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AFRICA REPORT
(prima stesura per la Conferenza Regionale sull’Africa, Pisa 16 giugno 2006)
a cura del CIRPAC
autori:
Francesco N. Moro
Blerina Duli
Chiara Masselli
Silvia Serchi
(coordinamento Marcello Flores)
11 giugno 2006
1. Africa oggi: sviluppo e democrazia
Introduzione.
Il più grande contributo degli Africani, scrive lo storico John Iliffe, è aver popolato e reso umana una regione particolarmente ostile per l’uomo. Ancora oggi, forse più di ogni altra area del mondo (almeno, di quello abitato) l’Africa sub-sahariana rappresenta una sfida per lo sviluppo umano, così come per quello delle istituzioni politiche, economoche, sociali. Ad un primo e pure superficiale sguardo, la mancanza, talvolta apparentemente l’assenza di sviluppo politico ed economico emergono come le caratteristiche più evidenti, e drammatiche, del continente. Il presente lavoro cerca di approfondire questi temi. Il proposito è quello di offrire una «mappa» dei principali temi connessi alle prospettive e ai problemi dello sviluppo in Africa, con particolare attenzione agli eventi occorsi nel nuovo millennio. Il primo gruppo di temi che si affronteranno è direttamente legato con lo sviluppo socio-economico dell’area sub-sahariana, attraverso una analisi dei recenti progressi economici, ma anche dei perduranti problemi. In secondo luogo, vengono presi in considerazione i principali sviluppi politici, il complesso processo di democratizzazione, i problemi connessi con la crisi continua delle istituzioni statuali, e i conflitti e i tumulti che accompagnano questi processi.
1.1 Africa fra povertà e sviluppo
1.1.1 Mappa
La povertà diffusa è l’inevitabile punto di partenza per l’osservazione dell’economia africana. Questa povertà, pure non distribuita in maniera omogenea nel continente, rimane il problema dell’Africa per eccellenza. Questa prima rappresentazione, pure parziale, tenta di mettere in luce quali siano gli elementi di maggior rilievo socio-economico nel panorama africano.
Nel 2001, 313 milioni di persone, quasi la metà della popolazione, vivevano con meno di un dollaro al giorno (World Bank, World Development Indicators 2005). Le stime prevedono che questi numeri aumenteranno nei prossimi dieci anni, con un trend opposto rispetto ad altre aree del mondo, come l’Asia meridionale, che stanno pure lentamente e non omogeneamente riducendo la povertà. 35 dell’Africa sub-sahariana sono considerati paesi nella più bassa fascia di reddito, dove il reddito pro-capite è inferiore a 825 dollari l’anno (World Bank). Altri indicatori, che guardano anche alla dimensione «umana» dello sviluppo, mettono ugualmente in luce l’eccezionalità africana. L’aspettativa di vita è di 46 anni, contro 63 dell’Asia meridionale, e gli oltre 70 dell’Europa e di entrambe le Americhe. Nel 1960, l’aspettativa di vita era solo sei anni inferiore. A livello sanitario, il 7,2 percento delle persone fra i 15 e i 49 anni sono infette da HIV, mentre l’accesso a fonti d’acqua è ristretto al 64 percento della popolazione, con tutte le conseguenza che questo comporta in termine di igiene e prevenzione di malattie infettive. La mortalità infantile è elevatissima, oltre il 17 percento dei bambini muore nei primi cinque anni di vita, quasi il doppio che in Asia meridionale. Il livello di alfabetizzazione delle fasce più giovani della popolazione, intorno all’80 percento, di poco superiore a quello dell’Asia meridionale, è in ogni caso lontano dalla piena alfabetizzazione tipica delle aree più sviluppate del globo.
Un altro modo di guardare al problema è attraverso un bilancio dei risultati ottenuti nella cornice dei Millennium Development Goals (MDG), adottati dalle Nazioni Unite nel Millennium Summit del 2000. I MDG mirano ad indicare azioni e soglie dello sviluppo da raggiungere, sia nella loro dimensione più «materiale» che attraverso la promozione dello sviluppo umano. I macro-obiettivi da persequire sono 8, e nel 2005 è stata effettuata una prima valutazione dei risultati raggiunti:
Fra il 1990 e il 2001 (ultimo dato registrato), tuttavia, la percentuale di persone che in Africa vive sotto la soglia minima di povertà è aumentata anziché diminuire, e adesso tocca il 46 percento della popolazione del sub-continente. La percentuale di persone che vivono con nutrizione insufficiente è scesa, seppure di poco, dal 36 al 33 percento. Inoltre, il reddito medio giornaliero delle persone più povere in Africa è di 0,60 dollari (0,62 nel 1990), contro gli 0,82 dollari della stessa fascia della popolazione negli altri paesi in via di sviluppo.
Per quanto rimanga ultima su scala globale nella percentuale di persone che frequentano le scuole elementari, il 62 percento della popolazione in età scolare è inserita in un programma scolastico (era il 54 percento nel 1991). La probabilità di frequentare le scuole, tuttavia, rimane più bassa quanto più è basso il livello di reddito delle famiglie di provenienza.
Un lieve miglioramento è stato registrato per quanto riguarda il numero delle alunne delle scuole elementari in proporzione agli alunni maschi (dall’83 percento all’86 percento). Le disparità peraltro, aumentano a livelli educativi superiori. Le donne, inoltre, sono poco rappresentate in lavori con redditi più elevati, e nonostante i miglioramenti, nelle istituzioni parlamentari (la percentuale di donne in parlamento è raddoppiata dal 7 al 14 percento fra il 1990 e il 2005).
In tredici anni fra il 1990 e il 2003, la mortalità dei bambini fino a cinque anni è stata ridotta, ma soltano da 18,5 a 17,2 percento. La cause principali di questo drammatico fenomeno sono l’assenza di alcuni medicinali di base, le precarie condizioni igieniche generali, e la malnutrizione, che sono fortemente legate ai bassi livelli di reddito generali.
La mortalità delle donne durante la gravidanza o il parto è dello 0,92 percento. I livelli di assistenza specializzata forniti alle donne sono rimasti sostanzialemente invariati fra il 1990 e il 2003, prevenendo così i miglioramenti avvenuti nelle altre aree in via di sviluppo.
La diffusione dell’HIV e dell’AIDS in Africa sono aumentate notevolmente negli ultimi anni. Le morti a causa dell’AIDS sono passate da circa mezzo milione di persone nel 1994 a oltre due milioni per anno nel periodo 2002-2004. Con il diffondersi dell’epidemia, la vulnerabilità di donne e ragazze di fronte all’infezione è altresì drammaticamente aumentata. Anche la malaria colpisce con forza l’Africa, con quasi un milione di morti all’anno. La tubercolosi si è ridiffusa rapidamente negli anni novanta, quasi raddoppiando la percentuale delle persone infette.
La scarsa attenzione al problema della sostenibilità ambientale spesso caratterizza i tentativi di sviluppo economico nelle regioni più povere, creando rilevanti problemi nel lungo periodo, anche a causa dell’eccessivo sfruttamento delle risorse. Nel caso dell’Africa, i problemi principali sono relativi al disboscamento, che è aumentato fra il 1990 e il 2000, e alla scarsa efficienza energetica (l’ammontare di energia usata per produrre una unità di Pil). La sostenibilità ambientale ha anche una dimensione legata al miglioramento delle condizionin igieniche di base: il problema principale per l’Africa è quello di continuare sulla strada del risanamento delle sorgenti idriche e nell’accesso della popolazione a queste fonti. Il miglioramento dal 1990 al 2002 ha permesso al dieci percento in più di popolazione tale accesso: tuttavia il 42 percento della popolazione non dispone di acqua «sana».
Il proposito è sottolineare l’importanza del ruolo della comunità internazionale nella risoluzione dei problemi sopra-elencati. (per una analisi più approfondita, si rimanda alla sezione 3).
Il quadro delineato non è certo incoraggiante. Il peggioramento in alcuni degli indicatori chiave dello sviluppo si accompagna alla constatazione che miglioramenti hanno invece caratterizzato altre aree del mondo. Lo sviluppo economico dell’Africa, misurato come crescita del Pil, è stato del 5 percento nel 2005, di poco inferiore al 2004, che aveva rappresentato il momento di maggior crescita del continente della storia recente. Le prospettive per i prossimi due anni sono di una ulteriore crescita su livelli leggermente più elevati. Tuttavia, tale crescita non sarebbe sufficiente per il raggiungimento della gran parte dei Millennium Development Goals, e sono imparagonabili ai livelli di crescita «a due cifre» che hanno caratterizzato e tuttora caratterizzano altre aree del mondo che stanno emergendo dalla povertà (l’Asia orientale e il Sudest asiatico sono i due casi di riferimento).
1.2 Regioni, materie prime, e sviluppo
L’Africa non è certamente omogenea dal punto di vista dello sviluppo recente e delle prospettive di tale sviluppo. Per quanto ogni divisione su base territoriale abbia elementi di arbitrarietà, è frequente distinguere nell’Africa sub-sahariana quattro macro-regioni: Africa centrale, Africa orientale, Africa occidentale e Africa meridionale. Queste regioni hanno avuto livelli diseguali di sviluppo, corrispondenti a diverse basi di partenza e caratteristiche economico-politiche. Colpisce da questo punto di vista la profonda disparità nella crescita economica di queste aree anche in un anno relativamente positivo come il 2004. L’Africa centrale è cresciuta di oltre il 14 percento, l’Africa orientale del 6,8 percento, l’Africa meridionale del 4 percento, l’Africa occidentale del 3,4 percento.
Un altro elemento di forte distinzione è la presenza o meno di petrolio sul territorio. Gli alti prezzi del petrolio negli ultimi anni condizionano fortemente la performance economica di questi paesi. Questo accade in primo luogo in termini di crescita del Pil, quello dei paesi esportatori di petroli è cresciuto del 5,5 percento nel 2005, contro il 4,4 percento dei paesi non produttori. Le aspettative di prezzi alti del petrolio dovrebbero rendere questo gap più ampio nei prossimi anni. I bilanci dello stato, così come la bilancia commerciale verso l’estero, sono anche positivamente influenzati dalla presenza di petrolio. I paesi africani senza petrolio hanno un passivo di bilancio del 2,4 percento e un passivo della bilancia commerciale di oltre 5 punti, mentre gli stati esportatori hanno rispettivamente un avanzo del 6,4 percento e di quasi venti punti. Questa crescita ha favorito non soltanto i tradizionali produttori, Nigeria in primis, ma anche quelli più recenti, come l’Angola e in misura minore il Chad, che hanno permesso a questi paesi livelli di crescita mai registrati.
La crescita dei prezzi delle materie prime, più in generale, ha beneficiato paesi esportatori di alluminio, rame, platino e ferro quali il Mozambico, lo Zambia e il Sud Africa. Tuttavia, questi segnali positivi sono talvolta oscurati dal fatto che come capita alle economie fortemente dipendenti dall’esportazione di materie prima, lo sviluppo nel lungo periodo dipende da quanto le politiche economiche dei governi sappiano e possano sfruttare l’occasione di momenti di crescita dovuti a condizioni internazionali favorevoli come gli alti prezzi per creare circoli virtuosi basati fra l’altro sulla diversificazione delle esportazioni. Il dato generale che emerge è che fra il 1996 e il 2003 la diversificazione delle esportazioni è complessivamente diminuita. Tuttavia, tale processo è stato messo in moto in alcuni paesi dell’Africa orientale (Kenya e Tanzania) e in Uganda e in Etiopia.
1.3 Origini e prospettive.
Ci sono due dimensioni fondamentali da osservare guardando ai problemi e alle prospettive dello sviluppo economico africano: i fattori internazionali e quelli interni.
A livello internazionale, il problema cruciale è la marginalità dell’Africa nello scacchiere economico internazionale: le economie africane rappresentano circa il 2 percento del commercio globale (e lo 0,3 percento è rappresentato dal solo Sud Africa). Benché i paesi africani godano complessivamente di un avanzo commerciale, i flussi di capitali verso l’estero sono elevati, così che la bilancia dei pagamenti è in passivo. Le ragioni di questo sono da rintracciarsi da un lato nella diminuzione dei prezzi sui mercati internazionali dei prodotti che costituiscono la base delle esportazioni dei paesi africani, e dall’altro nel basso livello di investimento interno. Come osservato sopra, c’è una grossa differenza, in ogni caso, a seconda dei prodotti esportati, e in particolare i paesi esportatori di petrolio sono in controtendenza rispetto a questo declino. Il processo di liberalizzazione portato avanti sotto l’egida dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) ha aperto alla competizione di India, Cina e più in generale di alcune dinamiche economie asiatiche in settori in cui alcuni accordi preferenziali (il rapporto fra Comunità Europea e alcuni paesi africani iniziato con la Convenzione di Lomé), diminuendo così i prezzi dell’export africano (per esempio nel settore dei prodotti tessili). Allo stesso tempo, il permanere di sussidi interni ai prodotti agricoli da parte di Stati Uniti ed Europa ha ridotto i prezzi dei prodotti agricoli che vengono esportati dai paesi africani.
Alcuni tentativi di integrazione economica regionale sono iniziati in particolare dagli anni novanta al fine di aumentare il commercio fra paesi africani. Nell’Africa meridionale, la zona economicamente più attiva del continente la SADC (Comunità per lo Sviluppo dell’Africa Meridionale) è stata formata al fine di fornire una cornice per migliorare la cooperazione economica e abbattere le barriere alla circolazione delle merci. Questa organizzazione dovrebbe ampliare la zona di scambio che esiste fino dal 1969 tra Sud Africa, Botswana, Namibia, Lesotho e Swaziland (SACU, Unione Doganale dell’Africa Meridionale). Simili organizzazione sono nate anche in AfricaOccidentale (ECOWAS, Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale), in Africa Orientale (EAC, Comunità dell’Africa Orientale). La rinnovata Unione Africana (che sostituisce l’Unione degli Stati Africani dal 2002) prevede nel suo atto costitutivo la formazione di meccanismi di coordinamento delle politiche economiche e addirittura, nel lungo periodo, la creazione di una banca centrale comune. Per il momento, in ogni caso, questi tentativi rappresentano passi avanti nella cooperazione, ma il loro contributo al successo dello sviluppo economico è ancora difficile da valutare.
La difficoltà ad attrarre investimenti permette il collegamento alla dimensione interna dei problemi dello sviluppo economico africano. Per quanto complessa questa dimensione, a fini di sintesi è possibile distinguere tre principali questioni. In primo luogo, il contesto politico africano ha fortemente scoraggiato lo sviluppo economico. Questo per due motivi. Il primo è l’estrema debolezza delle istituzioni dello stato in senso stretto, l’elevato livello di violenza politica e la scarsa capacità di controllo e gestione delle risorse economiche. Il secondo è legato alla natura neopatrimonialista dei regimi politici africani, in cui spesso corruzione e appropriazione delle risorse da parte di alcuni leader e dei loro gruppi sociali di riferimento sono venuti ben prima di politiche indirizzate verso lo sviluppo complessivo del paese. La natura dei principali prodotti da esportazione africani, cioè le materie prime, ha fatto sì che in molti casi non si sviluppassero altri settori economici, mentre la gestione delle materie prime avvantaggiava solo alcuni gruppi che trovavano accordi con compagnie estere interessate a tali beni. La lotta per le risorse (vedi anche sotto) e l’instabilità politica sono fattori che influenzano notevolmente e in maniera negativa il flusso di investimenti esteri e la possibilità di sfruttare internamente i flussi di capitale che inevitabilmente «entrano» in un paese che esporta materie prime.
