Evoluzione dell' uomo

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Evoluzione dell' uomo

La ricostruzione dell’evoluzione dell’uomo ha sempre suscitato grande interesse e ha richiesto l’interazione di diverse discipline.
Negli ultimi decenni numerosi studiosi hanno focalizzato l’attenzione sulla nostra storia più recente, la storia dell’uomo anatomicamente moderno (AMH, Anatomically Modern Human).
Le teorie riguardo l’origine e l’espansione dell’AMH  sono molteplici e di varia interpretazione.
Archeologi e genetisti, per spiegare l’attuale distribuzione geografica dell’AMH, hanno spesso utilizzato modelli concernenti un numero limitato di eventi migratori.
Oggi è comunemente accettato che l’Africa sia la “culla” dell’Homo sapiens, tuttavia c’è ancora un vivo dibattito su quando siano avvenute le maggiori migrazioni, sulle rotte e soprattutto su quante siano state.
L’interpretazione di reperti archeologici ha fatto ipotizzare in passato due principali eventi migratori al di fuori dell’Africa: il primo da parte dell’Homo erectus circa 1,7 MYA (Million of Years Ago, i.e. milioni di anni fa) e il secondo da parte dell’Homo sapiens anatomicamente moderno circa 100-150 KYA (Kilo Years Ago, i.e. mila anni fa). Questo ultimo dato è alla base del modello dell’ “Out of Africa”.
Antagonista al modello dell’“Out of Africa” riguardo l’origine dell’AMH è l’ipotesi multiregionale o della “Continuità Regionale”. I sostenitori di questa ipotesi ritengono che non ci sia stata una sola migrazione (recente) al di fuori dell’Africa ad opera dei primi uomini moderni, ma che l’uomo si sia originato in Africa e quindi abbia lentamente sviluppato in modo indipendente le forme moderne (AMH) in varie parti del vecchio mondo.
Sono state sviluppate varianti di questi due modelli principali per spiegare meglio e in modo più approfondito l’origine e l’espansione dell’uomo moderno.

1.1    La teorie dell’evoluzione dell’uomo anatomicamente moderno, AMH

 

Studi genetici suggeriscono che tutta l’umanità attuale sia derivata da un antenato comune vissuto in Africa non oltre 200 KYA.
Lo studio per ora più influente è quello di Cann et al (1987), basato sul DNA mitocondriale (mtDNA) di 147 individui provenienti da tutto il mondo. Questi corrispondono a 133 tipi di mtDNA (o linee evolutive) che si pensa derivino, per una serie di mutazioni, da un solo tipo ancestrale.
Questi autori hanno costruito un albero genealogico che raggruppa i tipi di DNA osservati in base al grado di parentela evolutiva. E’ risultato che l’albero ha due rami principali, l’uno comprendente esclusivamente africani  sub-sahariani, e l’altro alcuni africani e il resto dell’umanità (figura 1).
Il ragionamento più parsimonioso porrebbe quindi la radice dei due rami in Africa, indicando in questo continente l’origine del primo tipo di mtDNA dal quale sarebbero derivate le linee moderne studiate.
Questa conclusione è confermata dal grado di variabilità del mtDNA africano, che eguaglia o supera quello tra le popolazioni non africane.
Questo lavoro, però, è stato duramente criticato. L’obiezione più importante riguarda il campione africano utilizzato, composto per lo più di negri americani: ciò desta il sospetto che gran parte della variabilità del mtDNA africano derivi in realtà da mescolanza con altre popolazioni anziché da mutazione.
D’altra parte, i risultati di questo studio genetico, cioè la possibilità di una singola origine africana e assai recente dell’uomo moderno, sono direttamente confermati


