soprattutto la nostra concezione del tempo come di un’entità assoluta, che scorre allo stesso modo per tutti, che questa conclusione mette in gioco. Questa concezione diventa, sul piano logico, l'assioma sul carattere assoluto del tempo. Liberarsene è stato uno dei passi più ardui compiuti dalla fisica nel corso di questo secolo.» (Bergia Silvio 1998, Spazio, tempo e velocità, in Bellone Enrico 2012 Albert Einstein. Relativamente a spazio e tempo, Gruppo editoriale l’Espresso, Roma, 55)
La fisica non può permettersi di fare ricorso al concetto, o all’ipotesi di una velocità infinita trasformando una simile idea astratta (e “metafisica”) in realtà fisica; una velocità infinita coincide con l’assenza di tempo e di movimento (è il caso di richiamare la stretta connessione, già aristotelica, tra tempo e movimento) e quindi nega ogni tipo di movimento.  In contesto di razionalità fisica, osservano Landau e Rumer: «Infatti se fosse possibile trasmettere segnali con velocità infinita, troveremmo anche un mezzo per stabilire in modo assoluto che due eventi sono simultanei. Potremmo definire due eventi simultanei quando un segnale infinitamente veloce, rivelatore del primo evento, arrivasse contemporaneamente al segnale rivelatore del secondo. In questo modo la proprietà della simultaneità degli eventi acquisterebbe un carattere assoluto, indipendente dal moto del sistema di riferimento. Ma dal momento che l’esperienza ha dimostrato falsa la natura assoluta del tempo, si conclude che la trasmissione di segnali non può essere istantanea. La velocità alla quale un’azione può essere trasmessa  da un punto all’altro nello spazio non può essere infinita, non può cioè superare un certo valore finito, chiamato velocità limite. Questa velocità limite è uguale alla velocità della luce. Secondo il principio di relatività del moto, le leggi della natura debbono essere identiche in tutti i sistemi di riferimento in moto (rettilineo e uniforme) relativamente uno all’altro. L’affermazione che nessuna velocità può superare un determinato limite è anch’essa una legge di natura e perciò il valore della velocità limite dev’essere esattamente uguale nei diversi laboratori. Come sappiamo, la velocità della luce ha proprio questa caratteristica. La velocità della luce non è quindi semplicemente la velocità di propagazione di un certo fenomeno naturale. Essa assume il ruolo molto importante di velocità limite.» (Landau L.D., Rumer G.B. Che cos’è la relatività?, Editori Riuniti, Roma 1977, 52). Se la velocità della luce è finita e non istantanea, e se è la velocità limite dell’universo, un segnale luminoso emesso dal centro di un treno lunghissimo e a velocità vicina a quella limite della luce, raggiunge prima l’estremo A, mentre (per convenzione) si avvicina per direzione al centro del treno, dell’estremo B, che per direzione si allontana dalla posizione del centro. [Con cadenze regolari e ormai prevedibili si annuncia che nuovi eventi hanno superato la velocità della luce, che dunque non è più la velocità limite dell’universo; annunci che sono subito seguiti da smentite. Quell’annuncio è accompagnato dalla affermazione che, poiché esiste una velocità superiore a quella della luce, viene smantellata la teoria della relatività. In realtà, la teoria di Einstein, attraverso l’affermazione della velocità della luce come la velocità dell’universo, intende correggere e parzialmente abbandonare la teoria di Newton non accettando l’idea dell’esistenza, nella realtà fisica, di una velocità infinita; quest’ultima tesi infatti, condizione delle leggi della dinamica newtoniana, di fatto nega il movimento. Quello che Einstein afferma prioritariamente è che l’universo è segnato da una velocità limite…qualora non fosse quella della luce non si annulla la teoria della relatività, si cambia procedura di misurazione e quindi di definizione della simultaneità.].
[3.1] « La luce viaggia all’incredibile velocità di più di un miliardo di chilometri l’ora, che corrisponde a fare il giro della Terra sette volte in un secondo. Questa velocità rappresenta il limite cosmico dell’universo, perché niente può viaggiare più velocemente della luce. Non è la luce a essere speciale, è piuttosto quella particolare velocità a far parte della struttura stessa dello spazio e del tempo. La luce non pesa e quindi riesce a viaggiare al limite di velocità cosmico. Einstein mostrò questo concetto in maniera molto elegante, nella prima delle sue teorie della relatività, nota col nome di «relatività ristretta», nel 1905. Se proprio lo volete sapere, sì, questa è la teoria che porta all’equazione E = mc2.
Eppure, su scala cosmica la velocità della luce non è poi così impressionante. La distanza che ci separa dalle stelle della nostra galassia (per non parlare della distanza tra le galassie) è così grande che la luce ci mette anni a raggiungerci, anche dalle stelle più vicine.
Il fatto stesso che la velocità della luce sia finita ci aiuta a risolvere il paradosso di Olbers. Avendo l’universo circa 14 miliardi di anni, possiamo vedere solo le galassie abbastanza vicine, tanto che la loro luce ha avuto tempo sufficiente per arrivare a noi. L’espansione dello spazio complica le cose, ovviamente: la luce di una galassia lontana dieci miliardi di anni luce sta viaggiando verso di noi da dieci miliardi di anni, ma in questo tempo lo spazio tra noi e la galassia si è dilatato e quindi la galassia è in realtà molto più lontana. Ma in ogni caso, una galassia che sia anche solo due volte più distante è inevitabilmente fuori portata: la sua luce è ancora in viaggio e non la possiamo vedere. Quindi non porta alcuna luminosità al cielo notturno: possiamo vedere solo quel tanto che l'età dell’universo ci permette. […]
A trentanove anni, l’anno prima di morire, Poe pubblicò quello che viene considerato il suo lavoro più autorevole: un saggio chiamato Eureka: un poema in prosa, uscito nel 1848. Si tratta dell’adattamento di un seminario che ha come sottotitolo Saggio sull’universo materiale e spirituale; è un esempio notevole di letteratura. Non ha alcuna credibilità scientifica: ha più a che fare con le intuizioni di Poe sulle leggi naturali. In un certo senso è un trattato di cosmologia in cui Poe indaga sulle origini dell’universo, la sua evoluzione e la sua fine, ed è basato su un misto di logica e ragionamenti azzardati, più che su idee basate su solide fondamenta scientifiche. Per esempio, Poe sviluppa autonomamente il concetto di come si possano applicare le leggi di Newton alla formazione e al moto dei pianeti, ma sbagliando clamorosamente. Ciò nonostante, nascosto nel lavoro, si trova il seguente, famoso, passaggio: “Se la successione delle stelle fosse infinita, lo sfondo del cielo avrebbe una luminosità uniforme, come quella della nostra Galassia, perché non potrebbe esserci assolutamente nessun punto, in tutto lo sfondo, privo di una stella. Il solo modo, perciò, in cui potremmo comprendere i vuoti osservati dai nostri telescopi in tutte le direzioni, sarebbe di supporre che la distanza dello sfondo è così grande che nessun raggio luminoso possa aver ancora avuto il tempo di raggiungerci.”» (Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo. 74-77 passim)
[3.2] «L’intera teoria di Einstein si basava su due idee, che da allora si chiamano i due «postulati della relatività». Il primo era ben noto: dice semplicemente che il moto è davvero relativo e niente è mai assolutamente stazionario. Questo significa che non ci sono esperimenti che possano dirci se siamo «veramente» in moto oppure no. Il secondo postulato era quello rivoluzionario, anche se a prima vista sembra piuttosto innocente. Einstein sostenne che la luce si comporta come un’onda, nel senso che si propaga a una velocità indipendente dalla velocità della sua origine (come le onde sonore da una macchina in moto [a p. 110: «la velocità a cui l’onda si muove non dipende dalla velocità a cui si muove l’origine dell’onda» nel caso delle onde sonore «la velocità ha a che fare con quanto vibrano velocemente le molecole d’aria che la trasportano»]). Però, allo stesso tempo, e al contrario delle onde sonore, la luce non ha bisogno di un mezzo in cui propagarsi: l’etere luminifero non esiste e le onde luminose si possono muovere attraverso lo spazio vuoto. Fin qui, niente di strano, nessun paradosso, e niente (potreste pensare) che avreste difficoltà a sottoscrivere in questi due innocui postulati. Di certo non sembrano affermazioni che portino a una visione rivoluzionaria dello spazio e del tempo. Eppure è così. Ognuno dei due postulati, in sé, è innocente. E quando li combiniamo che scopriamo la profondità delle idee di Einstein.
Ricapitoliamo. La luce che ci raggiunge viaggia alla stessa velocità, indipendentemente dalla velocità della fonte luminosa che l’ha prodotta. Quindi la luce funziona come le altre onde, come il suono, nessun problema. Tuttavia, siccome la luce non ha un mezzo in cui si propaga e rispetto al quale si può misurare la sua velocità, allora nessuno ha una posizione privilegiata nell’universo, e ogni osservatore, indipendentemente dal suo moto, dovrà misurare la stessa velocità della luce: trecentomila chilometri al secondo. Questo è il punto in cui le cose diventano strane, quindi spiegherò le implicazioni della faccenda. […] … la velocità della luce non dipende dalla velocità della fonte luminosa. […] Ma c’è un prezzo da pagare per ottenere questo risultato; siamo costretti a rivedere i nostri concetti di spazio e di tempo. L’unico modo per cui la luce può viaggiare alla stessa velocità per tutti gli osservatori, indipendentemente dalla velocità a cui loro si spostano, è ammettere che gli osservatori misurano tempi e distanze in modo differente.» (Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo. Maxwell, Schrödinger, Einstein e i paradossi del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 113-114,115)
«Quindi il fatto che tutti misuriamo la stessa velocità della luce ci costringe ad accettare il concetto che l’intervallo di tempo tra i due eventi (in questo caso la partenza e l’arrivo del raggio di luce) avrà diversi valori per osservatori diversi.» (Al-Khalili 2012, 134)
Il “prezzo da pagare: 1. La contrazione delle distanze / lunghezze / dimensioni («… più ci si avvicina alla velocità della luce, più le lunghezze si contraggono. » Al-Khalili, 118); 2. Il rallentamento (l’allungamento) del tempo (fino all’ipotesi del suo arresto o del suo azzeramento: «…a cavallo di un raggio di luce, qualunque distanza, perfino attraverso l’intero universo, sarebbe pari a zero, il che è corretto, perché il tempo si ferma, e quindi si percorre distanza nulla in tempo nullo.» Al Khalili 119).       
[4] un treno “ideale”: di notevole lunghezza (come da terra a luna), ad una altissima velocità (vicina a quella della luce), con moto uniforme;
[5] concetti fisici definiti attraverso una misurazione di carattere pragmatico (come viene impostato nell’esperimento a proposito del concetto di simultaneità).
1.3.5. i risultati (e la “rivoluzione” nella fisica): simultaneità, tempo, dimensioni.
[1] la relatività della simultaneità: «Paragonando le previsioni dei due osservatori giungiamo ad un risultato sorprendente, ed in aperto conflitto con i concetti apparentemente ben fondati della fisica classica. Due eventi, per esempio, i due raggi luminosi che colpiscono le due pareti sarebbero simultanei per l’osservatore nell’interno, ma non lo sarebbero più per l’osservatore all’esterno. Nella fisica classica avevamo uno stesso orologio, cioè uno stesso flusso del tempo per tutti gli osservatori, in tutti gli SC. Il tempo e perciò espressioni come: «simultaneamente», « prima », «dopo », avevano un significato assoluto ed indipendente da qualsiasi SC. Due eventi producentisi nello stesso istante in un dato SC erano necessariamente simultanei in tutti gli altri SC.  […] Abbiamo testé descritto due eventi che si producono simultaneamente in un SC, ma in istanti diversi in un altro SC.  È nostro compito quello di comprendere tale possibilità, di comprendere cioè la proposizione: “Due eventi che sono simultanei in un SC, possono non esserlo in un altro SC.”» (Einstein Infeld 1938, 188-189)
[1.1]  Una riflessione storico-epistemologica  da parte di Max Born: «Il concetto di simultaneità. Le difficoltà che si volevano superare applicando il principio di relatività ai fenomeni elettrodinamici consistevano nel mettere d’accordo le seguenti due affermazioni apparentemente contradditorie: 1) secondo la meccanica classica la velocità di un moto qualsiasi assume valori differenti per due osservatori che si muovono l’uno rispetto all’altro; 2) l’esperienza ci insegna che la velocità della luce non dipende dallo stato di moto dell’osservatore e ha sempre lo stesso valore c. […] Delle due affermazioni l) e 2) la prima è puramente teorica e concettuale, mentre la seconda è basata sull’esperienza. Ora, dal momento che la seconda affermazione, che la velocità della luce è costante, deve ritenersi confermata con certezza dall’esperienza, non rimane altro che abbandonare la prima legge e di conseguenza le idee sullo spazio e sul tempo fin qui accettate. Pertanto ci dev’essere un errore in queste idee, o almeno un falso ragionamento, dovuto a confusione tra abitudine a certe opinioni e coerenza logica del pensiero, una tendenza che ben sappiamo di quale ostacolo sia per il progresso. Ora, il concetto di simultaneità è una falsa opinione di questo tipo. Si considera di per sé evidente che abbia significato affermare che un evento che si verifichi nel punto A, per esempio sulla terra, e un evento verificatosi nel punto B, per esempio sul sole, sono simultanei. Si ammette che concetti come "istante di tempo", "simultaneità", "prima", "dopo" e così via, abbiano in sé un significato a priori valido per l’intero universo. Questo era anche il punto di vista di Newton, quando postulò l’esistenza di un tempo assoluto o durata degli intervalli di tempo che doveva trascorrere "ugualmente senza riguardo per qualsiasi fattore esterno". Ma non esiste certamente un tale concetto di tempo per il fisico che si preoccupa dell’aspetto quantitativo della realtà. Egli non vede alcun significato nell’affermazione che un evento in A e un evento in B sono simultanei, dal momento che non ha modo di decidere la verità o la falsità di tale asserzione. Per riuscire a decidere se sono simultanei due eventi in luoghi differenti dobbiamo avere in ogni punto degli orologi dei quali possiamo essere certi che procedano nello stesso modo ovvero scandiscano il secondo "in maniera sincrona". In tal modo il problema si riduce a questo: possiamo definire un modo di verificare l’uguale andamento dei battiti di due orologi posti in luoghi differenti?» (Born Max 1962 La sintesi enisteiniana, ed. Boringhieri, Torino 1976, 270-271)  
[1.2.] Osservano Landau e Rumer, anche ragionando sul metodo: «La scienza non ha paura degli scontri con il cosiddetto senso comune. Essa teme soltanto che le idee esistenti e i nuovi fatti sperimentali non vadano d’accordo e, quando si rivela questo disaccordo, senza esitazione distrugge i concetti che aveva precedentemente costruito e innalza la nostra conoscenza a un livello più elevato. Prima avevamo avanzato l’ipotesi che due eventi simultanei fossero tali in ogni laboratorio. L’esperimento ci ha però condotti a una diversa conclusione. È ormai chiaro che la nostra ipotesi resta valida soltanto nel caso di due laboratori a riposo uno relativamente all’altro. Se, invece, i due laboratori sono in moto relativo uno rispetto all’altro, gli eventi simultanei in uno devono essere considerati non simultanei nell’altro. Il concetto di eventi simultanei diventa quindi relativo e acquista un significato soltanto se indichiamo il moto del laboratorio dal quale vengono osservati gli eventi.» Landau L.D., Rumer G.B. Che cos’è la relatività?, 48-49)  
[2] In stretto legame, consequenziale, con la relatività della simultaneità si colloca la relatività del tempo e delle dimensioni. Rivoluzionari sono gli esiti che riguardano infatti i concetti di spazio e di tempo (in concreto: le dimensioni dei corpi e l’andamento di misuratori del tempo).
«…la velocità della luce costituisce un limite invalicabile, che si può avvicinare ma non superare. […] Come aveva già anticipato euristicamente nel 1889 Hendrik Lorentz, da cui prendono il nome queste trasformazioni, Einstein e Poincaré scoprirono che in realtà succedono entrambe le cose: una contrazione delle lunghezze e una dilatazione dei tempi. E gli effetti sono sempre maggiori, al crescere delle velocità. In particolare, alla velocità della luce lo spazio svanisce e il tempo si ferma.
Naturalmente, questo rende sia lo spazio che il tempo relativi alla velocità con cui ci si muove, e va contro l’assolutezza che Newton postulava per entrambi nei Principia. Di qui il nome di teoria della relatività, che però non significa affatto che tutto sia relativo!» (Odifreddi Piergiorgio, 2014, Sulle spalle di un gigante. E venne un uomo chiamato Newton, Longanesi, Milano, 217, 218)
[2.1] la relatività del tempo: «Definire il tempo significa anzitutto stabilire quando due eventi sono simultanei.» (Bergia Silvio, Spazio, tempo e velocità, in Bellone Enrico 2012, 56)  «Orbene, prima dell’avvento della teoria della relatività, nella fisica si era sempre tacitamente ammesso che le attribuzioni di tempo avessero un significato assoluto, cioè fossero indipendenti dallo stato di moto del corpo di riferimento. Abbiamo però visto or ora che tale ipotesi risulta incompatibile con la più naturale definizione di simultaneità…» (Einstein, Relatività: esposizione divulgativa, 62) «La mia soluzione fu un’analisi della concezione del tempo. Il tempo non può essere definito in assoluto, ed esiste una relazione inseparabile fra il tempo e la velocità dei segnali.» (Einstein, da Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 40)
[2.1.1.] “rallentamento” del tempo o “dilatazione” del tempo (si invecchia più lentamente: l’esperimento ideale dei due orologi e la storia dei due gemelli: l’uno sulla terra, l’altro in viaggio a bordo di un satellite alla velocità…) in relazione alle alte velocità e al loro ipotetico avvicinarsi alla velocità della luce: «Il rallentamento del tempo ad alta velocità è noto con il nome di «dilatazione del tempo», e viene comunemente preso in considerazione negli esperimenti di fisica, in particolare quelli in cui le particelle subatomiche sono accelerate in dispositivi come il Large Hadron Collider al CERN di Ginevra. Qui, le particelle raggiungono velocità così vicine a quella della luce che, senza prendere in considerazione questi effetti relativistici, gli esperimenti non avrebbero alcun senso.» (Al-Khalili 2012, 136) Rallentamento/dilatazione del tempo: si tratta di teorie in contrasto con elementi portanti della fisica di Newton: la tesi dei uno spazio e di un tempo assoluti (anche nella formula di “sensorium dei”) e la tesi secondo cui le forze gravitazionali agiscono istantaneamente (cioè con velocità infinita).  «Per Mach, l’imponente edificio della meccanica newtoniana aveva fondamenta di sabbia, considerando che i concetti di spazio assoluto e tempo assoluto non erano in alcun modo misurabili. Credeva che si potessero misurare i moti relativi, ma non quelli assoluti. Nessuno aveva mai scoperto il mistico punto di riferimento assoluto in grado di determinare il moto dei pianeti e delle stelle, e nessuno aveva mai trovato la benché minima prova sperimentale dell’etere.»  (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 33)

[2.1.2.] un nuovo ambito (contesto, area, situazione, mondo, realtà…) di esperienza e di ricerca: la velocità ci consente di passare da un tempo all’altro e nel tempo dal presente al futuro, dal presente al passato («… andare più veloci della luce significa tornare indietro nel tempo» Al-Khalili 2012, 153; prende così forma la nuova fisica e, forse, la nuova agenzia turistica dei viaggi nel tempo, magari per decidere quale presente).  «Sappiamo come muoverci da un punto all’altro dello spazio, quindi dovremmo poterci muovere anche da un punto all’altro del tempo.» (Al-Khalili 2012, 160).

 

Un aggiornamento che è conferma sperimentale: «Possiamo davvero viaggiare nel tempo, come fanno sempre più spesso protagonisti di film e romanzi? Possiamo innamorarci di una ragazza venuta dal futuro e rincorrerla fino al suo secolo, oppure tornare nel passato e salvare John Kennedy dall’assassinio? Negli ultimi cento anni la fisica ci ha insegnato molte cose sul tempo, e soprattutto ci ha insegnato che la struttura del tempo è più sottile e interessante del fluire lineare a cui siamo abituati. Oggi sappiamo che saltare rapidamente nel futuro è possibile. Non solo è possibile, ma in piccola misura siamo già in grado di farlo. Per andare in fretta nel futuro, è sufficiente trascorrere del tempo sotto terra, oppure su un aereo veloce. L’accorciamento del tempo per chi stia in basso e per chi viaggi veloce è un effetto piccolo, ma oggi abbiamo orologi molto precisi che sono sufficienti per misurarlo: un orologio preciso, tenuto tre metri sotto terra indica un tempo minore di tutti gli altri orologi, quando sia riportato su. Questo significa che per l’orologio in basso (e per chiunque sia stato presso l’orologio) il tempo trascorso per arrivare nel futuro è minore del tempo trascorso da tutti gli altri. Al contrario, in alto il tempo passa più veloce. Quando l’esercito americano ha messo in funzione il primo sistema di navigazione satellitare (il GPS ora in tante automobili ), i fisici avevano segnalato che «gli orologi sui satelliti sarebbero andati più veloci di quelli a terra. I generali americani responsabili del progetto non hanno voluto crederci, inizialmente, e i primi satelliti sono stati provati senza tener conto dell’accelerazione del tempo ad alta quota. Non hanno funzionato. Così perfino i generali dell’esercito hanno dovuto ammettere che lassù il tempo va più veloce. Il tempo non scorre uguale per tutti. Ogni oggetto ha il suo tempo, che dipende da dov’è, e da come si muove. Se andiamo nel centro della Terra, il tempo passa ancora più lento. Se andiamo nelle vicinanze di una stella molto densa, dove la gravità è forte, il tempo passa estremamente lento. È sufficiente passare un paio di giorni nei pressi di una stella molto densa, per poi tornare qui un numero arbitrario di secoli nel futuro. Un soggiorno sulla superficie di una stella densa è una scorciatoia per il futuro. Oppure, è sufficiente partire a grande velocità con un’astronave e fare un viaggio di pochi giorni per poi tornare sulla Terra un numero arbitrario di millenni nel futuro. Se non siamo ancora capaci di fare simili salti concretamente, è solo per il costo dell’astronave. La fisica che chiarisce e mette ordine in tutto questo è invece chiara: è la relatività generale, una teoria che è stata scritta novantanove anni fa, oggi è solidamente suffragata dall’esperienza e fa parte del nostro sapere solido sul mondo. Correre nel futuro in breve tempo è possibile.» (Rovelli Carlo, La nuova macchina del tempo, la Repubblica 06.04.2014)  (Ed è la nota storia  dei due gemelli).
[3] la relatività delle dimensioni (e la crisi della concezione di Newton, e di buon senso, circa lo spazio e il tempo assoluti): «Prendiamo un regolo della lunghezza di un metro; ciò significa che esso ha la lunghezza di un metro fintantoché rimane in riposo in un dato SC. Supponiamo ora che esso si muova di moto uniforme scivolando lungo l’asta che rappresenta lo SC. La sua lunghezza apparirà forse ancora eguale ad un metro? Anzitutto occorre sapere in che modo viene determinata la sua lunghezza. Fintantoché il regolo era in riposo le sue estremità coincidevano con tacche incise sullo SC e distanti un metro, l’una dall'altra. In vista di ciò concludemmo: la lunghezza del regolo in riposo è di un metro. Ma come dobbiamo procedere per misurare il regolo allorché esso si trova in moto? Potremmo operare nel modo seguente: in un dato istante due osservatori prendono simultaneamente delle istantanee l’uno dell'origine, l’altro dell'estremità finale del regolo. Potremmo allora constatare con quali delle tacche incise sull’asta fungente da SC, coincidono le due estremità del regolo in moto. Avremo così determinato la sua lunghezza, poiché le due immagini sono state prese simultaneamente. Due osservatori sono indispensabili ove occorra notare eventi simultanei in due punti diversi di un dato SC. Non c’è ragione di ritenere che il risultato di tali misure debba essere il medesimo come nel caso di un regolo in riposo. Come sappiamo già, la simultaneità è un concetto relativo, dipendente dallo SC. Le istantanee essendo state prese simultaneamente, e la simultaneità essendo, come già sappiamo un concetto relativo dipendente dallo SC, è possibilissimo che i risultati delle misure eseguite in tal guisa siano differenti in SC diversi, che trovansi in moto l’uno relativamente all’altro.» (Einstein Infeld 1938, 194)
Einstein ricorda come la simultaneità, (cioè la considerazione contemporanea degli estremi di un corpo) oltre a essere una dimensione temporale, è il procedimento con cui avviene la misurazione delle dimensioni di un corpo; ne consegue che se la simultaneità è relativa allo stato di moto e alla velocità del sistema, anche le dimensioni dei corpi variano al variare della velocità del sistema in cui sono collocati e sono quindi relative al tempo proprio del sistema di riferimento. Fedele alla definizione operativa dei concetti, Einstein non considera la dimensione come caratteristica in sé del corpo (tale concetto è del tutto indefinibile per la fisica), ma come l’insieme delle operazioni che permettono di misurare la distanza tra gli estremi di un corpo e quindi di percepire e definirne le dimensioni; il modo in cui percepiamo e misuriamo le dimensioni di un corpo e le scansioni del tempo sono dunque relative allo stato di moto del sistema inerziale (SC) in cui l’osservatore è collocato. Le dimensioni dei corpi e della nostra percezione di essi sono in relazione con la velocità del sistema in cui si trovano corpi, osservatori e mezzi di osservazione.
1.3.6.  in conclusione: «Se la velocità della luce è la stessa in tutti gli SC, allora i regoli in moto debbono mutare di lunghezza e gli orologi in moto debbono mutare di ritmo, secondo leggi di variazione rigorosamente determinate.» (Einstein Infeld 1938,195) «Infatti dalla trasformazione di Lorentz segue che un regolo in moto si contrae nella direzione del moto, e che la contrazione aumenta con la velocità. Quanto più velocemente si muove il regolo, tanto più corto esso pare. […] Le variazioni divengono sempre più notevoli a misura che la velocità aumenta. Dalla trasformazione di Lorentz scende che un regolo si ridurrebbe a nulla se la sua velocità potesse eguagliare quella della luce. Parimenti, un orologio in moto, purché «buono» rallenta il proprio ritmo in confronto agli orologi  davanti ai quali sfila lungo l’asta e si fermerebbe del tutto qualora la sua velocità eguagliasse quella della luce.» (Einstein Infeld 1938,198, 199)
1.3.6.1. perché la percezione quotidiana non segnale le variazioni del tempo e delle dimensioni indicate dalla teoria della relatività? La questione è affrontata da Einstein in un ipotetico dialogo tra A. (fisico antiquato) e M. (fisico moderno), (quasi a richiamare la forma espositiva di Galilei tra Simplicio e Salvati) «A. Ciò sembra contraddire tutte le nostre esperienze. Sappiamo positivamente che una vettura in moto non si raccorcia; sappiamo altresì che se l’orologio del conducente è «buono» esso, contrariamente alle vostre affermazioni camminerà come gli orologi davanti ai quali passa lungo la strada.   M. Questo è vero. Ma tali velocità meccaniche sono tutte i piccolissime in confronto a quella della luce e sarebbe ridicolo voler applicare la relatività a simili fenomeni. Qualsiasi conducente di vetture può applicare con tutta tranquillità la fisica classica, anche aumentando centomila volte la propria velocità. Una discordanza fra l’esperienza e la trasformazione classica non si manifesta che per velocità vicine a quella della luce. È soltanto per le grandissime velocità che la trasformazione di Lorentz può venire comprovata.» (Einstein Infeld 1938, 199-200)  «Il grande messaggio del 1905 è questo. Quando un orologio è in movimento nello spazio, il suo ritmo rallenta. Nel caso ipotetico che la sua velocità sia coincidente con quella della luce, il tempo non scorre più. La lunghezza di una sbarra in movimento nello spazio dipende dalla sua velocità rispetto a me: quanto più la velocità aumenta e si avvicina a quella della luce, tanto più la sbarretta si accorcia. Se arrivasse alla velocità della luce, avremmo una sbarretta di lunghezza zero. Nella nostra esperienza quotidiana del mondo non ci rendiamo conto degli effetti relativistici. Infatti, come caso limite, per velocità molto basse rispetto a quella della luce vale la meccanica classica.» Bellone Enrico 2012,16-17) 
1.3.6.2. il legame con la “fisica classica” (tesi che riporta anche al tema generale di epistemologia relativo al rapporto tra le teorie): «M. … Questa teoria di carattere più generale non contraddice la trasformazione e la meccanica classica. Al contrario, vi ritroviamo gli antichi concetti quali caso limite, allorché le velocità sono piccole. Dal punto di vista della teoria della relatività è facile discernere in quali casi la fisica classica è valevole e quali ne sono le limitazioni. Sarebbe altrettanto ridicolo applicare la teoria della relatività al moto di vetture, di navi e di treni, quanto volersi servire di una macchina calcolatrice nei casi in cui basta, la cosiddetta tavola pitagorica.» (Einstein Infeld 1938, 200-201) Osserva Piergiorgio Odifreddi: «Tutto questo non significa, però, che la meccanica newtoniana fosse sbagliata e sia da buttare. Infatti, quando la velocità v è piccola rispetto a quella della luce, il fattore v/c che compare nelle trasformazioni di Lorentz è trascurabile e non produce effetti osservabili. In altre parole, la meccanica newtoniana è un’approssimazione  di quella einsteiniana. E la si riottiene da questa quando si considera il piccolo rapporto v/c come se fosse uguale a zero. O, equivalentemente, la grande velocità c come se fosse infinita.» (Odifreddi 2014, 218-219) Dunque i due contesti operativi: « All’inizio degli anni Venti la fisica sta ormai abbandonando definitiva mente la cornice classica, che resta naturalmente valida per la spiegazione dei fenomeni macroscopici, per avventurarsi sul terreno di una nuova meccanica, più adeguata alla descrizione del comportamento atomico.» (Cattaneo M. Breve storia dei quanti, in Glashow Sheldon Lee, Max Planck e la fisica dei quanti, Gruppo ed. l’Espresso, Roma, 2012, 50-51)