In secondo luogo, ci sono problemi di carattere sociale. I bassi livelli di formazione rendono difficile lo sviluppo di una «classe» imprenditoriale, e la povertà diffusa ha effetti di «circolo vizioso» laddove non premia l’investimento produttivo per l’assenza di un mercato di consumatori. Le precarie condizioni sanitarie della popolazione, la frequenza e la diffusione di epidemie, e la quasi onnipresenza dell’HIV/AIDS in molte società dell’Africa (in particolare meridionale) con la conseguente disgregazione del tessuto familiare e sociale che questo comporta rendono altresì l’investimento difficile, specie nel lungo periodo. In terzo luogo, le difficoltà sono connesse con la struttura delle economie africane e delle infrastrutture presenti nel continente. Le difficoltà di trasporto, o anche semplicemente di conservazione dei prodotti alimentari, sono tipiche di tutto il continente. Il gap tecnologico, inoltre, ha mantenuto bassa la produttività del lavoro in Africa.
Alcuni recenti sviluppi permettono comunque di guardare in maniera più positiva alle prospettive di crescita economica. Uno di questi è la crescita economica stessa registrata in particolare dal 2000. La riduzione del debito estero dei paesi africani, decisa dai paesi del G7 nel 2005, costituisce almeno un’opportunità per l’Africa di fare «tabula rasa» per quanto riguarda una delle voci di spesa più importanti per i governi. I programmi delle Nazioni Unite e del WTO in tema di assistenza medica ai paesi più bisognosi, con particolare riguardo ai farmaci retro-virali necessari per combattere l’HIV/AIDS, permettono adesso e in futuro l’accesso a questi medicinali per un numero crescente di persone. Politiche di riforma da parte degli stessi governi africani tengono sempre più in conto la necessità di agire nella direzione del controllo delle malattie (in particolare della malaria), e con politiche di controllo delle nascite. Questo serve sia il fine «diretto» di poter garantire migliori servizi nel parto e ridurre così la mortalità infantile e delle madri e di controllare la crescita altrimenti rapidissima della popolazione, con i suoi effetti negativi sulla crescita della ricchezza per la popolazione. Un’altra iniziativa estremamente rilevante è il NEPAD (Nuova Partnership per lo sviluppo dell’Africa), lanciato da alcuni governi africani e adottato nel 2001 dall’Unione degli Stati Africani. Gli obiettivi della partnership sono: 1) creare pace, sicurezza e stabilità; 2) investire nelle persone; 3) promuovere l’industrializzazione; 4) aumentare gli investimenti nelle tecnologie informatiche e della comunicazione; 5) sviluppare le infrastrutture. Il livello di effettiva partecipazione degli stati africani a questa impresa «comune» è molto vario. Tuttavia, questa nuova consapevolezza degli stessi governi africani della centralità di efficaci politiche di riforma che essi stessi per primi devono mettere in atto lascia spazio, se non altro, ad un cauto ottimismo
2. Stato e democrazia.
2.1 La cornice dei processi di democratizzazione dagli anni novanta.
La tabella 1 mostra la (sconfortante) situazione dei diritti politici e civili in Africa alla fine degli anni ottanta, fotografata nel 1989 dal rapporto annuale di Freedom House. La prima metà degli anni novanta si pone in discontinuità con il periodo precedente, e vede l’emergere, anche in Africa della cosiddetta «terza ondata» di democratizzazione, che ha portato all’instaurazione e allo sviluppo di istituzioni democratiche in molte aree del globo. Molto spesso, la crisi dei regimi autoritari è stata innescata dalla loro incapacità di provvedere ai bisogni minimi della popolazione, il che ha messo in discussione la loro legittimità e causato l’insorgere di diversi focolai di protesta in molti paesi, in particolare a partire dalla fine degli anni ottanta. Le risposte dei regimi a queste proteste sono state di vario genere, anche in funzione di come le richieste stesse della protesta erano formulate. Di fronte a richieste di tipo economico, venivano fatte alcune concessioni, con processi di liberalizzazione, di diminuzione del controllo del regime sui cittadini. Più dure erano le risposte dei regimi di fronte a richieste di cambiamento politico. Talvolta, come nel caso di Cameroon, Zaire o Kenya, i regimi autoritari hanno utilizzato la forza per reprimere la protesta. In ogni caso, nei primi anni novanta, la gran parte dei regimi ha avviato alcune riforme nella direzione della democratizzazione. La combinazione di due elementi esterni, la caduta del Muro di Berlino, l’adozione della condizionalità democratica per la concessione di aiuti economici, contribuisce a spiegare questo processo. Spesso vengono convocate «conferenze nazionali», in cui diversi gruppi sociali e politici si confrontano per trovare soluzioni condivise nella costruzione di istituzioni democratiche. La riapertura del sistema politico si basa su tre elementi fondamentali: 1) la ri-legalizzazione dei partiti politici; 2) la costruzione di istituzioni basate sulla separazione dei tre poteri fondamentali (esecutivo, legislativo e giudiziario); 3) la fissazione di date per le elezioni libere e competitive.
Tabella 1: diritti e libertà in Africa, 1989
Paesi «non liberi» |
Paesi «parzialmente liberi» |
Paesi «liberi» |
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fonte: Freedom House, 1990
(*) l’asterisco indica paesi che vengono considerati “democrazie elettorali”, con competizione elettorale multipartitica
I risultati di questi processi sono molto eterogenei. Ci sono tuttavia tre elementi di fondo, che si presentano in maniera diversa a seconda dei casi, e che vanno sottolineati nel fornire un quadro generale. Il primo è che, al fine di comprendere il successo degli esperimenti democratici in Africa, è importante analizzare in che maniera la nuova politica di massa è strutturata. Il punto centrale qui è quale sia la natura e il ruolo dei partiti politici che si formano ex novo o si ricostituiscono in questo periodo. L’avvento di una nuova stagione di pluralismo politico è segnata spesso in Africa dall’assenza, o dalla debolezza, di quei soggetti capaci di aggregare le preferenze e di costituire nuove élite che sono i partiti. Questi sono spesso caratterizzati da deboli strutture organizzative e dall’incapacità di mediare fra gli interessi di gruppi sociali diversi. Quando questi due elementi mancano in toto, il processo democratico è difficile e tortuoso, la tentazione di alcuni gruppi (i militari in primis) a prendere il controllo del potere politico diventa forte, come nel caso della Nigeria nel 1993. Laddove, al contrario, i partiti sono più strutturati, la democrazia riesce a svilupparsi anche di fronte a notevoli difficoltà e contrapposizioni: l’African National Congress (ANC) di Mandela in Sud Africa rappresenta un esempio di successo.
Il secondo punto riguarda più in generale il concetto di «stato» in Africa. L’estrema povertà, richiamata sopra, non caratterizza soltanto la società ma anche lo stato. Così, qualunque sia il regime politico, un problema rilevante è quello che la leadership non è capace di offrire una serie di benefici che possano cementificare il rapporto fra popolazione ed istituzioni statuali, fra cui alcune minime prestazione previdenziali e sanitarie. Per i regimi democratici africani, questa mancanza si è spesso tramutata in insoddisfazione popolare e in scarso sostegno per il regime democratico stesso, percepito come incapace di perseguire politiche efficaci che portassero reali miglioramenti alle condizioni di vita della popolazione. Inoltre, «poco» stato ha anche significato poca capacità di intervenire con funzione di prevenzione e mediazione dei conflitti sociali, per le deboli strutture di polizia. Tale fragilità mette anche in discussione le capacità dello stato di mettere fine alla illegalità diffusa a livello socio-economico. La dimensione illecita dell’economia, che raggiunge quote talvolta superiori a quelle dell’economia sotto il controllo della legge, insieme alla debolezza della burocrazia innesta altresì un «circolo vizioso» in cui lo stato non riesce ad estrarre risorse dalla società in primo luogo tramite un equilibrato sistema fiscale, e dunque non può adottare politiche redistributive. Laddove questo, invece, è relativamente possibile, come in Sud Africa o in Botswana, i regimi democratici tendono ad acquisire più facilmente legittimità e stabilità.
Il problema della «statualità» in Africa, in ogni caso, è più ampio. Quanto detto sopra non deve oscurare il fatto che lo stato, pure debole, rimane spesso il punto di riferimento e l’obiettivo del conflitto politico. Specialmente in economie basate principalmente sullo sfruttamento di materie prime, e su economie di scala che permettono allo stato di giocare un ruolo determinante nella gestione delle (poche) risorse disponibili, il controllo dello stato è stato visto non soltanto come l’obiettivo del confronto politico ma anche come l’unico obiettivo su cui convergono i conflitti nella società. Nella logica di funzionamento dei cosiddetti regimi neopatrimonialistici che sono tipici del continente africano, lo «sconfitto» di questa lotta per il controllo dello stato subisce spesso l’esclusione sia politica che economica. Questa ultima considerazione si lega ad un terzo punto che emerge con forza guardando alla politica africana: il ruolo giocato dalle appartenenze di clan e soprattutto di etnia. La frammentazione etnica rappresenta una delle caratteristiche più evidenti dell’Africa sub-sahariana. È rilevante il collegamento tra frammentazione etnica, strutturazione della politica di massa, e statualità, le due dimensioni appena richiamate.
Il primo problema è che spesso il processo di democratizzazione è collegato con la rinascita di partiti e movimenti che si identificano su base etnica. In molti paesi, le nuove elezioni pluralistiche hanno visto prima la riorganizzazione e l’affermazione elettorale di formazioni politiche in cui l’appartenenza etnica costituisce il principale, talvolta unico, elemento comune e trasversale ai membri e agli elettori. Partiti «etnici» si sviluppano ad esempio in Kenya, e si riaprono «vecchie» fratture (e ferite) in paesi come la Nigeria, dove il conflitto etnico (e quello religioso) riemergono ciclicamente. Il Burundi rappresenta un altro drammatico caso in cui la vittoria alle elezioni libere (1993) di un partito che rappresenta la maggioranza etnica (Hutu) è seguita da un colpo di stato militare da parte di forze che «rappresentano» l’altro gruppo (Tutsi), dando così origine ad una sanguinosa guerra civile. Il secondo problema, strettamente collegato, è proprio dato dal fatto che laddove il controllo dello stato è visto come l’unico strumento per controllare quasi in toto l’allocamento delle risorse economiche, la politica «etnica» diventa spesso conflitto con l’esclusione dei gruppi che non gestiscono il potere politico. La logica di distribuzione delle risorse in un regime neopatrimoniale diventerebbe così strettamente legata a quella dell’appartenenza etnica. Lungi dall’essere un arbitro super partes nei conflitti sociali, lo stato ne è un attore fondamentale e l’appartenenza etnica il fattore centrale di discriminazione ed esclusione.
È in questa cornice problematica che nella prima metà degli anni Novanta la democrazia comincia a prender forma (se non ancora corpo). A parte in quei paesi nei quali nessun processo di democratizzazione era stato avviato, quali Liberia e Sudan, ci sono stati fondamentalmente tre tipi di esiti (vedi tabella 1). Le transizioni sono state «bloccate», quando alcune riforme miranti alla liberalizzazione del sistema politico sono state avviate, ma in realtà sono servite come strumento dei gruppi dominanti per «prendere tempo», senza la reale intenzione di cedere il potere. In alcuni casi, come in Burundi nel 1993, il risultato elettorale «sgradito» è stato ribaltato con un colpo di stato. In altri casi, le transizioni sono state «imperfette», laddove le elite del regime autoritario hanno accettato riforme più ampie ed incisive, ma hanno sfruttato i vantaggi dati dalla loro posizione al fine di mantenere il controllo delle istituzioni anche dopo l’avvento del nuovo regime. Fra le strategie usate più spesso dai regimi in carica ci sono state quella di utilizzare denaro dello stato per finanziare la propria campagna elettorale, quella di «minacciare», pure velatamente, al caos che si sarebbe creato in caso di una loro sconfitta, e la manipolazione dei tempi delle elezioni in modo da impedire una efficace organizzazione e campagna elettorale degli avversari.
In altri casi, il processo elettorale effettivamente libero a portato alla vittoria di forze democratiche e al successo del processo di transizione alla democrazia. In questi casi, certamente, si sono registrati alcuni passi indietro: in Congo, ad esempio, il presidente uscente e sconfitto nelle elezioni libere del 1992, Sassou-Nguesso, ha costituito una sua milizia e rifiutato il risultato elettorale. Dopo alcuni anni di esilio, nel 1997 ha sconfitto militarmente i suoi avversari ed è stato riproclamato Presidente, carica che detiene tuttora. Tuttavia, è innegabile che i primi anni novanta siano stati un momento di profondi cambiamenti nella politica africana. Per alcuni, addirittura, il simbolo di una «seconda indipendenza»: dopo quella dalla dominazione coloniale, quella dalla dominazione dei dittatori. In paesi quali il Mozambico, la transizione alla democrazia segna anche la fine di una sanguinosa guerra civile che durava dagli anni settanta. Nel 1995, la popolazione che in Africa viveva sotto regimi democratici era il 25 percento di quella del continente.
Tabella 2: Successi e limiti della democratizzazione, 1995
Transizioni «bloccate» (12) |
Transizioni «imperfette» (12) |
«Successi» (16) |
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fonte: Bratton & Van de Walle "Democratic Experiments in Africa" (Cambridge, 1997)
2.2 Lo sviluppo politico negli ultimi anni: una mappa per regioni.
Nel 2000, alcuni altri stati avevano raggiunto dei successi, un numero minore (come il Congo-Brazzaville, appena discusso) aveva fatto passi indietro. Nel 1999, la Nigeria torna ad essere un paese con elezioni multi-partitiche, dopo il fallimento del processo di democratizzazione 1993. Un elemento rilevante all’interno di questi cambiamenti, che apre uno spiraglio per il consolidamento dei regimi democratici in Africa, è la diminuzione della percentuale di successo dei tentativi di colpi di stato in questi paesi che, secondo stime recenti, è passato da oltre il 50 percento del ventennio 1959-78 al 26 percento fra il 1990 e il 2001 (McGowan 2003). Inoltre, l’ultimo rapporto sui diritti civili e politici di Freedom House mette in luce come a fronte di un numero ancora elevato di paesi in cui tali diritti sono negati, è cresciuto in maniera notevole sia il numero di paesi «parzialmente liberi» che «liberi» (tabella 3). Per quanto il cammino della liberalizzazione politica in Africa sia tuttora incerto, il quadro generale che emerge è quello di isolati, ma importanti, miglioramenti. Si presentano di seguito alcuni casi esemplari di questi complessi processi di sviluppo politico.
Africa Occidentale.