 

dalla scoperta di fossili umani moderni in siti africani (Border Cave e Klasies River Mouth). Questi siti sono datati tra 130 e 50 KY, quando in Europa gli unici abitanti erano i neandartaliani.
Questi concetti sono alla base della teoria africana dell’evoluzione dell’uomo anatomicamente moderno. Secondo tale ipotesi l’AMH dopo essersi originato  in Africa si sarebbe diffuso dall’Africa all’Asia e quindi al resto del mondo, sostituendo rapidamente i precedenti tipi umani che vivevano in queste regioni.
Un punto molto dibattuto recentemente è se questa espansione geografica, che ha seguito l’evoluzione della forma moderna dell’uomo, abbia portato a una sostituzione delle popolazioni arcaiche negli altri continenti (“Out of Africa Replacement model”) oppure si sia attuata con un, seppur limitato, flusso genico.
Hammer e collaboratori (1998) hanno analizzato diverse regioni del cromosoma Y su un campione rappresentativo di tutto il mondo. La distribuzione geografica delle linee evolutive osservata  è stata interpretata dagli autori come dovuta a una combinazione di processi basati su vari eventi  migratori e su un flusso genico ricorrente.
Templeton nel 2002 ha rianalizzato attraverso nuovi metodi, basati principalmente sul software GEODIS (Posada et al, 2000), dati provenienti da differenti lavori che mostravano alberi filogenetici del mtDNA, cromosoma Y, due regioni del cromosoma X e sei regioni autosomiche.
La conclusione a cui è arrivato è che l’analisi di questi dati genetici  risulta compatibile con un modello basato su molteplici migrazioni dall’Africa. Queste espansioni non sarebbero state però seguite da una sostituzione ma piuttosto da uno scambio genetico con le popolazioni preesistenti nei continenti del vecchio mondo.
L’ipotesi dell’ “Out of Africa Replacement” è quindi fortemente rigettata da questo studio. La conclusione a cui è giunto è che la migrazione dall’Africa avvenuta tra 80 e 150 KYA ha rappresentato un movimento di persone caratterizzato da una mescolanza con le popolazioni locali. Templeton ha ipotizzato inoltre che anche una migrazione precedente, probabilmente avvenuta tra 420 e 840 KYA, sia stata caratterizzata da mescolanza piuttosto che da sostituzione.  Una sostituzione durante la migrazione più recente avrebbe dovuto cancellare il segnale del movimento più antico.
In contrasto all’ipotesi dell’ “Out of Africa”, il modello noto come “Multiregionale” o della “Continuità regionale” afferma che la specie Homo erectus, dopo l’iniziale propagazione (attorno a 2 MYA), si sarebbe diversificata in popolazioni regionali morfologicamente distinte, ciascuna delle quali si sarebbe poi evoluta a poco a poco in direzione di Homo sapiens moderno. Il maggior esponente attuale di questa teoria, Wolpoff, sostiene che la selezione naturale e la deriva genica crearono e mantennero la variabilità regionale, mentre la selezione e il flusso genico promossero la tendenza evolutiva globale verso l’ umanità moderna.
La maggiore debolezza di questa teoria è che per essere convalidata si deve ipotizzare un lungo periodo in cui, in tutto il Vecchio mondo, si sia verificata una evoluzione parallela. Si suppone, infatti, che gli stessi cambiamenti da Homo erectus a uomo moderno siano avvenuti, in modo del tutto indipendente, in regioni lontane l’una dall’altra.
Sebbene il modello multiregionale non possa essere del tutto accantonato, per ora la maggior parte dei dati genetici e paleontologici risulta del tutto favorevole all’ipotesi dell’ “Out of Africa”.
Differentemente dall’ipotesi originale dell’ “Out of Africa”, non sembra che l’AMH abbia sostituito completamente le popolazioni arcaiche, ma piuttosto sembra che si siano verificati vari eventi di mescolanza.