1.4. Una metodologia operazionistica (coerente e conseguente con la relatività)
«Abbiamo bisogno di una definizione di simultaneità capace di fornirci il metodo per mezzo del quale decidere sperimentalmente» (Einstein Relatività: esposizione divulgativa, 58)
La teoria della relatività di Einstein assume la portata di una rivoluzione epistemologica in quanto introduce nella scienza nuove regole di formazione e di definizione dei concetti. Perché i termini scientifici della fisica abbiano significato, Einstein richiede che essi contengano nella propria definizione l’indicazione dei procedimenti necessari per determinare quantitativamente tali termini nella varietà delle situazioni empiriche possibili (cioè in un sistema di coordinate o di riferimento). Termini ed espressioni come spazio, linea, simultaneità, continuità, dimensione, corpo o sistema di riferimento hanno significato non perché indichino proprietà della natura o concetti a priori della mente, ma perché la loro definizione indica i procedimenti in forza dei quali lo scienziato può dare loro, in ogni momento, un preciso valore quantitativo.
1.4.1. Come esempi: il termine «spazio» va perciò sostituito con l’espressione «movimento rispetto a un corpo di riferimento praticamente rigido»; l’espressione «corpo di riferimento» va sostituita con «sistema di coordinate», la linea è «raggio luminoso dotato di velocità finita», la simultaneità è un «metodo empirico» di misurazione, basato sull'uso di segnali luminosi, per stabilire relazioni tra quantità osservabili; la stessa teoria della relatività ristretta è un nuovo criterio di misurazione delle distanze, delle dimensioni e dei tempi. L’indicazione operativa costituisce per Einstein la condizione dell’ammissibilità della teoria fisica all’interno della scienza.
A conferma: «Più in generale, e sempre in base alle Regole del Filosofare, Einstein dedusse che «poiché l’effetto della gravitazione è uguale ai cambiamenti della geometria dello spazio-tempo, la gravitazione è la geometria dello spazio-tempo».» (Odifreddi 2014, 221)
1.4.2. Questa esigenza richiede, come condizione indispensabile perché i quesiti e le espressioni della fisica abbiano significato, l’indicazione del sistema di riferimento. Le domande sulla lunghezza di un corpo, sulla durata di un evento, ad esempio, sono prive di senso se non contengono il riferimento a un sistema; allo stesso modo, evidentemente, non hanno significato citazioni di luoghi senza coordinate di riferimento. Per tale esigenza imprescindibile tutti i concetti, cioè tutte le operazioni di misurazione quantitativa dei fenomeni, si collocano in una situazione di inevitabile e necessaria relatività.
1.4.3. Nel loro complesso le opere di Einstein, più che presentare una nuova teoria fisica, hanno lo scopo di rilanciare la ricerca scientifica sulla base di nuovi metodi e verso nuove finalità. Accogliendo infatti gli esiti teorici delle geometrie non euclidee e richiamando la natura operativa dei concetti scientifici, Einstein precisa come la particolare struttura teorica con cui il fisico delinea i fatti dell’esperienza non presupponga alcuna dichiarazione circa la verità e la realtà dei concetti geometrici: la validità di questi ultimi dipende dalla capacità di «dire qualcosa circa il mondo esterno», di consentire operazioni di misurazione empirica, senza la pretesa di descrivere i caratteri oggettivi del mondo. La stessa teoria della relatività non si presenta, dunque, come una nuova cosmologia, ma come un metodo di definizione dinamica delle leggi dell’universo a partire dalla impossibilità di prescindere, nella misurazione, dalle caratteristiche spaziali e temporali del sistema di riferimento dell’osservatore. Queste chiarificazioni di metodo consentono di comprendere la posizione epistemologica che Einstein riassume quando afferma che le teorie sono «libere costruzioni dell’intelletto». 

1.5. Fisica della relatività in forma di bilancio. «Così, il 1905 fu un annus mirabilis nella storia della scienza. Per trovare un altro anno miracoloso di simile portata dobbiamo risalire al 1666, quando Isaac Newton, a ventitré anni, si imbatte nella legge universale della gravitazione, nel calcolo integrale e differenziale, nel teorema binomiale e nella sua teoria del colore.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 47)
In nuova sintesi: passaggi e spunti dall’opera di Étienne Klein, 2005 Sette volte la rivoluzione. I grandi della fisica contemporanea, ed. Raffello Cortina, Milano 2006 (pp.62-68)
«La risposta gli balena nella testa un mattino del maggio 1905, al risveglio dopo una nottata di discussioni con Michele Besso: "Improvvisamente ho capito dove stava la chiave del problema. La mia soluzione è un'analisi nuova del concetto di tempo. Il tempo non può essere più definito in modo assoluto, ed esiste una relazione inseparabile tra il tempo e la velocità del segnale". Einstein ha appena realizzato che il tempo non è indipendente dal movimento nello spazio.
Cosa significa tutto ciò? Ogni definizione di simultaneità di due eventi in luoghi diversi deve fondarsi su una misura: deve essere possibile porre, sui luoghi degli eventi, orologi che indi­chino la stessa ora, ovvero orologi sincronizzati. Per realizzare tale sincronizzazione, si possono utilizzare due metodi sempli­ci che hanno applicazioni pratiche nella nostra esperienza quo­tidiana. Uno è il classico modello di regolazione degli orologi che si usa nei film polizieschi: i diversi protagonisti si incontra­no per regolare i rispettivi orologi sulla stessa ora, poi ciascuno di loro si allontana per andare a compiere il proprio dovere. Questo metodo solleva, però, una questione di principio: fun­ziona solo con il tempo newtoniano, ovvero è indipendente dalla velocità relativa dei diversi portatori degli orologi. In caso contrario, lo spostamento degli uni rispetto agli altri può sfasa­re il sincronismo degli orologi. Il secondo metodo ricorre a un segnale luminoso: gli orologi sono regolati quando viene inter­cettato un segnale elettromagnetico emesso al momento con­venuto a partire da un luogo fisso. Questa seconda possibilità sembra imporsi naturalmente, se si ammette il principio accet­tato da Einstein nel suo articolo: la velocità della luce (che è an­che quella delle onde elettromagnetiche) resta invariata anche quando si cambia il sistema di riferimento. È indipendente dal­la velocità della sorgente di luce e dalla velocità dell'osservato­re rispetto a tale sorgente. Un segnale elettromagnetico emesso a partire da un punto dato si propaga alla stessa velocità in tut­te le direzioni e per tutti gli osservatori. Se il principio è valido, una corretta sincronizzazione resta possibile: a partire da un punto scelto, un segnale elettromagnetico viene emesso a un istante iniziale convenuto (t = 0) etutti gli orologi che si trovano a una distanza nota (d) dal punto scelto sono regolati sull'ora d/c al momento della ricezione del segnale (c indica la velocità della luce, d/c indica il tempo impiegato dal segnale elettroma­gnetico per percorrere la distanza d). In tal modo tutti gli oro­logi statici possono essere sincronizzati, e resteranno tali.
Ma cosa accade se uno degli orologi si sposta a velocità co­stante rispetto agli altri? Il suo tempo specifico, inizialmente identico a quello degli altri, si modifica progressivamente. Di conseguenza, non è più possibile parlare dell'Universo come una sorta di metronomo universale, poiché esistono tanti oro­logi quanti oggetti in movimento uniforme. Non è possibile sincronizzarli in modo perenne: è certo possibile regolare le lancette a un certo momento, ma le ore indicate cesseranno di coincidere qualche istante dopo. Ogni osservatore constaterà che le durate indicate da orologi diversi dal suo saranno dila­tate. Il fenomeno si chiama "rallentamento degli orologi" in fase di spostamento.
Ma la cosa non finisce qui. (Étienne Klein, 2005, 62ss)

2. Dalla teoria della relatività il progetto di una nuova fisica generale. La relatività generale. Massa e energia. Spazio tempo e gravitazione.
«Seconda immagine. La curvatura dello spazio-tempo.   La relatività generale e “il pensiero più felice della mia vita”» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 61, 63)
«La teoria della relatività generale cerca di formulare leggi fisiche valevoli per tutti gli SC ed il suo problema fondamentale è quello della gravitazione.» (Einstein Infeld 1938,245)  Come la relatività speciale prende le mosse dai principi e dalle leggi su cui si è formata la fisica galileiana, principio di inerzia e di relatività, così la teoria della relatività generale prende le mosse dal problema della legge di gravitazione universale proposta da Newton. «… non c’è nessuna probabilità di riuscire a formulare la teoria della relatività generale, prima di aver risolto il problema della gravitazione. Questa discussione fa vedere perché la soluzione del problema della gravitazione non può essere la medesima nella fisica classica e nella teoria della relatività generale.» (Einstein Infeld 1938, 246) 
«Einstein non era ancora soddisfatto. Veniva già annoverato fra i fisici più importanti del suo tempo, eppure non trovava pace. Realizzò che c’erano almeno due buchi macroscopici nella sua teoria della relatività. Innanzitutto era basata interamente sui moti inerziali. In natura, però, quasi nulla è inerziale. Ogni cosa si trova in uno stato di costante accelerazione: il sobbalzare dei treni, la caduta a zig-zag delle foglie, la rotazione della Terra intorno al Sole, il moto dei corpi celesti. La teoria della relatività non era in grado di tener conto della più ordinaria accelerazione riscontrabile sulla Terra.
In secondo luogo, la teoria non diceva nulla della gravità. Avanzava la rivendicazione assoluta di essere una simmetria universale di natura, valida per tutti i settori del cosmo, eppure la gravità sembrava al di là della sua portata. La faccenda era imbarazzante, visto che la gravità è ovunque. Le lacune della relatività erano ovvie. Dato che quella della luce era la velocità ultima dell'universo, la teoria della relatività sosteneva che ogni perturbazione solare avrebbe impiegato otto minuti a raggiungere la Terra. Questo, però, contraddiceva la teoria della gravità di Newton, che affermava che gli effetti gravitazionali sono istantanei. (La velocità della gravità di Newton era infinita, dato che nelle sue equazioni la velocità della luce non appare da nessuna parte.) Einstein dunque avrebbe dovuto revisionare integralmente le equazioni di Newton per incorporarvi la velocità della luce.
In breve, Einstein mise a fuoco l’immensità del problema di generalizzare la sua teoria della relatività per includervi le accelerazioni e la gravità. Cominciò a chiamare la sua teoria del 1905 teoria della relatività ristretta per differenziarla dalla più potente teoria della relatività generale necessaria a descrivere la gravità.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 63)
Dunque: «L’idea che la gravità sia in realtà un effetto collaterale della curvatura dello spazio-tempo» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, codiceedizioni, Torino 2014, 76)
«La teoria della relatività sorse per necessità di cose, dalle gravi e profonde contraddizioni insite nell’antica teoria, contraddizioni dalle quali sembrava non esserci via d’uscita. La forza della nuova teoria risiede nella coerenza e semplicità con cui tutte le difficoltà vengono risolte ricorrendo soltanto a pochi e plausibili presupposti.   Benché la teoria della relatività tragga origine dai problemi del campo, essa deve potersi applicare a tutte le leggi fisiche.» (Einstein Infeld 1938, 202)
Dunque la teoria della relatività, posta in un discorso analitico sulla “evoluzione della fisica” come nell’opera di Einstein in questione, si apre ad un progetto sistemico (se non sistematico; sono cioè teoria e metodo organico ma non sistema) e complessivo. In esso trovano espressione e sviluppo la nuova impostazione post-meccanicistica sottolineata da Einstein in uscita dai vincoli delle molte “sostanze” create o conservate dalla fisica classica; i concetti prodotti dalle nuove ricerche (onda, campo e relatività), posti in contatto tra di loro oltre gli ambiti settoriali in cui sono stati formulati e fatti confluire in una visione del mondo unitaria e coerente; la logica di metodo: empirica a partire da concetti e progetti di ricerca, ma concetti la cui definizione dovrà essere rigorosamente di carattere operativo, in quanto essi hanno natura operativa.  
Su queste premesse Einstein costruisce una nuova concezione della scienza e della fisica, dei procedimenti di osservazione e delle finalità delle teorie. Nell’opera Fondamenti della relatività generale, del 1916, affermando che «le leggi della fisica debbono essere di natura tale che esse si possano applicare a sistemi di riferimento comunque in moto», egli estende a ogni sistema quelle caratteristiche che, nella teoria della relatività ristretta, aveva considerato valide per i soli sistemi dotati di moto traslatorio rettilineo uniforme. Tale ampliamento è sostenuto da una convinzione: la fisica relativistica non si legittima da un punto di vista epistemologico in quanto si fonda su un contenuto di esperienza maggiore di quello presente nella fisica aristotelica o nella fisica moderna, ma grazie alla sua capacità di fornire un inquadramento più semplice e più coerente ai dati di esperienza; per questo motivo le sue leggi possono essere estese dai sistemi inerziali ai sistemi dotati di moto accelerato e a qualsiasi altro sistema di riferimento.

