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LA TEORIA DELL’EVOLUZIONE
Il sistema classico: essenzialismo e scala naturale
Aristotele e l'essenzialismo
Dopo aver creato cieli e terra, mari e monti, animali e piante, secondo il racconto biblico Dio affida
ad Adamo un compito singolare, quello di dare un nome a tutti gli animali della Terra.
La nominazione, contributo umano alla creazione, è la prima forma di classificazione dei viventi:
l'etichetta linguistica applicata alla specie ne precisa il ruolo e il luogo in relazione alle altre.
La «lingua perfetta» di Adamo, in cui il nome esprime senza residui l'essenza, fu poi oggetto di
desiderio, e di ricerca, lungo i secoli medievali e della prima modernità.
Nelle prime pagine della Bibbia si trovano quindi le origini mitologiche dell'essenzialismo, il
principale criterio di classificazione dell'Occidente intero, che trovò poi forma compiuta nelle
filosofie di Platone e Aristotele. Il sistema aristotelico, capitale nello sviluppo di tutto il pensiero
filosofico e scientifico successivo, è anche alla base della tassonomia antica e classica: a lui risale
infatti la prima classificazione scientifica delle specie viventi, che raggruppava quasi cinquecento
specie animali in otto «grandi generi», e una prima e meno felice classificazione delle piante; al suo
allievo Teofrasto si devono le prime analisi del regno minerale. Ma, ancor più importante, è ad Aristotele che risale la prima formulazione dei presupposti teorici della classificazione. Atto alla descrizione di qualsiasi ente, il sistema aristotelico non era stato espressamente pensato per la tassonomia; ma qui, come altrove, trovò piena e conseguente applicazione, restandone per secoli alle fondamenta.
La classificazione aristotelica è essenzialista: il nome non rappresenta un'entità autonoma, ma
esprime la traduzione linguistica dell'essenza, la quale, da sola, fonda teoricamente tanto la
nominazione quanto la definizione. Applicato al mondo naturale, l'essenzialismo postula che la
specie biologica coincida con la propria essenza: si pensi, ad es., alla celebre definizione dell'uomo
come «animale razionale». L'approccio statico della classificazione essenzialista è evidente: ogni
entità è espressione di un'essenza che per definizione è immutabile, e pertanto esclusa dai processi di
evoluzione e trasformazione. Il pensiero europeo ha cominciato a interessarsi dei processi dinamici solo molto tardi, sulla scorta delle evoluzioni della scienza post galileiana, e ancor oggi risente pesantemente dell'impostazione greca, basata sulla sostanziale immodificabilità dell'essere. Per quanto più specificamente attiene alla storia naturale, l'essenzialismo ha rappresentato, fino al secolo scorso, il primo dei due assunti fondamentali della sistematica pre - darwiniana.
La scala naturae
Il secondo di questi assunti, che è anch'esso un'idea blasonata della tradizione occidentale, è quello
della Catena dell'Essere, o scala naturae: tutti gli esseri viventi rappresentano, e sono ordinabili
secondo, una catena semplice che dall'imperfezione conduce, per gradi successivi e regolari, alla
perfezione. Al fondo della scala c’ è la materia bruta, massimamente imperfetta; al vertice Dio, ente
perfettissimo; fra questi due estremi trovano posto, secondo il grado di perfezione che loro compete
(e cioè, nell'interpretazione cristiana, secondo la maggiore o minore vicinanza a Dio), tutti gli altri
esseri: dalle gerarchie angeliche agli umani, dai mammiferi ai rettili, dai pesci alle alghe, ogni nuova
specie trova posto nella gerarchia della scala secondo la loro posizione rispetto agli estremi.
Per definizione, l'essenza è irriducibile; e la scala è metafora lineare e continua.
Ciò spiega come, necessariamente, la tassonomia classica sia un sistema lineare e statico, e come in
tale direzione si sia coerentemente svolta, trovando posto alle nuove specie al livello di "perfezione"
che ad esse competeva, secondo il principio geometrico dell'infinita divisibilità della retta.