Anche il quadro regionale è caratterizzato da profondi contrasti e differenze. L’esperienza del Senegal è quella di un successo del processo di democratizzazione, e del raggiungimento nel 2000 di una democrazia «piena», con la vittoria di Abdoulaye Wade nelle elezioni presidenziali contro il candidato del partito socialista che rappresentava il regime autoritario a lungo al potere in Senegal. La costituzione del 2001 ha rappresentato un passo avanti in diverse direzioni: dal punto di vista istituzionale ha posto limiti più stretti ai poteri del presidente (riducendo in primo luogo la durata del suo incarico) e dal punto di vista dei diritti civili ha riconosciuto per la prima volta il diritto alla proprietà della terra per le donne. Nel 2001 è stato inoltre riattivato un dialogo costruttivo con le forze indipendentiste della Casamance (Movimento delle Forze Democratiche della Casamance, MDFC) che, pure parte dello stato senegalese, è territorialmente separata e luogo di violenza di stampo «separatista». Per quanto permangano dei focolai di protesta, alcuni miglioramenti nella sicurezza della regione sono avvenuti negli ultimi anni.
Il 2000 è stato un anno fondamentale anche per il progresso democratico in Ghana, dove le forze di opposizione (guidate da John Kufuor) al regime militare durato quasi venti anni di Jerry Rawlings (e che si era sostituito ad un altro regime militare) sono riuscite ad emergere vittoriose sia nelle elezioni presidenziali che in quelle legislative. Nelle elezioni precedenti, nel 1996, pure ritenute libere e corrette, Rawling era riuscito a prevalere grazie al monopolio sull’uso dei media e la maggiore disponibilità finanziaria (un esempio di transizione democratica iniziata ma «imperfetta»). Al processo di costruzione della democrazia si è accompagnato un progressivo miglioramento nel rispetto dei diritti civili: delle commissioni di riconciliazione basate sull’esperienza del Sud Africa sono state stabilite al fine di indagare sulle violenze perpetrate dai regimi autoritari fino dall’indipendenza, avvenuta nel 1957. Accanto a questo, anche attraverso la collaborazione con organizzazioni internazionali quali l’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), le autorità del Ghana stanno tentando sia di migliorare lo condizioni lavorative interne che di prevenire lo sfruttamento del lavoro, in particolare minorile. I principali problemi che permangono sono relativi ad una forte distinzione fra centro e periferie: nelle regioni del nord non mancano episodi di violenza etnica che lo stato non riesce a contenere o mediare, e nelle campagne i diritti delle donne rimangono spesso più formali che realmente riconosciuti.
Anche in Nigeria, il paese più grande e ricco della regione, è stata avviata una transizione alla democrazia che mostra qualche segno di successo. Dopo il fallimento del tentativo di democratizzazione del 1993, quando i militari (che hanno a lungo governato il paese dopo l’indipendenza) hanno rifiutato l’esito delle elezioni, nel 1999 il partito dell’ex-generale Obasanjo ha ottenuto la maggioranza nelle elezioni legislative e nel 2003 è stato rieletto, costituendo così il primo caso in cui un leader in Nigeria ha avuto due mandati al govenro tramite elezioni libere. Di fronte a questi importanti cambiamenti dal punto di vista politico-istituzionale, più incerte sono le prospettive della «rule of law» e dei diritti civili. Tre fattori rendono il processo particolarmente complicato. In primo luogo, la violenza nella zona del delta del fiume Niger, nella quale a rivendicazioni di carattere etnico si aggiungono forme di protesta di tipo economico. In secondo luogo, la violenza, sia di stampo etnico che religioso, nelle regioni del nord. Negli ultimi anni, infatti, si è assistito ad una intensificazione dell’attivismo da parte di gruppi fondamentalisti islamici che reclamano maggiore autonomia (e la possibilità di adottare in pieno la sharia) dal governo centrale (del «sud cristiano) nelle regioni con popolazione a maggioranza musulmana. Collegato a questi due problemi c’è quello del ruolo dei militari. In una realtà profondamente frammentata ed instabile sino dall’indipendenza (poco dopo la quale è scoppiata la guerra civile per la tentata secessione dell’area del Biafra), i militari hanno tradizionalmente avuto un ruolo centrale nella politica nigeriana, intervenendo e governando spesso direttamente. Ancora oggi, soprattutto se tendenze separatiste si dovessero manifestare con forza nel «nord musulmano», è possibile pensare alla riassunzione da parte dei militari di un ruolo centrale nel governo, rendendo così fragile l’esperimento democratico.
Più solide sono le istituzioni democratiche di Benin, Mali e Capo Verde. In questi paesi, le transizioni iniziate nei primi anni novanta hanno avuto un certo successo e, soprattutto, non ci sono state tensioni e rischi di ritorno a regimi autoritari. Capo Verde, in particolare, anche per la sua favorevole posizione geografica, è riuscita ad avere un discreto livello di sviluppo sino dalla fine del regime autoritario che aveva governato l’isola dall’indipendenza avvenuta nel 1975. Il «consolidamento» democratico dell’isola è anche testimoniato dal pacifico passaggio di consegne fra il partito MPD (Movimento per la Democrazia) e il PAICV (Partito Africano per l’Indipendenza di Capo Verde) avvenuto nel 2001, con uno scarto alle elezioni presidenziali di soli 12 voti (il nuovo presidente è Pedro Verona Rodrigues Pires). In Benin, le elezioni del 2001 si sono concluse con il terzo mandato del presidente uscente Kerekou, e con forti proteste di frodi da parte delle opposizioni. Nonostante questi problemi, le seguenti elezioni legislative hanno confermato che il partito dominante nelle preferenze elettorali resta quello guidato dal presidente Kerekou, anche laddove le elezioni siano relativamente libere e corrette. Accanto alla «democrazia elettorale», il rispetto dei diritti civili e delle libertà fondamentali è generalmente alto, anche se recentemente, questo è stato oscurato dall’arresto di alcuni giornalisti che ha dimostrato alcuni limiti nella libertà di stampa. In Mali, nonostante il bassissimo livello di reddito e la profonda frammentazione sociale, la democrazia ha mosso importanti passi avanti dalla caduta del regime militare che aveva governato il paese dall’indipendenza in poi. Nonostante alcune irregolarità nelle elezioni presidenziali del 2002, un popolare candidato indipendente, l’ex-generale Toure, è risultato vittorioso sconfiggendo il candidato del partito principale del governo uscente. Nonostante la scarsa indipendenza del potere giudiziario da quello esecutivo, i diritti civili sono generalmente rispettati, con notevole omogeneità di trattamento per i numerosi gruppi etnici che compongono la società del Mali.
Più complessa è la vicenda di due paesi della costa occidentale, Liberia e Sierra Leone. Caso unico nella storia africana di indipendenza estremamente precoce (1847), la Liberia sta con difficoltà cercando di emergere da un lungo periodo di governi autoritari che si sono succeduti dagli anni quaranta. Il regime autoritario guidato da John Doe, dal 1980, era basato sul dominio di un gruppo etnico (i Krahn) e sulla esclusione sociale e politica degli altri gruppi. La ribellione di altri gruppi, guidati da Charles Taylor, ha precipitato il paese in una brutale guerra civile che ha visto l’intervento di altri paesi della regione. Le elezioni presidenziale del 1997, che seguono un accordo di pace, sono vinte da Taylor. Tuttavia, l’opposizione armata contro il nuovo governo rende impossibile un vero sviluppo democratico, del resto prevenuto anche dallo stesso Taylor. Il riacutizzarsi della rivolta, insieme alle pressioni esterne (in particolare degli Stati Uniti), portano alle dimissioni di Taylor e all’avvio di una nuova transizione, sotto la supervisione di forze di pace di altri paesi africani e con la consulenza tecnica di organismi internazionali quali Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale. Nell’autunno del 2005, delle elezioni generalmente ritenute libere e corrette, ha portato al potere Ellen Johnson-Sirleaf, alla quale è affidato il difficile compito di guidare fuori dalla transizione un paese ancora in balìa di una profonda insicurezza e frammentazione. Anche la Sierra Leone è impegnata nel difficile processo di ricostruzione dopo trent’anni di governo autoritario (1971-2001) e una sanguinosa guerra civile durata un decennio e terminata nel 2002. Il presidente Kabbah, eletto già nel 1996 e poi nel 2002, si trova ad affrontare difficili sfide legate sia all’estrema povertà e allo scarso rispetto dei diritti civili, con particolare riguardo alla condizione delle donne, come la Commissione per la Verità e la Riconciliazione ha più volte fatto notare. Le elezione programmate per il 2007, inoltre, sembrano al momento essere una fonte di profonde divisione e di rischio per il pacifico proseguimento della transizione del paese.
Africa Centrale.
Più complicato è stato lo sviluppo di istituzioni democratiche in Africa Centrale. Molte delle transizioni in questi paesi sono state altamente imperfette o «bloccate» dai regimi al potere. È il caso del Gabon, della Guinea Equatoriale. Nel caso della Repubblica Centrafricana, dopo un inizio promettente dal punto di vista della costruzione di un sistema democratico, il colpo di stato guidato nel 2003 dal generale Bozize (attualmente ancora in carica come presidente della repubblica), ha mostrato quanto invece fossero fragili le premesse della democrazia. Nel 2005, si sono tenute delle elezioni che hanno confermato Bozize alla presidenza ma che hanno anche mostrato la presenza di numerose formazioni politiche di opposizione al regime. In alcuni casi, come in Ruanda e in Burundi, le transizioni sono state accompagnate dall’intensificazione della violenza, principalmente di stampo etno-politico. Dopo quella che è stata una delle guerre più atroci del secolo, il Ruanda è ancora caratterizzato da un regime autoritario. Nonostante l’introduzione di una nuova costituzione che riconosce il pluralismo politico, il governo dominato dal Fronte Patriottico del Ruanda (RPF), uscito vincitore dal conflitto del 1994, esclude di fatto dalla partecipazione politica la maggioranza Hutu, con un livello basso di protezione dei diritti civili fondamentali. In Burundi, la situazione è almeno in parte migliore. Sebbene sporadici episodi di violenza continuino nel paese, i negoziati iniziati ad Arusha, in Tanzania, nel 1998, hanno permesso alcuni, pure incerti progressi, anche grazie all’intervento di mediazione di Nelson Mandela. Questi progressi hanno portato ad una nuova costituzione basata su un sistema di «power-sharing» fra i due principali gruppi etnici (Hutu e Tutsi) e ad elezioni democratiche nel 2005, con la vittoria di Nkurunziza.
La situazione politica di Ruanda e Burundi è strettamente connessa con quella della Repubblica Democratica del Congo (o Congo-Kinshasa), a causa del forte «interessamento» di ciascun paese agli affari interni degli altri e della presenza di grandi numeri di rifugiati provenienti dagli altri paesi. Gli accordi di Pretoria del 2003, che hanno segnato la fine (almeno formalmente) delle ostilità nella regione dei Grandi Laghi ha permesso che di avviare anche internamente alla Repubblica Democratica del Congo una fase di negoziazione fra le parti coinvolte nel conflitto. Il primo passo di questa nuova fase è stata la costituzione di un regime di transizione nel luglio 2003 in cui si sono affiancati come vice-presidenti al presidente Joseph Kabila i leader delle principali fazioni in lotta. Dopo il referendum costituzionale del dicembre 2005, elezioni presidenziali e legislative avranno luogo il 30 luglio 2006. Queste elezioni rappresentano chiaramente un momento fondamentale perché rappresenterebbero un primo passo verso la costruzione di un sistema democratico nel paese, e verso una stabilità che di fatto è stata un raro episodio nei 46 anni passati dall’indipendenza. Ma l’importanza del processo elettorale e della stabilità congolese basata su un effettivo accordo fra le parti protagoniste dei passati conflitti sta anche nel fatto che questa, specie se accompagnata dal successo della transizione in Burundi, potrebbe portare alla stabilizzazione della regione dei Grandi Laghi, con possibili «ricadute» positive anche sul Ruanda.
Difficile è anche parlare di transizioni democratiche in Congo-Brazzaville e in Cameroon. Nel primo caso, come notato, Sassou-Nguesso ha ripreso militarmente il potere e prevenuto lo sviluppo di istituzioni democratiche. In Cameroon, il processo di democratizzazione è rimasto anch’esso fermo sotto il controllo del partito del Rassemblement démocratique du peuple camerounais di Paul Biya, il cui regime, pure relativamente stabile, non garantisce né libertà politiche né civili. In Uganda, il regime «senza partiti» guidato da venti anni da Yoweri Museveni ha mantenuto alcune delle forme della democrazia (elezioni per il parlamento e la presidenza), ma ne ha proibite altre, in primo luogo l’associazionismo politico e l’organizzazione di partiti. Le elezioni del 2001, che hanno portato alla riconferma di Museveni, sono state inoltre caratterizzate da irregolarità, se non nel loro svolgimento, almeno per quanto riguarda la possibilità di accesso ai media per le opposizioni durante la campagna elettorale.
L’unico vero esempio di democrazia «compiuta» in quest’area è rappresentata dall’isola di Sao Tomè e Principe, al largo della costa del Gabon. La democrazia multi-partitica, creata dopo un referendum nel 1990, accompagnata da un generale rispetto per i diritti civili, ha sorpassato la «prova» della prima alternanza di partiti al potere nelle elezioni del 2001. Tuttavia, la forte instabilità politica ha portato ad un tentato colpo di stato militare nel 1995 ed un altro tentativo nel 2003 che invece ha deposto, ma solo per una settimana, il presidente eletto de Menezes. L’intervento esterno, sotto l’egida del Portogallo, ex-potenza coloniale, e di numerosi paesi africani, ha riportato pacificamente al potere de Menezes (le prossime elezioni presidenziali si terranno nel luglio 2006). La recente scoperta del petrolio in acque territoriale è probabilmente l’evento che più condizionerà la vita economica e politica nel paese nei prossimi anni.
Africa Orientale.
Anche in Africa Orientale, la democrazia non ha fatto alcuni passi avanti e alcuni passi indietro. Il conflitto fra Eritrea ed Etiopia, la disgregazione e il «fallimento» dello stato in Somalia sono gli eventi centrali degli anni novanta che contribuiscono a spiegare le ragioni di questo insuccesso almeno in queste due aree. In Etiopia le elezioni, formalmente multi-partitiche, hanno fino dal 1991 consegnato il potere all’Ethiopian People's Revolutionary Democratic Front (EPRDF), che ha controllato i risultati elettorali sia gestendo le campagne elettorali in situazione di sostanziale monopolio dell’informazione sia, secondo l’opposizione, con brogli elettorali. Nel 2000, le elezioni hanno dato comunque la possibilità di espressione alle diverse parti politiche, anche se sono terminate con la vittoria dell’EPRDF. Le continue dispute di confine con l’Eritrea, sfociate in una guerra aperta fra il 1998 e il 2000, permenttono anche all’EPRDF di «giocare» le armi del nazionalismo e dell’emergenza a proprio favore.