2.1. le leggi meccaniche nella fisica della relatività presentata come fisica generale.
Tornando al tema centrale della fisica classica, le leggi riguardanti il movimento o la meccanica dei corpi in moto, i loro fattori e le loro leggi, Einstein parte dalla constatazione: «le leggi del campo e le leggi meccaniche sono d’indole affatto diversa.» Le leggi della meccanica classica (galileiana-newtoniana) si riducono «ad un caso speciale, o caso limite … al caso cioè, in cui le velocità relative di due SC sono molto piccole.» (Einstein Infeld 1938, 202) Si tratta di leggi incentrate su di un sistema inerziale, dotato di moto continuo e uniforme, concetto sul quale essa sorge e dal quale viene anche definita nell’area e nella validità delle sue applicazioni.
«… la teoria della relatività generale di Einstein proposta nel 1916 era un vero terremoto intellettuale, nel senso che rimpiazzava completamente la legge della gravitazione di Newton.» (Lakatos Imre, Feyerabend K. Paul, 1995, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo, Raffaello Cortina, Milano 1995, 141)
In breve riepilogo.
2.1.01. dalla legge d’inerzia l’inizio della fisica moderna: «La legge dell’inerzia segna il primo grande progresso nella fisica; può anche dirsi il suo inizio. Essa è stata ricavata dalla considerazione di un esperimento ideale: un corpo in moto per l’eternità, libero da attrito e da ogni sollecitazione di forze esterne. Questo esempio e diversi altri ci hanno messo in grado di riconoscere tutta l'importanza dell’esperimento ideale, pura figliazione del pensiero.» (Einstein Infeld 1938, 224)
2.1.02. l’esperimento ideale segna l’inizio della fisica moderna anche perché avvia la lettura dell’esperienza a partire da concetti e permette la scoperta di leggi naturali, regolarità che restituiscono il sistema armonico e razionale dell’universo; ma la natura ideale, astratta del principio d’inerzia sembra consegnare la fisica alla studio di una situazione limite della realtà, quella relativa ai «sistemi inerziali in moto uniforme gli uni relativamente agli altri» (Einstein Infeld 1938, 219) per i quali la situazione complessiva del sistema (la sua velocità) può essere ignorata. In un’ipotetica intervista rivolta a un “fisico classico”, l’analisi di Einstein compie i seguenti passaggi: «— Che cosa è un sistema inerziale? — È un SC nel quale le leggi della meccanica sono valevoli. In tale SC, un corpo sul quale non agisce nessuna forza esterna, si muove uniformemente. Questa proprietà ci mette in grado di distinguere un sistema inerziale da ogni altro. […] — Un SC rigidamente collegato alla Terra, è forse un SC inerziale? —  No, perché le leggi della meccanica non sono rigorosamente valevoli sulla Terra, a causa della sua rotazione. Per molti problemi un SC rigidamente collegato al Sole può venir considerato come inerziale; ma, tenuto conto che anche questo astro è animato di un moto di rotazione, è evidente che neanche un SC rigidamente collegato al Sole può venir considerato come rigorosamente inerziale. — Ma che cosa è, in concreto, il vostro SC inerziale? Quale stato di movimento gli va attribuito? — È semplicemente una finzione utile, ma non ho nessuna idea come essa possa realizzarsi. […] La nostra intervista ci rivela una grave difficoltà, insita nella fisica classica. Abbiamo bensì delle leggi, ma non sappiamo a quale quadro riferirle, cosicché l’intero edificio della fisica appare fondato sulla sabbia.» (Einstein Infeld 1938, 219-220)   
2.1.03. i propositi della fisica relativistica in nome dell’oggettività, della maggior aderenza alla realtà non considerata nelle sue condizioni ideali di caso limite definite dal principio d’inerzia e andando ben oltre la situazione descritta affrontando il problema della simultaneità (relatività ristretta alla relazione tra due sistemi di coordinate in moto uniforme l’uno relativamente all’altro; nell’esempio: treno e stazione). «La teoria della relatività ha una portata che oltrepassa di molto il problema dal quale sorse. Essa elimina le difficoltà, e le contraddizioni della teoria del campo; essa formula leggi meccaniche di carattere più generale; essa sostituisce una sola legge alle due leggi di conservazione; essa sovverte il concetto classico del tempo assoluto. La sua validità non è limitata ad un ramo della fisica soltanto; essa costituisce un’armatura strutturale abbracciante tutti i fenomeni della natura.» (Einstein Infeld 1938, 208)    
Questo è l’obiettivo: una teoria della relatività generale, non limitata ai sistemi inerziali.
«Siamo noi in grado di costruire una fisica realmente relativista, valevole in tutti gli SC, una fisica cioè nella quale non vi sia più posto per il moto assoluto, ma soltanto per il moto relativo? Sì, ciò è fattibile! […] Il problema di formulare le leggi della fisica per qualsiasi SC, è stato risolto dalla teoria della relatività generale; la teoria che l’ha preceduta e che si applica soltanto ai sistemi inerziali è chiamata teoria della relatività speciale. Naturalmente le due teorie non possono contraddirsi, poiché le vecchie leggi della relatività speciale vanno incluse nelle leggi generali, valevoli per un sistema inerziale. Se tutti gli SC in moto arbitrario gli uni relativamente agli altri debbono essere ammissibili, è chiaro che lo SC inerziale, limitatamente al quale le leggi fisiche vennero inizialmente formulate, non costituirà più che un caso limite speciale. Questo è precisamente il programma propostosi dalla teoria della relatività generale.» (Einstein Infeld 1938, 222-223)
Alcuni fondamentali e strutturali passaggi per indicare la strada da intraprendere.
2.1.1. la relazione massa – energia a superare la non rilevanza attribuita dalla fisica classica a questa relazione. «aspetto ondulatorio della materia corpuscolare» (Infeld 1957, 155)
Una presentazione preliminare e complessiva sulla relazione tra massa e energia e sulla formula e=mc2. «Nel corso dell'estate 1905 Einstein fa una scoperta realmente inattesa, anche se direttamen­te legata alla sua teoria della relatività. Scrive una lettera a Conrad Habicht nella quale spiega che il suo articolo di giu­gnoha un'altra implicazione: "II principio di relatività, asso­ciato alle equazioni dell'elettromagnetismo, impone che la massa di un corpo sia misura diretta dell'energia che contiene [...]. La cosa è divertente da considerare, ma il buon Dio non starà forse ridendo e prendendomi in giro? Questo non posso proprio saperlo". Qualche settimana dopo, nel settembre 1905, Einstein invia agli Annalen der Physik un articolo intito­lato "L'inerzia di un corpo dipende dal suo contenuto di ener­gia?" Questo articolo, di sole tre pagine, contiene l'equazione E = mc2, di certo la più celebre nella storia della fisica - ma scritta con lettere diverse: il padre della relatività aveva infatti indicato con V la velocità della luce (invece di c) e con L l'e­nergia (invece di E).
In realtà, i calcoli riportati in questo articolo mostrano una sola cosa: un corpo che emette onde elettromagnetiche perde necessariamente massa. Einstein, però, tende ad attribuire a questo risultato valore universale, sostenendo che, a suo avvi­so, la massa di un corpo rappresenta una misura del suo con­tenuto energetico. Di conseguenza, se tale corpo perde ener­gia, sotto qualsiasi forma, perde anche massa.
Sotto il profilo concettuale, anche in questo caso si tratta di un risultato rivoluzionario. La massa, che fino allora misurava solo la quantità di materia contenuta all'interno di un corpo, ne misura ora il contenuto energetico. Ogni corpo dotato di massa è ugualmente dotato di una "energia di massa". L'equi­valenza tra massa ed energia, precisa Einstein, si dispiega gra­zie al "termine medio" della velocità della luce (elevata al qua­drato) che appare in questo caso come vero proprio "sintetizzatore di concetti" poiché unifica due concetti fino ad allora del tutto separati. Peraltro, all'interno di questa corrispon­denza, il suo status cambia irrimediabilmente. Anzitutto, alla velocità della luce è attribuito un valore maggiore rispetto a una velocità associata ad altri spostamenti, poiché l'equivalenza che si stabilisce tra massa ed energia esclude qualsiasi altro tipo di movimento: anche a riposo, un corpo dotato di massa contiene energia. Inoltre, la velocità della luce interviene in modo esplicito in tutti i processi fisici, anche in quelli in cui la luce non svolge alcun ruolo! Con Einstein, la velocità della lu­ce diventa una vera e propria costante universale della fisica.
Ma se il legame tra massa ed energia è così intrinseco alla materia, perché non riusciamo a percepirlo nella vita quoti­diana? Semplicemente perché esso è di dimensioni troppo ri­dotte rispetto agli ordini di grandezza con cui abbiamo fami­liarità. Persino il più piccolo grano di polvere è una prodigiosa riserva di energia, anche se non riusciamo a percepire l'ener­gia contenuta nella sua massa.
Due casi della vita quotidiana ci permettono di compren­dere come avvengano le cose da un punto di vista quantitati­vo. Una lampadina illuminata irradia luce, quindi energia, su­bendo così una perdita di massa. Ma c2, la velocità della luce al quadrato, è talmente elevata che, anche restando accesa per secoli, la lampadina perderebbe solo qualche microgrammo, ovvero ben poco rispetto alla massa iniziale. Se si prende un panetto di burro del peso di mezza libra (o qualsiasi altro og­getto di massa equivalente), la formula di Einstein annuncia freddamente che tale massa equivale a un'energia di massa di 22,5 milioni di miliardi di joule, un dato da confrontare con lo 0,125 joule rappresentato dall'energia cinetica di questo stes­so panetto che cade alla velocità di un metro al secondo. In al­tri termini, l'energia di massa di un pezzo di materia ordinaria - o, se si preferisce, il suo contenuto energetico - è talmente elevato che le variazioni di energia che gli si possono imprime­re, accelerandolo o scaldandolo, sono al confronto pressoché infinitesime.
La formula di Einstein è diventata il simbolo della fisica del XX secolo, perché dal 1905 i fisici hanno cominciato a esplora­re, e talvolta a sfruttare in modo industriale, situazioni in cui l'equazione E = mc2ha effetti tangibili - in altre parole, i casi in cui una parte importante di massa può convertirsi in ener­gia, e quelli in cui l'energia diventa materia.
Così, i fisici hanno cominciato a capire che nel bilancio energetico di qualsiasi processo fisico bisogna tener conto del fatto che ogni corpo, anche a riposo, contiene una certa ener­gia di massa. Così, in una reazione nucleare la massa generalmente non si conserva, e la perdita di massa si traduce in libe­razione di energia.
Consideriamo, per esempio, i nuclei di uranio 235 che si trovano nelle centrali nucleari e in alcune bombe atomiche. Quando vengono bersagliati da un neutrone, si agitano imme­diatamente, si deformano e si "tendono", finché trovano una forma che è nettamente più stabile: quella composta da due frammenti distinti. In altri termini, subiscono una fissione che produce due nuclei più leggeri, la somma delle cui masse è sempre inferiore alla massa di partenza. La massa mancante, che corrisponde a una perdita di energia di massa, si traduce - in virtù della formula di Einstein - in una liberazione di ener­gia che produce appunto la cosiddetta energia nucleare. Tale energia, recuperata sotto forma di calore, può venir trasformata in corrente elettrica. L'energia elettrica prodotta dalle centrali nucleari, usata per illuminare e scaldare, proviene dalla fissione a cui sono sottoposti innumerevoli nuclei di uranio 235.
Un ragionamento analogo, che tuttavia coinvolge il proces­so di fusione dei nuclei anziché quello di fissione, permette di comprendere il processo attraverso cui le stelle emanano luce. Per esempio, per la maggior parte del tempo il Sole trasforma la propria massa in energia, grazie a certe reazioni di fusione nucleare, identificate alla fine degli anni Trenta del Novecento da Hans Bethe. Al centro del Sole, non meno di 620 milioni di tonnellate di idrogeno, ogni secondo, vengono trasformati in 615 tonnellate di elio; tale differenza di massa è convertita in energia irradiata all'esterno e per questo il Sole "brilla".
Si danno ovviamente anche situazioni in cui l'energia si tra­sforma in massa, e non il contrario. Citiamo due esempi anche a questo proposito. Il primo viene dalla cinematica: si tratta, più precisamente, del legame tra velocità ed energia cinetica. Quando andiamo in macchina o viaggiamo in aereo, l'energia cinetica del veicolo che ci trasporta aumenta come il quadrato della sua velocità. Accelerare significa aumentare nel contem­po velocità ed energia cinetica. Ma nel contesto della relatività ristretta, che considera spostamenti assai più rapidi di quelli abitualmente alla nostra portata, c'è una particolare velocità che è insuperabile per la particella che si cerca di accelerare. Tale velocità non è altro che la velocità della luce nel vuoto. Questo fenomeno si produce perché, con l'aumentare della sua velocità e della sua energia, la particella oppone a ogni modificazione del suo movimento un'inerzia sempre maggio­re (precisamente uguale a E/c2). In altri termini, resiste sempre di più allo sforzo fatto per accelerarla: più va veloce, più è dif­ficile farla andare ancora più veloce. Se la sua velocità è prossi­ma a quella della luce, come accade negli acceleratori di particelle, è possibile conferirle energia cinetica senza che la velo­cità subisca un incremento di rilievo. Insomma, è come se si accelerasse "a velocità costante", anche se questa espressione può suonare strana alle nostre orecchie "newtoniane".
Il secondo esempio riguarda la dinamica degli urti violenti che possono subire le particelle, soprattutto all'interno dei co­siddetti "collisionatori" utilizzati oggi dai fisici. Quasi tutta l'energia cinetica delle particelle che entrano in collisione è convertita in materia: si trasforma in numerose altre particelle dotate di massa, generalmente con vita assai breve. A rifletter­ci bene, si produce un fenomeno che sfida il senso comune: la proprietà di un oggetto - in questo caso la velocità della particella incidente - è capace di trasformarsi in altri oggetti, nel caso in nuove particelle! È un po' come se l'altezza dellatorre Eiffel, che è solo un attributo dell'edificio, potesse trasformar­si in altri monumenti, per esempio nell'Arco di trionfo... Op­pure, è come se la velocità di un taxi, in occasione di un inci­dente, potesse cedere il posto a una bicicletta!
In altri termini, con la teoria della relatività ristretta, il tem­po e lo spazio sono diventati relativi. E con E = mc2l'Universo delle particelle si è dato un’"ontologia lassista" che i fisici non hanno ancora finito di studiare.» (Étienne Klein, 2005, 64-68)
2.1.1.1. «Un corpo in riposo possiede una massa determinata, la cosiddetta massa di riposo. La meccanica insegna che qualsiasi corpo oppone resistenza ad un mutamento del suo moto. Quanto maggiore è la massa, tanto più forte è la resistenza; od ancora: quanto minore è la massa, tanto più debole è la resistenza. Ma la teoria della relatività ci dice qualcosa di più. La resistenza che i corpi oppongono ad un mutamento è tanto più forte non soltanto quanto maggiore è la loro massa di riposo, ma altresì quanto maggiore è a la loro velocità. Corpi dotati di velocità vicine a quella della luce opporrebbero resistenze enormi alle forze esterne. Secondo la meccanica classica, la resistenza di un dato corpo è invariabile e caratterizzata unicamente dalla sua massa. Nella teoria della relatività la resistenza dipende da ambo i fattori: massa di riposo e velocità del corpo. La resistenza diventa infinitamente grande, allorché la velocità raggiunge quella della luce.  […] Mediante esperimenti assai complicati ed ingegnosi è possibile accertare l’entità della resistenza che le particelle elementari in moto, oppongono all’azione di una forza esterna. Gli esperimenti provano che la resistenza offerta dalle particelle dipende dalla velocità, come previsto dalla teoria della relatività. […] Un corpo in movimento possiede ambo le cose: massa ed energia cinetica. Esso resiste perciò alla variazione di velocità od accelerazione più fortemente del corpo in riposo. È come se l’energia cinetica del corpo in movimento accrescesse la sua resistenza. Di due corpi che possiedono la stessa massa di riposo, quello la cui energia cinetica è maggiore, oppone maggior resistenza all’azione di una forza esterna. » (Einstein Infeld 1938,204,205, 206)
2.1.1.2.«L’energia o quanto meno l’energia cinetica, resiste al moto, come le masse ponderabili. Ma è ciò forse vero per tutte le specie o forme di energia?  A questa domanda la teoria della relatività dà una risposta chiara e netta, ricavata dai suoi presupposti fondamentali: una risposta, anche questa, di carattere quantitativo. L’energia sotto tutte le sue forme si comporta come la materia; un pezzo di ferro pesa più quando è caldo di quando è freddo; la radiazione emessa dal Sole attraverso lo spazio, possiede energia e pertanto anche massa; il Sole e tutte le stelle radianti perdono massa emettendo radiazione. Questa conclusione di carattere quantitativo generale costituisce un’importante conquista della teoria della relatività e si accorda con tutti i fatti rispetto ai quali è stata messa a prova.» (Einstein Infeld 1938, 206)  
2.1.1.3. La fine di ulteriori sostanze e la nuova formula dell’universo (ammirevole e nota nella sua semplicità). «La fisica classica aveva introdotto due sostanze: materia ed energia, la prima dotata di peso, la seconda imponderabile. In fisica classica si avevano perciò due leggi di conservazione, l’una per la materia, l’altra per l’energia. […] Secondo la teoria della relatività non c’è differenza essenziale fra massa ed energia. L’energia possiede massa e la massa rappresenta energia. In luogo di due leggi di conservazione ne abbiamo una sola: la legge di conservazione della massa-energia, Nell’ulteriore sviluppo della fisica, questa veduta si è mostrata assai fortunata e feconda. Come mai il fatto che l’energia possiede massa e che la massa rappresenta energia è rimasto così a lungo allo scuro? A pag. 52 ci domandammo già una volta se un pezzo di ferro pesa più quando è rovente di quando è freddo. La risposta fu allora: no; ora invece è ! […] Nell'esempio testé citato la teoria della relatività prevede una variazione di massa talmente piccola, che non può venir accertata direttamente neanche con le bilance più sensibili. […] Un esempio chiarirà la situazione. La quantità di calore necessaria per convertire trentamila tonnellate di acqua in vapore non peserebbe più di un grammo circa! L’energia è stata considerata così a lungo imponderabile, semplicemente perché la massa che essa rappresenta è così piccola. La vecchia «energia sostanza» è la seconda vittima della teoria della relatività. La prima vittima fu il mezzo che doveva servire sulla propagazione delle onde luminose.» (Einstein Infeld 1938, 207) Questa prima vittima, che Einstein non menziona in quanto l’ha già dichiarata innominabile, è l’etere. «Con il rasoio di Occam Copernico spazzò via la tempesta degli epicicli che servivano a rabberciare il sistema tolemaico e pose il Sole al centro dell’universo allora conosciuto. Come Copernico, Einstein avrebbe usato il rasoio di Occam per spazzare le molte pretese della teoria dell’etere. E l’avrebbe fatto usando una semplice immagine.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 35)
2.1.1.4. Ma le vittime (sostanze) sul terreno sembrano tre: etere, massa, energia. La distinzione massa e energia, in particolare, rimandava nella fisica tradizionale ad una distinzione di sostanze; si tratta di ripensarle in termini di relazione. O la vittima più generale è la sostanza come concetto non ammissibile in fisica e soprattutto nella nuova fisica. La negazione delle sostanze (cioè la negazione di concetti solidificati in sostanze) mette qui capo alla legge della conservazione massa-energia e alla nuova formula dell’universo e=mc2:«la teoria della relatività afferma che energia e massa sono equivalenti» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, codiceedizioni, Torino 2014, 101) Si tratta della formula di equivalenza e intercambiabilità di massa e energia: energia = massa x (velocità della luce)2.
«Einstein poi si spinse oltre e fece il successivo, fatidico salto. Verso la fine del 1905 scrisse un articolo brevissimo, quasi una nota, che cambiò la storia del mondo. Se, all'aumentare della velocità, aumentava la distorsione dei regoli e degli orologi, allora doveva cambiare anche qualunque cosa che con quegli strumenti si potesse misurare, incluse la materia e l'energia. In effetti, la materia e l’energia potevano mutarsi l'una nell’altra. Ad esempio, Einstein riuscì a dimostrare che accrescendone la velocità di movimento, la massa di un oggetto aumentava, (La sua massa dunque sarebbe diventata infinita se avesse raggiunto la velocità della luce — cosa impossibile, a riprova della sua inarrivabilità.) Questo significava che l’energia del moto veniva trasformata in modo da aumentare la massa dell’oggetto. Dunque, la materia e l’energia sono intercambiabili. Se si calcolava con precisione quanta energia fosse stata convertita in massa, in poche righe si poteva dimostrare che E=mc2, l’equazione più celebrata di tutti i tempi. Dato che la velocità della luce è un numero eccezionalmente alto, e la sua elevazione al quadrato lo è ancor di più, questo significa che anche una piccola quantità di materia può rilasciare una quantità straordinaria di energia. Pochi cucchiaini di materia, ad esempio, possiedono l’energia di diverse bombe all'idrogeno. Una dose di materia pari alla grandezza di una casa, dunque, potrebbe spaccare in due la Terra.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 42-43) «Una piccola massa è equivalente ad una enorme quantità di energia, secondo la teoria della relatività.» (Infeld 1957, 209) 2.1.1.4.1. Dunque, quale futuro per l’energia? Richiamato il potenziale distruttivo derivante da un cammino di investimento in armi della relazione energia e massa, in una utopia tutta tecnologica osserva Leopold Infeld: «In tal modo lo sviluppo di tecniche di distruzione ha portato alla conoscenza di tecniche fondamentali per la utilizzazione pacifica della energia nucleare. Se non ci sarà una guerra atomica, guerra che minaccia la distruzione della nostra civiltà, l’uomo si troverà alle porte dell’età dell’oro. Non dipenderemo più dalle riserve di carbone, di nafta o anche di elementi rari come l’uranio. L'idrogeno è presente dappertutto: due dei suoi atomi sono presenti in ogni molecola di acqua. Il nucleo atomico costituisce ora, nelle nostre mani, un materiale che può essere trasformato a piacere. Possiamo produrre quasi un migliaio di isotopi artificiali di tutti gli elementi ed ogni mese porta con sé la scoperta di nuovi isotopi. Sappiamo come alterare i componenti del nucleo, come disintegrare un nucleo pesante ed ottenere nuclei leggeri. Forniamo a molti campi di ricerca nuovi strumenti di lavoro e, cosa ancora più importante dal punto di vista del nostro argomento, approfondiamo la nostra conoscenza delle leggi che regolano la struttura del mondo e dei fenomeni che ci circondano.» (Infeld 1957, 210)  «Una piccola massa è equivalente ad una enorme quantità di energia, secondo al teoria della relatività» (Infeld 1957, 209)
2.1.1.5. «L'inevitabile conseguenza della relazione qui discussa tra massa ed energia è una alterazione del nostro punto di vista riguardo le leggi di conservazione dell’energia e della massa. Se abbiamo a che fare con processi nei quali le variazioni di energia non sono molto grandi, la legge di conservazione della massa sarà ancora valida, così come in fisica classica. Nello stesso modo, se non abbiamo a che fare con trasformazioni di materia corpuscolare in radiazione (come avviene, ad esempio, durante la liberazione dell’energia atomica), allora la legge di conservazione della energia è valida senza riserve. Se tuttavia queste condizioni non sono soddisfatte, allora dobbiamo tener conto della equivalenza della massa e dell’energia e della relazione quantitativa, data qui sopra, tra le due grandezze, ed allora non soltanto le due leggi di conservazione dell’energia e della massa sono soddisfatte, ma esse risultano anche equivalenti. Lo sviluppo della scienza porta alla formulazione di nuove leggi. Tuttavia le leggi precedenti non sono completamente messe da parte. Esse sono valide e debbono essere soddisfatte soltanto sotto condizioni particolari, che delimitano la possibile regione di applicazione. La relazione, dedotta dalla teoria della relatività, tra massa ed energia, ha trovato la sua conferma, sperimentale non soltanto nel dominio dell’energia atomica.» (Infeld Leopold 1957, Introduzione alla fisica moderna, editori riuniti, Roma 1972, 62)
2.1.2. il continuo spazio-temporale a quattro dimensioni; un continuo quadridimensionale. «Il nostro spazio fisico possiede tre dimensioni e le posizioni vengono caratterizzate da tre numeri. L’istante in cui si verifica l’evento è il quarto numero.» «La fisica classica non conosce che il flusso di un tempo assoluto per tutti gli osservatori. […] Secondo la teoria della relatività, l’istante di tempo in cui il sassolino urta il suolo non è lo stesso per tutti gli osservatori. Anche la coordinata di tempo, e non soltanto la coordinata di spazio sarà differente in due SC diversi e la variazione della coordinata di tempo sarà notevolissima qualora la velocità relativa si avvicini a quella della luce. Pertanto non è più lecito scindere, come nella fisica classica, il continuo bidimensionale in due continui unidimensionali. Spazio e tempo non vanno considerati separatamente allorché si determinano le coordinate del tempo-spazio in un altro SC. La scissione del continuo bidimensionale in due continui unidimensionali è, dal punto di vista della teoria della relatività, un procedimento arbitrario, privo di significato oggettivo. Sarà ora agevole estendere quanto abbiamo testé esposto al caso in cui il moto non è più soltanto rettilineo. In realtà non sono solamente due, bensì quattro i numeri occorrenti per descrivere gli eventi della natura. Il nostro spazio fisico, cosi come lo concepiamo per il tramite degli oggetti e del loro moto, possiede tre dimensioni e le posizioni vengono caratterizzate da tre numeri. L’istante in cui si verifica l’evento è il quarto numero. Ad ogni evento corrispondono quattro numeri determinati ed un gruppo di quattro numeri corrisponde ad un evento determinato. Pertanto il mondo degli eventi costituisce un continuo quadridimensionale.» (Einstein Infeld 1938, 216-217)