Trattandosi di una scala continua, fra due specie successive c'è sempre modo di inserire una nuova
varietà intermedia, ciò che, per molto tempo, ha permesso ai naturalisti di continuare a usare senza
soverchi problemi questo sistema classificatorio. Di fatto, dal punto di vista della semplicità
concettuale e di utilizzo, la scala naturae è a dir poco adamantina: essa ordina le specie secondo
un'unica caratteristica, così come una biblioteca può essere ordinata (in modo peraltro esteticamente
assai gradevole) in base all'altezza del dorso dei volumi. All'interno di un sistema siffatto
l'introduzione di livelli gerarchici superiori a quello specifico non è neppure ipotizzabile, se non
come puro artificio logico.
Nel suo insieme, la sistematica antica coincide col paradigma detto del fissismo: le specie sono
immutabili (essenzialismo) e "naturalmente" ordinate secondo il grado di perfezione che
manifestano (scala naturae). Per completare il quadro concettuale, a questi due principi si deve
aggiungere anche il dogma cristiano della creazione separata delle specie.
Ignorata dalla rivoluzione scientifica secentesca, la classificazione del mondo naturale fondata
sull'essenzialismo e sulla scala naturae ha resistito per oltre due millenni, arrivando pressoché
inalterata agli inizi del secolo scorso. La forza di questo paradigma risiede nell'apparente perfetta
naturalità dei suoi assunti, che lungo i secoli sono stati accolti e fatti propri da sistemi di valore
diversi, e che ancora hanno grande forza sulla mentalità popolare: si pensi, ad esempio, alla
commozione mondiale suscitata dalla morte di Fiocco di Neve, il gorilla albino dello zoo di
Barcellona, e alla perfetta indifferenza con cui ciascuno di noi calpesta le formiche. Secondo alcuni
autori, la permanenza dei presupposti della scala naturae e dell'essenzialismo avrebbe causato nel
pensiero biologico due millenni di ristagno. Se questo giudizio risente in modo forse eccessivo del
pregiudizio scientista secondo cui le sole evoluzioni concettuali sono quelle prodotte all'interno del
paradigma scientifico, resta comunque vero che, all'interno del sistema delle scienze e ancora
all'inizio del secolo scorso, mentre già la fisica moderna galileiano - newtoniana conosceva le prime
crisi e procedeva verso sviluppi ulteriori, le scienze naturali ancora aspettavano il loro Galileo, che
di lì a poco avrebbero trovato in Darwin.
L'evoluzione per selezione naturale di Darwin
A metà del XIX secolo Darwin propone una nuova visione del mondo naturale, in grado di rendere conto in modo logico e unitario - e quindi, in modo persuasivo - di tutte le questioni allora sul
tappeto. Si tratta di una grandissima opera di sintesi e riorganizzazione concettuale, che tuttavia non nasce certo nel vuoto. Nel periodo immediatamente precedente quello in cui Darwin elabora la sua teoria, le scienze naturali conoscono diverse forme di parziale riorganizzazione teorica, mentre il dibattito interno resta sempre vivacissimo. Il definitivo superamento del fissismo attraverso la messa a punto di un diverso dispositivo concettuale, insomma, non è opera di una mente soltanto, ma l'esito di un lungo processo di ripensamento, innescato sia dalle insufficienze concettuali del paradigma precedente che dall'emergere di nuovi problemi materiali.
Un precursore: Lamarck e l'evoluzione per uso e disuso
Le basi del sistema lamarckiano sono riassumibili in due principi:
la generazione spontanea della vita e lo sforzo cosciente degli organismi di adattarsi al loro ambiente.
Secondo Lamarck le entità organiche sono il prodotto della natura (e non, quindi, di un piano divino preordinato), e il loro sviluppo richiede tempi assai lunghi. La natura forma spontaneamente
soltanto gli organismi più semplici: ogni tanto - dal nulla, per così dire - appare un nuovo vivente, al livello più basso della complessità (se l'idea sembra oggi assolutamente sorpassata, si pensi a quanto di essa sopravvive nel linguaggio comune, secondo cui, ad esempio, «le castagne fanno i vermi» o «la carne fa le mosche»). L'ambiente nel quale l'organismo ha origine causa poi anche il graduale sviluppo dei suoi organi e del suo piano complessivo. In questo modo, transitando da forme semplici a forme
progressivamente sempre più complesse, ciascuna forma vivente ripercorre l'intera scala naturae, in
modo progressivo e lineare. Il fatto che le specie siano diverse, e manifestino gradi di adattamento e di complessità differenti, è spiegato dalla loro origine più o meno recente: più antica l'origine, più la specie sarà complessa e adattata (e simile agli esseri umani); più recente l'origine, più la specie sarà semplice e relativamente poco adattata. L'adattamento all'ambiente, con susseguente modificazione degli organi e della struttura complessiva, avviene prevalentemente attraverso l'uso e il disuso degli organi: quelli usati di più si svilupperanno, quelli usati meno si atrofizzeranno fino ad arrivare a scomparire. Le specie non sono dunque fisse in natura, ma immerse in un flusso continuo di cambiamento. Le mutazioni somatiche intervenute nella vita degli individui attraverso l'uso e il disuso degli organi sono poi passate alle future generazioni, per cui si parla di eredità dei caratteri acquisiti.