La Somalia rappresenta invece uno degli esempi più drammatici di completa dissoluzione dell’ordinamento statuale, e di completa impossibilità di trovare un accordo fra le fazioni in lotta. La situazione di aperto confronto si apre con la deposizione di Siad Barre nel 1991, e con diversi gruppi armati che reclamavano il potere in un paese estremamente povero (nel 2005, il reddito pro-capite è stato di 120 dollari annui). Quello che segue, nonostante gli interventi internazionali, è una lotta senza quartiere fra i vari gruppi, che si è arrestata, in parte, con degli accordi che hanno portato alla costituzione di un governo transitorio federale guidato da Ali Mohamed Ghedi. Negli ultimi anni, sono aumentati i sospetti che la Somalia costituisca un rifugio per alcuni gruppi legati al terrorismo internazionale, e nelle ultime settimane una milizia islamista ha conquistato Mogadiscio, testimoniando non solo la forza di formazioni estremiste ma anche l’ancora lungo percorso da fare nella ricostruzione dell’autorità statuale prima ancora che di un sistema che abbia almeno alcuni requisiti minimi di democraticità.
Diverso è il discorso per i due grandi stati costieri dell’Africa Orientale, Kenya e Tanzania. La transizione iniziata in Kenya nel 1992 è stata segnata dal controllo diretto esercitato da Daniel arap Moi e dalla Kenyan African National Union (KANU), il partito dominante fondata da Jomo Kenyatta, l’eroe dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Il KANU ha utilizzato sia denaro dello stato che provocato violenze in alcune aree al fine di assicurarsi la vittoria elettorale. Simili metodi hanno caratterizzato anche le elezioni del 1997. Nel 2002, tuttavia, l’opposizione al regime di Moi si è coalizzata intorno al candidato alla presidenza Kibaki, che ha sconfitto Uhuru Kenyatta (il figlio di Jomo) nelle elezioni presidenziali. Benché l’evento sia certamente indicatore di un cambiamento epocale nella politica kenyana, e i primi passi del nuovo governo abbiano mostrato la volontà di riformare il sistema politico in primis diminuendo la corruzione e il sistema economico «bloccato» ereditato da decenni di governo a partito unico, la democrazia kenyana è tuttora fragile e lontana dall’essere consolidata. Il perdurare della pace etnica e della tolleranza religiosa, insieme al progredire della protezione dei diritti civili sono i principali indicatori sulla base dei quali sarà possibile valutare la consistenza e le prospettive dei recenti favorevoli sviluppi politici in Kenya.
In Tanzania, i primi tentativi di democratizzazione negli anni novanta furono gestiti dal partito Chama Cha Mapinduzi (CCM), al potere fino dall’indipendenza, in modo da non dover cedere il potere, ma al contrario di ottenere legittimazione anche grazie al processo elettorale. Nel 2000, il CCM ha di nuovo vinto le elezioni presidenziali e legislativi, ritenute non corrette dall’opposizione e da numerosi osservatori internazionali. I brogli nell’isola di Zanzibar, che gode di uno stato di semi-autonomia, avevano causato particolari lamentele. Nel 2003, il partito di opposizione (Civic United Front, CUF) ha vinto le elezioni per le assemblee locali, scalzando per la prima volta il CCM da un luogo chiave di potere. L’ultima tornata elettorale, considerata da molti osservatori come relativamente libere e corrette, ha premiato con oltre l’80 percento dei voti Jakaya Kikwete del partito dominante CCM, che ha conquistato una maggioranza amplissima anche alle elezioni legislative. Il principale limite allo sviluppo democratico in Tanzania sembra ad oggi essere, oltre ad un certo perfettibile rispetto dei diritti civili, l’assenza di alternative partitiche che possano credibilmente aspirare al governo del paese.
Africa Meridionale.
Molto eterogeneo è anche il panorama dell’Africa Meridionale, dove si trovano tre fra i più grandi «successi» africani, Sud Africa, Lesotho e Botswana, accanto a paesi che rimangono dominati da regimi autoritari, come Angola e Swaziland, o che addirittura hanno fatto passi indietro come lo Zimbabwe sotto Robert Mugabe. A sedici anni dalla liberazione di Nelson Mandela e dell’apertura del processo di liberalizzazione politica iniziata con la legalizzazione dell’African National Congress (ANC), il Sud Africa rimane il caso di grande successo nelle transizioni democratiche africane. Di fronte a molti osservatori che prevedevano il possibile esplodere di conflitti legati alla divisione razziale o alla pure profonda divisione etnica esistente fra i neri, a parte che nei primi momenti che precedono l’accordo che porta alla riscrittura della costituzione, i livello di violenza politica rimangono relativamente bassi. Il nuovo assetto politico-istituzionale è stato «battezzato» dalle prime elezioni multi-partitiche nel 1994 in cui ha trionfato l’ANC di Mandela, poi sostituito da Thabo Mbeki nelle elezioni (vittoriose) del 1999 e del 2004. Il «nuovo» Sud Africa, che rimane uno straordinario esempio di risoluzione di conflitti basata sull’accordo fra le elite (col governo di unità nazionale che gestisce la fase della transizione fra il 1990 e il 1994) e sulla istituzione delle Commissioni di Verità e Riconciliazione come strumento di pacificazione nazionale, deve confrontare ad oggi tre principali sfide. La prima è quella di evitare che il partito che ha condotto la parte principale della lotta di liberazione dall’apartheid diventi l’unico partito in grado di aggregare le preferenze dell’elettorato, bloccando così di fatto la possibilità dell’alternanza al governo che è garantita dalla nuova costituzione. Il secondo problema è quello di mettere in moto un circolo vizioso di sviluppo economico che, pure molto più elevato che nella gran parte del continente, rimane insufficiente a garantire ad una parte importante della popolazione nera di uscire da situazioni anche estreme di miseria. In terzo luogo, il futuro del Sud Africa si giocherà molto sulla sua capacità di combattere la diffusione dell’HIV/AIDS che colpisce in questo paese oltre cinque milioni di persone, circa il 15 percento della popolazione, con cifre molto più alte in alcune aree più povere.
Il Botswana è il sistema democratico di più lunga durata in Africa, con elezioni multi-partitiche regolari che si svolgono dal 1966, anno dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. I problemi principali che il paese deve affrontare, per quanto riguarda il rafforzamento del processo democratico sono legati ad una maggiore possibilità di accesso ai media per i partiti di opposizione e al rispetto pieno dei diritti di alcune minoranze etniche. Il vero «nodo» per il successo del Botswana, tuttavia, risiede oggi e nel prossimo futuro nella capacità di affronate in maniera efficace la diffusione endemica del virus HIV, che colpisce circa un terzo della popolazione, con chiari effetti disgreganti del sistema sociale ed economico. Anche le Mauritius, democratiche dal 1968, rappresentano un caso di successo per la convivenza pacifica in società molto frammentate etnicamente. Negli ultimi anni, il sistema politico delle isole è stato scosso da qualche caso rilevante di corruzione, il che ha portato ad un parziale rinnovamento della classe politica.
Il Lesotho rappresenta una democrazia più giovane e problematica, con frequenti violenze a una generale instabilità che seguono alle elezioni democratiche del 1993. La pacificazione di alcune aree coinvolte nella violenza è stata ottenuta dopo il 1998 solo con l’intervento di truppe del Sud Africa e del Botswana. Il processo di democratizzazione riavviato nel 2000 ha portato ad elezioni nel 2002 con la vittoria del partito LCD (Lesotho Congress for Democracy) già al governo. Al momento i problemi principali del paese sono dovuti alla povertà e all’eccessiva dipendenza da raccolti i cui risultati sono fortemente discontinui. Un simile percorso, caratterizzato da discontinuità, è tipico anche del Madagscar: nel 1992 Albert Zafy, il leader dell’opposizione al regime autoritario precedente, è stato eletto presidente nelle prime elezioni effettivamente libere della storia del paese. Tuttavia, presto la instabilità partitica ha portato una difficile attuazione di alcune politiche, in particolare relative al decentramento amministrativo. Nel dicembre 2001, il candidato alla presidenza Ravalomanana ha rifiutato l’esito elettorale che lo avrebbe costretto al ballottaggio dichiarandosi presidente. Mentre la Corte Costituzionale ha avallato le tesi di Ravalomanana, l’altro candidato Ratsiraka ha iniziato una violenta contestazione del risultato, durata fino al luglio 2002. In questo clima, la transizione del Madagscar è tuttora segnata da episodi di violenta protesta che mettono in dubbio, se non l’esistenza di alcuni dei requisiti formali per l’esistenza di un sistema democratico, l’effettiva possibilità per i cittadini di vivere in un sistema socialmente pacifico dove tutti i principali diritti civili e politici siano di fatto rispettati.
In Angola, nonoostante sia finita la guerra civile, resta ad oggi difficile indivisuare quali passi avanti siano stati fatti verso la democrazia, in attesa delle elezioni presidenziali e legislative che si dovrebbero svolgere nel 2006. sono stati poco rilevanti. Il Mozambico, l’altro paese della regione che è stato sotto la dominazione portoghese, è altresì riuscito ad emergere da una lunga e dolorosa guerra civile. In questo caso, diversamente dall’Angola, esistono elezioni fino dal 1994. Queste elezioni finora hanno sempre confermato al potere il FRELIMO Mozambique Liberation Front, il partito di stampo socialista protagonista della guerra contro il Portogallo e che ha accettato elezioni multi-partitiche dopo gli accordi di pace col movimento RENAMO (Mozambique National Resistance). Alla forma democratica non corrispondono tuttavia completamente le pratiche in materia di diritti civili, anche per il perdurare di alcuni episodi di violenza e della povertà endemica che caratterizza tutto il paese. Lo Zimbabwe è uno dei casi in cui si sono registrati passi indietro sotto la presidenza di Robert Mugabe, che ha ulteriormente limitato le libertà civili e politiche, dopo aver vinto nel 2002 elezioni presidenziali che sono state viste quasi unanimemente come non corrette e libere. Le seguenti elezioni parlamentari hanno avuto la stessa «cattiva sorte», con una vittoria delle forze dello Zimbabwe African National Union - Patriotic Front (ZANU-PF) di Mugabe e intimadazioni verso i partiti di opposizione. Le elezioni parlamentari del 2005, anch’esse ma giudicate scorrette dall’opposizione, hanno confermato a larga maggioranza il partito di Mugabe, e hanno garantito al preseidente una maggiroranza in parlamento sufficiente per poter modificare la costituzione.
Tabella 3: diritti e libertà in Africa, 2005
Paesi «non liberi» |
Paesi «parzialmente liberi» |
Paesi «liberi» |
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fonte: Freedom House, 2006
Nota: i simboli fra parentesi (+, -, =) indicano cambiamenti e costanti rispetto al rapporto sul 1989.
Tabella 4: democrazie elettorali, 2005
Benin Botswana Cape Verde Comore Ghana Guyana Kenya Lesotho Liberia Madagascar Malawi |
Mali |
fonte: Freedom House, 2006
3.
Alcune aree di conflitto: Sudan e Ciad; Costa d’Avorio; Nigeria; Burundi; Uganda; Repubblica Democratica del Congo; Angola
3.1
SUDAN E CIAD:
DA GUERRA CIVILE DEL DARFUR A GUERRA REGIONALE.
3.1.1
Origini e stato attuale del conflitto
A quasi tre anni dallo scoppio della guerra civile nella zona del Darfur, con un bilancio di circa 70.000 morti, 200.000 profughi oltre i confini e un milione e mezzo di profughi interni, la crisi del Sudan è ancora molto lontana da una soluzione.
La regione del Sudan occidentale è diventata teatro di una crisi umanitaria senza precedenti nel febbraio 2003 quando i due gruppi armati del Sudanese Liberation Army e del Justice and Equality Movement si sono ribellati al governo del presidente Omar Al-Bashir ritenuto responsabile di una politica di disinteresse e di sfruttamento di rivalità già esistenti tra popolazioni stanziali e nomadi, in una zona sostanzialmente desertica e poverissima, dove i contrasti tra comunità autoctone erano già presenti da decenni.
Il Sudan ha in effetti conosciuto ben pochi periodi di pace dalla conquista dell’indipendenza nel 1956 in poi; la prima guerra civile, iniziata nel 1955 tra popolazione musulmana e non si concluse nel 1972 con gli accordi di pace ad Addis Abeba. Il secondo episodio di guerra interna ebbe invece inizio nel 1983 (e conclusosi solo nel 2005 con la firma del Comprehensive Peace Treaty) con la proclamazione della legge della Shari’a nel corso della presidenza Numayri, una rigida interpretazione del Corano in una regione a maggioranza animista e cristiana, che tra l’altro includeva la proibizione per i civili dell’area del Darfur di possedere o portare armi dietro risarcimento dello stato; un provvedimento che portò ad interventi successivi di “pacificazione” da parte del governo in zone dove si riteneva si trovassero fazioni ribelli (musulmani non ortodossi e non musulmani).
Sebbene oltre il 40% della popolazione darfurina sia musulmana è impossibile negare che divisioni interne tra arabi e non arabi esistono da lungo tempo: l’appartenenza bantu-sudanese di molti gruppi della zona del sud li avvicina maggiormente a etnie presenti in Ciad, piuttosto che al potere di Khartoum, sicuramente non fautore di una politica di unione sotto innumerevoli aspetti; la guerra degli anni ottanta ha contribuito ad esasperare gli animi delle due principali etnie, i Fur e gli Zaghawa, che accusarono il governo di praticare discriminazioni evidenti nell’occupazione delle terre e dell’immigrazione a favore degli “arabi”. Al-Bashir, eletto presidente nel 1993, dette il via ad un’opera di ridefinizione dei confini del Darfur, dando luogo a tre regioni distinte: Darfur settentrionale, occidentale e meridionale. Le rivalità già presenti si sono acuite fino alla proclamazione dello stato di emergenza risalente all’ottobre 1996; l’emergenza del 2003 e di oggi è pertanto l’appendice più recente di un conflitto interno mai sopito e risolto.
La comunità internazionale, ma soprattutto l’attenzione dei media, hanno spesso sorvolato sulla questione ultima che ha coinvolto e tutt’oggi riguarda questa porzione di territorio sudanese, con un’estensione in realtà pari a quella della Francia, contesa tra gruppi armati ribelli e forze del governo di Khartoum, responsabili di attacchi ripetuti contro la popolazione civile rifugiata oltre i confini. Dopo una iniziale copertura mediatica abbastanza forte, tranne che in Italia, la crisi del Darfur sembra essere calata nell’ ombra, spiazzata, come molti altri conflitti africani, da guerre e disastri naturali più “vicini” all’interesse occidentale.
La mediazione per il raggiungimento di accordi di pace stabili langue: si è discusso fino al gennaio 2005 sull’opportunità o meno di definire come genocidio i massacri in corso, un termine che, se accettato, implicherebbe un intervento immediato e che ha finito per rappresentare un aspetto chiave non trascurabile all’interno della vicenda senza peraltro essere accolto o apportare cambiamenti decisivi nella situazione. È appunto del 2005 l’ultima dichiarazione delle Nazioni Unite che ribadiscono di non considerare un genocidio le vicende del Darfur, contrariamente a quanto era stato a suo tempo richiesto dal governo statunitense e dal suo ex segretario di stato Colin Powell .