2.2. Un triplice incontro: relatività generale, geometrie non-euclidee, esperienza.
L’osservazione è scientifica e si fa teoria fisica in quanto si affida alla matematica e alla geometria per la lettura e la costruzione dei propri dati quantitativi empirici in leggi di sistema; l’esperienza messa in risalto dalla teoria fisica della relatività generale chiede il superamento della fisica classica e contemporaneamente si esprime attraverso un legame nuovo con la geometria; una geometria che si libera da una certa sudditanza con l’esperienza visiva come accade alla geometria euclidea legata alla concezione tridimensionale dello spazio (l’unico che possiamo percepire; «noi siamo incapaci di immaginare uno spazio a quattro dimensioni» e «non riusciamo a rappresentarci uno spazio tridimensionale torto ed incurvato» Einstein Infeld 1938,323) e alla realtà dei sistemi inerziali presi in carica dalla fisica classica, per aprirsi allo spazio quadridimensionale (e a n dimensioni) e alle sue nuove forme: una geometria non-euclidea. Perentoriamente afferma Einstein: «Il nostro mondo non è euclideo» (Einstein Infeld 1938, 247). «Quindi la materia diventa un continuo geometrico incurvato, che sostituisce lo spazio euclideo. Questo è in sostanza il continuo al quale Einstein fa riferimento.» (Bellone Enrico 2012, 11) «Non sono più, allora, le traiettorie dei corpi di prova che dovranno essere determinate dalla geometria: traiettoria è un termine spaziale in senso stretto. Si tratterà di «traiettorie» nello spazio-tempo, per le quali si è introdotto il termine più appropriato di linee d'universo. Sono le linee d’universo descritte dai corpi di prova che dovranno essere le «rette» della geometria (dello spazio-tempo) modificata dalle masse. Per queste «rette» useremo il termine geodetiche.» (Bergia Silvio 1998 Spazio, tempo e gravitazione, in Bellone 2012, 75); (come nella geometria di Riemann e sempre in una definizione operativistica (in fisica) dei concetti; su una sfera la geodetica è un arco di cerchio massimo).   
2.2.01. Una introduzione rapida per le geometrie non euclidee: «Ecco una storia breve ma molto interessante. Poincaré, il più influente scienziato della sua epoca, non conosceva a quei tempi la filosofia di Bergson. Nel 1891 pubblicò un articolo sulla natura della geometria — intorno al 1830 erano state scoperte le geometrie non euclidee. Sul finire del diciottesimo secolo, Kant aveva sostenuto che nasciamo con determinati quadri concettuali e non possiamo mai demolire la prigione in cui siamo collocati. La geometria euclidea, per esempio, non è una caratteristica del mondo esterno, ma piuttosto della struttura psicologica del nostro cervello che noi semplicemente proiettiamo nel mondo. Cogliamo il mondo all’interno di questo quadro concettuale con cui siamo nati. Ne segue che, per Kant, le geometrie non euclidee sono impossibili. Eppure, queste furono scoperte indipendentemente nel 1830 da un isolato ufficiale di artiglieria ungherese di stanza in un villaggio polacco, che non leggeva Kant e non sapeva di essere così coraggioso; e da Lobacevskij, professore di matematica a Kazan, dove, credo, nel 1829 nessuno avesse mai sentito parlare di Kant. Non solo, ma nello stesso momento (come ora sappiamo dalla sua corrispondenza) [Gauss], il più importante matematico tedesco del tempo, aveva in mente una geometria non euclidea. Egli però pensava che, se l'avesse pubblicata, i kantiani gli avrebbero dato del pazzo perché ciò avrebbe significato che qualcosa non andava nel suo cervello. Le geometrie non euclidee furono discusse nel 1891 da Poincaré.
Dunque, il mondo si può “forzare” tanto in una geometria euclidea quanto in una non euclidea. Poincaré si domandò allora perché in fisica preferiamo la geometria euclidea a quelle non euclidee. La sua risposta fu che la prima è incredibilmente semplice ed economica, mentre le seconde risultano scomode alla mente umana. Le geometrie non euclidee, quindi, sarebbero concepibili in linea di principio, ma non utilizzabili di fatto. Come è noto, Einstein basò la sua teoria generale della relatività su una geometria non euclidea; ma questo accadde più tardi (1914). Ciò che per adesso ci interessa è che Poincaré sottolineo che possiamo escogitare qualunque quadro concettuale, ma alcuni sono più comodi di altri.» (Lakatos Imre, Feyerabend K. Paul, 1995, Sull’orlo della scienza. Pro e contro il metodo, Raffaello Cortina, Milano 1995, 84-85)
2.2.1. A partire da un “continuo quadridimensionale” la teoria della relatività implica un nuovo modo di definire l'osservazione e l’esperimento scientifico: se lo spazio e il tempo sono concetti relativi, ogni procedimento di misurazione risulta relativo allo stato dinamico dell’osservatore, e non può quindi non includere tra le proprie coordinate la posizione spaziale e temporale relativa del sistema di riferimento. Lo spazio concreto è dunque definito non solo dalle tre coordinate indicate dalla geometria tridimensionale di origine euclidea, ma da una nuova imprescindibile dimensione, il tempo: «ogni corpo di riferimento — spiega Einstein — ha il suo proprio tempo particolare». Spazio e tempo non si presentano né come realtà autonome, poste all’esterno del soggetto, né come principi a priori della conoscenza sensibile, ma come concetti propri di una nuova geometria operante nel contesto della teoria fisica. Einstein ipotizza così un rinnovato rapporto tra geometria e esperienza e quindi tra geometria e fisica: «La geometria — afferma — può essere  o un sistema strutturale basato su assiomi arbitrari o una teoria fisica. Nel primo caso le conclusioni della geometria sono certe, ma non ci dicono nulla circa il mondo della esperienza; nel secondo caso possono essere verificate sperimentalmente, ma sono più o meno certe come tutte le proposizioni della fisica. [...] In geometria non esiste nessuna proposizione che sia derivata dal solo ragionamento e che nello stesso tempo ci dica qualcosa circa il mondo esterno».
2.2.2. le definizione dei tratti di una geometria capace di corrispondere alla nuova fisica della relatività generale prende il via, nella presentazione di Einstein, da un invito all’immaginazione; ma si tratta di una immaginazione che si consegna tuttavia sempre alle forme della geometria e quindi alla definizione formale di quelle immagini come è proprio dello statuto della geometria.
2.2.2.1. immaginazione: 1. Einstein comincia col «descrivere un mondo nel quale abitano soltanto esseri bidimensionali» (Einstein Infeld 1938, 233) (come Abbott A. Edwin 1884 Flatlandia [Einaudi, Torino 2011]); 2. Immagina poi che quegli esseri (fantasmi) vengano trasferiti a vivere «sulla superficie di una sfera di raggio immenso» (Einstein Infeld 1938, 234), se quegli esseri sono piccoli forse non si accorgono di nulla, ma «supponiamo che con l’andar del tempo, quei fantasmi progrediscano nelle loro cognizioni teoriche e tecniche, e che inventino dei mezzi di comunicazione con i quali possano percorrere rapidamente distanze molto grandi. In tal caso essi constaterebbero che   andando sempre diritto innanzi a loro, finirebbero per tornare al loro punto di partenza.» (Einstein Infeld 1938, 234)
2.2.2.2. definizione formale: in questa consapevolezza i termini della geometria del nuovo mondo bidimensionale sferico assecondano la forma sferica dello spazio: «Ben inteso, «diritto innanzi » significa in questo caso, seguire uno dei circoli massimi della sfera.» (Einstein Infeld 1938, 234), la linea retta diventa una circonferenza, ne consegue, come accade nella definizione delle geometrie non-euclidee (come quella “ellittica”), che la somma degli angoli di un triangolo è superiore a 180 gradi… tutto ciò in funzione di una doppia coerenza: in attuazione della coerenza della razionalità geometrica già euclidea, e contemporaneamente nel rispetto dei fatti osservati.  «Essi finirebbero per comprendere che malgrado la loro incapacità di rappresentarselo, il loro mondo è bensì una superficie a due dimensioni, ma sferica. I nostri fantasmi ricorrerebbero allora a nuovi principi geometrici che, pur differendo da quelli di Euclide, fossero suscettibili di formulazione altrettanto coerente e logica, nonché confacente al mondo bidimensionale. Alla nuova generazione, che avesse acquisito le cognizioni della geometria sferica, la vecchia geometria euclidea parrebbe più complicata ed artificiosa, poiché essa non concorderebbe con i fatti osservati.» (Einstein Infeld 1938, 235)  
2.2.2.2.1. la curvatura e il suo ruolo di definizione e costruzione. Il termine curvatura indica una proprietà intrinseca della superficie, indipendente dallo spazio in cui essa è collocata, e ne segnala la capacità di conservare inalterate le proprie caratteristiche anche quando essa viene sottoposta a deformazioni. La curvatura della superficie rende astrattamente possibili, perciò, le operazioni di confronto e di trasformazione tra figure, decide della forma delle figure e, più in generale, della forma della superficie e quindi del particolare modo di essere della geometria. La geometria euclidea si presenta come la geometria delle superfici a curvatura nulla: in essa la superficie è quindi un piano, tutte le linee sono rette e si definiscono secondo le caratteristiche indicate dai postulati di Euclide, compreso il postulato delle parallele. Se immaginiamo superfici a curvatura costante, uniforme (che non varia cioè da punto a punto) possono nascere due tipi di geometria: alla curvatura costante positiva corrisponde la geometria sferica (la geometria di Riemann), alla curvatura costante negativa corrisponde la geometria iperbolica (la geometria di Lobacevskij). Se la curvatura viene considerata una caratteristica non della sola superficie (come riteneva Gauss) ma dello spazio, essa consente di creare un rapporto di parallelismo complessivo tra la geometria euclidea e quelle non euclidee e di dimostrare che queste sono necessariamente coerenti se lo è la geometria euclidea. Intuitivamente si può pensare a tale parallelismo considerando, ad esempio, la geometria euclidea come una geometria iperbolica su sfera di raggio infinito tale che se ne possa trascurare la curvatura negativa e che si organizza quindi secondo le forme tradizionali (“euclidee”) della geometria. 
2.2.2.3. alla costruzione secondo il rigore formale si affianca dunque la rispondenza della geometria alla realtà osservata (con i nuovi strumenti della relatività, del campo, continuo quadridimensionale), confermata da esperimenti: «Torniamo ora agli esseri tridimensionali del nostro mondo.   Che cosa significa 1'affermazione che il nostro spazio tridimensionale possiede carattere euclideo? Essa significa che tutte le proposizioni logicamente provate dalla geometria euclidea, possono venir confermate anche da esperienze reali. […] La necessità di fare ciò può venir illustrata con un esperimento ideale che mostra come non sia possibile fondare una fisica realmente relativistica sulla geometria euclidea. […] è indispensabile costruire la fisica sulla base di una geometria più generale di quella euclidea. […] Campo gravitazionale, geometria non euclidea, ed orologi aventi ritmi diversi sono per me fatti intimamente connessi.» (Einstein Infeld 1938,235, 236, 239)
2.2.3. il sorprendente ed evidente legame tra le riflessioni di Einstein sulle forme della geometria non euclidea e il processo storico di costruzione di geometrie non-euclidee da parte di molti studiosi. Un legame che si colloca alla radice delle nuove geometrie: le geometrie non-euclidee sono frutto di un irrisolto incontro tra immaginazione e dimostrazione nella definizione formale dei sistemi geometrici. Si può prendere come testo di riferimento l’opera di Jules-Henri Poincaré, La scienza e l’ipotesi, del 1902, in cui compie un bilancio delle proposte cui è giunto il lungo cammino di riflessione sperimentale sui problemi della geometria euclidea e sulla proposizione di geometrie non euclidee; si tratta dello studio dei modelli di geometria formulati tra il 1826 e il 1854 dai matematici N. Lobacevskij, J. Bolyai, B. Riemann. Impegnati nel tentativo di dimostrare il quinto postulato di Euclide (secondo il quale per un punto esterno a una retta passa una sola parallela alla retta data) deducendolo dai primi quattro, gli studi di questi matematici non giungono alla dimostrazione del postulato (e quindi della sua negazione), ma in compenso (e spesso procedendo per assurdo) scoprono la possibilità di costruire geometrie che non ricorrono al postulato delle parallele e tuttavia sono coerenti quanto quella euclidea. A questi tentativi (dalla lunghissima storia, forse esplicitamente a partire da Girolamo Giovanni Saccheri,1667-1733) si deve il ripensamento complessivo della natura e del metodo della geometria come scienza dello spazio (così come poi compare anche nelle riflessioni di Einstein).
2.2.3.1. Impegnati nel tentativo di ridurre al minimo il numero dei postulati non dimostrabili da cui la geometria prende avvio, gli studiosi hanno ripetutamente tentato di dimostrare il quinto postulato ricorrendo al procedimento per assurdo. L’esito di questo tentativo, benché fallimentare, ha prodotto risultati importantissimi: è stato possibile procedere alla costruzione di sistemi geometrici, coerenti e rigorosi, in contrasto con il postulato euclideo delle parallele. Per questa strada cominciano a definirsi le condizioni formali del sapere geometrico: la coerenza si sostituisce, così, all'evidenza. Le geometrie non euclidee non cercano il fondamento della propria validità nell’evidenza intuitiva degli assiomi; muovono, anzi, da postulati controintuitivi e non rappresentabili (come il concetto di spazio curvo) e abbandonano definitivamente l’intuizione spaziale che aveva avuto un ruolo determinante nello sviluppo della geometria euclidea, per adottare il criterio formale della coerenza, della non contraddittorietà degli enunciati.    
2.2.3.2. Viene posta in risalto la natura convenzionale della geometria in abbandono di affermazioni circa una geometria unica, vera e oggettiva o metafisicamente (Pitagora) o a livello trascendentale (Kant). Osserva Poincaré come a bilancio epistemologico: «Se lo spazio geometrico fosse una cornice imposta a ciascuna delle nostre rappresentazioni, considerata individualmente, sarebbe impossibile rappresentare un’immagine priva di questa cornice, e non potremmo cambiare nulla della nostra geometria. Ma non è così: la geometria non è che il riassunto delle leggi secondo le quali tali immagini si succedono. Nulla impedisce, allora, d’immaginare una serie di rappresentazioni, simili in ogni punto alle nostre rappresentazioni ordinarie, ma succedentisi in base a leggi differenti da quelle a cui siamo abituati. Si può allora concepire che degli esseri la cui educazione avvenisse in un ambiente in cui tali leggi fossero sconvolte potrebbero avere una geometria diversissima dalla nostra. Supponiamo, ad esempio, un mondo rinchiuso in una grande sfera e sottomesso alle seguenti leggi...». Ciò significa che lo spazio definito dalla geometria euclidea e considerato, sia dal comune senso di orientamento, sia da una lunga tradizione scientifica e filosofica, come lo spazio naturale, deve essere inteso semplicemente come una forma di spazio più idonea e più comoda (di altre possibili) per cogliere e organizzare i fatti del nostro mondo d’esperienza: i diversi sistemi geometrici sono dunque frutto di abitudini, hanno natura convenzionale d ambiti applicativi specifici.
2.2.3.3. Ma si tratta di una convenzionalità che non ha nulla a che vedere con l’arbitrio; è una convenzione che permette il pieno rispetto del rigore logico nella costruzione e dimostrazione della geometria, ed è una convenzione che permette di costruire mondi formali rispondenti alla esigenza di definire con la maggior fedeltà e concretezza possibile la complessità dei dati della realtà; dunque un indispensabile strumento di conoscenza e di scoperta scientifica. «Poiché sono possibili molte geometrie, siamo certi che sia la nostra quella vera?». Finché gli assiomi della geometria venivano considerati verità immediatamente evidenti, garantivano verità e oggettività all’intera geometria; l’unica condizione da rispettare era la corretta deduzione dei teoremi dai postulati di partenza. Quando si scopre che si possono costruire modelli geometrici dotati della stessa coerenza sistematica e della stessa possibilità applicativa che caratterizzava la geometria euclidea prescindendo da alcuni suoi postulati e rinunciando al criterio della loro evidenza immediata e intuitiva, nasce il problema della natura scientifica degli assiomi di partenza e dell'intero sistema costruito su di essi. Poincaré segnala come le geometrie non euclidee, decretando la fine di una geometria considerata unica e oggettiva, comportino sia l'abbandono della teoria kantiana sulla natura a priori dello spazio, sia l’impossibilità di indicare tratti oggettivi dello spazio sulla base dell’osservazione empirica. Con le geometrie non euclidee non ha dunque più senso la domanda sulla verità della geometria e dei suoi assiomi e viene meno la possibilità di affermare l’esistenza degli enti matematici come oggetti a cui gli assiomi si possano riferire. «Gli assiomi geometrici — conclude Poincaré — sono convenzioni.» Il convenzionalismo, cioè l’affermazione della libera scelta degli assiomi, viene indicato pertanto non come sintomo di crisi del sapere, ma piuttosto come fattore di chiarificazione dello statuto epistemologico del sapere stesso. Se gli assiomi sono convenzionali, infatti, il criterio della scientificità andrà ricercato nella coerenza della teoria, piuttosto che nell’evidenza intuitiva dei postulati da cui essa muove, e la libertà di costruire nuovi modelli coerenti, piuttosto che la oggettività delle proposizioni, dovrà essere riconosciuta come la principale condizione del progresso scientifico nel naturale obiettivo delle teorie: «Con l'aiuto delle teorie fisiche cerchiamo di aprirci un varco attraverso il groviglio dei fatti osservati, di ordinare e d’intendere il mondo delle nostre impressioni sensibili.» (Einstein Infeld 1938, 303)     
2.2.3.4. immaginazione, rigorosa definizione formale, scoperta, lettura e costruzione teorica di realtà sono aspetti che ricorrono nella storia della formulazione di geometrie non-euclidee, pur in un contesto che sembra riservato alla sola ragione formale geometrica e non diretto alla costruzione di una geometria per la fisica. In questi termini, ad esempio, Poincaré presenta la formazione della “geometria ellittica” di Riemann (Bernhard, Georg Friedrich Riemann 1826-1866, illustrata nel 1854 e pubblicata postuma nel 1867): «La Geometria di Riemann. Immaginiamo un mondo popolato unicamente da esseri privi di spessore e supponiamo che tali animali, «infinitamente piatti», siano tutti su uno stesso piano, e non possano uscirne. Ammettiamo ancora che questo mondo sia sufficientemente lontano dagli altri per potersi sottrarre alla loro influenza. Dal momento che ci accingiamo a tracciare tali ipotesi, non ci costa nulla dotare questi esseri di capacità di ragionamento e crederli capaci di fare geometria. Se così fosse, essi non potrebbero attribuire allo spazio che due dimensioni.  Ma supponiamo ora che tali esseri immaginari, pur restando privi di spessore, abbiano una figura sferica, non una figura piana, e siano tutti su di una stessa sfera, senza potersene allontanare. Quale geometria potrebbero allora concepire? Innanzitutto, è chiaro che non attribuiranno allo spazio che due dimensioni; l’elemento che giocherà, per loro, il ruolo della linea retta sarà costituito dal percorso più breve fra un punto e l’altro della sfera, cioè un arco di grande circonferenza, in una parola la loro geometria sarà la geometria sferica. Chiameranno spazio questa sfera da cui non possono uscire e su cui si verificano tutti i fenomeni di cui possono aver conoscenza. Il loro spazio sarà, dunque, senza limiti, poiché, su di una sfera, si può procedere senza venir mai arrestati, e, tuttavia, sarà finito; non se ne troverà mai la fine, ma si potrà farne il giro.
Ebbene, la geometria di Riemann è la geometria sferica estesa a tre dimensioni... Per costruirla, il matematico tedesco ha dovuto disfarsi non solo del postulato di Euclide, ma anche del primo assioma: attraverso due punti non può passare che una retta. Su una sfera, attraverso due punti dati, non può passare, generalmente, che un grande cerchio (il quale, come abbiamo appena visto, ricoprirebbe, per i nostri esseri immaginari, il ruolo della retta), ma c’è un’eccezione: se i due punti dati sono diametralmente opposti, potranno passare, per questi due punti, un’infinità di grandi cerchi. Allo stesso modo, nella geometria di Riemann (o almeno in una delle sue forme), attraverso due punti non passerà, generalmente, che una sola retta; ma ci sono casi eccezionali in cui, per due punti, potranno passare un’infinità di rette.
Esiste una sorta di opposizione tra la geometria di Riemann e quella di Lobacevskij.» (Jules-Henri Poincaré, 1902 La scienza e l’ipotesi, ed. Dedalo, Bari 1989, p. 64)
Eloquente, nelle stesse direzioni, la testimonianza di J. Bolyai (1802-1860) che nel 1823, riferendo di non aver raggiunto lo scopo di dimostrare il quinto postulato di Euclide (il postulato delle parallele) comunica: «scoperte così belle che ne sono rimasto abbagliato: ho creato dal nulla un nuovo universo». I risultati delle sue ricerche nella direzione di una geometria “assoluta” compaiono per la prima volta nel 1832. 
2.2.4. Quindi, conclude Einstein: «Il nostro mondo non è euclideo. La natura geometrica del nostro mondo è determinata dalle masse e dalle loro velocità. Le equazioni della gravitazione, rispondenti alla teoria della relatività generale, tendono a mettere in luce le proprietà geometriche del nostro mondo. Ammettiamo per il momento di essere riusciti ad attuare rigorosamente il programma della teoria della relatività generale. Corriamo forse il rischio di allontanarci con la speculazione, troppo lungi dalla realtà? È forse possibile gettare un ponte fra la nuova teoria e l’osservazione? Sappiamo quanto siano soddisfacenti le spiegazioni delle osservazioni astronomiche fornite dall’antica teoria. Qualsiasi speculazione va sottoposta alla prova dell’esperienza e tutte le conseguenze, per seducenti che siano, vanno ripudiate se non concordano con i fatti. La nuova teoria della gravitazione resiste forse alla prova dell’esperienza? A tale quesito può rispondersi con una sola frase: L’antica teoria è un caso limite particolare della nuova. Allorché le forze della gravitazione sono  relativamente deboli si constata che 1'antica legge di Newton costituisce una buona approssimazione delle nuove leggi della gravitazione. Tutte le osservazioni a sostegno della teoria classica, stanno anche a sostegno della teoria della relatività generale. Ritroviamo l’antica teoria dal punto di vista più elevato della nuova.» (Einstein Infeld 1938, 247)
2.2.4.1. L’incontro di matematica e fisica a distanza. Le costruzioni matematiche, fatte come esercizi astratti o per se stessi (comunque in autonomia teorica), si rivelano efficaci e indispensabili per la scoperta e la gestione scientifica di nuovi dati. Ritorna il problema di nostalgie metafisiche: ciò accade perché 1. il mondo è scritto matematicamente (Galilei), 2. la matematica è strumento scientifico unico e indispensabile (Newton)…? [sul tema le tesi di Edmund Husserl].  
«Qui c'è un processo complesso che ha comportato il trasferimento nella fisica di un corpo geometrico e matematico elaborato indipendentemente in precedenza, una elaborazione estremamente complessa e pure incredibilmente univoca, che porta a formule finali: le equazioni del campo e le equazioni del moto dei corpi di prova. Alla fine di questo complesso procedimento, lunghi calcoli espliciti consentono di prevedere che cosa dovrà accadere in certe circostanze particolari: e quanto previsto appare verificarsi puntualmente! […] Ciò deve risultare stupefacente. È quanto Einstein espresse con la frase: «La cosa più sorprendente del mondo è che esso è comprensibile». Ma, una volta espressa questa sorpresa, una mente raziocinante non si accontenta, e prova a farsi una ragione delle cose. E allora comincia col prendere atto che le teorie fisiche «sono una libera invenzione della mente umana», che «il fondamento assiomatico della fisica teorica non discende dall'esperienza e deve al contrario essere creato liberamente». Poi, però, si chiede se «sussista la speranza di trovare la strada giusta». «A questo — scrive Einstein — rispondo con sicurezza che, a mio avviso, la via giusta esiste e che possiamo trovarla. Secondo la nostra esperienza fino a oggi, abbiamo il diritto di essere convinti che la natura è la realizzazione di tutto ciò che si può immaginare di più matematicamente semplice. Sono persuaso che la costruzione puramente matematica ci permette di scoprire questi concetti che forniscono la chiave per comprendere i fenomeni naturali e i principi che li legano fra loro. I concetti matematici utilizzabili possono essere suggeriti dall’esperienza, ma mai esserne dedotti, in nessun caso. L’esperienza resta naturalmente l’unico criterio per utilizzare una costruzione matematica per la fisica; ma è nella matematica che si trova il principio veramente creatore. Da un certo punto di vista, riconosco che il pensiero puro è capace di afferrare la realtà come gli antichi pensavano.» (Bergia Silvio 1998, Spazio, tempo e gravitazione, in Bellone 2012, 86-87)   

2.3. relatività e gravitazione universale, l’universo in espansione, la teoria del “big bang” e dei buchi neri.  
Il contesto:  relatività generale e gravitazione universale, l’urgenza della loro relazione nella teoria della scienza fisica.
2.3.1. Il passaggio: «Se la relatività speciale era stata una rivoluzione, la relatività generale costituì un assoluto e totale sconvolgimento di tutta la fisica precedente. Una delle intuizioni decisive di Einstein fu che fluttuare senza peso in un punto isolato dell’universo è del tutto equivalente a cadere nel campo gravitazionale di un oggetto massivo, e questa semplice osservazione lo portò a ridefinire la gravità stessa.  Il punto essenziale, per ora, è questo: la relatività generale ci dice che massa ed energia distorcono la forma dello spazio e del tempo, incurvandoli come se appartenessero a una superficie flessibile. Ciò che chiamiamo gravità è in realtà solo il modo in cui gli oggetti si muovono in questi spazio e tempo distorti. Anche la luce, che non ha massa e possiede una velocità costante, è sottoposta ai suoi effetti, e se il cammino della luce viene alterato, significa che anche la luce "sente" la forza di questo strano fenomeno quando i suoi raggi si piegano nei pressi di oggetti massivi. La relatività di Einstein è stata una delle idee più sconvolgenti dell’epoca ed è tuttora considerata una sfida concettuale di primo livello, ma continua a fornire la migliore descrizione possibile dell’universo.» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, codiceedizioni, Torino 2014, 25-27) 
«La geometria usata da Einstein per la gravità era molto più sofisticata di qualsiasi argomento matematico mai usato dai fisici, poiché ricorreva a uno spazio-tempo curvo. L’idea fondamentale è che quando un pianeta gira attorno al Sole, non è perché è attratto da quest'ultimo, come avrebbe detto Newton, ma è perché il Sole ha curvato lo spazio-tempo, e il pianeta cerca di seguire la traiettoria che in uno spazio-tempo curvo si avvicina di più a una linea retta.» (Witten Edward, La teoria delle stringhe. La teoria del tutto, 11)   
2.3.2. Occorre inoltre conciliare o comporre il tema della gravitazione universale e della relatività universale con l’esigenza di spiegare la stabilità generale del cosmo (il suo essere “cosmo”). «Nel 1917 introdusse nelle sue equazioni quel che si potrebbe definire un “fattore di falsificazione”, la costante cosmologica. Questo fattore rappresentava un’antigravità repulsiva in grado di bilanciare la forza attrattiva della gravità. L’universo fu reso statico a comando. […] In altre parole, la costante cosmologica assegnava un’energia allo spazio vuoto. Questo elemento antigravitazionale, ora chiamato energia oscura, è l’energia del vuoto assoluto. Può separare le galassie o farle unire. Einstein scelse il valore della costante cosmologica precisamente per neutralizzare la contrazione causata dalla gravità, in modo da far divenire statico l’universo. Non ne era contento, perché la cosa puzzava di imbroglio matematico, ma non aveva scelta se voleva preservare la staticità dell’universo. (Ci sarebbero voluti altri ottant’anni prima che gli astronomi finalmente trovassero prova della costante cosmologica, che oggi è ritenuta la maggior fonte di energia dell’universo.)» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 98, 99)
2.3.3. gli esiti che le teorie, le questioni e i dubbi di Einstein rendono possibili (o indicano, mettono in moto.)
2.3.3.1. primo esito: la gravitazione universale nella tesi dell’universo in espansione.
Una presentazione comunicativa, tratta ancora da Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo. Maxwell, Schrödinger, Einstein e i paradossi del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, p. 66-68, 74-77 passim).
«L’universo in espansione  Nel 1915 Einstein pubblicò il suo lavoro più importante. Non era la famosa equazione E = mc2, e nemmeno il suo articolo sulla luce, che gli valse il premio Nobel. Si chiama Teoria della Relatività Generale, e descrive come la forza di gravità influenzi lo spazio e il tempo. A scuola si insegna la  versione della forza di gravità data da Isaac Newton: una forza invisibile che attrae i corpi tra loro. Naturalmente questo è giusto e viviamo tutta la nostra vita sotto l’influenza della forza di gravità della Terra che ci tiene ancorati alla sua superficie. La legge di gravitazione di Newton spiega anche come la Luna orbiti intorno alla Terra e come la sua attrazione gravitazionale causi le maree, e spiega anche come la Terra orbiti intorno al Sole, confermando il modello eliocentrico di Copernico del Sistema solare. Gli scienziati della NASA hanno usato proprio le leggi di gravitazione di Newton per mandare l’Apollo sulla Luna. Non c’è alcun dubbio che questa legge universale funzioni; ma non è precisissima.
La teoria della relatività generale descrive la gravità in modo radicalmente diverso e molto più accurato. Dice che la gravità non è una forza, in se stessa (come un elastico invisibile che attrae la materia) ma piuttosto una misura della forma stessa dello spazio attorno alle masse. Ora, se non avete alcuna conoscenza di fisica, queste parole vi diranno ben poco. Non preoccupatevi, quando Einstein pubblicò la sua teoria per la prima volta, si disse che c’erano forse due scienziati in tutto il mondo che la capivano. Oggi, è stata verificata e messa alla prova così rigorosamente che tutti crediamo alla sua correttezza.
Poiché il nostro universo è, in fondo, uno spazio pieno di roba, e questa roba è governata principalmente dalla gravità, Einstein e altri si resero conto che dovrebbe essere possibile usare la teoria della relatività generale per descrivere le proprietà dell’intero universo. Ma Einstein ben presto incontrò un problema molto serio. Se, in un dato istante, tutte le galassie nell’universo sono ferme le une rispetto alle altre, allora, se l’universo è finito, l’attrazione gravitazionale dovrebbe farle avvicinare tra loro, dando inizio a un gigantesco collasso. La visione generalmente accettata all’epoca era che l’universo, a livello delle galassie, e più in grande, fosse statico e immobile: l’idea di un universo dinamico, in evoluzione su scale così grandi, sembrava al contempo bizzarra e inutile. Quindi, quando le equazioni della relatività generale indicarono che l’universo dovrebbe collassare su se stesso, Einstein decise di far tornare i conti invece che re-inventare radicalmente la sua visione complessiva. Sostenne che per bilanciare la forza gravitazionale, che tende a far collassare l’universo, ci deve essere una forza uguale e contraria, chiamata «repulsione cosmica», che bilancia l’attrazione gravitazionale e mantiene le galassie alla stessa distanza in un universo stabile. Il suggerimento di Einstein non era però altro che un trucco matematico per riconciliare la sua teoria con il modello prevalente di un universo statico.
Poi arrivò una sorpresa. Nel 1922 un cosmologo russo, Aleksandr Friedmann, arrivò a una conclusione diversa. Considerò la possibilità che Einstein si fosse sbagliato e che non c'è alcuna forza di repulsione a controbilanciare la gravità e mantenere l’universo in equilibrio stabile. Friedmann si rese conto che la cosa non avrebbe necessariamente implicato il collasso dell’universo su se stesso a causa della forza di gravità. Forse, voleva dire che l’universo sta facendo esattamente il contrario: si sta espandendo. Come poteva essere? Certamente, senza una forza di repulsione cosmica, l’universo deve collassare, non espandersi! Ecco la spiegazione.
Immaginiamo che qualcosa abbia messo l’universo in moto all’inizio, provocando un’espansione, una cosa come un’esplosione iniziale. La forza gravitazionale di tutta la materia nell’universo avrebbe quindi avuto l’effetto di rallentare l’esplosione. Quindi, se non ci fosse alcuna forza di repulsione cosmica a bilanciare la forza di gravità, e se l’universo avesse iniziato a espandersi (per qualche ragione), allora in questo momento sarebbe o nel mezzo di un’espansione, o nel mezzo di una contrazione. Quello che proprio non può succedere è che sia statico, immobile tra l'espansione e il collasso, perché quest’opzione è instabile.» (Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo. p. 66-68)
«L’enigma si fece ancor più complesso negli anni successivi, mentre venivano scoperte nuove soluzioni alle equazioni di Einstein. Nel 1917, Willem de Sitter, un fisico olandese, capì che le equazioni di Einstein ammettevano una soluzione stravagante: quella di un universo svuotato di qualunque materia, eppure in espansione! Tutto ciò che serviva per spingere un universo in espansione erano la costante cosmologica e l’energia del vuoto assoluto. La notizia fu dirompente per Einstein, che, come Mach prima di lui, credeva ancora che la natura dello spazio-tempo dovesse essere determinata dal contenuto di materia dell’universo. Ecco invece un universo che si espandeva senza alcuna materia, cui era sufficiente l’energia oscura per muoversi in avanti. Gli ultimi, radicali passi furono compiuti nel 1922 da Alexander Friedmann e nel 1927 da un sacerdote belga, Georges Lemaître, i quali dimostrarono che dalle equazioni di Einstein emergeva naturalmente un universo in espansione. […]  (L’universo, lungi dall’essere una tranquilla serie di un centinaio di miliardi di stelle contenute in una singola galassia, d'un tratto comprendeva miliardi di galassie, ognuna con miliardi di stelle. Nel giro di un solo anno, l’universo letteralmente “esplose”,) Hubble scoprì che c’erano potenzialmente miliardi di altre galassie, e che la più vicina era Andromeda, a due milioni di anni luce dalla Terra. (La parola “galassia” discende dal termine greco “gálax, gálactos”,“latte”, dato che i greci pensavano che la Via Lattea fosse il latte versato dagli dèi nel cielo notturno.)  […]
Hubble calcolò sistematicamente il redshift proveniente da galassie remote e scoprì che esse si stavano allontanando dalla Terra — in altre parole, che l’universo si stava espandendo a una velocità eccezionale. […] Introdotta da Einstein per creare artificialmente un universo statico, la costante cosmologica a quel punto era superflua. L'universo era in espansione, come lui stesso aveva scoperto un decennio prima.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 99, 100,101; e cfr Witten Edward, La teoria delle stringhe, 30)
2.3.3.2. secondo esito: il “Big Bang”; gravitazione universale, universo in espansione e teoria del Big Bang. «Se l’universo si espande a una certa velocità, allora deve essere possibile invertire il procedimento e calcolare approssimativamente il momento in cui quell’espansione ha avuto origine. In altre parole, non solo l'universo ha avuto un inizio, ma si può anche calcolare la sua età. (Nel 2003, i dati del satellite hanno dimostrato che l’universo ha 13,7 miliardi di anni.) Nel 1931 Lemaître postulò un’origine specifica dell’universo, una genesi davvero incandescente. Portando le equazioni di Einstein alla loro conclusione logica, esse indicavano che l’universo aveva avuto origine con un cataclisma.
Nel 1949 il cosmologo Fred Hoyle battezzò quest’ipotesi come teoria del Big Bang durante un dibattito radiofonico alla BBC. Siccome lo scienziato patrocinava una teoria concorrente, nacque la leggenda per cui il termine Big Bang fosse stato coniato come un insulto (anche se più tardi l’interessato smentì la storia.) Comunque si sarebbe poi sottolineato che il nome è del tutto improprio. L’evento non fu affatto “big”, e non ci fu alcun “bang”. L’universo cominciò come “singolarità” infinitesimale. E non ci furono esplosioni nel senso corrente del termine, visto che fu l’espansione dello spazio stesso a dividere e allontanare le stelle.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 102-103)
2.3.3.3. terzo esito: i buchi neri; teoria del “big bang” e teoria dei buchi neri. «La teoria della relatività di Einstein non solo introduceva concetti del tutto inattesi come l’universo in espansione e il Big Bang, ma portava con sé un’altra idea che da allora ha sempre entusiasmato gli astronomi: i buchi neri. Nel 1916, appena un anno dopo aver pubblicato la sua teoria della relatività generale, Einstein fu sconcertato nel ricevere notizia che un fisico tedesco, Karl Schwarzschild, aveva risolto le sue equazioni esattamente per il caso di una singola stella puntiforme. […] Eppure ci sarebbero voluti più o meno altri tre decenni prima che venissero scoperte le stelle di neutroni e i buchi neri, quindi la maggior parte dei documenti sulle qualità sbalorditive dei buchi neri venne considerata altamente speculativa. […] I calcoli dimostravano che esso era molto al di là delle capacità sperimentali degli scienziati dell’epoca. (Ci sarebbero voluti quasi ottant’anni, dal momento in cui Einstein scoprì le onde gravitazionali nelle sue equazioni, prima che il Premio Nobel venisse assegnato al fisico che ne trovò le prime prove indirette. Le prime onde gravitazionali potranno essere rilevate direttamente forse a novant’anni dalla loro previsione. Esse potrebbero essere il mezzo ultimo con cui sondare il Big Bang stesso e scoprire la teoria del campo unificato.)» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 103,106)
La rilevanza del tema: «…sono convinto che i buchi neri abbiano un’estrema importanza. Questi oggetti sono motori gravitazionali, sono i più efficienti generatori di energia del cosmo e, proprio per questo, hanno svolto un ruolo di primo piano nel plasmare l’universo così come oggi lo vediamo. Si tratta, a mio parere, di uno degli aspetti più stravaganti e stupefacenti della natura: alcuni degli oggetti più distruttivi e inaccessibili dell’universo sono anche i più importanti.» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, VII-VIII)
2.3.3.4. quarto esito: la teoria dei quanti. La fisica dei quanti ha molti padri (Max K.E.L. Planck, Niels Bohr, Louis Victor De Broglie, Werner K. Heisenberg, Max Born, Wolfang Pauli, Erwin Schrödinger, Paul Adien Dirac) e con loro «vi è un numero infinito di teorie possibili» (Witten 2012, 25); difficile è coglierne l’omogeneità teorica, difficile ignorare la sua sorprendente produttività nel campo delle nuove tecnologie informatico/digitali (transistor, lettori CD e DVD, computer, GPS…). Viene formulata nei primi trent’anni del ‘900 (dal 1933 l’avvento del nazismo costringe quasi tutti i suoi teorici a lasciare la Germania); Einstein si confronta con queste teorie con valutazioni alterne ma guardandole sempre con interesse e sostegno.  «Iniziata negli anni trenta, un’altra rivoluzione della fisica era ormai ben avviata. Parliamo della meccanica quantistica, della fisica su scala atomica e subatomica e della duplice natura della materia, ondulatoria e particellare al tempo stesso. Se la relatività generale aveva ribaltato il nostro ben ordinato quadro della natura della realtà, la meccanica quantistica lo distorse al punto che solo poche persone al mondo, o forse nessuna, sono in grado — ieri come oggi — di comprenderlo compiutamente.»  (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, 33) «La teoria dei quanti è un grandioso edificio della cultura del nostro tempo e dà una visione coerente del mondo naturale come di un mondo fatto di particelle. A questo proposito nacque, appunto, una polemica, a volte anche aspra, tra Einstein e i fisici più legati alla meccanica dei quanti.» (Bellone 2012, 25) e al loro strano comportamento. «Per quanto affermata e ampia fosse la relatività generale, nulla preparò Einstein alla più grande campagna della sua vita: concepire, a metà degli anni Venti, una teoria del campo unificato per congiungere le leggi della fisica e, allo stesso tempo, combattere la battaglia contro il suo “demone”, la teoria dei quanti.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 107). Il confronto continuo e tormentato di Einstein con la teoria dei quanti si colloca all’interno dell’obiettivo di una teoria del campo unificato per la fisica nella sua interezza. «Ma il problema fondamentale è un altro. Manca, nell’insieme, una relazione che leghi tra loro i due grandi progressi della fisica di inizio secolo, la meccanica quantistica e la teoria della relatività di Einstein. E la nuova sfida per i fisici teorici è mettere a punto un modello che sia in grado di rispondete alle esigenze di una e dell'altra teoria: quella che oggi chiamiamo una teoria di campo quantistica relativistica.» (Cattaneo Marco, 2000, Breve storia dei quanti, in Glashow Sheldon Lee, Max Planck e la fisica dei quanti, Gruppo ed. l’Espresso, Roma, 2012, 83-84)
2.3.3.4.1. In sintesi una consapevolezza storica di contenuti e di metodo nella “storia” della scienza. «…Heisenberg sottolinea che, fino all'inizio del Novecento, i fondamenti della fisica erano costituiti dalla meccanica newtoniana e dall'elettromagnetismo che, proprio sul finire del secolo precedente, aveva trovato la sua formulazione rigorosa nelle equazioni di Maxwell. Poi, la teoria della relatività di Albert Einstein aveva mostrato che le nozioni di spazio e di tempo dovevano essere rivedute, e che la meccanica classica, in determinate condizioni, non era più sufficiente a descrivere adeguatamente la realtà fisica. Oggi è necessaria un’altra rivoluzione, continua Heisenberg, per illustrare il comportamento delle particelle elementari e per indagare il mondo microscopico dove piccole masse e piccole distanze rendono inadeguate le leggi classiche. La meccanica continua del mondo macroscopico deve essere sostituita da una meccanica quantistica, nella quale emergono discontinuità fondamentali in grandezze fisiche ordinarie, come l'energia e la quantità di moto. Le equazioni della nuova meccanica parlano chiaro: gli elettroni che compongono gli atomi non possono più essere rappresentati con i tradizionali concetti di posizione, velocità, quantità di moto. L’esempio del microscopio a raggi gamma che Heisenberg discute nel suo articolo sul principio di indeterminazione non lascia dubbi. La fondamentale natura discontinua della realtà microscopica fa sì che non si possa ricostruire precisamente la traiettoria di un elettrone, se non «a salti». Ma il principio dice di più, secondo Heisenberg. L’esistenza di coppie di osservabili fisiche per le quali non si possa misurare simultaneamente il valore con precisione assoluta «ha l'importante conseguenza che in un certo senso cessa di essere valida la legge di causalità». Nientemeno. In meccanica, il vecchio principio di causalità — in una delle sue formulazioni più convincenti, introdotta da Laplace — stabiliva che, una volta che si conoscano l’esatta posizione e la velocità di una particella in un dato istante e qualora siano note tutte le forze che agiscono su di essa, allora è possibile calcolarne la posizione e la velocità in ogni istante precedente o successivo. E questo dovrebbe valere anche per l'elettrone, per quanto piccolo. Invece il moto di un elettrone può formare soltanto una successione di punti nello spazio, e non se ne può ricostruire una traiettoria continua. «Nella formulazione rigorosa della legge causale non è la conclusione a essere sbagliata — afferma Heisenberg — bensì la premessa.» A causa dell’indeterminazione intrinseca sulla misurazione di posizione e velocità in un dato istante, le leggi della meccanica quantistica sono leggi di tipo statistico. Nella sostanza, non si può mai prevedere esattamente il risultato di una singola osservazione di un evento atomico, ma si può solo prevedere la probabilità che il risultato della misurazione sia compreso entro un certo intervallo di possibilità.»  (Cattaneo M. Breve storia dei quanti, in Glashow Sheldon Lee, Max Planck e la fisica dei quanti, Gruppo ed. l’Espresso, Roma, 2012, 72-73)
2.3.3.4.2. La svolta nella fisica o “di fronte a un nuovo doppio”: macrofisica e microfisica; le due aree sono segnata da opposte parole chiave: assoluto e determinismo (macrofisica nella fisica moderna classica, newtoniana), relatività e indeterminismo (macrofisica e microfisica nella fisica contemporanea della relatività di Einstein e della fisica dei quanti).
Osservava Newton: «Ogni ragionamento valido per il moto dei corpi macroscopici dovrebbe esserlo anche per quelli microscopici. I primi dipendono dalle grandi forze attrattive che sono proprie dei corpi di maggiori dimensioni. Quanto ai secondi, io sospetto che essi dipendano da forze di minore entità, non ancora osservate, proprie di particelle impercettibili.» (in Odifreddi Piergiorgio, 2014, Sulle spalle di un gigante. E venne un uomo chiamato Newton, Longanesi, Milano, 30).
Osserva Leopold Infeld: «La fantasia scientifica creatrice rompe con le tradizioni ed allarga l’orizzonte delle nostre conoscenze. La convinzione che una accettabile immagine del mondo microfisico deve necessariamente essere basata sulle leggi deterministiche del mondo macrofisico, così come le leggi della meccanica classica, costituisce un dannoso pregiudizio. Questo è un concetto di cui siamo debitori a Bohr. La Fisica classica contiene un certo insieme di fatti che essa in effetti spiega in modo chiaro e semplice, tuttavia le sue possibilità di spiegazione non sono illimitate. I suoi metodi falliscono nel mondo microfisico. Già nel caso della teoria cinetica dei gas abbiamo visto come, nei casi in cui abbiamo a che fare con un sistema composto di moltissimi individui, dobbiamo rinunciare alle informazioni riguardanti le variazioni nel tempo delle grandezze caratteristiche di un singolo elemento dell’insieme. Tuttavia, al posto di questa conoscenza, il metodo statistico ci permette di determinare le leggi secondo le quali variano i valori medi, cioè le medie prese su un gran numero di particelle. Le variazioni nel tempo di questi valori medi sono esattamente determinabili.» (Infeld 1957, 83)