 

 

1.2    Grandi migrazioni dell’Homo erectus

 

Le prime migrazioni al di fuori del continente africano risalgono all’Homo erectus ma le ragioni di queste espansioni rimangono ancora poco conosciute e controverse.
Bar-Yosef & Belfer-Cohen (2001) rianalizzando prove paleontologiche relative alle prime migrazioni umane al di fuori del continente africano, hanno suggerito un processo di dispersione altamente episodico ad opera dei primi ominidi, ipotizzando almeno tre ondate migratorie. La prima ondata trova protagonisti alcuni esponenti dell’industria “core-chopper” (o del complesso industriale Oldowano) in un periodo tra 1.6-1.7 MYA. Questa migrazione ha raggiunto la Cina tra 1.2 e 1.7 MYA e la Spagna, probabilmente attraverso Gibilterra, tra 1.4 e 1.7 MYA; il resto dell’Europa Occidentale sarebbe stato raggiunto solo in un secondo momento attraverso un corridoio passante per l’Europa Centrale.
La seconda ondata migratoria, avvenuta circa 1.4 MYA, ha portato i primi esponenti della tradizione industriale “acheuliana” a raggiungere l’Europa Occidentale probabilmente attraverso il Mediterraneo.
Infine, la terza ondata, da parte di  “gruppi acheuliani”, ha lasciato l’Africa circa 0.8 MYA  raggiungendo solamente il Caucaso.
Alla base della ipotesi di Bar-Yosef & Belfer-Cohen ci sarebbero molteplici eventi coloniali senza successo. Sebbene questa ipotesi di tre ondate migratorie non sia stata ancora confermata, sembra essere consistente con il pensiero di molti antropologi, i quali ipotizzano vari processi di colonizzazione episodici (Klein, 2000; Tattersal, 1997, 2000).
I motivi per cui siano avvenute tali migrazioni dall’Africa verso l’Eurasia comprendono varie cause: una spinta dettata da cambiamenti ambientali, una pressione demografica e l’apertura di nuove nicchie.
La natura episodica di tali migrazioni potrebbe essere dovuta, almeno in parte, al clima. E’ infatti ben documentato che la variabilità del clima durante gli ultimi 2 MY (Million of Years, i.e. milioni di anni) sia stato un fattore determinante per i cambiamenti della distribuzione dell’areale di un certo numero di specie animali e vegetali (Taberlet et al, 1998; Webb & Bartlein, 1992).
I resti fossili e archeologici dimostrano che l’Homo erectus sia stata una specie con un notevole successo, e come tutte le specie predominanti ha cercato di espandere il proprio areale.
La distribuzione geografica dei siti archeologici ritrovati in Africa nel periodo che va da 1.8 a 1.0 MYA appare essere piuttosto limitata se si tiene in considerazione la superficie totale del continente e i vari cambiamenti climatici che sono avvenuti in questo periodo e che probabilmente hanno causato l’apertura e la chiusura all’esplorazione umana in diversi periodi di certe aree.
Si può assumere che le popolazioni di ominidi in Africa siano state ridotte (o limitate nella propria dimensione) da vari fattori, come ad esempio la predazione e la violenza inter e intra gruppo. Oggi una nuova causa sembra conquistare i favori di molti studiosi, ovvero la presenza nel territorio africano di malattie causate da parassiti.