Due sono i punti controversi della teoria di Lamarck:
Nel sistema di Lamarck i caratteri che vengono trasmessi, modificati, alla generazione successiva sono quelli che l'animale ha volontariamente esercitato (o non esercitato). Tuttavia, era già evidente ai suoi tempi che l'ipotesi non poteva essere corretta: i figli degli atleti non nascono con alcun particolare sviluppo muscolare, così come non nascono mutili i figli di chi perde, lungo la vita, un braccio o una gamba. Si può invece notare, seppure di passaggio, che c'è oggi un certo ritorno d'interesse, soprattutto in alcuni ambiti della genetica, per una versione non volontaristica del lamarckismo.
Due teorie correlate
La teoria dell'evoluzione per selezione naturale di Darwin è la correlazione organica di due diverse
teorie:
In sintesi, la presenza dei medesimi caratteri adattivi in più specie viene spiegata da Darwin come il
prodotto genealogico di un'origine comune e unica della vita, unita all'azione - in tempi lunghi - della
selezione naturale. Alla base di questo ragionamento sta il principio di parsimonia: esso richiede
che la vita sia comparsa una sola volta, e che a partire da questa prima apparizione si sia evoluto il
resto del mondo vivente.
Rispetto a Lamarck, Darwin è, per così dire, più parsimonioso riguardo alle condizioni che devono
essere rispettate perché si possa spiegare la variabilità dei viventi. È noto oggi che l'aggregazione
«naturale» delle molecole che compongono i viventi non è un evento molto probabile, anzi lo si può
considerare come un evento altamente improbabile. Il sistema di Darwin richiede, per funzionare,
che la vita sia sorta spontaneamente un'unica volta: tutta la variabilità oggi dispiegata discenderebbe
da quell'unico «evento fortunato» attraverso l'azione della selezione naturale. Al contrario, il sistema
di Lamarck richiede che la vita sorga spontaneamente tante volte quante sono le specie viventi, ciò
che a noi oggi sembra talmente improbabile da poter essere considerato del tutto impossibile.
Il caso e la necessità
Il secondo punto della teoria darwiniana, l'idea dell'evoluzione per selezione naturale, è anche quello
maggiormente caratterizzante - o, quantomeno, così esso viene considerato ai giorni nostri.
L'argomento dell'evoluzione per selezione naturale identifica due momenti, logicamente
indipendenti, la cui articolazione produce, appunto, l'evoluzione:
Citando il titolo del celebre libro di Monod, si può dire che la selezione darwiniana è basata sul caso
e sulla necessità. Il primo momento è dunque quello del caso. Data una popolazione uniforme, ogni tanto, per casualità, appariranno nella progenie caratteri differenti (per l'origine di queste differenze oggi si parla di mutazioni), mutazioni assolutamente casuali e imprevedibili; non sono quindi, come quelle di Lamarck, funzionali all'adattamento ambientale, ma del tutto stocastiche: nulla di ciò che l'organismo faccia durante la vita può incidere sulla direzione delle mutazioni.
Il secondo momento è quello della necessità. Alcune delle mutazioni presenti nella popolazione si
riveleranno più funzionali per l'adattamento all'ambiente circostante: gli individui portatori di queste
mutazioni funzionali saranno dunque «positivamente selezionati»; altre mutazioni saranno invece
poco funzionali, o addirittura dannose: gli individui portatori di queste mutazioni saranno allora
«negativamente selezionati».