3. Da Newton ad Einstein, da  G=   a E=mc2 alla ricerca di una teoria del campo unificato
Terza immagine: «L’immagine incompiuta. La teoria del campo unificato» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 109)]. Una doppia sfida in corso (dalla metà degli anni Venti): «L’unificazione e la sfida dei quanti.» (ivi 111) e, in generale, una ripresa complessiva del progetto scientifico unificato.  
In termini di sintesi della tappe precedenti e di riavvio della ricerca: «Con la sua opera sulla relatività speciale del 1905, Einstein ha modificato in profondità il modo in cui concepiamo l’universo. Fino a quel momento, infatti, i fisici avevano considerato lo spazio e il tempo come entità separate, mentre Einstein rivelò che erano, invece, intimamente connesse. Inoltre, comprendendo che la velocità della luce era finita e immutabile e che le leggi della fisica erano invariabili rispetto al sistema di riferimento, riuscì a riconciliare il modello che abbiamo della natura con ciò che vedevamo attorno a noi. Il "prezzo concettuale" da pagare per questi risultati era che lo spazio e il tempo dovevano essere variabili e inseparabili. Insieme, costituivano qualcosa di nuovo che divenne noto come spazio-tempo. Ne deriva una gran quantità di effetti fisici basati sull’intrinseca limitazione alle misure e alle interazioni, causata dal fatto che la luce ha una velocità finita. Un oggetto che ci passa accanto muovendosi a una velocità costante e molto elevata appare più corto nella direzione del moto, e sembra anche avere una maggiore inerzia. Se trasporta un orologio, vediamo le sue lancette muoversi più lentamente. Eventi che a un osservatore appaiono simultanei possono non esserlo per un altro che lo sta superando. Sulla scia di una visione del mondo così profondamente nuova, non c’è da stupirsi che una delle maggiori preoccupazioni di Einstein fosse di riallacciare tutti i fili rimasti in sospeso, in particolare quelli che permettevano alla relatività di applicarsi a qualunque situazione in natura.
In particolare, era preoccupato per la gravità. Secondo Newton la forza di gravità accelerava gli oggetti, ma quella forza dipendeva dalla distanza tra gli oggetti e nel nuovo spazio-tempo relativistico di Einstein la distanza era una quantità flessibile. Un immaginario astronauta che viaggiasse velocemente verso un pianeta misurerebbe una distanza più breve tra la capsula spaziale e il mondo in avvicinamento, rispetto alla misura fatta da un osservatore immobile al suo fianco. I due avrebbero quindi stimato una diversa attrazione gravitazionale sull’astronauta, e questo non era possibile, perché avrebbe violato l’asserzione relativistica che le leggi della fisica restano uguali ovunque. Questo fatto sconcertava profondamente Einstein. Come poteva la natura scegliere la giusta distanza o il giusto sistema di riferimento per far si che tutto andasse a posto? Einstein sapeva che al vecchio quadro della gravità mancava qualcosa, la sua capacità d’intuizione gli diceva che la relatività doveva in qualche modo essere valida anche in questo caso e nessun osservatore dovesse essere "speciale".» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, 76-77)
3.1. il progetto per una teoria del campo unificato si fonda su questioni di principio (i principi di metodo come guida)
3.1.1. Il principio della simmetria e l’urgenza dell’unificazione.
«Con il tempo, comunque, cominciò ad apprezzare appieno la forza del lavoro di Minkowski e le sue profonde implicazioni filosofiche. Minkowski aveva dimostrato che era possibile unificare due concetti in apparenza diversi usando il potere della simmetria. Lo spazio e il tempo ora potevano essere visti come stati differenti dello stesso oggetto. Analogamente, l’energia e la materia, come l’elettricità e il magnetismo, potevano essere posti in relazione per mezzo della quarta dimensione. L’unificazione attraverso la simmetria divenne uno dei principi guida di Einstein per il resto della sua vita. […] Quando un fisico parla di “bellezza ed eleganza” nella sua materia, quel che intende dire davvero è che la simmetria consente di unificare un ampio numero di fenomeni e concetti diversi in forma molto compatta. Più un’equazione è bella, maggiore è la simmetria che possiede, e più numerosi sono i fenomeni che può spiegare nel minor spazio possibile. […] Così il potere della simmetria ci consente di unificare dei pezzi disparati in un tutto armonioso e integrale. Le rotazioni di un fiocco di neve, ad esempio, ci consentono di vedere l’unità che esiste fra ogni punto sul fiocco. Le rotazioni nello spazio quadridimensionale unificano i concetti di spazio e tempo, mutando l’uno nell’altro mano a mano che si aumenta la velocità. Questo concetto bello ed elegante, per cui la simmetria unisce entità apparentemente dissimili in un tutto gradevole e armonico, guidò Einstein per i cinquant’anni successivi.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 50-51)
3.1.2. Il principio della simmetria, il progetto di unificazione e la necessità di un’immagine-progetto. «Mentre contemplava l’universo, tutto ciò che vedeva gli diceva che l’unificazione era il più grande tema della natura, che Dio non poteva aver concepito un universo con la gravità, l’elettricità e il magnetismo come entità separate. Quel che gli mancava, come sapeva, era il principio guida, un’immagine fisica che illuminasse la strada per la teoria del campo unificato. Non ne apparve alcuna.
Per la relatività ristretta, l’immagine era un sedicenne che correva dietro un raggio di luce. Per la relatività generale, era un uomo che dondola su una sedia sul limite della caduta, o delle biglie lanciate in uno spazio curvo. Eppure, per la teoria del campo unificato non disponeva di un modello equivalente. […] Nonostante fosse notoriamente il problema più complesso di tutta la fisica, la ricerca della teoria del campo unificato era anche il più affascinante, e conquistò legioni di fisici.  […] Uno dopo l’altro, angosciosamente, Einstein studiò questi spazi stravaganti (nelle sue ricerche contemplò gli spazi complessi, gli spazi con “torsioni”, gli “spazi ritorti”, gli “spazi antisimmetrici”, ecc.), ma si perse, perché gli mancava un principio guida, o un’immagine fisica, che lo guidasse nel groviglio della matematica.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 152, 153,178)
3.1.3. La rilevanza del compito. Quasi a rimarcare la rilevanza del progetto, vista la sua intenzione globale, visto il mutamento complessivo di impostazione e di prospettiva che esso comporta in rapporto alla fisica tradizionale, considerati i nuovi concetti che devono essere introdotti e il modo con cui essi riscrivono i termini e le leggi della precedente fisica, in questi passaggi Einstein ritorna più volte sul ruolo impegnativo della scienza e sulle ragioni della sua evoluzione storica e sulle drastiche inversioni alle quali è sottoposta se vuole restare fedele al compito di osservare e parlare della realtà. «La scienza ci costringe a creare nuove idee, nuove  teorie il cui primo obbiettivo è quello di abbattere, il muro di contraddizioni che spesso blocca la via del progresso. Tutte le idee scientifiche fondamentali sono sorte dai drammatici conflitti tra la realtà ed i nostri tentativi per intenderla.» (Einstein Infeld 1938, 274) E ancora: «È la dura necessità e non propensione alla speculazione, né ricerca della novità che ci obbliga a modificare i vecchi criteri classici. Abbiamo illustrato la difficoltà di applicare tali criteri con un solo esempio, quello dei fenomeni di diffrazione; ma potremmo citarne molti altri ed altrettanto convincenti. Mutamenti d’opinione ci vengono continuamente imposti dai nostri tentativi per comprendere la realtà, ed è soltanto il futuro che potrà decidere se abbiamo imboccato l’unica possibile via di uscita o se non avremmo potuto trarci d’impaccio con una soluzione migliore.» (Einstein Infeld 1938, 294).
«La teoria di Newton si basa sulla scoperta di una formula matematica che descrive ciò che si osserva in natura, cioè il modo in cui gli oggetti si attraggono in funzione della loro massa e della loro distanza. Einstein scoprì che questa formula non è sbagliata, solo approssimata, e che esiste un modo più profondo e più corretto per descrivere la gravità in termini di curvatura dello spazio e del tempo, e, ahinoi, per mezzo di una matematica molto più complicata.» (Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo. Maxwell, Schrödinger, Einstein e i paradossi del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 90) Einstein « postulò che lo spazio-tempo stesso fosse flessibile: una massa come quella della Terra incurva lo spazio-tempo intorno a sé e verso di sé» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, 80)
«…un’altra visione: per illustrare l’idea che la gravità trae origine dalla curvatura dello spazio e del tempo, Einstein immaginò i pianeti come biglie che rotolano su una superficie curva intorno a un centro costituito dal Sole. Sostituendo le forze di Newton con la curvatura di una superficie liscia, Einstein dipinse un quadro della gravità del tutto inedito e rivoluzionario; in questa nuova ottica le forze studiate da Newton erano solo un’illusione generata dalla curvatura stessa dello spazio. Le conseguenze di questa semplice immagine avrebbero finito per condurci fino ai buchi neri, al Big Bang e infine alla sorte ultima dell’universo.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, XI)
In conclusione: «In altri termini, per risolvere il suo problema, Einstein decise che le maree gravitazionali e la curvatura dello spazio-tempo non sono che due diverse descrizioni della stessa cosa: ciò che tutti hanno sempre chiamato gravità non è che il modo in cui gli oggetti si muovono nello spazio-tempo distorto. Tuttavia, benché avesse effettivamente trovato una soluzione concettuale per i incorporare la gravità nella relatività, doveva ancora sviluppare una cornice matematica per descrivere che cosa fosse una teoria generale della relatività. Questa cornice doveva mettere in relazione diretta la curvatura dello spazio-tempo distorto e la massa che causava la distorsione. Si trattava di un’impresa immane che richiese a Einstein tutte le sue energie.» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, 80)
Un esempio dell’incontro operativo tra teoria della gravità e concetti della relatività riguardanti lo spazio e la sua curvatura tratto dalle tesi dell’astrofisica: «…gli ammassi galattici sono le cattedrali dell’universo, immensi sistemi che possono contenere centinaia o anche migliaia di galassie. Gli ammassi infatti sono i più grandi oggetti del cosmo, enormi conglomerati di materiali alle intersezioni di una trama cosmica di materia. In quanto tali, rappresentano anche ambienti pressoché chiusi, biosfere astrofisiche in cui i fenomeni fisici sono catturati e trattenuti. Sono gravitazionalmente legati in una distorsione spazio-temporale con una massa pari a un milione di miliardi di soli, costituita da materia oscura, gas e stelle. Come conseguenza, le fughe di materiali sono praticamente escluse.» (Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, 144) 

3.2. Gli strumenti messi in campo e gli ambiti di osservazione della fisica relativistica.
3.2.1. il concetto di campo. In parallelo con il fallimento del modello meccanicistico e della teoria corpuscolare, quando si rivela impossibile l’estensione generalizzata di quel modello, si impone e risulta eloquente il concetto di campo, come processo di lettura, di comprensione e di unificazione. «Confrontiamo attentamente i nostri due ultimi disegni. Il primo ci mostra il campo magnetico di una corrente circolante in un solenoide; nel secondo vediamo il campo di una sbarretta magnetica. Prescindiamo dalle sorgenti, cioè tanto dal solenoide quanto dal magnete ed osserviamo solamente i due campi esterni. Noteremo subito che questi presentano caratteri identici; in ambo i casi le linee di forza vanno da un’estremità all’altra del solenoide o del magnete. La rappresentazione del campo porta il suo primo frutto! Sarebbe infatti assai difficile riconoscere una così pronunciata similarità fra la corrente circolante in un solenoide ed un magnete lineare, ove non ci venisse rivelata dalla nostra costruzione del campo. […] Siamo ormai autorizzati a tener il campo in molto maggior conto di quanto potevamo supporre da prima. Vediamo infatti che soltanto le proprietà del campo appaiono essenziali nella descrizione dei fenomeni; la diversità delle sorgenti non conta. Il concetto di campo dimostra la propria importanza, anche conducendo a nuovi fatti sperimentali.  Il campo è dunque un concetto d’indiscutibile utilità. Da principio esso apparve come qualcosa che conveniva inserire fra la sua sorgente e l’ago magnetico, per facilitare la descrizione delle forze agenti. Poi poté considerarsi come un vero e proprio intermediario od agente della corrente, per mezzo del quale questa esplica la propria azione. Ma ora l’agente funge anche da interprete, col tradurre le leggi in un linguaggio semplice, chiaro e suggestivo.» (Einstein Infeld 1938, 142, 143)  «Usato da principio come un utile modello soltanto, il campo è andato vieppiù assumendo aspetto reale. Ci ha aiutato a capire i fatti già noti e ce ne ha additato dei nuovi. Attribuire energia al campo, significa fare un ulteriore passo  innanzi lungo la via che ci ha portati a dare sempre maggior consistenza al concetto di campo ed a lasciare ognor più in disparte il concetto di sostanza, così essenziale per il punto di vista meccanicistico.» (Einstein Infeld 1938, 152) «L’accettazione del nuovo concetto si affermò progressivamente, e finalmente il campo lasciò in ombra la sostanza. Ci si accorse allora che qualcosa di molto importante  era avvenuto in fisica. Erasi creata una nuova realtà, un nuovo concetto che non trovava posto nello schema meccanicistico. Lentamente e non senza lotta, il concetto di campo finì per occupare una posizione direttiva in fisica e ne costituisce tuttora uno dei concetti basilari. Per il fisico moderno, il campo elettromagnetico è altrettanto reale, quanto la sedia su cui egli siede.» (Einstein Infeld 1938, 161) 
«Abbiamo visto come e perché l’interpretazione meccanicistica sia fallita. Era impossibile spiegare tutti i fenomeni ammettendo che forze semplici agissero fra particelle inalterabili. Il primo tentativo di superare il criterio meccanicistico, introducendo i concetti di campo, si mostrò assai fertile, specie nell’àmbito dei fenomeni elettromagnetici. […] … la teoria della relatività generale formulò le leggi gravitazionali, che sono anch’esse leggi strutturali, descriventi il campo gravitazionale fra particelle materiali. » (Einstein Infeld 1938, 251)  «I due ingombranti fantasmi, lo spazio assoluto ed il sistema inerziale, scompaiono. L’equivalenza fra massa pesante e massa inerte non è più trascurata. Non è più necessario fare supposizioni di sorta, circa le forze di gravitazione e la loro dipendenza dalla distanza. Le nuove equazioni della gravitazione ricevono la forma di leggi strutturali, la forma cioè richiesta per tutte le leggi fisiche, dopo le grandi conquiste della teoria del campo. Talune nuove deduzioni, non ricavabili dalla legge newtoniana, possono trarsi dalle nuove leggi gravitazionali. Una di tali deduzioni, della quale abbiamo già parlato è l’incurvamento dei raggi luminosi in un campo gravitazionale.» (Einstein Infeld 1938, 248). Il dato precedente: «Per spiegare le misteriose forze dell'elettricità e del magnetismo, James Clerk Maxwell, fisico scozzese attivo presso l’Università di Cambridge intorno al 1860, elaborò una teoria della luce che non si fondava sulle forze newtoniane, ma sul concetto inedito detto dei campi, secondo Einstein «il più profondo e proficuo che la fisica abbia sperimentato dai tempi di Newton».» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 9) 
3.2.1.1. la relazione tra i concetti di campo e materia. «La teoria della relatività ci insegna infatti che la materia rappresenta grandi riserve di energia e che l’energia rappresenta materia. Non possiamo dunque procedere ad una distinzione qualitativa fra materia e campo, in quanto la distinzione fra massa ed energia non è di ordine qualitativo. Di gran lunga la maggior parte dell’energia è concentrata nella materia; tuttavia il campo circondante la particella rappresenta anch’esso dell’energia, sebbene in misura incomparabilmente inferiore. Potremmo, perciò, dire: si ha materia ove la concentrazione dell’energia è grande; si ha campo ove la concentrazione dell’energia è debole. Ma se così è, allora la differenza fra materia e campo appare d'ordine quantitativo, anziché qualitativo. Non ha senso l’attribuire alla materia ed al campo qualità nettamente diverse. Non possiamo figurarci una superficie ben delimitata, che separi distintamente campo e materia.» (Einstein Infeld 1938, 252)
3.2.1.1.1. e l’applicazione del concetto di onde alla materia: “onde di materia”: «Nella sua conferenza del 1909 Einstein aveva dimostrato che la luce aveva natura duale, potendo avere allo stesso tempo proprietà particellari e ondulatorie. Nonostante fosse eretica, l’idea era del tutto avallata dalle prove sperimentali. Ispirato dal programma di dualità avviato da Einstein, un giovane specializzando, il principe LouisVictor de Broglie, nel 1923 ipotizzò che anche la materia stessa potesse avere sia proprietà di particella sia di onda. Era un concetto azzardato e rivoluzionario, visto che era un pregiudizio ben radicato che la materia consistesse di particelle. Stimolato dal lavoro di Einstein sulla dualità, e introducendo il concetto delle proprietà ondulatorie della materia, de Broglie riuscì a spiegare alcuni dei misteri dell’atomo.  Ad Einstein piacque l’audacia delle “onde della materia” di de Broglie e promosse la sua teoria. (Per quell’idea in embrione de Broglie avrebbe infine vinto il Premio Nobel nel 1929.)  … Erwin Schrödinger, fu ispirato a scrivere l’equazione per queste onde della materia.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 120)
Come nella duale interpretazione della luce e dell’energia in generale (onda e corpuscolo), prende corpo il dualismo onda-particella e si propongono i concetti e i cammini che riguardano l’onda di materia; ogni tentativo di misurazione comporta la considerazione simultanea sia della natura corpuscolare che di quella ondulatoria della materia. «Per le sue speculazioni, Schrödinger prende spunto dal dualismo onda-particella ipotizzato due anni prima dal giovanissimo studente francese Louis Victor de Broglie, che aveva presentato alla Sorbona una tesi di dottorato …  Qui, partendo dalla considerazione che la luce manifesta la duplice natura di onda e di particella, come ormai dimostrato dagli esperimenti di Compton, de Broglie suppone che in certe condizioni le particelle di materia, e in particolare gli elettroni, possano manifestare una natura ondulatoria.  […] Schrödinger perviene a un’equazione differenziale del second’ordine alle derivate parziali dalla quale si possono ricavare gli autovalori dell’energia E associata all’onda di materia, ovvero i possibili modi di vibrazione dell’onda elettronica… […] Solo in un secondo articolo Schrödinger ricava l'equazione più generale per la propagazione delle onde di materia che da lui prende il nome, ma già è chiaro che la nuova meccanica ondulatoria è uno strumento potentissimo. Gli elettroni di Schrödinger sono diventati onde di materia, e quelli che la meccanica delle matrici dipinge come salti quantici discontinui fra stati stazionari diventano, nella meccanica ondulatoria, transizioni continue da un modo di vibrazione a un altro.»  (Cattaneo M. Breve storia dei quanti, in Glashow Sheldon Lee, Max Planck e la fisica dei quanti, Gruppo ed. l’Espresso, Roma, 2012, 64-65)
3.2.1.2. la relazione tra i concetti di massa e energia: in particolare l’equivalenza fra massa e energia e l’ipotesi di una fisica del puro campo. «È certamente impossibile edificare la fisica sulla base del solo concetto di materia. D’altro lato, una volta riconosciuta l’equivalenza fra massa ed energia la divisione fra materia e campo appare artificiosa e non chiaramente definita. Non potremmo allora rinunciare al concetto di materia ed edificare una fisica del puro campo? Ciò che fa impressione sui nostri sensi come materia è in realtà una grande concentrazione di energia, in uno spazio relativamente limitato. Sembra quindi lecito di assimilare la materia a regioni spaziali, nelle quali il campo è estremamente forte. In tal guisa potremmo crearci un nuovo sfondo filosofico, il cui obiettivo finale sarebbe la spiegazione di tutti gli eventi naturali, mediante le leggi strutturali, ovunque e sempre valide. Da tale punto di vista, un sasso lanciato in aria è un campo variabile nel  quale gli stati di maggior intensità del campo attraversano lo spazio con la velocità del sasso stesso. Nella nostra nuova fisica non vi sarebbe allora più posto per il binomio campo e materia; non rimarrebbe che una sola realtà: il campo. Questa nuova veduta è suggerita dalle grandi conquiste della fisica del campo, nonché dai successi registrati, sia con la formulazione delle leggi dell’elettricità, del magnetismo e della gravitazione sotto forma di leggi strutturali, sia con il riconoscimento dell’equivalenza fra massa ed energia. Per tutte queste considerazioni, come abbiamo già detto, il nostro problema finale sembra dover consistere nella modificazione delle leggi del campo, in guisa tale che non cessino di essere valide nelle regioni di grandissima concentrazione dell’energia. Ma finora non siamo ancor riusciti a realizzare questo programma in forma convincente e coerente. Il decidere se ciò sia o no possibile appartiene al futuro. Per ora, in tutte le nostre concezioni teoriche, dobbiamo continuare ad ammettere due realtà: campo e materia.» (Einstein Infeld 1938, 258)
Ma, in sintesi e conclusione di direzione: «l’intimo legame fra massa ed energia. La massa è energia, e l’energia possiede massa. Le due leggi della conservazione della massa e dell’energia vengono fuse dalla teoria della relatività in una sola: la legge di conservazione della massa-energia.» (Einstein Infeld 1938, 256) 
3.2.1.3. Potrebbe essere utile veder qui il ritorno del confronto storico Descartes – Leibniz sul tema di porre al centro della fisica due principi quasi opposti: estensione (Descartes), forza (Leibniz); per entrambi è in atto l’uso del concetto di sostanza, ma in Leibniz la natura è essenzialmente forza, la sostanza è forza (si potrebbe dire energia) e l’estensione (si potrebbe dire massa) ne è una sua espressione.     