Le attività di guerriglia più intense si registrano ancora oggi nella zona centro-meridionale del Darfur, presso il confine con il Ciad orientale e nel corridoio che va da Tawila, nel nord Darfur, a Graida, nel sud; i due gruppi ribelli coinvolti (SLA e JEM) nel gennaio 2006, a seguito di un incontro nella capitale ciadiana N’Djamena, si sono uniti a formare le Allied Revolutionary Forces of Western Sudan.
Per contro il governo sudanese continua ad essere responsabile di attacchi alla popolazione civile anche attraverso l’uso di bombardamenti aerei e sostenendo le milizie nomadi chiamate janjaweed , responsabili di numerose incursioni ed uccisioni di civili oltre confine.
I cessate il fuoco sono stati ripetutamente firmati e violati da entrambe le parti, mentre la situazione ha finito per coinvolgere direttamente il confinante Ciad, dove sono numerosi i campi profughi (circa 200.000 rifugiati) e dove i gruppi armati dal governo sudanese conducono ripetuti attacchi ai danni degli sfollati e della popolazione, in cerca di fuggiaschi ribelli e di luoghi da depredare.
Siamo giunti al settimo incontro per i colloqui di pace tra le parti ad Abuja, ma i risultati raggiunti sono scarsi: il SLA e il governo del Sudan non rispettano in alcun caso l’accordo per il cessate il fuoco stabilito a N’Djamena l’8 aprile del 2004 e, nonostante gli scontri diretti siano lievemente diminuiti, le recenti strategie di guerra del governo e le azioni delle bande armate ribelli alimentano un banditismo dilagante, illegalità e disordini che comportano conseguenze devastanti per i civili.
3.1.2
Il coinvolgimento del CIAD nella crisi sudanese
Il teatro degli scontri quindi continua ad allargarsi ulteriormente finendo per trasformare un conflitto interno, già estremamente violento e sanguinoso, in una guerra a carattere regionale: l’estendersi dei combattimenti nel territorio orientale del Ciad rischia di produrre un’emergenza umanitaria ancora più ampia da entrambi i lati della frontiera. Il governo sudanese sta compiendo sforzi purtroppo molto deboli e insufficienti per giungere ad una stabilizzazione o addirittura nulli se si considera che elementi militari e dei servizi di sicurezza sudanesi appoggiano apertamente i ribelli ciadiani che si contrappongono al già debole e decadente potere del presidente Deby (debolezza dimostrata dal fallito colpo di stato del maggio 2004, che ha messo in luce la complicata situazione in cui versa anche il governo di N’Djamena). Mentre la situazione del Darfur va progressivamente deteriorandosi le ostilità tra il Ciad e il Sudan sono quindi aumentate: gruppi ribelli ciadiani (Rassemblement pour la Democratie et la Liberté e Socle pour le Changement, l’Unité et la Démocratie ) hanno incrementato le proprie incursioni nella zona est del paese a partire dall’ottobre 2005; l’RDL, con base nell’ovest del Darfur, ha condotto insieme allo SCUD, nel dicembre dello stesso anno, attacchi alle truppe dell’esercito regolare ad Adré con il sostegno del governo sudanese (attraverso l’intervento delle truppe “Janjaweed”); il presidente Déby ha risposto con una dichiarazione di “stato di belligeranza” con il Sudan da una parte e cercando di rafforzare i rapporti con i ribelli darfurini, sempre più spesso presenti nella capitale N’Djamena, dall’altra. Il conflitto coinvolge quindi attualmente non solo attori interni bensì due stati.
Nel corso dei tre anni di guerra il Ciad ha visto rapidamente declinare la propria situazione umanitaria, politica, economica e di sicurezza. L’evolversi della crisi del Darfur ha inevitabilmente coinvolto il paese confinante che mostra molti punti in comune con le fratture e le disavventure politiche del Sudan; il presidente Deby ha a lungo intrattenuto ottime relazioni con il governo di Khartoum, almeno fino a quando la pressante presenza di cittadini ciadiani all’interno di gruppi ribelli del Darfur lo ha collocato in una posizione sempre più scomoda e difficoltosa dovuta, d’altro canto, anche alle accuse rivoltegli da componenti chiave del proprio stato di non agire concretamente in favore di gruppi delle SLA e dei ribelli ciadiani presenti in territorio sudanese. Il rafforzarsi dei rapporti tra i gruppi armati del Darfur e il governo di N’Djamena hanno perciò portato al crollo dei rapporti attuale tra le due nazioni.
La conseguenza ovvia della crisi ai confini del Darfur è stato l’afflusso in massa di centinaia di migliaia di profughi nell’area orientale del Ciad, una delle regioni più povere dell’intero stato; sebbene molti abitanti delle zone di confine appartengano alle stesse origini etniche dei rifugiati, i contrasti sono in costante aumento malgrado l’ UNHCR e varie Organizzazioni Non Governative abbiano di recente promosso una politica di aiuti e di afflusso di risorse rivolta anche alla popolazione ospite.
Un secondo effetto è sicuramente stato l’incremento dell’instabilità nell’est del paese e un indebolimento delle forze armate che hanno contemporaneamente perso sia uomini che armi nei gruppi ribelli del Darfur, il Justice and Equality Movement in particolare ha reclutato molti soldati ciadiani agli inizi del conflitto, acquistando mercenari ed armi allo stesso tempo.
Le ripercussioni si sono fatte sentire anche per quel che riguarda la politica di divisione di Deby tra gli interessi coltivati in seno alla comunità Zaghawa del Darfur e l’iniziale supporto al governo sudanese e il recente cambio di rotta, manifestatosi con le accuse rivolte al governo del Sudan di ospitare i gruppi ribelli ciadiani, posizione che ha fatto scendere ai minimi storici la leadership di Deby. Il tentativo di colpo di stato già accennato precedentemente e avvenuto nel maggio 2004 è stato provocato principalmente dalla convinzione dei vertici militari di un mancato sostegno alle forze Zaghawa oltre confine e al governo sudanese e di una condotta discontinua e ambigua del presidente non ancora pienamente risolta, soprattutto dopo la dichiarazione dello stato di belligeranza.
La nuova alleanza dei gruppi armati del Ciad dimostra infatti una sempre crescente opposizione al regime attuale, già sufficientemente barcollante per molteplici cause, dalla decisione del presidente di correre per un terzo mandato, favorito da un emendamento apportato alla costituzione, alla crescente crisi economica interna e al collasso dei già scarsi servizi sociali esistenti.
La disposizione del regime di interrompere l’accordo per l’oleodotto con la Banca Mondiale e sostanzialmente di interrompere la fornitura di petrolio se la comunità internazionale non fosse intervenuta, ha costituito più uno sforzo disperato per arginare i crescenti sintomi di pericolo dovuti a tendenze autocratiche e deficienze di governo che una concreta scelta politica.
3.1.3
L’intervento dell’Unione Africana
L’Unione Africana è stata il principale attore internazionale sulla scena del Darfur dall’aprile 2004 in poi, prendendo l’iniziativa per istituire negoziati politici e una forza di monitoraggio per la sospensione delle ostilità, l’AMIS. Ciò ha provocato risultati e benefici alterni: l’UA ha provveduto ad una rapida risposta iniziale alla crisi, in un momento in cui non si presentavano alternative ma ha d’altro canto sofferto di una mancanza di capacità, di risorse e, non ultima, di volontà politica in grado di responsabilizzare le parti in causa verso i propri impegni o di correggere e migliorare significativamente la situazione.
La missione ha raggiunto un numero di circa 7.000 membri contro un tetto massimo stabilito in 7.731 ma la situazione continua a rimanere disperata per la maggioranza dei civili; la violenza e le violazioni ai cessate il fuoco restano incessanti da entrambe le parti e i parametri della missione di peacekeeping sono rimasti invariati dall’inizio del mandato.
Dal febbraio 2006, sotto ripetute pressioni del governo statunitense all’inizio del mese di presidenza al Consiglio di Sicurezza, l’Unione Africana ha approvato la riconversione dell’AMIS come missione delle Nazioni Unite; il follow up, accolto all’unanimità, sarebbe dovuto avvenire formalmente nel marzo 2006 ma il mandato precedente è stato comunque prorogato fino al 30 settembre senza realmente stilare una concreta tabella di marcia per la transizione. Il piano per la successione prevedrebbe l’invio di ulteriori truppe, lo stanziamento di nuovi armamenti e un mandato per la difesa dei civili.
Ovviamente resta da chiedersi se l’intervento dei caschi blu possa effettivamente modificare le sorti della guerra in Sudan e nel vicino Ciad. Il 13 gennaio 2006, il senior UN official in Sudan, Jan Pronk, ha ammesso il fallimento della strategia internazionale nel Darfur ed ha aggiunto che sarebbe stato necessario un contingente di almeno 12.000/20.000 membri per una protezione adeguata della popolazione e per il disarmo delle milizie combattenti.
Le difficoltà restano evidenti nel trovare stati che contribuiscano con l’impiego di propri soldati ed è facile prevedere che gli Stati Uniti, promotori della mozione, difficilmente parteciperanno in prima persona all’esito della missione; non ultima, si somma alla lista degli ostacoli l’aperta ostilità del presidente del Sudan, Al-Bashir, ad un intervento di peacekeeping delle Nazioni Unite , probabile effetto residuo delle numerose condanne dell’ONU a fronte delle ripetute violazioni degli accordi di pace; il 25 maggio 2004 il Consiglio di Sicurezza delle NU condannò il Sudan per i gravi abusi e le violenze contro i civili perpetrate in Darfur, intimando al governo di impedire le incursioni delle truppe janjawid; nel luglio dello stesso anno gli stessi Colin Powell e Kofi Annan si recarono in Sudan, minacciando sanzioni in caso di ulteriori infrazioni agli impegni sottoscritti, fino ad arrivare alla risoluzione 1591 con la quale il Consiglio di Sicurezza rafforzava l’embargo sulle armi e sulla vendita di petrolio.
3.1.4
Una questione ricorrente: guerra per il controllo delle risorse o scontro etnico?
Quanto la crisi interna del Sudan riflette e assomiglia ad altri scontri e conflitti dell’area africana e quanto peso hanno le componenti economiche ed etniche nella nascita e nel protrarsi della guerra? Sono domande che si ripetono al presentarsi di ogni situazione di crisi, soprattutto se si parla di stati africani e dai quali è difficile prescindere anche in questo caso. La zona teatro principale degli scontri è una delle più ricche di petrolio dell’area, il Sudan è effettivamente al settimo posto nella lista dei paesi produttori di petrolio del continente, il che rende difficile non introdurre la motivazione dello sfruttamento delle risorse poi allargatasi dai gruppi ribelli combattenti agli stati attualmente interessati (non ultimi l’Eritrea, accusata dall’ONU di offrire sostegno a gruppi ribelli del sud Darfur e la Libia, anche se coinvolta nelle trattative di pace come paese mediatore ).
La composizione etnica della popolazione sudanese risulta essere comunque una realtà molto variegata, come accade per molti stati e aree africane. Vi sono principalmente tre gruppi etnici che il conflitto ha portato sulla scena di guerra: i sedentari Fur (da cui la regione prende il nome) e Massaleit e i nomadi Zaghawa.
Il governo sudanese ha cercato di sottolineare e dare forza ad una dimensione tribale del conflitto e di trasformare quelle che sono nate come insurrezioni politiche in una guerriglia a sfondo etnico, nonostante l’insorgere di ribellioni abbia rivelato una base comune che vede l’intera popolazione darfurina aderire alle stesse rivendicazioni politiche ed economiche. L’intensa propaganda governativa ha sostenuto che gli Zaghawa, dominanti all’interno delle strutture di comando della SLA, stanno manipolando e usando i Fur e i Massaleit con l’obiettivo di costruire una grande stato Zaghawa in Sudan e nel Ciad. Sono del vice presidente Ali Osman Taha le parole che affermano che “il conflitto del Darfur […] è una questione tribale e non politica o di genocidio […] ci stiamo infatti confrontando con una situazione tipica molto comune in Africa” .
Le implicazioni etniche sostenute dal Sudan si sono estese anche al Ciad, dove, sin dall’inizio del conflitto in Darfur, lo stato sudanese ha tentato di neutralizzare la collaborazione dei gruppi Zaghawa ciadiani con le truppe del SLA.
Voci internazionali hanno avallato in varie occasioni la tesi di uno scontro tribale o interetnico; ne è un esempio la dichiarazione del 9 novembre 1995 del vice segretario di stato statunitense Robert Zoellick che affermava: “It’s a tribal war, that has been exacerbated by other conditions, and frankly, I don’t think foreign forces ought to get themselves in the middle of a tribal war of Sudanese” .
Sicuramente la componente delle diverse appartenenze della popolazione sudanese non è un elemento da trascurare ma come tralasciare il fatto che sin dalla tradizionale lotta per il possesso dell’acqua (fondamentale in una zona semidesertica) il ruolo delle risorse contese resta un elemento primario. I ridisegnamenti dei confini, (quello del capo del governo Numayri all’indomani della scoperta e delle prime estrazioni di petrolio del 1978, oltre a quello già citato ad opera di Al-Bashir) hanno delineato cambiamenti giurisdizionali ma anche di controllo con la conseguente esclusione dei governi locali dalla gestione delle riserve petrolifere.
I principali obiettivi del movimento politico armato del SPLA/M (Sudan People Liberation Army/Movement, poi riconvertito in SLA nel 2003) guidato dall’ex colonnello John Garang, sono stati gli impianti petroliferi delle compagnie straniere, allo scopo di combattere contro lo sfruttamento non condiviso delle risorse delle proprie terre, monopolio esclusivo delle forze governative.
3.1.5
Violazioni dei diritti umani
Nonostante la violenza persista attraverso l’intera regione, attività militari su larga scala si sono concentrate in due zone: il corridoio nel sud Darfur (che si allunga al nord fino a Tawila, ad est verso Shearia, ad ovest in direzione di Nyala e al sud a Graida) e nell’area di confine con il Ciad, principalmente nella parte ad ovest, nei pressi di Geneina e nel nord est a Kulbus.
Gli attacchi alle popolazioni locali si ripetono incessantemente e sono molti i rapporti dettagliati di ciò che avviene nel corso degli scontri tra le varie fazioni in campo; crimini di guerra e contro l’umanità continuano ad essere perpetrati sia dalle forze governative o ad esse alleate che dai gruppi ribelli armati. I civili sono bersaglio di bombardamenti aerei che spesso precedono incursioni dei militanti janjawid, così come nel corridoio Tawila-Graida sono le SLA a compiere attacchi ai danni dell’esercito “regolare” ma anche della popolazione presente nella zona interessata.
A seguito di una recrudescenza delle offensive del governo in gennaio, la violenza ha subito un leggero declino fino al mese di aprile per poi aumentare nuovamente durante la fine di agosto. Le violazioni dei diritti umani contro attivisti e operatori umanitari non si arrestano ma anzi hanno recentemente visto un progressivo aumento; inoltre le truppe di peacekeeping inviate dall’Unione Africana sono spesso vittime di rapimenti e uccisioni.