Agendo sul lungo periodo mutazione (e cioè, creazione casuale di caratteristiche variabili) e
selezione (e cioè, scelta delle caratteristiche meglio adatte all'ambiente circostante) hanno formato
secondo Darwin la variabilità delle forme viventi presenti sul pianeta.
Punti chiave della teoria dell'evoluzione
L'importanza della variabilità
L'apparire di mutazioni, e quindi il mantenimento costante della variabilità all'interno della
popolazione, è la chiave di volta della sopravvivenza. La popolazione deve infatti essere in grado di
adattarsi ad ambienti diversi: sia per potersi espandere in nuove nicchie ecologiche, che per poter far
fronte a mutamenti ambientali improvvisi. La presenza della variabilità è, appunto, una sorta di
garanzia per il futuro: un carattere che ora serve a poco o addirittura a nulla potrebbe rivelarsi, in un
ambiente differente da quello attuale, un elemento indispensabile alla sopravvivenza. Inoltre, dal
momento che non si può sapere quale direzione prenderanno le trasformazioni ambientali, molti
caratteri diversi devono essere mantenuti contemporaneamente nella popolazione, in modo da poter
far fronte a molti ambienti diversi. La somma di questi caratteri è appunto la variabilità.
Il valore degli adattamenti
L'adattamento non è mai assoluto, non c'è alcuna caratteristica che sia intrinsecamente preferibile ad altre. L'adattamento adegua la specie, momento per momento, all'ambiente circostante; se questo cambia, cambierà di conseguenza anche il valore adattivo dei caratteri variabili. Il valore di un carattere vale sempre soltanto per l'oggi, per la generazione attuale: non c'è nessuna garanzia che domani, o alla prossima generazione, il carattere che oggi è vantaggioso lo sia ancora, e viceversa.
La questione della «sopravvivenza»
L'dea di "sopravvivenza del più forte", ampiamente diffusa a livello popolare, deriva dal darwinismo sociale di fine Ottocento più che dalla teoria darwiniana vera e propria. In realtà, la chiave del successo adattivo, secondo Darwin, non consta né nella forza, né nella longevità, ma soltanto nella riproduzione. Da questo punto vista, un leone che viva fino a cent'anni terrorizzando la savana e contornato di leonesse, ma sia sterile, ha molto meno successo di un leone gracile e di salute cagionevole, che muore presto in uno scontro col più forte lasciando tuttavia dieci leoncini in salute. La sopravvivenza utile, nella teoria di Darwin, non è quella dell'individuo, bensì quella della specie. Così come la sopravvivenza non è quella del più "forte", anche il successo riproduttivo deve essere letto a seconda delle specie in analisi. La biologia novecentesca ha delineato due tipi fondamentali di strategie riproduttive, dominate r e k. La strategia r consiste nel produrre quanta più prole possibile nella speranza che, date le leggi dei grandi numeri, alla fine qualcuno sopravviva (campioni di questa tattica sono i salmoni, le cui femmine depongono, subito prima di morire, 500.000.000 di uova; poiché i salmoni non stanno vivendo alcun boom demografico, del mezzo miliardo di uova deposte ne sopravvivono, in media, solo un paio). La strategia k consiste invece nel produrre poca o pochissima prole e nel prendersene cura a lungo, garantendone la sopravvivenza fino all'età adulta (i campioni di questa strategia sono gli elefanti, le cui femmine hanno, nell'arco intero della loro vita, solo tre o quarti figli, che il gruppo intero accudisce fino all'età matura). Tipicamente, la strategia r è propria delle specie più dipendenti dalle variabili ambientali, mentre la strategia k è delle specie più dipendenti dall'impianto culturale che viene appreso nell'infanzia.
La «questione genetica»
Il dilemma di Darwin
La genetica pre - mendeliana, che si estende dall'epoca di Aristotele fino alla metà dell'Ottocento,
registra diverse idee su come i tratti siano passati di generazione in generazione. Aristotele sostenne
la cosiddetta pangenesi, l'idea cioè che l'uovo o lo spermatozoo siano formati da particelle
provenienti dall'intero corpo.
Nell'ottica della pangenesi la teoria evolutiva di Lamarck è perfettamente giustificata: le
modificazioni acquisite durante l'arco di vita possono essere per questa via trasmesse alle
generazioni successive, dacché uovo e spermatozoo "riproducono" in piccolo il corpo che li produce.