3.2.2. le idee della teoria dei quanti («…le due grandi rivoluzioni gemelle del XX secolo, la teoria dei quanti e la teoria della relatività. Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 12), un problema di misurazione, e la sfida del probabilismo e dell’indeterminismo.
«Frattanto altri quesiti fondamentali attendono ancora una risposta. Sappiamo ormai che tutta la materia è costituita soltanto da alcune poche specie di particelle. Ma in qual modo concorrono queste particelle elementari alla costruzione delle varie forme che assume la materia? Quali sono le interazioni fra queste particelle ed il campo? Nel cercare una risposta a questi problemi, nuove idee sono state introdotte nella fisica, le idee della teoria dei quanti.» (Einstein Infeld 1938, 254)  Einstein ricostruisce la lunga divergenza storica tra una doppia e inconciliabile impostazione generale nella costruzione delle teorie fisiche: continuità e discontinuità. Introduce così la teoria quantistica in fisica come prospettiva generale: «È dunque lecito asserire: talune quantità possono variare in modo continuo ed altre variano soltanto in modo discontinuo o saltuario, a piccolissime porzioncelle non ulteriormente riducibili. Queste porzioncelle indivisibili chiamansi quanti elementari della specifica quantità cui si riferiscono. […] … come, aumentando la precisione delle misure, si possa giungere a verificare il carattere discontinuo di una quantità precedentemente ritenuta continua.  Se dovessimo caratterizzare in una frase l’idea fondamentale della teoria quantistica diremmo: deve ammettersi che talune quantità fisiche, finora ritenute come continue, si compongono di quanti elementari.» (Einstein Infeld 1938, 260) L’analisi presenta i «quanti elementari di materia ed elettricità» (quanti elementari di elettricità negativa che vennero denominati elettroni); i «quanti di luce», «quanti di energia» e in questi due ultimi contesti affronta il problema della relazione tra quanto e onda in relazione ad una teoria quantistica della luce e nell’analisi degli spettri luminosi; le onde della materia e i principi per una meccanica ondulatoria (una meccanica quantistica ondulatoria); è evidente l’ampiezza dei settori dell’indagine fisica ad essere caratterizzati dalla teoria dei quanti nella direzione di un cammino di unificazione della fisica.
3.2.2.1. Una presentazione preliminare. «La meccanica quantistica è la teoria che descrive il funzionamento del mondo microscopico, e con questo non si intende il mondo che si vede al microscopio, ma piuttosto il mondo infinitamente più piccolo degli atomi, delle molecole e delle particelle subatomiche che li costituiscono (elettroni, protoni e neutroni). In verità, la meccanica quantistica è il corpo di idee matematiche più importante, potente e fondamentale di tutta la scienza. È notevole per due ragioni apparentemente contraddittorie (quasi un paradosso!): da una parte, è così fondamentale per la nostra comprensione del funzionamento del mondo che la ritroviamo alla base di gran parte dei progressi tecnologici dell’ultimo mezzo secolo, e d’altra parte, nessuno sembra essere in grado di capire cosa significhi.
Devo chiarire in partenza che la teoria della meccanica quantistica non è in se stessa bizzarra o illogica; al contrario, è una costruzione logica elegante e precisa che descrive la natura in maniera ineccepibile. Senza di essa non saremmo in grado di capire le basi della chimica moderna, o dell’elettronica, o della scienza dei materiali; non avremmo inventato il microprocessore di silicio o il laser; non ci sarebbero i televisori, i calcolatori, i forni a microonde, i lettori CD e DVD o i telefoni cellulari, per non parlare di tutto il resto che diamo per scontato nella nostra era tecnologica.» (Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo, 48-49)
«… la quantistica, l’altra grande teoria del XX secolo, una delle tesi fisiche di maggior successo di tutti i tempi. Essa ha avuto esiti senza precedenti nella spiegazione del misterioso mondo dell’atomo, e ha scatenato la potenza dei laser, dell’elettronica moderna, dei computer e delle nanotecnologie. D’altro canto, però, la teoria dei quanti ha fondamenta di sabbia. Nel mondo atomico gli elettroni sembrano manifestarsi in due posti allo stesso tempo, saltare tra le orbite senza un motivo apparente, e sparire nello spettrale limbo sospeso fra esistenza e inesistenza. Come Einstein notò già nel 1912: «Più la teoria dei quanti ha successo, più sembra stupida.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 118)
3.2.2.2. l’intervento di Einstein: «Einstein cercò di spiegare l’effetto fotoelettrico usando la nuova teoria dei quanti elaborata da Max Planck a Berlino nel 1900. Planck diede origine a una delle più profonde fratture rispetto alla fisica classica, supponendo che l’energia non ricorresse in quantità omogenea, come un liquido, ma che si presentasse in pacchetti definiti e separati detti quanti. L’energia di ciascun quanto era proporzionale alla sua frequenza. La costante di proporzionalità era una nuova costante di natura, oggi nota come costante di Planck. Uno dei motivi per cui il mondo dell’atomo e del quanto sembra bizzarro è il fatto che la costante di Planck equivale a un numero molto piccolo. Einstein pensò che se l’energia si presentava in pacchetti singoli, anche la luce stessa doveva essere quantizzata. (Nel 1926 il chimico Gilbert Lewis ribattezzò fotone, particella di luce, il pacchetto dei “quanti di luce" di Einstein). Einstein pensò che se l'energia del fotone era proporzionale alla sua frequenza, allora anche l’energia dell’elettrone emesso avrebbe dovuto essere proporzionale alla sua frequenza, contrariamente ai dettami della fisica classica. (È divertente notare che nella popolare serie Star Trek l’equipaggio dell’Enterprise spara “siluri fotonici” contro i suoi nemici. In realtà, il modo più semplice di lanciare siluri fotonici è accendere una torcia.)» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 45)
3.2.2.3. Esiti in termini di problema di misurazione e una nuova metodologia: probabilismo e indeterminazione. «La meccanica quantistica fornisce previsioni e spiegazioni del comportamento dei mattoni fondamentali della materia con un’accuratezza straordinaria. Ci ha portato a una precisissima e quasi completa conoscenza di come si comporta il mondo subatomico, e come la miriade di particelle interagiscono e si collegano tra loro a formare il mondo che vediamo attorno a noi, e del quale siamo parte. In fin dei conti, siamo solo un insieme di miliardi di miliardi di atomi che obbediscono alle leggi della meccanica quantistica, organizzati in maniera altamente complessa.
Queste strane regole matematiche furono scoperte negli anni venti del secolo scorso. Risultano essere molto diverse dalle regole che governano il mondo di tutti i giorni, quello a noi familiare, quello degli oggetti che ci circondano. Verso la fine del libro esamineremo quanto siano strane queste regole, con il paradosso del gatto di Schrödinger. Per ora, voglio concentrarmi su una caratteristica particolarmente strana del mondo quantistico, e cioè il fatto che un atomo si comporta diversamente se lasciato in pace rispetto a quando viene «osservato», e con questo termine si intende che viene monitorato in qualche modo: pungolato, spinto, spostato, elettrizzato. Ancora non si comprende appieno questa caratteristica del mondo quantistico, in parte perché solo ora si comincia a capire cosa esattamente significhi «osservare», in questo contesto. Il problema è noto col nome di «problema della misura», ed è un’area di ricerca molto attiva in questo periodo.
Il mondo quantistico è governato dalla probabilità.  È un luogo dove niente è come sembra. Se lasciato a se stesso, un atomo radioattivo emetterà una particella, ma è impossibile prevedere quando questo succederà. Il meglio che possiamo fare è calcolare un numero chiamato «tempo di dimezzamento», cioè il tempo necessario affinché la metà di un gran numero di atomi radioattivi identici «decadano» radioattivamente. Più il numero è grande, più la stima tempo di dimezzamento è precisa, ma non potremo mai prevedere in anticipo quale atomo del gruppo sarà il prossimo a decadere. È molto simile alla probabilità legata al lancio di una moneta: sappiamo che se lanciamo una moneta molte volte, circa metà delle volte uscirà testa e l’altra metà croce. Più volte la lanciamo, più la previsione statistica sarà accurata, ma non potremo mai prevedere il risultato del prossimo lancio. Il mondo quantistico è di natura probabilistica non perché la meccanica quantistica sia una teoria incompleta o approssimata, ma piuttosto perché l’atomo stesso non «sa» quando accadrà questo evento casuale. Questo è un esempio di ciò che viene chiamato «indeterminazione» o «imprevedibilità».» (Al-Khalili Jim, 2012, La fisica del diavolo, 49-50)
«Per sapere dove si trovava un elettrone, bisognava guardarlo. Questo significava dirigervi sopra un raggio di luce. Ma i fotoni del raggio di luce avrebbero così finito per collidere con l’elettrone, rendendo incerta la sua posizione. In altre parole, l’atto dell’osservazione metteva necessariamente in gioco una misura d’incertezza. Riformulò la questione in un nuovo principio fisico, il principio di indeterminazione, secondo il quale non si possono determinare simultaneamente la posizione e la velocità di una particella. (Più precisamente, il prodotto dell’indeterminazione nella posizione e nella quantità di moto deve essere maggiore o uguale alla costante di Planck, diviso per 4 ). Non si trattava semplicemente di una conseguenza secondaria della grossolanità dei nostri strumenti; era una fondamentale legge di natura. Nemmeno Dio avrebbe potuto conoscere sia la posizione precisa sia la quantità di moto di un elettrone.  In quel decisivo momento la teoria dei quanti si tuffò in acque profonde e del tutto inesplorate. Fino ad allora si poteva argomentare che i fenomeni quantistici erano statistici e rappresentavano il moto medio di migliaia di miliardi di elettroni. A quel punto, però, nemmeno il moto di un singolo elettrone poteva essere determinato in modo conclusivo.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 124-125)
Dunque: «Onde di probabilità»; un metodo statistico. La conseguenza introdotta in fisica dai nuovi concetti e, infine, dalla teoria quantistica emerge in una rivoluzione di metodo destinata a cambiare nella scienza la natura della teoria, la capacità di determinazione (o indeterminazione) della legge, il modo di realizzare gli esperimenti. Nel capitolo, di fatto conclusivo, intitolato «onde di probabilità», Einstein parte dalla evidente constatazione che la teoria quantistica porta l’attenzione della fisica su una moltitudine di “enti” o particelle o onde; non è possibile che essa si concentri né che possa cogliere un singolo elettrone (corpuscolo o onda).
3.2.2.4. Si impone quindi il metodo statistico. «Ci vediamo così nella necessità di ricorrere al metodo statistico. […] Dobbiamo insomma disinteressarci degli individui, cercando invece di determinare valori medi caratterizzanti l'intero aggregato. Ragionamenti di carattere statistico hanno senso soltanto allorché il sistema considerato si compone di un grande numero d’individui. […] Le leggi della fisica quantistica sono di carattere statistico. […] La fisica quantistica prescinde dunque da leggi individuali riferibili a particelle elementari e formula direttamente leggi statistiche governanti gli aggregati. Non è possibile basarsi sulla fisica quantistica per descrivere posizioni e velocità di una particella elementare o per predirne il percorso, come avviene in fisica classica.»  (Einstein Infeld 1938, 291, 292, 293-4).
3.2.2.5. nel metodo statistico un ulteriore e nuovo criterio per la distinzione tra fisica classica e nuove direzioni della fisica (fisica quantistica).  «Il primo passo che ci allontanò dalla fisica classica, lo facemmo rinunciando alle descrizioni di casi individuali quali eventi oggettivi nello spazio e nel tempo. Fummo cosi costretti ad applicare il metodo statistico offertoci dalle onde di probabilità. Ma, una volta presa questa via ci vediamo obbligati ad andare ancora più oltre con le astrazioni. Dobbiamo cioè ricorrere ad onde di probabilità pluridimensionali ogni qualvolta più particelle fanno oggetto del problema da risolvere. Chiamiamo, per essere brevi, classica tutta la fisica, eccetto quella dei quanti. Queste due fisiche differiscono radicalmente l’una dall’altra. La fisica classica mira alla rappresentazione di oggetti esistenti nello spazio ed alla formulazione delle leggi governanti le vicende degli oggetti stessi nel tempo. Ma di fronte ai fenomeni palesanti la duplice natura corpuscolare ed ondulatoria della materia e della radiazione, e di fronte al carattere manifestamente statistico di eventi elementari, quali la disintegrazione radioattiva, la diffrazione, l’emissione di linee spettrali e molti altri ancora, ci è giuocoforza rinunciare ai suddetti criteri. La fisica quantistica non mira alla rappresentazione di singoli oggetti nello spazio e delle rispettive variazioni nel tempo. Nella fisica quantistica non è lecito asserire: «Questo oggetto è fatto così e così e possiede tali e tali proprietà». Le affermazioni lecite sono d'altra indole e cioè: «Ci sono queste e queste probabilità che il singolo oggetto sia fatto così e così e che possegga tali e tali proprietà». Le leggi della fisica quantistica non governano le vicende nel tempo di oggetti singoli, esse governano le variazioni della probabilità nel tempo. Soltanto questa fondamentale innovazione introdotta nella fisica dalla teoria dei quanti, rese possibile un’adeguata spiegazione del carattere manifestamente discontinuo e statistico degli eventi nel dominio dei fenomeni con i quali i quanti elementari di materia e di radiazione palesano la propria esistenza.» (Einstein Infeld 1938, 298)
«La fisica dei quanti formula leggi che governano non già gl’individui, ma le moltitudini. Non sono più le proprietà, ma le probabilità che fanno oggetto della descrizione. Le leggi formulate non ci dischiudono più il futuro dei sistemi presi in esame. Sono leggi che governano le variazioni delle probabilità, nel tempo; leggi relative a grandi aggregati d’individui.» (Einstein Infeld 1938,304)   
Ed è a questo proposito che Einstein di nuovo torna sulla natura e sul destino della scienza: «La scienza è un libro nel quale la parola «fine» non è, né sarà mai scritta. Ogni importante progresso fa nascere nuovi quesiti. Alla lunga ogni sviluppo conduce a nuove e più profonde difficoltà.» (Einstein Infeld 1938, 299)
«Per secoli i fisici si sono meravigliati di fronte alla precisione delle leggi di Newton, per il fatto che fossero in grado, in via di principio, di predire la posizione dei corpi celesti a milioni di anni nel futuro. In effetti, fino a quel tempo, tutta la scienza si era fondata sul determinismo; uno scienziato, dunque, avrebbe potuto predire l’esito di un esperimento se solo gli fossero state note la posizione e la velocità di tutte le particelle. I seguaci di Newton riassunsero questa convinzione paragonando l’universo a un gigantesco orologio. Dio lo ha caricato al principio del tempo e da allora ticchetta regolarmente secondo le leggi sul moto descritte da Newton, grazie alle quali, se si conoscessero la posizione e la velocità di ogni atomo dell’universo, si potrebbe calcolare la sua evoluzione successiva con infinita precisione. Il principio di indeterminazione però negava tutto ciò, affermando che è impossibile predire lo stato futuro dell'universo. Dato un atomo di uranio, ad esempio, non si potrà mai calcolare quando decadrà, ma solo la probabilità con cui esso lo farà. Di fatto, nemmeno Dio o un'altra divinità avrebbero potuto sapere quando sarebbe decaduto l’atomo di uranio.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 125)  Einstein «non si rassegnerà mai all’indeterminismo implicito nella meccanica dei quanti» (Cattaneo M. Breve storia dei quanti,  Glashow 2012, 82)
3.2.2.6. Una direzione indicata, non percorsa, mancata, forse impossibile (un sogno cosmologico antico): relatività e quantistica «in una teoria “unitaria” perfettamente coerente». «… La chiave in grado di aprire le porte della coscienza, secondo Penrose, poteva celarsi nello iato fra le due principali teorie della fisica moderna: la meccanica quantistica, che descrive i fenomeni elettromagnetici e le forze nucleari, e la relatività generale, ovvero la teoria di Einstein della gravitazione. Molti fisici, a cominciare dallo stesso Einstein, avevano tentato senza successo di fondere la meccanica quantistica e la relatività generale in una teoria «unitaria» perfettamente coerente. […] Tuttavia, se si fosse rivelata per qualche verso corretta, avrebbe rappresentato una conquista spettacolare: una teoria che, in un colpo solo, poteva unificare la fisica e risolvere uno dei problemi filosofici più spinosi, quello del rapporto fra mente e materia.» (Horgan John 1996 La fine della scienza, Adelphi, Milano 1998, 13-14)
3.2.2.7. Ma non è possibile affrontare in modo dualistico e magari ideologico le situazioni di metodo fisico indicate con i termini relatività e determinismo, come se fossimo di fronte al grande tema ideologico della verità e alle opposte tradizioni del relativismo (fino allo scetticismo) e del determinismo (fino al dogmatismo). Relativismo e determinismo vanno ripresi e considerati nel contesto scientifico, lontano da preoccupazioni e ansie di carattere ideologico o addirittura etico-teologico.
Nella teoria della relatività e nella teoria dei quanti si conservano e si confermano sia il relativismo che il determinismo: vi sono leggi che in uno spazio-tempo determinato e limitato sono necessarie e deterministiche, nell’universo e nel subatomico si impone il confronto con effetti indeterministici; una doppia fisica operativa. (Un confronto anche filosofico, citando Edmund Husserl)
«Il relativismo non elimina il determinismo ontologico perché non si sostituisce ad esso. La convinzione husserliana che con lo storicismo le idee «perderebbero …  la loro validità assoluta», quindi anche «il principio di contraddizione» che «muterebbe nel suo contrario», non ha senso, perché , lo storicismo è una filosofia temporale, fenomenica, che non intacca lo spazio ontologico, tanto più se, come Husserl fa, si separano le due realtà, ontologica e fenomenica (nel suo caso a vantaggio della prima, anche se questo riguardo a quanto stiamo dicendo è indifferente). Oggi per esempio consideriamo valide delle leggi sulla terra, ossia in uno spazio-tempo limitato (nel luogo), e non più nell’universo, ossia nell’eterna spazialità (un non-luogo). L’impercettibilità degli effetti indeterministici nella quotidianità permette l’assunzione di leggi differenti tra le due realtà e ciò, per di più, non impedisce la possibilità di un determinismo nascosto o di una teoria del tutto, data l’astrattezza delle leggi ontologiche. La teoria dei quanti e la teoria della relatività sono prodotti gnoseologici, ossia accertati, sono conoscenze certe, non necessariamente valide, non ontologiche.
Inoltre, che per la ragione i vissuti psicologici siano pure illusioni non significa che essi non possano essere comunque veri (l’illusione è vissuta), se si pensasse ciò sarebbe per via della condizione postcartesiana che nega, forse forzatamente, il sento "dunque sono" a vantaggio del pensiero razionale. Ma la più materialistica visione del "sento dunque sono" ridona spessore alle filosofia naturalistiche. In ogni caso l’assurdo non è l’opposto del pensiero razionale, come ritiene invece Šestòv, ma la sua prima causa, come dimostrano le antinomie.» (Bertoldo Roberto, 2013 Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia, Mimesis, Milano, 31)
Di conseguenza, un’urgenza e una sfida: «Occorre invece restare nel crepaccio, non per vile compromesso, ma per riconoscere e accettare il valore di una conoscenza limitata, in progress, perennemente ipotetica e nutrita di sensazioni, certezze, esperienze, modelli logici, ecc. Il superamento della scissione sarà opera della mente, irrobustita dalle conoscenze scientifiche ed estesa dalle intuizioni che ne deriveranno.» (Bertoldo 2013 Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia, 31)
«Verso la fine degli anni Venti i rami dominanti della fisica erano due: la relatività e la teoria dei quanti. La somma totale delle conoscenze umane sull’universo fisico era racchiusa in queste due teorie. Se la relatività forniva una teoria per ciò che è molto grande, il Big Bang, i buchi neri, la quantistica si dedicava invece a ciò che è molto piccolo, il bizzarro mondo dell’atomo. Nonostante la teoria dei quanti si basasse su idee contrarie all’intuizione e al buon senso, nessuno avrebbe potuto mettere in discussione i suoi sconcertanti successi sperimentali, che fruttarono numerosi Premi Nobel. Einstein era un fisico troppo esperto per ignorare i grandi passi avanti che pressoché ogni giorno venivano fatti dalla quantistica, e non ne discuteva il successo sperimentale. Né fu mai sfiorato dall’idea di ostacolarne lo sviluppo, come avrebbe potuto fare un fisico di calibro inferiore. (Nel 1929 addirittura raccomandò che Schrödinger e Heisenberg condividessero il Premio Nobel.) La meccanica quantistica era la «teoria fisica di maggior successo del periodo», avrebbe ammesso. Cambiò invece strategia. Non attaccò più la teoria dicendo che era sbagliata, ma cercò di assorbirla nella teoria del campo unificato. Quando l’esercito di critici schierati con Bohr lo accusò di ignorare il mondo dei quanti, replicò che il suo vero scopo era di portata cosmica: ricondurre la quantistica alla sua nuova teoria. Einstein usò un’analogia tratta dal suo stesso lavoro. La relatività non provava che la teoria newtoniana fosse del tutto sbagliata; dimostrava solo che era incompleta, che poteva essere inclusa in una teoria più ampia. La meccanica newtoniana continua dunque a essere valida nel suo particolare ambito: il regno delle velocità contenute e degli oggetti grandi. Analogamente, Einstein credeva che le bizzarre supposizioni della teoria dei quanti — come i gatti vivi e morti allo stesso tempo — si potessero spiegare nell’ambito di una teoria più alta. […] Il suo obiettivo era trovare l’immagine che avrebbe rivelato la teoria del campo unificato in tutto il suo splendore, ma un problema cruciale fu che al suo tempo non si sapeva ancora abbastanza delle proprietà della forza nucleare. Einstein stava lavorando decenni prima che i dati degli acceleratori di particelle chiarissero la natura della materia subatomica. Il risultato fu che l’immagine non apparì mai.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 133, 135)