Anche se la ragione della prima serie di espansioni dell’Homo erectus rimane sconosciuta e controversa, secondo Bar-Yosef & Belfer-Cohen il successo dell’occupazione dell’area eurasiatica non è da ricercare nella maggiore disponibilità di cibo o nella migliore capacità di procacciamento delle prede,  ma dall’ assenza di malattie provocate da parassiti. E’ infatti da ricordare che l’Africa è il luogo dove si è sviluppata la maggiore parte delle malattie.
Una volta che gli uomini hanno esplorato nuovi territori, si sono spostati verso aree non infestate da tali parassiti (soprattutto quando si sono mossi verso ambienti con climi più freddi), e quindi superata tale pressione selettiva, la possibilità di sopravvivenza è aumentata notevolmente.
Sebbene la storia di molteplici colonizzazioni senza successo illustrata da Bar-Yosef & Belfer-Cohen sia antecedente la comparsa dell’AMH, non c’è ragione di supporre che la nostra storia si sia improvvisamente semplificata (Foley, 2001; Lahr & Foley, 1994, 1998). Un modello simile, infatti, potrebbe avere caratterizzato la storia dell’AMH con ripetute migrazioni dall’Africa, forse legate a eventi interglaciali (Lahr & Foley, 2001) seguiti da estinzioni ed eventi di mescolanza.
Fossili simili all’AMH sono stati ritrovati in siti africani di 130 KY (Kilo Years, i.e. migliaia di anni), un periodo in cui l’Europa era abitata da  Neanderthale il Lontano Oriente da altri discendenti di popolazioni Homo (Klein, 2000; Lahr, 1994).
La visione tradizionale è che l’AMH abbia colonizzato l’Europa attraverso il corridoio Levantino. Questo è in accordo con la presenza di fossili Homo sapiens, datati approssimativamente 100 KY, a Skhul e Qafzeh , l’odierna Israele.
C’è da dire però che questa area è considerata da molti archeologi come una estensione della distribuzione faunistica africana di 100 KYA e quindi può essere considerata come parte dell’Africa  (Lahr & Foley, 1994).
Tuttavia la presenza di tali fossili morfologicamente moderni nel Levante non deve far pensare a una sola espansione attraverso questa regione, infatti, sono stati scoperti  artefatti di 125 KY lungo le coste del Mar Rosso in Eritrea (Walter et al, 2000) che fanno ipotizzare a una possibile via meridionale “out of Africa”. Questa scoperta suggerisce che alcuni eventi migratori potrebbero aver seguito preferenzialmente la costa piuttosto che una via interna e quindi l’AMH potrebbe essere stato sia nel Levante (100 KYA) che nella Penisola Arabica, nella parte meridionale del Mar Rosso, quando il livello del mare era molto basso, forse 65 KYA (Stringer, 2000).
Dopo L’Arabia l’AMH potrebbe aver raggiunto facilmente l’India, l’Indonesia e successivamente l’Australia (Stringer et al, 2000).
Questa “rotta marina” sarebbe in pieno accordo con la datazione del sito australiano del lago Mungo (Mungo-3), il quale indica l’arrivo dell’uomo in questa area prima di 60 KYA.
In Europa il ritrovamento meglio conosciuto di AMH è quello di Cro-Magnon. Questo materiale viene dal sito che è stato ritrovato ad Abri Cro-Magnon in Francia ed è stato datato approssimativamente 32-30 KY.
Queste evidenze, a parte incertezze nella classificazione e nella datazione, sembrano indicare una singola regione, l’Africa Orientale, come sito di origine dell’Homo sapiens. 
 In ogni caso, un semplice modello con una unica espansione al di fuori dell’Africa non sembra essere supportato da dati archeologici.