Nel XVII secolo, in corrispondenza con i primi sviluppi della microscopia, Anton van Leeuwenhoek
propose la famosa teoria dell'homunculus: all'interno di ciascun spermatozoo sarebbe contenuto un
omino miniaturizzato, piccolissimo ("visibile" solo al microscopio) ma già dotato di tutti gli organi.
L'homunculus si svilupperebbe poi all'interno del corpo materno, che van Leeuwenhoek riteneva
essere null'altro che una incubatrice. L'alternativa speculare a questo modello fu elaborata da
Regnier de Graaf, che propose che fosse l'ovulo materno a contenere l'homunculus e che lo sperma
servisse meramente a innescare la crescita. Più in generale, comunque, la teoria dell'homunculus
s'inseriva nel dibattito su preformazione ed epigenesi; secondo i sostenitori della preformazione, lo
sviluppo consiste nella crescita dimensionale di un individuo già completamente formato
(l'homunculus, appunto); al contrario, i sostenitori dell'epigenesi intendevano lo sviluppo come
formazione di strutture complesse a partire da strutture più semplici.
Nell'Ottocento, all'epoca di Darwin, la teoria genetica maggiormente diffusa, e generalmente
accettata, era quella detta del mescolamento, compiutamente presentata da Francis Galton. Il
contributo più significativo di Galton alla genetica fu appunto la dimostrazione che ogni linea
parentale contribuisce in eguale proporzione alla costituzione del nuovo individuo; quanto al
meccanismo, Galton suggerì appunto che le caratteristiche individuali dei genitori si mescolino nei
figli. Così, se una donna molto alta decide di fare un figlio con un uomo molto basso, la progenie sarà di
altezza intermedia.
Negli anni in cui Darwin e Mendel lavoravano alle loro opere era già chiaro che la teoria del
mescolamento necessitava quantomeno di una profonda revisione. Essa lasciava infatti inspiegati
due fenomeni importanti: la presenza della variabilità all'interno delle popolazioni (se i caratteri dei
genitori si mescolano nei figli, tutti gli individui di una popolazione dovrebbero essere assai
somiglianti fra di loro); e il comportamento di quei caratteri che si manifestano a generazioni alterne.
Tuttavia, poiché non si disponeva di alcuna valida alternativa, durante la vita di Darwin l'unica teoria
genetica disponibile rimase quella del mescolamento, e questa rendeva impraticabile una delle sue
ipotesi principali: che le mutazioni fossero trasmissibili di generazione in generazione. Per capire il
problema, s'immagini una popolazione di individui coi capelli blu, in cui nasca un individuo
«mutante» coi capelli gialli. Se, come nella teoria di Galton, il carattere capelli gialli si mescolasse
col carattere capelli blu, i figli del nostro primo mutante avrebbero i capelli verdi; e nell'arco di due
o tre generazioni il singolo giallo iniziale andrebbe a "sciogliersi" del tutto nel blu generale. In
questa situazione, evidentemente, la selezione naturale non ha alcun modo di intervenire per favorire
l'uno o l'altro dei due colori.
La teoria del mescolamento invalidava l'intero impianto dell'evoluzione per selezione naturale.
Darwin passò quindi gli ultimi anni della sua vita ad angosciarsi perché non trovava alcuna valida
alternativa alla teoria del mescolamento; arrivò perfino a scrivere a un suo corrispondente che si
vedeva infine costretto ad accettare l'evoluzione per uso e disuso di Lamarck.
Dal punto di vista delle date, la risposta a questi dilemmi arrivò col lavoro di Mendel, pubblicato nel
1865; esso, tuttavia, fu completamente ignorato per oltre trent'anni, almeno fino all'inizio del
Novecento. Si dice anche che Mendel ne abbia spedito una copia a Darwin, scrivendogli che riteneva
che senz'altro il proprio lavoro gli sarebbe stato utile al completamento della teoria dell'evoluzione;
ma, a quanto pare, Darwin non si prese la briga di leggerlo e dopo la sua morte il volume di Mendel
fu trovato nella biblioteca con le pagine ancora intonse.
Fonte: http://infermefazio.altervista.org/Evoluzionismo.docx
Sito web da visitare: http://infermefazio.altervista.org
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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