3.2.3. di nuovo e con maggior vigore, le geometrie pluridimensionali.
Vi è una evidente connessione tra la teoria del campo unificato e la concezione dello spazio pluridimensionale, non solo a quattro, ma a cinque e a enne dimensioni. Per gestire il progetto scientifico ispirato ad una teoria unificata della fisica o teoria del campo unificato è necessario fare ricorso a modelli spaziali geometrici a enne dimensioni, ben oltre quindi la tridimensionalità della geometria euclidea connessa o in sintonia con il fatto percettivo umano; occorre non lasciare lo spazio alla sola sensibilità, ma occorre avvertirlo e gestirlo (pitagoricamente) come costruzione ideale della mente; non si può abbandonare lo spazio alla sola sensibilità, potremmo trovarci nella situazione in cui si trovano gli esseri bidimensionali di Flatlandia come descritti da Abbott A. Edwin 1884 Flatlandia (Einaudi, Torino 2011), dispongono solo di una geometria bidimensionale per un mondo bidimensionale.
3.2.3.1. «Ciò che realmente sconvolse Einstein fu una dissertazione che vide nel 1921, scritta da un ignoto matematico, Theodr Kaluza, dell’Università di Königsberg. Ad Einstein, che aveva anticipato il concetto di quarta dimensione, Kaluza suggerì di aggiungere una dimensione ulteriore alle sue, equazioni. Egli cominciò riformulando la teoria della relatività generale di Einstein in cinque dimensioni (quattro dimensioni spaziali e una temporale). Questa modifica non gli costò alcuna fatica, dal momento che le equazioni di Einstein potevano facilmente riformularsi in qualunque dimensione. Poi, in poche righe, Kaluza dimostrò che, tenendo la quinta dimensione separata dalle altre quattro, le equazioni di Einstein emergevano insieme a quelle di Maxwell! In altre parole, le equazioni di Maxwell, l’orrenda serie di otto equazioni differenziali studiate a memoria da ogni ingegnere e fisico, si possono ridurre a onde che viaggiano nella quinta dimensione. Insomma: se la relatività veniva estesa a cinque dimensioni, la teoria di Maxwell risultava già contenuta in quella di Einstein. Quest’ultimo fu sorpreso dalla pura audacia e bellezza del lavoro di Kaluza. […] Pensiamo ad esempio ai pesci che vivono in un laghetto poco profondo, nuotando appena sotto le ninfee: i pesci potrebbero concludere che il loro universo è bidimensionale. Possono muoversi in avanti e indietro, a destra e a sinistra, ma il concetto di “in su”, verso la terza dimensione, gli sarebbe alieno. Se il loro universo fosse bidimensionale, come potrebbero prendere coscienza di una misteriosa terza dimensione? Immaginiamo che un giorno piova. Piccole ondulazioni della terza dimensione si muovono lungo la superficie del laghetto, e sono chiaramente visibili ai pesci. Vedendo queste increspature muoversi in superficie, i pesci potrebbero pensare che esista una forza misteriosa capace di illuminare il loro universo. In quest’immagine, i pesci siamo noi. Badiamo agli affari nostri in tre dimensioni spaziali, inconsapevoli del fatto che potrebbero esserci altre dimensioni al di là dei nostri sensi. L’unico contatto diretto che potremmo avere con una quinta dimensione mai vista è la luce, che ora si considera risulti dalle increspature che percorrono la quinta dimensione.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 114-115)
3.2.3.2. Un successo postumo delle idee sulla pluridimensionalità. «Dopo altri vent’anni [alla metà degli anni Settanta], la teoria di Kaluza e Klein sarebbe risorta in forma di nuova teoria, la teoria della corda, che ora viene considerata la prima candidata al raggiungimento della teoria del campo unificato.) […] In effetti, su sollecitazione di Einstein molti matematici cominciarono a sondare le geometrie “post-riemanniane", o teoria delle connessioni, per aiutarlo a esplorare nuovi possibili universi. La conseguenza fu l’elaborazione di nuove geometrie che prevedevano la “torsione dello spazio”. (Questi spazi astratti non sarebbero stati applicati alla fisica per altri settant’anni, fino all’avvento della teoria della supercorda.)» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 117) 

3.2.4. il principio della simmetria, le geometrie pluridimensionali e la tesi di universi paralleli e dei viaggi nel tempo.
3.2.4.1. il principio della simmetria, l’urgenza di spiegare la stabilità del cosmo unendo le forze gravitazionali con l’universo in espansione spingono alla lettura dell’“universo” come “multiverso”, alla precisazione della sua formula matematica di maggior successo per l’introduzione del concetto di antimateria. «Un giovane ed esuberante fisico quantistico, Paul Adrien Maurice Dirac…. Indagando l’energia di questi elettroni, scoprì che Einstein aveva trascurato una soluzione delle sue stesse equazioni. Di solito, quando prendiamo la radice quadrata di un numero, introduciamo soluzioni sia positive sia negative. Ad esempio, la radice quadrata di 4 può essere ±2. Siccome Einstein aveva ignorato una delle radici quadrate delle sue equazioni, la famosa E=mc2 non era del tutto corretta. L'equazione corretta era E=±mc2. Questo ulteriore segno negativo, sostenne Dirac, rendeva possibile una sorta di universo speculare, in cui le particelle potevano esistere nella nuova forma di antimateria. (Stranamente, pochi anni prima del 1925, lo stesso Einstein aveva considerato l’idea dell’antimateria: dimostrò infatti che invertendo il segno della carica dell’elettrone in un’equazione relativistica, si ottiene l’identica equazione laddove si inverta anche l’orientamento dello spazio. Provò che per ogni particella di una determinata massa deve esistere una particella con carica opposta ma massa identica. La teoria della relatività non ci diede solo la quarta dimensione, ma anche un mondo parallelo di antimateria. Einstein, comunque, che non era tipo da cavillare sulle priorità, benevolmente non sfidò mai Dirac.)» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 121-122)
«Invece di ridurre il paesaggio a un singolo vuoto privilegiato, nel 2000 abbiamo proposto un quadro molto diverso, basato su due idee principali. La prima è che il mondo non deve necessariamente avere una sola configurazione delle dimensioni più piccole, perché un raro processo quantistico permette a queste ultime di «saltare» da una configurazione a un’altra. La seconda è che la relatività generale di Einstein, che fa parte della teoria delle stringhe, implica che l’universo può accrescersi così rapidamente che configurazioni differenti saranno in grado di esistere fianco a fianco in differenti sottouniversi, ciascuno abbastanza grande da non essere consapevole dell'esistenza degli altri. In questo modo viene a cadere il mistero del perché il nostro particolare vuoto dovrebbe essere il solo a esistere.» (Witten 2012 La teoria delle stringhe, 45) 
3.2.4.2. universi paralleli (il cosmo: le teorie riguardanti universi paralleli e le teorie del multiverso vs universo). «…diamo un’occhiata a una delle idee più bizzarre e interessanti emerse dalla fisica teorica nell’ultimo mezzo secolo: la teoria degli universi paralleli. Nella sua formulazione originale fu inventata per spiegare alcune delle implicazioni e delle osservazioni più strane del mondo quantistico, in cui gli atomi possono trovarsi in più di un posto allo stesso tempo e si comportano come microscopiche particelle o come onde, secondo come decidiamo di studiarli, e dove due particelle sembrano riuscire a comunicare istantaneamente tra loro, anche se sono lontanissime. Questi fenomeni possono sembrare paradossi in se stessi, e ne parleremo nel nono capitolo, quando arriveremo al gatto di Schrödinger. Ma ora, la cosa interessante di questa teoria degli universi paralleli è la sua rilevanza nel caso dei viaggi nel tempo.
3.2.4.2.1. Nella sua formulazione più antica, l’idea degli universi paralleli prevedeva che, ogniqualvolta una particella può scegliere tra due o più opzioni (secondo la meccanica quantistica), l’intero universo si moltiplica in un numero di realtà parallele uguale al numero di opzioni della particella. Secondo questa visione, ci sono infiniti universi, più o meno diversi da quello in cui siamo noi a seconda di quanto tempo fa si sono divisi; ognuno di questi universi è reale quanto il nostro. Sembra un’idea balzana, a prima vista, ma quando la mettete vicino ad alcune implicazioni della fisica quantistica non sembra poi così incredibile.
Per diversi decenni l’interpretazione degli universi paralleli rimase una curiosità della fisica, appannaggio più della fantascienza che della scienza. A oggi, non si è trovata alcuna prova sperimentale dell’esistenza di questi universi e non c'è modo di contattarli, anche se esistono. Sembra impossibile che ci sia abbastanza spazio per tutti questi altri mondi e dimensioni. Dopo tutto, il nostro universo potrebbe essere esso stesso infinito. Dove starebbero gli altri? Il modo di figurarseli è come universi-blocco sovrapposti. Condividono tutti lo stesso asse temporale, ma ognuno ha le sue dimensioni spaziali, coesistenti le une sulle altre ma senza interazioni a livello quantistico.» (Al-Khalili 2012, 162-163)
3.2.4.3. la macchina del tempo. «Malgrado i progressi nella teoria del campo unificato fossero lenti e sofferti, molte altre importanti scoperte tenevano impegnato Einstein. Una delle più singolari era la macchina del tempo. Per Newton il tempo era come una freccia. Una volta scoccata, tracciava infallibilmente una linea retta, senza mai deviare dalla sua traiettoria. Un secondo sulla Terra equivaleva a un secondo nello spazio. Il tempo era assoluto e scorreva uniformemente nell'intero universo. Gli eventi potevano aver luogo simultaneamente in tutto il cosmo. Einstein introdusse però il concetto di tempo relativo, così che un secondo sulla Terra non corrispondeva a un secondo sulla Luna. Il tempo era come il Mississipi, serpeggiava fra i pianeti e le stelle, rallentando quando passava accanto ai corpi celesti. La domanda che a quel punto sollevava il matematico Kurt Gödel era: il fiume del tempo può formare dei mulinelli e girare su se stesso? O può biforcarsi in due corsi, creando un universo parallelo? Einstein si vide costretto a confrontarsi con questo interrogativo nel 1949, quando Gödel, suo collega, e probabilmente il più grande logico matematico del secolo, dimostrò che le equazioni di Einstein ammettevano i viaggi nel tempo. Gödel partì da un universo riempito di un gas e in rotazione. Se qualcuno fosse decollato su una navicella spaziale e avesse fatto il giro dell’intero universo, allora sarebbe potuto tornare sulla Terra ancor prima di partire! In altre parole, i viaggi nel tempo sarebbero stati un fenomeno naturale nell’universo di Gödel, dove compiendo un viaggio cosmico sarebbe stato normale tornare indietro nel tempo.  […] Dopo molte considerazioni, infine Einstein scartò la soluzione di Gödel sottolineando che non corrispondeva ai dati basati sull'osservazione: l’universo era in espansione, non in rotazione, quindi i viaggi nel tempo, almeno per il presente, potevano essere esclusi. Ma questo lasciava aperta la possibilità che se l’universo avesse ruotato invece di espandersi, allora i viaggi nel tempo sarebbero tornati all’ordine del giorno. Ci sarebbero voluti comunque altri cinque decenni prima che il concetto di viaggio nel tempo fosse ripreso in una più ampia indagine sul campo.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 153-155)
3.2.4.4. I concetti della fisica relativistica trovano ulteriore definizione e nuove sfide nelle ipotesi di viaggi nel tempo: nel futuro e nel passato. Si tratta di «esperimenti teorici» la cui funzione è fondamentale per la scoperta e la definizione di leggi fisiche (la nota valeva fin dagli esperimenti della fisica moderna, in particolare di Galilei: «Quando i fisici si trovano di fronte a particolari difficoltà nel verificare le previsioni delle loro teorie, a volte ricorrono agli «esperimenti teorici»; scenari immaginari idealizzati in cui non si viola alcuna legge fisica, ma troppo estremi e ipotetici per essere realizzati praticamente in un laboratorio.» Al-Khalili 2012,160).
3.2.4.4.1. il multiverso e i viaggi nel tempo del multiverso: «Più recentemente, l'idea di universi paralleli che si diramano l’uno dall’altro è stata sostituita da una teoria più sofisticata, chiamata il «multiverso quantistico». Secondo questa idea, l’universo non si suddivide in copie di se stesso; esiste già un numero infinito di universi paralleli coesistenti e sovrapposti, ognuno reale quanto gli altri. Improvvisamente, il nostro universo-blocco è molto affollato. Ma ci sono notevoli vantaggi in questa idea rispetto all’universo-blocco singolo, nel quale c’è un solo futuro, fisso e statico. Ora, tutti i possibili futuri sono di nuovo possibili e possiamo rivendicare il libero arbitrio. Le nostre scelte ci conducono su sentieri attraverso tutti i possibili spazi-tempo ed è la selezione di percorsi fatta da noi che alla fine definisce il nostro universo. La selezione infinita di possibili futuri di fronte a noi rappresenta l’infinita totalità di universi coesistenti nel multiverso. Improvvisamente i viaggi nel tempo diventano possibili, perché il nostro spazio-tempo contiene solo uno degli infiniti possibili futuri e un numero infinito di passati. […] Non abbiamo violato alcuna legge fisica, naturalmente, ma idee come il multiverso e i cunicoli spaziotemporali rimangono fuori dalla scienza convenzionale: è divertente considerarli, ma sono impossibili da verificare... per ora, comunque.» (Al-Khalili 2012, 163-164, 167).
3.2.4.4.2.  La componente etiche di simili viaggi: la possibilità di interferire con il corso del tempo intervenendo sul passato e sul futuro; e la discussione tra determinismo fisico universale (compreso l’agire dell’uomo in quanto totalmente parte della realtà fisiche anche nei suoi meccanismi di pensiero e azione) e libero arbitrio etico. Questioni di antropologia etica che, in fisica, chiamano in causa una riflessione sul tempo e sull’universo (il cosmo) di nuova e radicale impostazione.
«Nell’evidenziare la possibilità di conoscere il futuro, abbiamo aperto un vaso di Pandora sulle questioni dell’universo deterministico, della nostra libertà di agire e del futuro preordinato e fissato. La scienza ha qualcosa da dire su tutti questi temi. … Il nostro destino potrà anche essere definito in un universo deterministico, ma è completamente imprevedibile.» (Al-Khalili 2012, 174, 178)
3.2.4.4.3.  Il tempo: le teorie riguardanti la contemporaneità, parallela, delle tre dimensioni temporali.  «Per visualizzare meglio i cammini spaziotemporali, introdurremo il concetto universo-blocco, che è una semplice e profonda filosofia che immagina lo spazio e il tempo in modo unificato. […] L’alternativa è scartare del tutto il concetto di «presente», così che il passato, il presente e il futuro coesistano, e tutti gli eventi già accaduti o che devono ancora accadere, si trovino gli uni accanto agli altri nell’universo-blocco. In questa immagine, non solo il futuro è predeterminato, ma esiste già, ed è fisso e inalterabile tanto quanto il passato. […] La coesistenza di tutto il tempo nell’universo-blocco rende l’idea di viaggiare nel tempo molto più plausibile. Se riusciamo a viaggiare indietro nel tempo in un dato istante, allora per le persone coinvolte arriveremo nel loro istante presente, il loro «ora», dal futuro. […] Quindi, sia il nostro futuro che il nostro passato (in realtà, tutto il tempo) devono esistere insieme, e sono altrettanto reali. Questa è la lezione che ci insegna il modello dell’universo-blocco.» (Al-Khalili 2012, 156,158,159)
3.2.4.4.4. la macchina del tempo e i viaggi tra i mondi/universi paralleli; una metafora che aiuta per la tesi degli universi paralleli: «Girando una manopola riusciamo a sintonizzarci in sequenza su molte stazioni radio. Ogni frequenza è decoerente dalle altre, così che non ci siano interferenze fra le stazioni. La nostra stanza si riempie simultaneamente dei segnali di tutte le stazioni radio, ognuna delle quali porta con sé un intero mondo di informazioni, ma essi non interagiscono gli uni con gli altri. È la nostra radio a sintonizzarsi solo su una stazione per volta.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 162)
3.2.4.5. una storia nota, il viaggio di due gemelli: si tratta di un esperimento ideale costruito in forma di paradosso: “paradosso dei gemelli” (o) “paradosso degli orologi”:
3.2.4.5.1. confronto tra ipotetici orologi nell’universo in difficile sincronia o simultaneità, anche per l’effetto prodotto dai campi di gravità («La gravità della Terra ottiene l’effetto di far scorrere il tempo più lentamente che nello spazio vuoto, lontano dall’attrazione gravitazionale di stelle e pianeti.» (Al-Khalili 2012, 136).  
3.2.4.5.2. confronto di corrispondenza e di sviluppo del tempo, dell’età, tra due gemelli, l’uno sulla terra e l’altro in viaggio nell’universo con velocità che si avvicinano a quella della luce. Se i due gemelli sono, per ipotesi Alice e Bob, e: «Mentre Bob rimane sulla Terra, Alice pilota l'astronave attraverso la galassia, in un viaggio che dura esattamente un anno. Al suo ritorno sulla Terra, Alice è un anno più vecchia (dal punto di vista biologico): secondo la sua percezione è passato un anno, e tutti gli orologi e gli altri dispositivi per misurare il tempo a bordo dell'astronave sono in accordo col fatto che è passato un anno da quando hanno lasciato la Terra. Bob, nel frattempo, ha seguito il suo viaggio da casa ed è testimone di uno degli strani effetti che si manifestano come risultato del viaggio a velocità così elevate, previsto dalla teoria della relatività: secondo lui, il tempo sull’astronave scorre molto più lentamente che sulla Terra. Se guardasse gli eventi all’interno dell’astronave attraverso una telecamera, vedrebbe tutto come alla moviola: gli orologi ticchettano più lentamente, Alice si muove e parla più lentamente e così via. Quindi un viaggio che ad Alice sembra durare un anno, in realtà sulla Terra dura dieci anni, secondo Bob. E in effetti Alice torna sulla Terra e scopre che il suo gemello è invecchiato dieci anni, mentre lei è solo un anno più vecchia di prima.» (Al-Khalili 2012,126-127)
3.2.4.6. il viaggio di Einstein: «Quell’anno [1955], mentre la salute lo abbandonava, disse: «È di cattivo gusto prolungare la vita artificialmente. Ho fatto la mia parte; è ora di andare. Lo farò con eleganza.» Einstein morì, infine, il 18 aprile 1955, per la rottura di un aneurisma. Dopo la sua morte, il vignettista Herblock pubblicò una toccante vignetta sul "Washington Post": rappresentava la Terra, vista dallo spazio cosmico, con un grande cartello che diceva «Albert Einstein è vissuto qui». Quella notte, diffusa dalle agenzie giornalistiche, la fotografia della scrivania di Einstein fece il giro del mondo. Su di essa giaceva il manoscritto della sua più grande teoria incompiuta, la teoria del campo unificato.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 156)

 

4. direzioni contemporanee di un lascito scientifico di ricerca: «Il lascito profetico di Einstein» 
4.1. nella scienza la teoria è a sostegno dell’esperienza e si traduce in un cammino continuo di scoperte a conferma, correzione e rilancio; il cammino delle scienze e delle scoperte dopo Einstein è spesso il cammino delle conferme sperimentali delle tesi (ipotesi) di Einstein. Le conferme empiriche alle sue teorie segnano il corso di gran parte della fisica contemporanea. Viceversa, in questa sequenza di conferma empirica delle tesi di Einstein trova fondamento e conferma l’affermazione storiografica della rilevanza dell’opera di Einstein nel campo delle ricerche scientifiche contemporanee.
«Strano destino, un secolo dopo l'annus mirabilis dell'inge­gnere dell'Ufficio federale per la proprietà intellettuale, fisici e ingegneri continuano a raccogliere frutti, concettuali e tecnologici, delle teorie sviluppate sul terreno della fisica dell'inizio del XX secolo: un "terreno" in movimento, ma assai fertile! In definitiva, das liebe Gott, il buon Dio che Einstein invocava volentieri quando il mondo gli si rivelava troppo strano, non si è affatto preso gioco di lui.» (Étienne Klein, 2005,68)
Sull’intreccio necessario tra relatività ristretta e relatività generale e tra teoria della relatività e fisica quantistica, prendono avvio infatti le ricerche e le ipotesi fisiche contemporanee sullo spazio e sul tempo e sulla loro inscindibile relazione; costruzioni apparentemente fantascientifiche o abbinate alle narrazioni, librarie o filmiche, del genere fantascienza, in cui tuttavia la ragione al servizio della immaginazione (e viceversa) delinea cammini posti al limite della verosimiglianza e delle possibilità conoscitive ma apre confini della scienza.
Il capitolo 9 dello studio più volte citato di Michio Kaku si intitola: “Il lascito profetico di Einstein” e così si presenta: «Questo capitolo tratta dei nuovi sviluppi negli ambiti in cui il duraturo lascito di Einstein continua a dominare il mondo della fisica: quantistica, relatività generale, cosmologia e teoria del campo unificato.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 157).

Citando per spunti (con indicazione di pagine tra […] e qualche intrusione di altri autori sul tema in oggetto) emerge un’idea degli ambiti di presenza (lascito profetico) e operatività delle teorie di Einstein. «Mentre la critica di Einstein alla teoria dei quanti contribuì a raffinarne lo sviluppo pur non fornendo una soluzione del tutto soddisfacente ai paradossi che creava, le sue idee sono state provate altrove, in maniera addirittura spettacolare, nella relatività generale. [163]  Come prevedibile, confermarono che in un grande campo gravitazionale il tempo rallenta. Anche l'esperimento dell’eclissi solare fu riprodotto diverse altre volte con estrema precisione. [163]  … la cui luce si curvava, come previsto dalla teoria di Einstein. [163; Una citazione da Scharf Caleb, 2012, I motori della gravità. L’altra faccia dei buchi neri, «Oggi, grazie ai laser e a esperimenti più complessi, si può misurare la velocità della luce con la precisione ultra-alta di circa due parti su diecimila miliardi. Einstein aveva ragione: la velocità della luce nel vuoto non cambia mai, a dispetto della velocità della sorgente o dell’osservatore.

Questo semplice fatto ha parecchie implicazioni sorprendenti per il nostro universo fisico. Il tempo stesso entra a far parte in modo significativo di qualunque sistema di coordinate, e il trascorrere del tempo è relativo: dipende dal moto relativo tra evento e osservatore. Anche l’energia trasportata dagli oggetti in movimento cambia rispetto a quella della semplice fisica classica di Newton. 15-16] Il lancio di satelliti spaziali ha a sua volta rivoluzionato il modo in cui si può verificare la relatività generale. [164] Scoprirono con certezza che la luce delle stelle si curvava secondo l'ipotesi di Einstein. Di fatto verificarono l’effetto del campo gravitazionale solare sulla luce delle stelle di metà della volta celeste. [164] L’attrezzatura sperimentale disponibile al principio del XX secolo era semplicemente troppo primitiva. Ma nel 1993 il Premio Nobel fu consegnato a due fisici, Russell Hulse e Joseph Taylor, per aver indirettamente verificato l’esistenza delle onde gravitazionali esaminando i sistemi di due stelle che ruotavano l'una intorno all’altra. [164] Questo esperimento di precisione può essere interpretato come sistema di verifica dell’accuratezza della relatività generale di Einstein. I numeri sono talmente precisi da consentirci di concludere che la relatività generale è attendibile al 99,7% (ben oltre il margine dell’errore sperimentale). [165] Una delle più ragguardevoli conferme della relatività generale si è verificata però nell’ambito della cosmologia. Nel 1965 due fisici… Questo, in effetti, fu esattamente ciò che scopri il gruppo di Berkeley. (Se non avessero trovato quelle increspature, peraltro, per il principio di indeterminazione sarebbe stata una brutta sconfitta.) Esse non solo dimostravano che il principio di indeterminazione si poteva applicare alla nascita dell’universo, ma davano anche agli scienziati un meccanismo plausibile per la creazione di un “universo bitorzoluto”. Guardandoci intorno notiamo che le galassie si presentano a grappoli, conferendo all’universo una superficie ruvida. Quest'abbondanza di protuberanze si potrebbe spiegare facilmente come conseguenza delle increspature del Big Bang originale, che si è esteso mano a mano che l’universo si espandeva. Quando vediamo i grappoli di galassie nei cieli, quindi, forse stiamo sbirciando nelle increspature originarie del Big Bang residuate dal principio di indeterminazione.  Ma la riscoperta più spettacolare del lavoro di Einstein riguarda sicuramente la cosiddetta energia oscura. Come abbiamo visto, Einstein introdusse il concetto di costante cosmologica (o energia del vuoto assoluto) nel 1917, per evitare la concezione di un universo in espansione. [167-168]  Alcuni risultati del 2000, comunque, rivelano che dopotutto Einstein aveva forse ragione: la costante cosmologica non solo esiste, ma l'energia oscura probabilmente costituisce la più grande fonte di materia/ energia dell’intero universo. Analizzando alcune supernovae in galassie remote, gli astronomi sono stati in grado di calcolare il ritmo d'espansione dell'universo in miliardi di anni. Con grande sorpresa hanno scoperto che l’espansione dell’universo, invece di rallentare come avevano pensato in molti, in realtà sta accelerando. Il nostro universo è in “modalità fuga” e alla fine si espanderà per sempre. Così, ora possiamo predire come esso morirà.  In precedenza alcuni cosmologi credevano che nell’universo ci fosse abbastanza materia per rovesciare l’espansione cosmica: alla fine, dunque, l’universo si sarebbe contratto e nello spazio cosmico si sarebbe visto un blueshift. (Il fisico Stephen Hawking credeva anche che durante la contrazione dell'universo si sarebbe invertito il tempo stesso, facendo ripetere la storia al contrario. Le persone sarebbero dunque ringiovanite e tornate nel ventre della loro madre, ci si sarebbe tuffati da una piscina per atterrare asciutti sul trampolino, dalla padella le uova sarebbero tornate nei loro gusci interi. Hawking nel frattempo ha comunque dichiarato di aver commesso un errore.) Alla fine, l’universo sarebbe imploso, creando un calore immenso — il cosiddetto Big Crunch, ovvero il “grande sgretolio”. Altri hanno ipotizzato che a quel punto l’universo avrebbe potuto conoscere un altro Big Bang, creando così un universo oscillante.
Tutto questo, comunque, è stato ormai escluso dalla prova sperimentale dell’accelerazione nell’espansione dell’universo. La spiegazione più semplice e adeguata ai dati è che c’è un’immensa quantità di energia oscura che pervade l’universo e agisce come antigravità, allontanando le galassie. Più grande diviene l'universo, più cresce l’energia del vuoto, che a sua volta respinge sempre di più le galassie l'una dall’altra, creando un universo in accelerazione.
Questo sembra suffragare una versione dell’“universo inflazionistico” proposta per la prima volta dal fisico del MIT Alan Guth, modificazione dell’originaria teoria del Big Bang di Friedmann e Lemaître. [168-169]  Un’altra bizzarra ipotesi della relatività generale è il buco nero, che era considerato fantascienza quando Schwarzschild reintrodusse il concetto di stelle oscure nel 1916. Eppure il telescopio spaziale Hubble e il Very Large Array Radio Telescope ora hanno verificato l'esistenza di oltre cinquanta buchi neri, nascosti perlopiù nel cuore di grandi galassie. In effetti molti astronomi oggi ritengono che forse molte galassie abbiano dei buchi neri al loro centro.
Einstein si rese conto del problema di individuare queste creature instabili: per definizione sono invisibili, visto che da esse nemmeno la luce può sfuggire, e dunque sono estremamente difficili da vedere in natura.  [170]  Dopo anni di congetture, nel 2002 è stato finalmente dimostrato che c’è un buco nero nascosto nel nostro stesso cortile, nella galassia della Via Lattea, e che pesa quanto due milioni di soli. Così la nostra Luna ruota intorno alla Terra, la Terra ruota intorno al Sole, e il Sole ruota intorno a un buco nero.  [170] Muovendosi, il buco nero distorce la luce stellare tutto intorno. Tracciando il moto di quella distorsione luminosa, gli astronomi riuscirono a calcolare la sua traiettoria nei cieli. [171] Nel 1963 la ricerca sui buchi neri fu accelerata dal matematico neozelandese Roy Kerr, che generalizzò il concetto di buco nero di Schwarzschild per includervi i buchi neri rotanti. Dato che ogni cosa nell’universo sembrerebbe ruotare, e siccome la rotazione sembra più veloce quando gli oggetti collassano, era naturale presumere che qualunque verosimile buco nero vorticasse a una velocità fantastica. [171] Alla base di tutte queste macchine del tempo c’è la materia o l’energia che curva lo spazio-tempo su se stesso. Per piegare il tempo come fosse una ciambellina serve una quantità inimmaginabile di energia, ben oltre qualunque cognizione della scienza moderna. [172]
Da allora quello delle macchine del tempo (o meglio, delle “curve chiuse di tipo tempo”) è divenuto un ambito vivace della fisica; sono state pubblicate quantità di documenti molto diversi fra loro, ma tutti basati sulla teoria di Einstein. [173]» (cfr. Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 157-173)