1.3    Popolamento dell’Europa: aspetti demografici

 

L’occupazione del continente europeo a opera degli uomini moderni è collocata attorno a 40 KYA ed è avvenuta attraverso l’Asia occidentale precedendo di poco la scomparsa di Neanderthal. E’ chiaro che l’uomo moderno, in un periodo che comincia tra i 60 e i 70 KYA, ha perfezionato le proprie capacità tecniche. Ciò gli ha permesso di espandersi rapidamente su tutta la superficie del globo e di adattarsi a vivere in una moltitudine di ambienti diversi tra loro. Tale perfezionamento ha sancito il passaggio da una industria più antica, detta “Musteriana”, a una più nuova, peculiare dell’uomo moderno, chiamata “Aurignaziana”. L’espansione geografica dell’areale  è stata sicuramente accompagnata anche da una continua crescita demografica. La vita umana, almeno fino al periodo Paleolitico, è stata regolata dai costumi dei cacciatori-raccoglitori, i quali erano interamente dipendenti dalle risorse liberamente disponibili in un dato ambiente. Di conseguenza la dimensione della popolazione durante il Paleolitico era stabile e piccola, molto probabilmente anche  a causa di costumi riproduttivi che comprendevano una natalità lontana dai massimi fisiologici. E’ ritenuto che la specie abbia raggiunto, già verso 100 KYA, una densità prossima alla saturazione (per le risorse allora disponibili). Comunque la crescita demografica del tardo Paleolitico fu molto lenta; la fine di questo periodo viene fatta risalire formalmente con l’inizio della produzione del cibo, cioè con l’agricoltura e gli allevamenti (Neolitico). Lo sviluppo dell’agricoltura e dell’allevamenti (la transizione Neolitica) fu importante poiché la ricchezza delle risorse alimentari che essa portò, consentì un incremento della popolazione.
Le diaspore che sono seguite sono state stimolate dallo sviluppo demografico; infatti è plausibile che ci sia stata una dispersione geografica alla ricerca di altri terreni adatti all’agricoltura da quei luoghi dove la densità popolazionistica era elevata. L’origine delle tecniche agricole e la loro seguente dispersione (culturale o demica), appare quindi essere di cruciale importanza per capire la colonizzazione dell’attuale Europa. Vari lavori supportano l’ipotesi, sopra citata, di una diffusione demica contemporanea allo sviluppo dell’agricoltura, nella cosiddetta transizione Neolitica. Tale diffusione sarebbe stata largamente maggioritaria rispetto alle preesistenze Paleolitiche (Cavalli Sforza et al, 1996). Un’altra ipotesi  prevede una diffusione dell’agricoltura, culturale piuttosto che popolazionistica. Ci sarebbe stata, infatti, una esportazione della nuova tecnica dell’agricoltura da un piccolo gruppo di individui che sostanzialmente  non avrebbe modificato il corredo genetico dei popoli preesistenti di origine paleolitica. Gli andamenti clinali della diversità genetica degli autosomi in Europa sono stati considerati come il risultato della  diffusione demica Neolitica in seguito allo sviluppo dell’agricoltura (Cavalli Sforza et al, 1994). Contrariamente, gli studi più recenti eseguiti sul DNA mitocondriale hanno mostrato delle linee risalenti al Paleolitico, che non rivelano un gradiente così marcato (Richards et al, 2000).


Capitolo II

2.1           Applicazioni della genetica all’evoluzione umana

 

Da tempo è nota l’esistenza di una certa variabilità genetica tra gli individui appartenenti a una stessa specie, ma fino a circa trenta anni fa l’entità di questa variazione non era stata valutata appieno.
Il primo esempio di variazione genetica ben caratterizzato, quella del gruppo sanguigno AB0, è stato descritto agli inizi del secolo.
Questi studi sono stati presto estesi ad altri sistemi di gruppi sanguigni: si è accumulata una gran quantità di dati che dimostrano come, in popolazioni umane diverse, i gruppi sanguigni siano presenti in proporzioni differenti; tuttavia solo in seguito, a partire dagli anni ’50, ma soprattutto negli anni ’60, è stato possibile intravedere la sorprendente entità della variazione genetica, grazie allo studio sistematico delle differenze nelle proteine degli individui.
I primi studi in questo campo sono stati eseguiti tramite tecniche immunologiche. Questi metodi sono rimasti la sola tecnica soddisfacente per individuare la variazione genetica fino che Pauling e i suoi collaboratori  negli anni ’50 non hanno  introdotto la tecnica dell’elettroforesi per separare differenti mutanti dell’ emoglobina. Questa tecnica  è stata rapidamente adottata per analizzare la variazione anche in altre proteine del sangue ed è tuttora una delle tecniche genetico-molecolari più importanti.
Si è capito subito che la variazione genetica non era rara ma, al contrario, quasi tutte le proteine presentano delle varianti.
La variabilità a livello proteico ha indotto esperimenti più approfonditi in tal senso. Le reali dimensioni della variabilità genetica tra gli individui hanno cominciato ad emergere solo quando è stato possibile effettuare le analisi a livello del materiale ereditario (il DNA).
Lo studio diretto del DNA (come l’esame degli RFLP, degli STR e dei VNTR), cominciato agli inizi degli anni ’80, si è andato pertanto ad affiancare ai precedenti studi genetici.
Ma è stato solo con lo sviluppo della PCR (Polymerase Chain Reaction, reazione di polimerizzazione a catena) nel 1986 che lo studio della variazione del DNA ha fatto un netto miglioramento.
Le tecniche di analisi del DNA sono tuttora in corso di rapido sviluppo, in futuro senza dubbio si presterà sempre maggiore attenzione alla variabilità individuale a livello del DNA.
Lo sviluppo del sequenziamento automatico nei primi anni ’90 ha reso possibile l’applicazione di studi sistematici della variazione lungo il genoma alla biologia evoluzionistica umana.
Dati sui marcatori proteici (talvolta chiamati ‘marcatori classici’) sono ancora molto più abbondanti rispetto a quelli del DNA, anche se questa situazione sta rapidamente cambiando.
E’ da notare che le conclusioni generate con i nuovi metodi per individuare la variazione genetica sono in generale accordo con gli studi classici dei polimorfismi.
I marcatori genetico-molecolari hanno aggiunto una maggiore risoluzione, non disponibile precedentemente, nella questioni della evoluzione umana, della migrazione e sulle relazioni storiche tra popolazioni umane.