Dall’inizio del conflitto, cominciato nel 2003, più di 200.000 civili sono stati uccisi, circa due milioni di persone sono state costrette a spostarsi e rifugiarsi in campi profughi, l’assetto della popolazione è stato profondamente danneggiato e l’economia distrutta. Un numero altissimo di uomini, donne e bambini sono stati vittime di azioni di guerra, di crimini contro l’umanità e massacri indiscriminati.
Il governo sudanese ha bloccato quasi interamente ogni tipo di intervento umanitario internazionale fino a tutto il 2004. il governo di Khartoum è da lungo tempo ostile verso la presenza di organismi umanitari e i suoi continui giri di vite e campagne burocratiche di logoramento determinano un problema continuo per organizzazioni indipendenti, sia internazionali che sudanesi, che operano sul territorio. Blocchi di voli, rifiuti o massicci ritardi nelle procedure per ottenere permessi d’ingresso, norme arbitrarie per l’importazione e il trasporto di materiali di soccorso hanno contribuito, negli anni, alla morte di centinaia di migliaia di persone per fame e malattie.
Secondo la legge umanitaria internazionale, le parti coinvolte in un conflitto devono permettere un rapido e libero accesso degli aiuti alla popolazione civile; attacchi a persone o infrastrutture, deliberati impedimenti per l’accesso a cibo e medicine, parallelamente ad offensive sistematiche contro i civili, costituiscono una grave violazione della legge umanitaria e sono perseguibili in quanto crimini contro l’umanità.
Al momento attuale un milione e settecentomila persone risultano ancora sfollate all’interno dei confini del Darfur, derubati e cacciati dalle proprie case e minacciati di morte dalle milizie janjawid in caso avessero tentato di ritornare; Circa 280.000 persone sono invece rifugiate in Ciad; considerando anche coloro che, sebbene non sfollati, si sono trovati totalmente privati di ogni tipo di sostentamento a causa del collasso dell’economia rurale e dalle continue violenze nel territorio, un totale di ben tre milioni e mezzo (più della metà della popolazione) si trova in condizioni di estremo bisogno di aiuti umanitari dall’inizio del 2006.
Il periodo della semina tra il 2004 e il 2005 è stato completamente compromesso e così è accaduto per il maggio 2006; solo una percentuale del 4% è in grado, nel Darfur, di provvedere autonomamente al proprio sostentamento; i gruppi nomadi hanno in molte aree distrutto deliberatamente i raccolti senza trovare nessuna opposizione da parte delle forze dell’ordine; dal canto loro, i ribelli, come rappresaglia verso le tribù sospettate di collaborare con l’esercito governativo e con le milizie janjawid, hanno bloccato le grandi direttrici di migrazione, impedendo gli spostamenti.
Il lavoro delle organizzazioni e degli operatori umanitari si fa sempre più difficoltoso anche a causa della crescente insicurezza. Periodicamente, nel corso delle trattative di pace sotto la condotta dell’Unione Africana iniziate ad Abuja, in Nigeria, nel 2004 sia il governo che i ribelli hanno rotto le trattative con tentativi di avanzare militarmente sul territorio; le forze armate governative e le milizie janjawid hanno ripetutamente risposto agli attacchi dei gruppi ribelli con bombardamenti e rappresaglie sulla popolazione civile, gli scontri sono progressivamente aumentati e i convogli di soccorso sono divenuti regolare preda e oggetto di saccheggi da parte delle fazioni armate. Nel gennaio 2006 la mancanza di sicurezza e provvedimenti presi dal governo locale hanno fortemente limitato le operazioni di assistenza nella zona di Fashir, capitale del nord Darfur; un ulteriore peggioramento si è inoltre manifestato nel sud, dove, secondo dati delle Nazioni Unite, già meno di due terzi della popolazione afflitta dalla guerra era raggiungibile dalle agenzie umanitarie .
Alcuni dei combattimenti più intensi si registrano tuttavia nell’area ovest del Darfur, dove la situazione si è deteriorata in maniera gravissima: il WFP (World Food Programme delle Nazioni Unite) è stato costretto a lanci aerei di aiuti, peraltro inefficienti e insufficienti, nella regione di Jebel Marra, mentre all’inizio del 2006 le Nazioni Unite hanno imposto la fase IV del livello di sicurezza in molte zone a nord e a sud di Geneina, una restrizione molto vicina ad una quasi totale evacuazione ; perfino la Croce Rossa Internazionale (ICRC), un’organizzazione che negozia molto spesso con le parti in causa e che riesce a giungere per la sua stessa natura in luoghi dove altre agenzie non possono, ha temporaneamente sospeso alcune delle sue attività nella stessa area nel febbraio 2006, per mancanza di sufficienti garanzie di sicurezza per gli interventi sul campo.
L’OCHA ha riportato il precipitare degli interventi umanitari alla popolazione dell’ ovest Darfur: dal 100% di accessibilità dell’aprile 2005 a meno del 50% alla fine dell’anno; dal gennaio 2006 meno del 40% della popolazione veniva raggiunta da aiuti.
In alcuni casi i profughi hanno rifiutato di accettare aiuti per timore di subire assalti dalle truppe filo-governative; la maggior parte dei profughi vive infatti in accampamenti spontanei, non organizzati, alle porte dei centri più popolati o dei villaggi più grandi dove continuano ad essere vittime di incursioni violente, uccisioni sommarie e stupri.
La situazione femminile risulta particolarmente grave nei campi: le donne sono la maggioranza della popolazione adulta rifugiata e la violenza di genere è ricorrente in un contesto di sistematiche violazioni dei diritti umani: in molti casi le violenze sessuali avvengono in pubblico, in presenza dei familiari o dei membri delle comunità, allo scopo di umiliare non solo la donna come individuo ma l’intero corpo sociale cui essa appartiene.
La paura dell’ostracismo familiare e sociale induce molte donne a non parlare delle violenze subite anche in casi in cui siano presenti organizzazioni che prestano soccorso o denunciano la situazione alla comunità internazionale. Molte delle donne e degli uomini intervistati da Amnesty International in rapporto sulla violenza di genere in Sudan hanno affermato che le vittime di stupri spesso non osano tornare e ciò spiega il motivo per cui tante di loro hanno poi cercato accoglienza presso campi profughi lontani dalla propria comunità di origine.
Donne incinte non vengono per questo risparmiate dagli attacchi essendo spesso vittime proprio a causa del loro stato. Sono numerosi anche i casi di rapimento e di riduzione in schiavitù: durante gli assalti ai villaggi o ai campi profughi molte ragazze vengono catturate e costrette a seguire le truppe, frequentemente torturate per impedirne la fuga.
L’estrema vulnerabilità delle donne è dovuta anche al loro ruolo di principali custodi della famiglia e dei figli; impossibilitate ad abbandonare i villaggi o ad allontanarsi dai luoghi bersagli degli scontri armati, sono maggiormente esposte alle violenze sommarie dei guerriglieri.
L’eventuale gravidanza derivante da una violenza sessuale espone le donne ad ulteriori discriminazioni: oltre al trauma della violenza si aggiungono le difficoltà derivanti dall’essere incinte di un bambino frutto di una “vergogna”, o dall’essere “colpevoli” di portare in grembo il “figlio del nemico”; la conseguenza più frequente è quella del ripudio da parte del marito per le donne sposate o dell’abbandono del neonato e di un futuro di emarginazione per le ragazze ormai segnate dallo stigma collettivo e quindi incapaci di provvedere al sostentamento proprio e del figlio in una società dove è l’apporto economico e la “protezione” dell’uomo ad essere considerata fondamentale per la famiglia.
Nell’ovest del Sudan le mutilazioni genitali femminili sono largamente praticate: la maggioranza delle donne è circoncisa o infibulata. Una condizione che incide ulteriormente sul rischio di riportare, a seguito delle violenze, gravi ferite e infezioni e sull’aumento delle probabilità di contrarre il virus HIV/AIDS. Le conseguenze della pressoché totale mancanza di supporto medico per le vittime di stupro sono, come è facile intuire, disastrose.
La situazione femminile riflette oltretutto quella dei minori; i bambini sono generalmente affidati alle cure esclusive delle madri e le violenze sui minori accrescono il trauma delle donne che si trovano a dover proteggere e curare i figli in solitudine totale.
Secondo stime dell’UNICEF nel sud del paese la mortalità infantile sotto i cinque anni si attesta attorno al 150 per mille, mentre l’indice di bambini che soffrono di grave malnutrizione è approssimativamente del 21%.
Si stima inoltre che almeno 17.000 minori siano stati arruolati come soldati dalle fazioni in lotta per azioni di guerriglia o per ripulire i campi minati; Questi bambini soldato vengono spesso rapiti dalle milizie avversarie o cadono vittime di abusi sessuali.
3.2
NIGERIA
3.2.1 Introduzione
Analizzare la realtà nigeriana presuppone la presa di coscienza di un universo politico e culturale estremamente variegato che sfugge alle regole con le quali, frequentemente, si osserva un teatro di guerra. Per avere una vaga idea di tale complessità è sufficiente pensare che la popolazione di questo stato, costituita da 130 milioni di persone, si suddivide in almeno 250 etnie molte delle quali, prima della colonizzazione inglese, non intrattenevano tra loro alcuna relazione. Tale coesistenza non è mai divenuta una coesistenza pacifica, né con il conseguimento dell’indipendenza dall’egemonia britannica, né con la caduta del regime militare nel 1999 .
Nonostante l’avviarsi del processo di democratizzazione, la Nigeria è tutt’ora un paese estremamente fragile, nel quale le pesanti eredità dell’epoca coloniale fanno da sfondo ad esperimenti istituzionali, interessi internazionali e tensioni etnico-religiose.
Questo stato è ancora oggi lo scenario di almeno tre conflitti.
Ognuno dei quali segue la sua storia con le sue dinamiche.
Ognuno dei quali si nutre degli altri, li richiama, li amplifica e li risveglia.
3.2.2
IL CONFLITTO
3.2.2.1 Indigeneity e conflitto etnico
È facile quanto limitativo guardare ai conflitti africani ricorrendo alla categoria etnica come chiave di lettura. Parlare di guerre fratricide ha infatti un grosso limite. Questa categoria analitica tende ad esaurirsi: essa si basta e si giustifica come un dogma, un dato di fatto nei confronti del quale non è possibile né intervenire né sentirsi responsabili. Ma, da qualunque prospettiva si voglia vedere, in Nigeria esiste una questione etnica ed identitaria intorno alla quale ruotano le relazioni tra i gruppi nazionali. Ed è la frammentazione scaturita dalla percezione di questa dimensione sociale una delle minacce più evidenti alla pace e al rispetto dei diritti umani in questo stato.
Ovviamente, come ogni conflitto – svincolato dalle etichette dell’occorrenza -, la tensione che si registra tra i gruppi etnici nigeriani nasconde qualcos’altro. Qualcosa che, in realtà, non è molto diverso dalle tante guerre del continente: la povertà. Come ha messo in luce il segretario generale del Segretariato Cattolico della Nigeria, George Ehusani, “in Nigeria, la povertà ha assunto il carattere morale della guerra, e questo è quello che si vede riflesso nella violenza etnica in questo paese” [Human Rights Watch 1006, 2].
I cittadini sono riconosciuti “uguali” solo formalmente. Sostanzialmente, essi appartengono a due macro-insiemi separati da una linea di demarcazione netta, che non permette intersezioni. A seconda del gruppo etnico al quale appartiene, un individuo si vede attribuito lo status di indigeno o non indigeno. È una condizione definita fin dalla nascita, è immutabile e da essa scaturiscono meccanicamente le prospettive di vita futura di ogni nigeriano.
Furono i coloni inglesi a formalizzare la distinzione tra indigeni e non indigeni ma questa operazione non fu percepita dalla società locale come un’imposizione o un artificio. Di fatto, essa aveva esplicitato una separazione già ampiamente diffusa nelle comunità della regione. Il concetto di “indigeneity” era uno modo attraverso il quale tutelare l’identità dei gruppi, visto che la forzata coesistenza di 250 aggregazioni portava con sé la minaccia della distruzione, della cancellazione o dell’alterazione della cultura di cui ogni etnia era garante.
Nel corso dei decenni la distinzione tra indigeni e non indigeni si è però caricata di significati che hanno contribuito a creare un assetto sociale che ancora oggi limita i diritti e le possibilità di accesso alle risorse di molti cittadini.
Most concretely, many Nigerian communities use the distinction between indigenes and non-indigenes as a way of demarcating the boundaries between people who are eligible to hold chieftaincy titles in a particular place, and participate in traditional institutions of governance more generally, and those who are not. Indigeneity also serves as a way for communities to keep land within the hands of their own group—a goal that is controversial but important to many Nigerians whose ethnic identity is tied to a small geographic area [Human Rights Watch 2006, 10].
In questo clima è stato facile per i leader dei diversi gruppi farcire di propaganda i propri discorsi che, supportati da vecchi miti ed ataviche tradizioni, sono divenuti messaggi inneggianti il rifiuto – o il mantenimento – dello status quo. Attraverso la “riscoperta” delle origini dell’etnia, della discendenza da un luogo e della presenza degli antenati in una regione, si è diffuso nelle comunità un sentimento di odio verso i “nuovi oppressori”, colpevoli di essersi appropriati di privilegi illegittimi.
D’altra parte, questi stessi miti – contestualizzati nella storia e nella cultura dell’etnia “dominante” – sono stati utilizzati per giustificare il mantenimento e il consolidamento del potere da parte dei cittadini indigeni.
L’acquisizione di una sicurezza economica, seppur limitata, che viene riconosciuta ai nativi e praticamente preclusa agli altri, è uno dei principali fattori dai quali scaturiscono le lotte interetniche della Nigeria. Negli ultimi anni esse si sono fatte più frequenti e violente, sia per le scelte politiche adottate dai governi federali (che hanno privilegiato la dimensione locale a quella nazionale), sia per la crescente povertà che affligge il paese.
Strumentalizzata da leader e politici, la divisione tra i popoli assume caratteristiche specifiche a seconda delle aree geografiche verso le quali viene dirottata l’attenzione. La questione etnica si declina in espressioni di intolleranza che possono risolversi nei conflitti tra nomadi e stanziali (particolarmente forti nel Nord del paese), nei conflitti religiosi tra musulmani e cristiani, nelle tensioni interetniche nella regione del Delta del Niger.
3.2.2.2 Il conflitto religioso tra musulmani e cristiani: Plateau State
Stretta tra gli stati settentrionali musulmani e quelli cattolici dell’Africa centrale, la Nigeria porta con sé la difficile coesistenza dei due principali gruppi religiosi del continente. Sebbene essi siano suddivisi in modo abbastanza netto nelle aree geografiche settentrionali e meridionali, è nei centri urbani che essi si incontrano e coesistono. E sono i centri urbani che racchiudono nel loro microcosmo storie di vita e di disperazione che rendono difficile la tolleranza dell’altro. È dall’intreccio forzato di diverse culture che nascono motivi di scontro che, fomentati da stereotipi e pregiudizi, possono trasformarsi in conflitti capaci di infiammare intere regioni.
Di questa tendenza è divenuto protagonista il Plateau State. Questa regione è stata lo scenario principale nel quale hanno preso piede scontri sanguinosi che hanno seguito l’iter della ritorsione e della vendetta. Secondo l’analisi condotta da Human Rights Watch [2005], tra il 2001 e la prima metà del 2004, le vittime delle violenze interetniche e interreligiose registrate in quest’area sono stimabili tra le 2000 e le 3000 persone.