4.2. la natura aperta della scienza: la storia, la logica e l’urgenza di una evoluzione in atto (senza fine prevedibile). Il problema è posto in modo esplicito e diretto da Einsten e Infeld a conclusione dell’opera L’evoluzione della fisica: «Quali sono le conclusioni generali che possono trarsi dallo sviluppo della fisica, così come l’abbiamo delineato in un sommario schizzo, riassumente soltanto le idee più fondamentali? La scienza non è una raccolta di leggi, un catalogo di fatti senza nesso. È una creazione dell’intelletto umano, con le sue libere invenzioni d'idee e di concetti. Le teorie fisiche tentano di costruire una rappresentazione della realtà e di determinarne i legami con il vasto mondo delle impressioni sensibili. Pertanto le nostre costruzioni mentali si giustificano soltanto se le teorie costituiscono realmente un legame di tal fatta e secondo come lo costituiscono.  […] La fisica ebbe realmente principio con le invenzioni di massa, di forza e di sistema inerziale. Tali concetti sono tutte libere invenzioni. Essi condussero alla formulazione del punto di vista meccanicistico. Per il fisico dell'inizio del diciannovesimo secolo, la realtà del nostro mondo esteriore consisteva in particelle ed in forze semplici, agenti sulle stesse e dipendenti soltanto dalla distanza. Egli cercò di conservare, quanto più a lungo possibile, la persuasione che riuscirebbe a spiegare tutti gli eventi della natura mediante questi fondamentali concetti della realtà. Ma prima le difficoltà inerenti alla deviazione dell’ago magnetico, poi quelle connesse alla struttura dell'etere ed altre ancora, condussero alla creazione di una realtà più sottile, con l’importante invenzione del campo elettromagnetico. Occorreva una coraggiosa immaginazione scientifica per riconoscere appieno che l'essenziale per l'ordinamento e la comprensione degli eventi può essere non già il comportamento dei corpi, bensì il comportamento di qualcosa interposto fra di essi, vale a dire il campo. Sviluppi posteriori demolirono i vecchi concetti, creandone dei nuovi. Il tempo assoluto ed il sistema di coordinate inerziali vennero soppiantati dalla teoria della relatività. Lo sfondo di tutti gli eventi non fu più costituito da due continui, quello unidimensionale del tempo e quello tridimensionale dello spazio, bensì dal continuo spazio-temporale a quattro dimensioni (altra libera invenzione) con nuove proprietà di trasformazione. Il sistema di coordinate inerziale divenne superfluo. Si riconobbe che qualsiasi sistema di coordinate è egualmente appropriato per la descrizione degli eventi naturali.  La teoria dei quanti creò a sua volta nuovi ed essenziali aspetti della nostra realtà. La discontinuità rimpiazzò la continuità. Alle leggi governanti gli individui subentrarono leggi di probabilità. La realtà creata dalla fisica moderna è invero assai lontana dalla realtà dei primi giorni. Ma gli scopi di ogni teoria fisica rimangono sempre gli stessi. Con l'aiuto delle teorie fisiche cerchiamo di aprirci un varco attraverso il groviglio dei fatti osservati, di ordinare e d’intendere il mondo delle nostre impressioni sensibili. Aneliamo a che i fatti osservati discendano logicamente dalla nostra concezione della realtà. Senza la convinzione che con le nostre costruzioni teoriche è possibile raggiungere la realtà, senza convinzione nell'intima armonia del nostro mondo, non potrebbe esserci scienza. Questa convinzione è, e sempre sarà, il motivo essenziale della ricerca scientifica. In tutti i nostri sforzi, in ogni drammatico contrasto fra vecchie e nuove interpretazioni riconosciamo l’eterno anelo d'intendere, nonché l’irremovibile convinzione nell’armonia del nostro mondo, convinzione ognor più rafforzata dai crescenti ostacoli che si oppongono alla comprensione.» (Einstein Albert, Infeld Leopold 1938, L’evoluzione della fisica, Editore Boringhieri, Torino 1979, 301-303)
Sono infatti di Einstein le seguenti parole, amch’esse a sostegno della logica del mutamento continuo delle prospettive di sguardo e di teoria: «non risolverai mai un problema allo stesso livello di pensiero al quale è stato generato» (citato da David Brooks, La meccanica del genio, in la Repubblica 20.07.2014)

4.3. La relatività e l’incontro (di metodo e temi) tra scienze della natura e scienze sociali, scienza ed etica.
Il contesto culturale più generale in cui sorge e si sviluppa la teoria di Einstein soprattutto quando si apre alla direzione di una nuova fisica della relatività generale e del probabilismo statistico. Un contesto che si costruisce, indirettamente e in senso culturale ampio:  [1] richiamando il confronto tra scienze esatte-formali della natura e scienze umano-sociali della storia che esplode a fine ‘800 e primi ‘900 (soprattutto nel passaggio incentrato intorno alla natura e conciliabilità tra i due paradigmi: spiegare e comprendere); [2] rilanciando il dibattito (in termini spesso ideologici) tra relativismo e determinismo; [3] riprendendo il sempre ricorrente tema del ruolo culturale etico della scienza e dello scienziato nella società democratica contemporanea.
4.3.1. Questioni di metodo. Le riflessioni storiche sono tratte da Wallerstein Immanuel 2006 La retorica del potere. Critica dell’universalismo europeo, Fazi editore, Roma 2007.   
«Allo stesso tempo, la divisione fra le due culture [umanistica e scientifica] ha iniziato a essere scardinata. Due principali movimenti sono sorti nell’ultimo terzo del XX secolo: gli studi sulla complessità nelle scienze naturali e gli studi culturali fra i saperi umanistici. Se in apparenza questi movimenti del sapere sembrano — a chi vi partecipa come pure a chi li studia — assai diversi, e anzi antagonistici, esistono fra di essi rilevanti analogie. […] In primo luogo, entrambi sono stati movimenti di protesta contro la posizione storicamente dominante all'interno del loro settore. Gli studi sulla complessità sono stati essenzialmente un rifiuto del determinismo lineare basato sulla reversibilità del tempo che è prevalso da Sir Isaac Newton ad Albert Einstein, e che per quattro secoli era stato la base normativa della scienza moderna. I sostenitori degli studi sulla complessità hanno affermato che il modello classico della scienza è di fatto un caso particolare, e anzi relativamente raro, delle modalità di funzionamento dei sistemi naturali. Essi hanno sostenuto che i sistemi non sono lineari ma tendono invece, nel tempo, a muoversi lontano dall’equilibrio. Hanno affermato che è intrinsecamente, e non estrinsecamente, impossibile determinare le future traiettorie di una qualsiasi proiezione. A loro avviso, la scienza non consiste nella riduzione del complesso al semplice, ma nella spiegazione di livelli sempre maggiori di complessità. E ritengono che l’idea di processi reversibili nel tempo sia assurda, poiché esiste una “freccia del tempo” che opera in tutti i fenomeni, non solo nell'universo nel suo insieme ma anche in ogni suo elemento microscopico. Gli studi culturali sono stati, in modo analogo, un rifiuto dell’idea fondamentale che ha informato gli studi umanistici: esistono canoni universali di bellezza e norme giuridiche naturali del giusto, e questi possano essere appresi, insegnati e legittimati. Sebbene gli studi umanistici abbiano sempre affermato di privilegiare le particolarità essenzialiste (in quanto contrapposte agli universali scientifici), i sostenitori degli studi culturali hanno argomentato che gli insegnamenti tradizionali degli studi umanistici abbiano incarnato i valori di un particolare gruppo — gli uomini bianchi occidentali, appartenenti ai gruppi etnici dominanti — che, con arroganza, ha affermato che il proprio particolare insieme di valori fosse universale. Gli studi culturali hanno insistito, al contrario, sul contesto sociale di tutti i giudizi di valore, e dunque sull’importanza di studiare e apprezzare i contributi di tutti gli altri gruppi  storicamente ignorati e screditati. Gli studi culturali hanno professato l’idea popolare secondo cui ogni lettore, ogni spettatore, è portatore di una percezione delle produzioni artistiche che è non solo specifica ma egualmente valida.
In secondo luogo, sia gli studi sulla complessità che gli studi culturali, da prospettive diverse, sono giunti alla conclusione che la distinzione epistemologica fra le due culture è intellettualmente priva di senso e/o dannosa per il conseguimento di un sapere utile.
In terzo luogo, entrambi i movimenti si sono infine collocati, senza esplicitarlo, nel campo delle scienze sociali. Gli studi sulla complessità insistendo sulla freccia del tempo, sul fatto che i sistemi sociali sono, fra tutti i sistemi, i più complessi e che la scienza è parte integrante della cultura. Gli studi culturali sostenendo che non è possibile alcuna conoscenza relativa alla produzione culturale a meno di collocarla all'interno del proprio mutevole contesto, delle identità di coloro che la producono e di coloro che prendono parte a questa produzione, e della psicologia sociale (le mentalità) di tutti coloro che sono coinvolti. Inoltre, gli studi culturali hanno affermato che la produzione culturale è parte delle strutture del potere in cui è situata e ne è profondamente influenzata.
Le scienze sociali, dal canto loro, si sono trovate in una situazione di sempre maggiore incertezza delle discipline tradizionali. Di fatto, ciascuna disciplina aveva creato sottospecializzazioni che aggiungevano l’aggettivo di un’altra disciplina al proprio nome (ad esempio, antropologia economica, storia sociale o sociologia storica). E di fatto ciascuna disciplina aveva iniziato a far uso di diverse metodologie, tra cui quelle un tempo esclusive di altre discipline. Non è stato dunque più possibile identificare il lavoro di archivio, l’osservazione partecipante o i sondaggi di opinione con studiosi di discipline specifiche.» (Wallerstein 2006, 86-89)
4.3.2. Questioni tematiche. Che Einstein sia attento agli aspetti etico/politici della scienza lo attesta (oltre al suo “pacifismo”) il carteggio tra lui e Freud sul tema della guerra e la conseguente riflessione di Freud espressa nel Disagio della civiltà.  Si può infatti individuare la presenza di Einstein a tre livelli del “mestiere” di intellettuale così individuati da Wallerstein: «Gli intellettuali agiscono necessariamente a tre livelli: come studiosi, alla ricerca della verità; come individui dotati di senso etico, alla ricerca del giusto e del bello; come soggetti politici, alla ricerca di una riunificazione del vero con il giusto e il bello. Le strutture del sapere che sono prevalse negli ultimi due secoli sono ormai artificiose, appunto perché hanno affermato che gli intellettuali non potevano muoversi disinvoltamente fra questi tre livelli. Essi erano incoraggiati a limitarsi all’analisi intellettuale. E qualora non fossero stati in grado di evitare di esprimere le proprie passioni morali e politiche, veniva detto loro di separare rigidamente i tre tipi di attività. Conseguire questo isolamento o questa separazione era estremamente difficile, e probabilmente impossibile. E non è dunque un caso che gli intellettuali più seri non vi siano mai riusciti del tutto, anche quando hanno sostenuto la validità di questa separazione.» (Wallestein 2006, 105).

4.4. A che punto siamo o una idea della situazione in atto sull’ultimo impegno di Einstein: la sfida dell’unificazione.  
«…l’idea di unificare fenomeni apparentemente diversi è stata uno dei fili conduttori del percorso della scienza». (Odifreddi P. in Witten, La teoria delle stringhe, 93)  
«La teoria cui Einstein teneva di più, comunque, era quella del campo unificato. Einstein commentò con Helen Dukas che forse nel giro di cent’anni i fisici avrebbero compreso cosa stesse facendo. Aveva torto. L'interesse per la teoria del campo unificato ha impiegato meno di cinquant’anni a rinascere. La sfida dell’unificazione, un tempo derisa dai fisici in quanto disperatamente irrealizzabile, oggi forse è alla nostra portata. È una priorità all’ordine del giorno di qualunque riunione di fisici teorici.
Dopo duemila anni di indagini sulle qualità della materia, dai tempi in cui Democrito e i Greci si chiedevano di cosa fosse fatto l’universo, i fisici hanno prodotto due teorie in competizione, del tutto incompatibili l’una con l’altra. La prima è la teoria dei quanti, ineguagliabile nella sua capacità di descrivere il mondo degli atomi e delle particelle subatomiche. La seconda è la relatività generale di Einstein, che ha portato con sé le teorie mozzafiato dei buchi neri e dell’universo in espansione. Il paradosso ultimo è che queste due teorie sono agli antipodi. Si basano su presupposti, matematiche e immagini fisiche differenti. La teoria dei quanti si basa su pacchetti distinti d’energia, i quanti, e sulla danza delle particelle subatomiche. La teoria della relatività, invece, sulle superfici lisce.
Oggi i fisici hanno formulato la versione più avanzata della fisica quantistica, incorporata nel cosiddetto modello standard, che può spiegare i dati sperimentali subatomici. È, in un certo senso, la teoria più riuscita in natura, in grado di descrivere le qualità di tre delle quattro forze fondamentali (segnatamente, le forze elettromagnetiche e quelle nucleari forti e deboli). Per quanto valido sia, il modello standard comporta due problemi eclatanti. Innanzitutto è estremamente brutto, forse una delle teorie più brutte della scienza. Si limita a cucire a mano le forze deboli, forti ed elettromagnetiche. È come usare dello scotch per legare insieme una balena, un oritteropo e una giraffa, sostenendo che si tratti del più grande risultato della natura, il prodotto finale di milioni di anni di evoluzione. Da vicino, il modello standard è una sbalorditiva ed eterogenea messe di particelle subatomiche dai nomi strani e piuttosto insensati, come quark, bosone di Higgs, particelle Yang-Mills, bosoni W, gluoni e neutrini. Peggio: il modello standard non fa alcuna menzione della gravità. Di fatto, se si prova a includere la gravità nel modello standard, si scopre che la teoria salta per aria. Produce solo assurdità. Tutti i tentativi fatti in cinquant’anni di mettere insieme la teoria dei quanti e la relatività si sono dimostrati vani. Dati tutti i suoi difetti estetici, concludiamo che l’unica cosa che avalla la teoria è la sua innegabile correttezza in ambito sperimentale.  È chiaro che bisogna riuscire a superare il modello standard e riesaminare l’approccio all’unificazione di Einstein. (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 175-176)

4.5. il ritorno della musica (e di Pitagora; una specie di viaggio nel tempo, alle origini)
«Partiamo col dire che le particelle elementari (i mattoni fondamentali di cui è fatto il nostro Universo), nella teoria corrente del Modello Standard, sono da un punto di vista matematico equiparate a dei punti materiali.
Nei fenomeni di urto e di diffusione, quando emerge preponderante la loro natura corpuscolare, se la particella non è composta, ha una struttura pressoché puntiforme come dicevo. Qual è l'idea delle stringhe? È molto semplice. Si possono immaginare in realtà le particelle non più come punti, ma come linee. Logicamente devono essere linee chiuse. Queste linee sono appunto chiamate stringhe.
La stringa può essere vista come una corda chiusa che vibra in differenti modi. Ad ogni modo di vibrazione si può associare una grandezza fisica, quali la massa, la carica elettrica, la carica di colore ecc. Quindi dal punto di vista geometrico tutte le grandezze fisiche fondamentali delle particelle sarebbero semplicemente riconducibili a modi vibrazionali della stringa. Anche la gravità verrebbe unificata con le forze quantistiche in quanto da vari conti fatti, la relatività di Einstein emergerebbe anche essa dalla teoria delle stringhe. In sostanza la teoria è ancora oggi la teoria più accreditata per la teoria definitiva della Gravità Quantistica.» (da sito internet)
4.5.1. «Il paradosso centrale della fisica delle particelle elementari contemporanea è l'apparente incompatibilità delle due teorie che ne costituiscono il fondamento. La prima è la teoria della relatività generale di Einstein, che correla la forza di gravità alla struttura dello spazio e del tempo. Questa interpretazione della gravità ha condotto a modelli di fenomeni su scala cosmica e alla comprensione dell'evoluzione dell'universo. La seconda teoria è la meccanica quantistica, che riguarda il mondo atomico e subatomico. Sono state formulate teorie quantistiche per tre delle quattro forze della natura conosciute: le interazioni forte, debole ed elettromagnetica. Fino a poco tempo fa sembrava che vi fossero poche speranze di poter sposare la teoria della gravitazione di Einstein con le leggi della meccanica quantistica.
La difficoltà basilare è che una tale unificazione pare richiedere una formulazione radicalmente nuova delle leggi della fisica su scale di minima distanza; in tale riformulazione si dovrebbe abbandonare l'idea che spazio e tempo siano insiemi continui di punti. Senza una teoria quantistica della gravitazione e senza le revisioni concettuali che una siffatta teoria implica, non si può ottenere una descrizione completa di tutte le forze della natura.
Negli ultimi anni gli studiosi di fisica delle particelle sono diventati ottimisti sulla possibilità di superare l'ostacolo teorico. L'ottimismo si basa sui sorprendenti sviluppi di un nuovo tipo di teoria: la teoria delle supercorde. In questa teoria, come in qualsiasi altra teoria delle corde, le particelle elementari si possono considerare come corde. Le teorie delle corde differiscono quindi da tutte le comuni teorie di campo quantomeccanico, come per esempio la teoria quantistica dell'elettromagnetismo, i cui quanti, o particelle costituenti, sono puntiformi. Una corda, avendo una certa estensione, può vibrare come una corda di violino. I modi di vibrazione armonici o naturali sono determinati dalla tensione della corda. Nella meccanica quantistica onde e particelle sono aspetti duali dello stesso fenomeno, e quindi ogni modo vibrazionale di una corda corrisponde a una particella. La frequenza di vibrazione determina l'energia e la massa della particella. Le comuni particelle elementari sono interpretate come modi vibrazionali diversi di una corda.» (da sito Internet)
4.5.2. «L'interesse della teoria risiede nel fatto che si spera possa essere una teoria del tutto, ossia una teoria che inglobi tutte le forze fondamentali. È una soluzione percorribile per la gravità quantistica e in più può descrivere in modo naturale le interazioni elettromagnetiche e le altre interazioni fondamentali. La teoria supersimmetrica include anche i fermioni, i blocchi costituenti la materia. Non si conosce ancora se la teoria delle stringhe sia capace di descrivere un universo con le stesse caratteristiche di forze e materia di quello osservato finora.» (da sito internet).
«Dopo cinquant’anni, la candidata per eccellenza alla teoria del tutto, che possa unire la teoria dei quanti e la relatività generale, è la teoria delle supercorde. Effettivamente è l’unica sopravvissuta, poiché tutte le teorie antagoniste sono state escluse. Come ha detto il fisico Steven Weinberg: «La teoria delle supercorde ci offre il nostro primo plausibile candidato alla teoria finale.» Weinberg ritiene che tutte le mappe che guidavano gli antichi marinai indicassero l'esistenza di un leggendario polo nord, anche se ci vollero secoli prima che Robert Peary ci mettesse davvero piede nel 1909; analogamente, tutte le scoperte fatte nella fisica delle particelle indicano l’esistenza di un “polo nord” dell’universo, cioè di una teoria del campo unificato. La teoria delle supercorde può assorbire tutti gli aspetti migliori della teoria dei quanti e della relatività in modo sorprendentemente semplice. Essa si fonda sull’idea che le particelle subatomiche si possano considerare alla stregua di note su una corda che vibri. Anche se Einstein paragonò la materia al legno per via del suo sviluppo e della sua natura apparentemente caotica, la teoria delle supercorde riduce la materia a musica. (Ad Einstein, che era un musicista eccellente, probabilmente questo sarebbe piaciuto.)
A un certo punto, negli anni Cinquanta, i fisici disperarono di trovare un senso nelle particelle subatomiche, perché ne venivano scoperte continuamente di nuove.  Robert Oppenheimer, disgustato, una volta disse: «Il Premio Nobel per la Fisica dovrebbero darlo ai fisici che quell’anno non scoprono una particella nuova.» A queste particelle subatomiche furono dati così tanti strani nomi greci che Enrico Fermi commentò: «Se avessi saputo che ci sarebbero state così tante nuove particelle con nomi greci, avrei fatto il botanico, non il fisico.» Ma nella teoria delle corde, se si disponesse di un supermicroscopio e si potesse sbirciare direttamente dentro un elettrone, non si troverebbe una particella puntiforme, ma una cordicella vibrante. Quando la supercorda vibra in modo diverso — su una nota differente — muta in altra particella subatomica, come un fotone o un neutrino. In questo quadro, le particelle subatomiche che riscontriamo in natura si possono considerare le ottave più basse della supercorda. La tempesta di particelle subatomiche scoperte nel corso dei decenni, dunque, non è altro che una serie di note su questa supercorda. Le leggi della chimica, che sembrano così confuse e arbitrarie, sono le melodie eseguite sulle supercorde. L'universo stesso è una sinfonia di corde. E le leggi della fisica non sono altro che le armonie della supercorda.
Questa teoria può includere anche tutto il lavoro di Einstein sulla relatività. Muovendosi nello spazio-tempo, la corda induce lo spazio intorno a sé a curvarsi, precisamente come Einstein aveva previsto nel 1915. In effetti la teoria delle supercorde è contraddittoria finché non si muove in uno spazio-tempo compatibile con quello della relatività generale. Come ha detto il fisico Edward Witten, anche se Einstein non avesse mai scoperto la relatività generale, questa sarebbe emersa dalla teoria della corda. Witten sostiene: «La teoria della corda è estremamente affascinante perché la gravità ci viene imposta. Tutte le teorie della corda coerenti a noi note comprendono la gravità, quindi mentre la gravità è impossibile nella teoria quantistica del campo come l'abbiamo conosciuta, è obbligatoria nella teoria della corda.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 176-177)
«Si tratta di una teoria che rivoluziona ancora una volta la nostra visione del mondo. Noi siamo abituati a pensare a un mondo composto di molecole, le quali sono costituite di atomi, i quali sono costituiti di particelle, le quali sono costituite di quark, e così via. Tutti questi nomi li abbiamo già sentiti nelle trasmissioni televisive e letti nei giornali divulgativi. Ma la teoria delle stringhe ci dice che, sotto tutto questo, la realtà è fatta di stringhe, di cordicelle che vibrano, e i modi di queste vibrazioni corrispondono esattamente alle particelle subatomiche. Come una corda di violino, vibrando in maniera diversa, può produrre suoni diversi» (Odifreddi Piergiorgio, in Witten, Teoria delle stringhe, 95)
4.5.3.  La supercorda e la musica, o l’immagine di un violino, è forse l’immagine che può sostenere il progetto di una teoria del campo unificato; e rappresenta un ritorno a Pitagora e alla essenza musicale dell’universo matematico. 
«Uno dopo l’altro, angosciosamente, Einstein studiò questi spazi stravaganti (nelle sue ricerche contemplò gli spazi complessi, gli spazi con “torsioni”, gli “spazi ritorti”, gli “spazi antisimmetrici”, ecc.), ma si perse, perché gli mancava un principio guida, o un’immagine fisica, che lo guidasse nel groviglio della matematica.» (Kaku Michio, 2004 Il cosmo di Einstein, 178)   Ma, per la scienza, non si tratta di una sconfitta, ma di una conferma della sua natura. Come osserva Einstein (in un passo già riportato): «La scienza è un libro nel quale la parola «fine» non è, né sarà mai scritta. Ogni importante progresso fa nascere nuovi quesiti. Alla lunga ogni sviluppo conduce a nuove e più profonde difficoltà.» (Einstein Infeld 1938, 299)

 

 

Fonte: http://www.terzauniversita.it/corsi_14-15/dispense/corso26_lez6.doc

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