2.2    Sistemi aplotipici nell’evoluzione umana

 

Mentre la maggior parte del genoma umano viene ereditato biparentalmente e subisce un rimescolamento attraverso la ricombinazione, ci sono due segmenti del nostro DNA che sono atipici, essendo ereditati in modo uniparentale e non subendo ricombinazione. Queste due regioni del DNA sono il DNA mitocondriale (mtDNA) e il cromosoma Y.
Il cromosoma Y è tra i cromosomi più piccoli del nostro genoma, con una dimensione approssimativa di 60 Mb.
Questo cromosoma ha un ruolo fondamentale nella determinazione del sesso (essendo portatore del gene sesso specifico, SRY), è aploide ed è trasmesso esclusivamente da padre a figlio. Poiché questo cromosoma non ha un omologo con cui ricombinare, ci aspettiamo che non subisca ricombinazione. Per la maggior parte della sua lunghezza (noto come NRY, nonrecombiningportion of  the Y”) è effettivamente così.
E’ questa la porzione che viene studiata per gli studi di evoluzione umana.
Data l’importanza della ricombinazione come meccanismo che assicura una corretta segregazione cromosomica, non sorprende che il cromosoma Y ricombini con il cromosoma X nella meiosi maschile. Ciò avviene in regioni specializzate dove l’identità di sequenza tra i due cromosomi sessuali è preservata.
Le sequenze entro queste regioni possono essere ereditate da entrambi i genitori, come le sequenze degli autosomi, e tali regioni sono chiamate, appunto, “regioni pseudoautosomali” (PAR).
Una di queste regioni, la regione pseudoautosomale 2 (PAR2), si trova all’estremità del braccio lungo dei cromosomi X e Y e si pensa che sia una recente acquisizione evolutiva specifica dell’uomo, anche se di poca importanza nella segregazione cromosomica.
La regione pseudoautosomale 1 (PAR1), una porzione di circa 2.6 Mb che si trova all’estremità del braccio corto, riflette, invece, l’antica origine, da un comune paio di autosomi, dei cromosomi sessuali. La PAR1 è il sito di un evento di ricombinazione obbligatorio nella meiosi maschile.
L’altra regione non ricombinante del nostro materiale genetico è il mtDNA, una molecola circolare a doppio filamento di circa 16.5 Kb, la cui intera sequenza è conosciuta.
Il mtDNA non è contenuto nel nucleo ma, appunto nei mitocondri. Anche questa porzione di genoma viene trasmessa da un solo genitore, ma in questo caso il genoma mitocondriale dei figli è identico a quello della madre. Quindi questo tipo di DNA risulta geneticamente aploide. Il tasso mutazionale del mtDNA è circa dieci volte maggiore rispetto al DNA nucleare, ciò risulta in una abbondanza di siti polimorfici. Come per l’NRY, non ci sono prove che eventi di ricombinazione interessino il mtDNA, sebbene siano stati osservati riarrangiamenti del mtDNA somatico nelle cellule muscolari del cuore (Kajander et al, 2001).
Molti studi hanno focalizzato l’interesse sui due segmenti ipervariabili all’interno della regione non codificante (HVRI e HVRII) grazie alla ricchezza di polimorfismi trovati in questa zona.
Queste caratteristiche hanno importanti conseguenze quando la variazione genetica è utilizzata per ricostruire l’evoluzione umana.