Plateau State rappresenta una delle aree più instabili di tutta la Nigeria, una regione dove la coesistenza di gruppi indigeni con gruppi allogeni è quotidianamente messa a rischio dalla perpetua lotta per l’acquisizione di privilegi terrieri, politici ed economici.
Nel corso del tempo la contrapposizione tra le due comunità ha iniziato ad assumere una connotazione religiosa. Questa sovrapposizione ha generato un’escalation di violenza che è esplosa nel settembre del 2001 quando, in soli 6 giorni, furono uccise più di 1.000 persone nella capitale Jos .
Negli anni seguenti il conflitto ha definitivamente fuso la componente etnica con quella religiosa. Dalla capitale si è mosso verso le zone circostanti ed ha assunto caratteristiche diverse, sebbene i protagonisti siano rimasti gli stessi. Di questa guerra sono protagonisti assoluti i signori “nessuno”. Sono “nessuno” gli uomini, le donne o i bambini riversi a terra, uccisi per una colpa che è una confessione religiosa diversa da quella dei loro carnefici. Sono tutt’oggi “nessuno” gli artefici dei massacri perché, sebbene i gruppi etnici e religiosi siano facilmente individuabili, in questi anni non è stato possibile indicare con precisione i nomi di coloro che hanno inneggiato o compiuto gli atti di violenza che hanno avuto luogo in questo stato.
L’incapacità di individuare i colpevoli ha permesso ad entrambe le comunità di continuare a riconoscersi come vittime, attribuendo ai nemici il ruolo di carnefici. L’annullamento delle responsabilità oggettive della propria comunità non ha solo delle implicazioni giuridiche. Questo meccanismo di difesa psicosociale genera delle conseguenze ben più problematiche perchè determina una polarizzazione dove la percezione del nemico è difficilmente modificabile nel breve periodo. E queste conseguenze sono ancora più evidenti se non vengono intraprese delle azioni politiche volte a risanare la frattura. Se i conflitti interreligiosi non sono che una delle più truci ed evidenti manifestazioni della limitata disponibilità delle risorse che garantiscono una minima sicurezza per la vita di molti nigeriani, allora è chiaro che la tutela di un sistema che privilegia alcune etnie rispetto ad altre non possa che portare con sé la frammentazione di una società già difficilmente aggregabile. Non è, perciò, solo nella gestione diretta delle azioni di ripristino della sicurezza e della legalità che vanno rintracciate le responsabilità del governo federale e nazionale ma anche nelle politiche di medio e lungo periodo che, sino a questo momento, non hanno saputo avviare un processo di pacificazione tra i diversi gruppi etnici della Nigeria.
Nel 2004, i combattimenti più sanguinosi hanno avuto luogo a Yelwa (tra febbraio e marzo), nel Plateau State, e si sono protratti nel Nord (Kano State) fino alla metà di marzo.
Sono stati scontri che le forze governative non hanno saputo arginare – a Yelwa sono state uccise più di 700 persone prima che la polizia intervenisse; a Kano si sono registrate più di 200 vittime prima che le rivolte fossero sedate – ma che, piuttosto, hanno contribuito, in modo più o meno diretto, ad alimentare. L’epilogo di quella ondata di violenza è stato raggiunto a maggio quando, sugli altopiani di Plateau, le milizie cristiane Tarok sono state artefici del massacro di centinaia di Fulani, un popolo nomade di origine islamica, protagonista dell’eterno scontro tra nomadi e stanziali.
Alla relativa calma dei mesi successivi ha fatto seguito una nuova ondata di violenza che, nei primi mesi del 2006, ha nuovamente visto contrapporsi musulmani e cristiani . Sebbene gli ultimi scontri non siano stati caratterizzati dall’efferatezza dei precedenti, essi testimoniano che la questione religiosa, unita a quella etnica, è ancora uno dei nodi insoluti della società nigeriana.
3.2.2.3 Il Delta del Niger
I recenti fatti di cronaca hanno restituito visibilità alla regione più ricca, sfruttata e instabile di tutta la Nigeria.
Il Delta del Niger delinea un’area geografica in cui sono presenti numerosi giacimenti petroliferi che hanno indotto le multinazionali del settore a creare impianti per l’estrazione e la lavorazione del greggio . Dei proventi ricavati dalla vendita del combustibile solo una minima parte viene acquisita dalle comunità locali le quali, da più di un decennio, lottano sia per la salvaguardia dell’ambiente - drammaticamente danneggiato dalle attività estrattive - sia per un’equa ripartizione delle risorse .
Le tensioni della metà degli anni ’90 non hanno alterato in alcun modo i rapporti di forza nel Delta del Niger. Certo, hanno contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica locale ed internazionale ma, di fatto, non sono riuscite a generare un cambiamento significativo per le condizioni di vita delle comunità autoctone. La mancata soluzione delle questioni che esse avevano sollevato ha invece riavviato l’attività di gruppi armati che combattono in nome degli interessi delle minoranze locali. All’NDPFV (Niger Delta People’s Volunteer Force), che resta il principale fautore delle azioni di guerriglia per la tutela dei diritti delle etnie dell’area, si sono affiancate due nuove formazioni: il MEND (Movement for the Emancipation of Niger Delta) e la Martyrs Brigade.
Non sono molte le informazioni a livello internazionale per quanto riguarda queste milizie denominate “diavoli a cavallo”. Si tratta appunto di paramilitari mercenari anche se molti sono poi in realtà integrati nei corpi formali dei servizi di sicurezza (Popular Defece Forces) o della polizia di frontiera (Border Intelligence Unit).
International Crisis Group, Africa Report, 2006.
Entrambi i gruppi sono formati da ex militari dell’esercito ciadiano e condividono l’obiettivo di rovesciare l’attuale presidente Idriss Déby.
Nell’aprile 2003 il Ciad inviò 800 truppe nella zona del Darfur a sostegno della lotta contro i ribelli.
L’UA è in realtà intervenuta anche nel corso del 2003, quando, con l’aggravarsi della crisi umanitaria, ha organizzato con le Nazioni Unite la conferenza di pace del 10 dicembre tra i ribelli della SLA e il governo sudanese ad Abéché, nel Ciad orientale.
Il presidente sudanese ha recentemente dichiarato che Il Darfur e il Sudan “will be a graveyard for any foreign troops venturing to enter”. Secondo la Sudan News Agency il ministro della giustizia ha inoltre avvertito l’inviato delle Nazioni Unite per i diritti umani che “the international forces to Darfur would pave the way for infiltration of elements in Sudan across the borders with neighbouring countries, a matter which will complicate the protection and safety of the international forces”.
“UN peacekeeper could be at risk if deployed to Darfur”, Associated Press, 27 February 2006.
Si è svolto a Tripoli il summit del 10 febbraio 2006 che avrebbe dovuto condurre all’arrestarsi dei finanziamenti e del sostegno dei gruppi ribelli da parte di entrambi gli stati coinvolti.
V. ICG, Report Africa, 2006.
Speech at the University of Khartoum, Robert Zoellick, 9 November 2005. http://www.state.gov
United Nations Security Council, “Monthly Report of the Secretary-General on Darfur,” October 14, 2005.
United Nations Joint Logistics Center, “Bulletin 72-January 2006”. http://www.unjlc.org/14717/18256/bulletin72.
Amnesty International, “Darfur: Rape as a weapon of war: sexual violence and its consequences”, 2005.
A seguito della morte di Abacham l’8 giugno 1998, il generale Abubakar si impegnò a realizzare la transizione verso un regime democratico. L’ombra della dittatura militare fu definitivamente cancellata dalle elezioni locali che si tennero l’8 febbraio dell’anno successivo.
Si ritiene che tutti gli episodi di violenza che hanno avuto luogo in Plateau State successivamente siano riconducibili, in un modo o nell’altro, agli scontri di quel settembre.
Gli scontri sono nati a seguito delle manifestazioni di protesta contro la pubblicazione delle vignette raffiguranti il profeta Maometto. Nella settimana in cui le ostilità sono state più volente (18-24 febbraio) si è stimata la morte di almeno 85 persone.
In questa regione sono attive Shell, Chevron, Agip, Exxon Mobil, Total e Cnooc.
“[…] tra le mangrovie, le palme e i giganteschi alberi di iroko, ci sono gli impianti petroliferi e gli oleodotti che dal 1958, anno della scoperta dei giacimenti, hanno estratto nella zona novecento milioni di barili di greggio. […] La Nigeria, da sola, è responsabile del 28 per cento del totale di gas bruciato in torcia nel mondo, equivalente a 259mila barili di greggio al giorno” [Wiwa 2006: trad. it. 2006, 37].
Il conflitto nell’area del delta del Niger sta assumendo aspetti sempre più complessi e problematici. Sebbene gli attacchi di cui si ha notizia siano principalmente rivolti contro le compagnie petrolifere straniere, esiste tutta una serie di intrecci dai risvolti destinati ad ancorarsi drammaticamente alle relazioni tra le diverse componenti della società nigeriana.
Di questa crisi è ancora una volta corresponsabile il governo centrale, dimostratosi incapace di essere garante dei diritti delle minoranza locali e di gestire in modo efficiente i benefici economici che le risorse petrolifere dovrebbero assicurare.
La cattiva gestione degli introiti provenienti dall’attività estrattiva ha creato un’inusuale compattezza tra gruppi etnici e religiosi diversi. Una compattezza tanto inusuale quanto labile, ed impensabile nel lungo periodo, il cui collante è l’antagonismo verso la presenza dei colossi stranieri e l’operato del presidente nigeriano Olusegun Obasaanjio . È lui – ed un possibile rinnovo del suo mandato – ad essere al centro di una polemica sostenuta sia dalle comunità del Delta, sia da quelle del Nord del paese, che si ritengono escluse nella ripartizione delle ricchezze nazionali.
Le azioni intraprese da Obasaanjio per mettere a margine l’opposizione sono la cartina tornasole di iniziative politiche miopi, incapaci di risolvere i problemi della Nigeria attraverso un dialogo tra le sue comunità. Nel 2005, l’arresto di Mujahideen Dokubu Asari - capo carismatico dell’NDPFV, accusato di tradimento e assembramento illegale - e quello di Diepreye Alamieyeseigha - ex governatore dello Stato del Bayelsa, una delle regioni dell’area del Delta, accusato di cospirazione dell’etnia Ijaw (etnia alla quale è collegato il MEND) - hanno tagliato fuori dall’arena politica, privandole dei loro leader, le comunità locali. Non riconoscendosi nei poteri centrali, i membri di tali comunità hanno guardato con sempre maggiore simpatia ed ammirazione ai miliziani ribelli che, anche a causa dell’estrema povertà dei popoli dell’area, diventano portatori di una promessa di riscatto e di sicurezza economica.
La trasversalità del conflitto – che smuove gli interessi delle etnie locali e di quelle nazionali, del governo centrale e di quelli federali, delle multinazionali, dei miliziani e dei delinquenti comuni – ha creato nel Delta del Niger una situazione particolarmente complessa. Da un lato, la presenza di così tanti soggetti rende difficoltosa la scelta di un interlocutore autorevole che sia riconosciuto come tale sia dalla controparte sia dai gruppi – eterogenei – di cui si fa portavoce. Dall’altro, essa genera iniziative o misure di intervento tutt’altro che sinergiche ma, spesso, dicotomiche ed inutili.
La manifestazione dell’eterogeneità degli approcci e delle visioni è facilmente riscontrabile nelle diverse azioni intraprese dalle comunità locali. Alle dimostrazioni pacifiche, si sono affiancati attacchi diretti agli impianti petroliferi, rapimenti di dipendenti e minacce per la sicurezza delle loro famiglie. Ma la serie di iniziative attuate dai ribelli a partire dal gennaio del 2006 ha lasciato irrisolta la questione dell’accesso alle risorse. Il principale effetto di tali episodi è stato piuttosto il consolidamento della presenza delle forze di polizia e delle truppe militari nell’area del Delta che, alla fine del mese di febbraio, si sono rese protagoniste di un massacro costato la vita ad almeno 30 civili.
3.2.3. LO STATO DEI DIRITTI
Insieme al Sudafrica, alla Nigeria viene internazionalmente attribuito il ruolo di potenza continentale africana. Con la caduta del regime militare nel 1999, si sono aperte anche per questo stato le porte per il processo di democratizzazione che, sino ad oggi, ha incontrato – e continua ad incontrare – numerose difficoltà. La proposta di una modifica costituzionale che avrebbe legittimato il terzo mandato del presidente Obasaanjio (iniziativa respinta dal Senato il 16 maggio 2006) è la dimostrazione dei limiti dell’attuale governo di far propri i principi fondanti il concetto di democrazia, come quello dell’alternanza. Ma ciò che limita il conseguimento di un vero assetto democratico è legato alla permanenza di gravi violazioni dei diritti umani su tutto il territorio. Come testimoniano i rapporti dell’Ecosoc [2006], di Human Rights Watch [2006] e di Amnesty International [2005], le questioni più drammatiche, emerse dalla sistematicità con cui si compiono tali abusi, restano tutt’ora irrisolte.
La lotta alla corruzione, divenuta la bandiera del governo di Obasaanjio, sebbene abbia avviato un insieme di iniziative politiche volte a limitare l’incidenza di questa consuetudine, non ha ancora raggiunto risultati concreti nel migliorare le condizioni di vita della popolazione. Così, mentre la corruzione resta un elemento che genera una diretta violazione dei diritti sociali ed economici - creando un ulteriore elemento di tensione nei rapporti interetnici -, più del 60% dei nigeriani continua a vivere sotto la soglia di povertà .
3.2.3.1 Le violenze tra le comunità
Alla mancata incidenza delle politiche economiche e finanziarie, si aggiunge l’assoluta incapacità da parte della classe dirigente di mettere fine – o quanto meno tentare di mettere fine – alle violenze che caratterizzano i rapporti tra i gruppi etnici e i gruppi religiosi presenti nel territorio. Sebbene sia impossibile pensare ad una pacificazione sociale realizzabile nel tempo di una legislatura, è comunque vero che sembra difficile avviarsi verso un qualunque obiettivo di lungo periodo se, sia i governi federali che quello centrale, si dimostrano incapaci di prevenire gli scontri e di arginare le mistificazioni politiche, di rispondere adeguatamente alle manifestazioni di violenza, di individuare e punire i responsabili dei crimini più efferati.
3.2.3.2 Abusi delle forze armate
L’implicazione degli uomini delle forze armate in episodi di grave violazione dei diritti umani genera ulteriore malcontento e nuove tensioni delle comunità locali nei confronti dei rappresentati del potere politico e governativo .
Come testimonia il rapporto di Human Rights Watch, anche nel 2005, “torture, trattamenti degradanti, uccisioni extra giudiziarie, arresti e detenzioni arbitrai e estorsioni ad opera della polizia, spesso compiuti da o con la conoscenza dei superiori, sono una routine diffusa su larga scala” [Human Rights Watch 2006, 86].