Loci aploidi, quali il mtDNA e il cromosoma Y, sono spesso utilizzati negli studi evolutivi umani, poiché l’assenza di ricombinazione rende l’analisi filogenetica più semplice da interpretare.
La loro minor dimensione effettiva, che in alcuni modelli è 1/4 degli  autosomi e 1/3 del cromosoma X, li rende più sensibili alla deriva genetica casuale.
La quantità di variazione nella sequenza del DNA del cromosoma Y è bassa se confrontata con quella del mtDNA, ciò sembra essere dovuto ad un più basso tasso di mutazione del DNA nucleare e forse alla minor dimensione effettiva del cromosoma Y.
Quindi l’approccio del “re-sequencing”, molto comune negli studi del mtDNA, non è sufficientemente informativo per il cromosoma Y, dove invece viene preferito il metodo del genotipaggio di siti polimorfici già conosciuti.
L’uso del cromosoma Y nel campo della evoluzione umana è piuttosto recente. Il primo polimorfismo è stato descritto nel 1985 da Casanova e collaboratori. Per molti anni la scoperta di nuovi polimorfismi è stata molto lenta.
Recentemente nuovi metodi, come la DHPLC (“Deep High Pressure Liquid Chromatography”), hanno permesso di scoprire centinaia di nuovi polimorfismi, trasformando il cromosoma Y nel migliore sistema informativo aplotipico, con applicazioni negli studi evolutivi, forensi e di genetica medica.
Dal punto di vista della distribuzione spaziale della variabilità, il cromosoma Y ha mostrato una proprietà particolare. Esso rivela variazioni (misurabili da diversi indici di distanza genetica) fra popolazioni maggiori rispetto sia agli autosomi, sia all’mt-DNA (Scozzari et al, 1997). Seielstad et al (1998) hanno valutato quantitativamente tale differenza concludendo che essa riflette un fenomeno generalizzato per cui gli individui di sesso femminile sarebbero soggetti a un più alto tasso di migrazione (figura 2).
Questa proprietà avrebbe generato un forte strutturamento geografico, cioè le diverse varianti del cromosoma Y tendono ad essere più localizzate geograficamente. Oltre al tasso migratorio, altre cause potrebbero essere la poligamia e il più alto tasso di mortalità maschile, entrambe  possono portare a una riduzione della variabilità del cromosoma Y rispetto al mtDNA e agli autosomi.
In un recente lavoro di Wilder e collaboratori (2004), la tesi del più alto tasso migratorio femminile viene confutata. Infatti rianalizzando dei dati provenienti da diverse regioni genomiche, precedentemente pubblicati, sembra che non sia visibile il  segnale genetico che un differente tasso migratorio avrebbe dovuto lasciare.
Questi autori trovano una forte correlazione tra i valori di Fst del cromosoma Y e del mtDNA.
Il risultato di questo lavoro, ovvero l’assenza su scala mondiale di un segnale genetico dovuto a un più alto tasso migratorio femminile, non contraddice però l’effetto della patrilocalità su scala locale.

 

Fonte: https://art.torvergata.it/retrieve/handle/2108/227/4932/tesiDiGiacomo.doc

Sito web da visitare: https://art.torvergata.it

Autore del testo: Dr. Fabio Di Giacomo

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