Inoltre, l’impunità riservata ai colpevoli – siano essi civili che agenti di polizia – rischia di legittimare il ricorso all’uso della forza e alle violazioni dei diritti umani. I procedimenti che dovrebbero essere stati avviati per punire gli agenti coinvolti nelle stragi di Odi, nel Bayelsa State del 1999, e nello Stato del Benue nel 2001, sono in un’assoluta fase di stallo, così come la maggior parte dei procedimenti che, anche se legati a fatti meno eclatanti, dovrebbero portare al banco degli imputati individui che ricorrono sistematicamente a torture, trattamenti degradanti e stupri durante interrogatori o detenzioni.
3.2.3.3 Le donne
Non è solo nelle carceri che le donne sono oggetto di violenza. Come avviene in ogni parte del mondo, è tra le mura di casa che si consumano la maggior parte di questi abusi. E, come avviene nella maggior parte del mondo, di queste violenze si ha una conoscenza limitata. Per la stigmatizzazione riservata alle donne che ne sono vittime, per la mancanza di un adeguato supporto legale, per l’esistenza di un sistema legislativo fortemente discriminatorio (le pene previste per una fattispecie criminosa sono diverse se chi le ha subite è un uomo o una donna). E l’introduzione della Sharia in 12 delle 36 regioni nigeriane non ha fatto che marginalizzare ulteriormente la donna limitandone i diritti .
Oltre alle violenze in famiglia e agli abusi sessuali, i report sulla condizione delle donne in Nigeria documentano la permanenza delle pratiche connesse alle mutilazioni genitali e ai matrimoni forzati.
3.2.3.4 I bambini
L’assoluta povertà nella quale vive la maggior parte della popolazione è l’eredità che, sin dalla nascita, sembra abbracciare ogni bambino.
La Nigeria è uno dei paesi con il più elevato tasso di mortalità infantile. Nel solo 2004, l’Unicef [2006] stima che siano stati 1.049.000 i bambini morti prima di aver compiuto il quinto anno di età.
Anche nella crudezza dei dati e dei numeri, diventa inimmaginabile riuscire a pensare al futuro di un bambino nato in questo stato. La diffusione delle malattie, la mancanza di igiene e quella di un adeguato sistema sanitario rendono difficile il superamento dei primi anni di età.
La povertà fa tutto il resto.
È ovviamente questo il motore primario che fomenta il traffico di piccoli schiavi. La Naptip (Agenzia Nazionale per il Divieto del Traffico di Esseri Umani) ha denunciato l’esistenza di 15 milioni di minori costretti a lavorare e, spesso, tenuti in condizioni di schiavitù. Si tratta di figli “venduti” dalle proprie famiglie per saldare un debito o, più semplicemente, “venduti” con l’illusione di strapparli all’assoluta mancanza di prospettive.
Di queste condizioni di vita sono vittime anche i 6.000 minori rinchiusi nelle carceri o nei centri di detenzione minorile. Si tratta di bambini senza volto, abbandonati dalle proprie famiglie per volontà o per impossibilità, incapaci di fornire loro un’adeguata assistenza legale.
Il 70% dei detenuti viene condannato per piccoli furti, per vagabondaggio o per aver chiesto elemosine. Le sentenze, spesso da Tribunali Ordinari e non minorili, che prevedono pene particolarmente severe, strappano per anni i bambini dalle loro famiglie. Queste condizioni, unite al rifiuto sociale, finiscono per rendere impossibile il reintegro di questi minori nella loro comunità una volta scontata la condanna.
3.2.3.5 La libertà di espressione e la società civile
La limitazione della libertà di espressione è una delle violazioni dei diritti umani più diffusa e radicata in Nigeria. Essendo meno eclatante di altri abusi, essa finisce per restare al lato dei dibattiti della società civile, sia nazionale che internazionale.
La violazione di questo ed altri diritti civili non è che uno degli aspetti conseguenti al mancato radicamento di una cultura democratica nell’attuale governo. Sono infatti i giornalisti critici nei confronti della classe dirigente nigeriana e i più attivi membri della società civile a subire vessazioni attraverso arresti, interrogatori e intimidazioni.
3.3
COSTA D’AVORIO
3.3.1
Introduzione
Dopo la caduta di Bédié, il colpo di stato di Gueï e le elezioni presidenziali che avevano sancito il trionfo di Gbagbo, l’Autre Afrique scriveva: “La storia di questi uomini coincide con il dramma ivoriano. In appena due anni questi politici sono riusciti a distruggere le fondamenta dello Stato edificato con cura e rigore da Félix Houphouët-Boigny. La Costa d’Avorio era per vocazione il paese capace di trainare l’Africa occidentale verso l’alto. Oggi deve preoccuparsi della sua sopravvivenza politica ed economica. Le ambizioni personali hanno avuto ragione degli ideali” [Autre Afrique 2001; trad. it. 2001, 55].
Era il 2001. Era prima dell’alleanza tra i partiti di Ouattara e Gbagbo attraverso la quale fu avviato un processo di democratizzazione e furono rinnovati impegni per la ricostruzione del paese, la pacificazione e la ripresa economica. Era prima della cancellazione del debito decisa dalla UE e dal Club di Parigi.
Ma le promesse del frattempo sono state spazzate via con la ripresa di una nuova guerra civile che ha riportato la Costa d’Avorio alla stessa instabilità politica ed economica profetizzata dall’Autre Afrique.
Quello che resta è qualche frattura in più, molte lacerazioni, una serrata militarizzazione e l’allestimento di uno scenario nel quale, per la prima volta in quattro anni, sembra esservi una ripresa del processo di pace avviato a Pretoria nel marzo del 2005 [International Crisis Group 2006].
3.3.2
IL CONFLITTO
3.3.2.1
Nord vs. Sud
Una buona parte del tutto ha avuto inizio con la morte di Félix Houphouët-Boigny. Il governo, di cui aveva preso le redini dalla fine dell’era coloniale, aveva fatto della Costa d’Avorio uno degli stati “eccezione” dell’Africa. Le riforme e le iniziative politiche adottate avevano permesso agli ivoriani di poter sperare in qualcosa di diverso dagli omogenei trend con i quali si parlava delle altre nazioni del continente.
Sono bastati pochi anni per bloccare questa tendenza. Anni nei quali si sono susseguiti i poteri di tre presidenti che hanno annientato il progetto di uno stato, lasciando posto ad una spaccatura nella quale il paese sembra essersi congelato.
Dopo il colpo di stato pianificato dalle forze militari sotto la guida di Gueï, la storia della Costa d’Avorio ha subito una nuova e brusca inversione di marcia nel settembre 2002. Le elezioni presidenziali dell’anno precedente avevano portato al potere Gbagbo e, con lui, le promesse per un ritorno alla stabilità. Qualche mese dopo, invece, il paese si è trovato stretto in una guerra civile che ha generato migliaia di vittime e ancor più profughi e rifugiati.
Il 19 settembre del 2002 i ribelli dell’MPCI diedero vita ad un attacco che si dispiegò simultaneamente a Abidjaw, Bouake e Korhogo. Le milizie, costituite principalmente da “Dioula” e Malinké (un’etnia del Nord), si proponevano di rovesciare il governo del presidente Gbagbo – ritenuto illegittimo – e bloccare la riforma dell’esercito che aveva avviato. In questa occasione, e in molte delle successive, l’MPCI aveva trovato il supporto delle popolazioni del Nord – che nutrivano un sentimento di malcontento nato dalla convinzione di non essere adeguatamente rappresentate e tutelate dallo stato centrale - e dei gruppi costituiti con le pressioni di combattenti liberiani e sierraleonesi. L’MJP, l’MPIGO e lo stesso MPCI strinsero un’alleanza che, ancora oggi, li vede uniti sotto il nome di Force Nouvelles (FN).
Il mancato colpo di stato provocò una durissima reazione da parte del presidente Gbagbo e dei suoi uomini. In pochi giorni venne definito un piano di intervento a Abidjan per sequestrare le armi ed arrestare i ribelli. Ed in pochi giorni, a causa di operazioni nelle quali furono distrutte e bruciate centinaia di abitazioni, rimasero senza casa 18.000 ivoriani.
Oltre alle vittime, ai dispersi, alle violenze e agli abusi, quello che la guerra civile – conclusasi ufficialmente nel gennaio del 2003 – ha lasciato è stato un paese letteralmente diviso. Il Nord nelle mani dei ribelli, il Sud nelle mani di Gbagbo, del suo esercito e delle sue milizie. E questo resta, insieme alla crescente militarizzazione dello Stato, l’aspetto più drammatico della realtà politica e sociale della Costa d’Avorio.
L’accordo di Marcoussis, sottoscritto da entrambe le parti nel gennaio del 2003, prevedeva la formazione di un governo di riconciliazione nazionale che avrebbe dovuto occuparsi delle questioni che, secondo gli esperti, erano alla base dello scoppio della guerra civile: la definizione dell’identità nazionale, la soluzione della questione terriera e la determinazione dei parametri per l’eleggibilità dei cittadini.
Grazie all’intervento di intermediari internazionali quali l’Onu, l’Unione Africana e l’Ecowas (Economic Community of West African States), i propositi di Linas-Marcoussis furono ribaditi nel luglio del 2004 durante l’incontro di Accra, in Ghana. La necessità di un monitoraggio esterno per valutare il rispetto del trattato di pace aveva indotto il Consiglio di Sicurezza a dare il via libera alla trasformazione del MINUCI in una forza di peace-keeping composta sia da caschi blu che da militari dell’esercito francese. Ma la presenza di questa missione non si dimostrò sufficiente a garantire il proseguimento del processo di riconciliazione.
Dopo diciotto mesi di cessate il fuoco, l’esercito ivoriano organizzò le sue truppe per eseguire una serie di bombardamenti nelle regioni del Nord. Lo stallo, seguito alla firma degli accordi di Linas-Marcoussis, si trasformò in una nuova ondata di violenza, nella quale furono coinvolti anche gli uomini della missione UNOCI. L’uccisione di nove militari scatenò la reazione delle truppe di Parigi, che distrussero l’esercito ivoriano e uccisero un numero imprecisato di civili in una delle tante manifestazioni antifrancesi.
Questa nuova esplosione di tensione non vide contrapporsi solo l’esercito ivoriano e le truppe internazionali. Piuttosto, essa riportò al punto di partenza le trattative tra i ribelli e lo stato centrale e, con esse, le aspettative di tutto il paese. Fu solo nell’aprile del 2005, grazie all’azione di mediazione del presidente sudafricano Mbeki, che le due parti concordarono il cessate il fuoco e le elezioni presidenziali entro l’anno . Gli accordi di Pretoria si sono trasformati, ben presto, in un strumento di rivendicazione anziché di pacificazione. Accuse reciproche si sono susseguite per un anno e, per un anno, ogni nuova tensione sembrava minacciare i labili equilibri ivoriani.
Percentuale stimata relativa al 2000 [Fonte: CIA, The World Factbook].
Per un’analisi dettagliata degli abusi delle forze armate si veda Human Rights Watch [2005].
Introdotta nel 2001, l’applicazione della legge islamica ha manifestato un approccio discriminatorio particolarmente evidente nei casi di adulterio dove, il sesso degli accusati, determina sentenze nettamente sproporzionate.
Nel 2005 ci sono stati numerosi arresti sia tra gli attivisti dell’area del Delta del Niger sia tra i membri del MASSOB, un gruppo per l’autodeterminazione del popolo Igbo.
Con la risoluzione 1528 del 2004, si sostituì il MINUCI con la missione di peacekeeping conosciuta come UNOCI.
A causa dell’instabilità interna, le elezioni presidenziali sono poi state posticipate all’ottobre del 2006.
La proposta dell'Onu di sciogliere il Parlamento, avanzata a gennaio 2006, ha scatenato tre giorni di violenze in tutta la zona meridionale del paese orchestrata dai sostenitori del Fpi (Front Populaire Ivorien), il partito del presidente Gbagbo, che avrebbe così perso la propria maggioranza. Le basi dell'Onuci sono state prese d'assalto dai manifestanti, e gli scontri con i caschi blu hanno portato alla morte di almeno 4 persone. Dopo tre giorni di alta tensione, la situazione si è normalizzata, ma nel Paese al momento regna una calma solo apparente [Peacereporter 2006].
Quasi un anno è stato necessario prima che i ribelli dichiarassero l’inizio delle azioni di disarmo. Questa operazione, insieme all’attribuzione della nazionalità ai cittadini ivoriani, è uno dei passi necessari per creare le condizioni in cui potrà avviarsi un processo di pace che vede nelle elezioni del prossimo ottobre una tappa fondamentale.
E quello che, in tutti questi anni, non è riuscita a raggiungere la diplomazia sembra sia stato in grado di conseguirlo lo sport. In vista dell’esordio della nazionale ai prossimi mondiali di calcio, è stata siglata quella che è già stata definita come la “Pax calcistica” [Ansaldo 2006]. Con la tregua concordata dal presidente Gbagbo e dai leder delle FN il 30 maggio, e con la nomina del capo dei ribelli, Guillaume Soro, alla guida del ministero della Ricostruzione, si sono poste nuove basi per il conseguimento di una pacificazione interna. Una pacificazione ancora lontana e per niente scontata ma che, per la prima volta dallo scoppio della guerra civile, è capace di presentarsi come una concreta speranza per il nuovo futuro della Costa d’Avorio.
3.3.2.2 L’EREDITÀ DELLA GUERRA CIVILE
Con lo scoppio della guerra civile ivoriana, gli analisti, come spesso accade, cercarono di individuare i parallelismi che accomunavano le nuove ostilità a quelle che avevano precedentemente infiammato l’Africa. Le motivazioni e le logiche strettamente connesse alla gestione delle risorse naturali assomigliavano a quelle che avevano animato il conflitto liberiano; la propaganda e la diffusione dell’intolleranza etnica a quelle che precedettero il conflitto rwandese. Ma queste ipotesi, nel corso degli anni, non hanno trovato riscontro negli sviluppi bellici in Costa d’Avorio, che hanno altre seguito altre strade e, in queste strade, si sono presto arenati.
Sebbene la strategia delle similitudini permetta di comprendere rapidamente le problematiche e, quindi, una loro eventuale soluzione, essa limita notevolmente la presa di coscienza delle peculiarità che ogni guerra porta con sé. Per questo motivo è indispensabile individuare le parti che il conflitto in Costa d’Avorio chiama in causa, nelle similitudini e nella unicità, nelle connessioni con altre guerre civili e nelle esclusive relazioni delineate dalle comunità.
3.3.2.3 La questione identitaria
La crisi ivoriana – che continua a prendere respiro in modo discontinuo ma costante – ha fatto emergere una serie di questioni che, fino a qualche anno fa, sarebbero state inimmaginabili. Oggi la Costa d’Avorio è, come è stato detto, un paese diviso in due. Non si tratta di un eufemismo ma di un’impressione netta, restituita dalla visione di una qualunque mappa del paese nella quale figurino le posizioni occupate dall’esercito ivoriano, dagli uomini delle FN, dalle forze armate francesi e dai caschi blu. Sono queste ultime che, dislocandosi in una zona cuscinetto che attraversa orizzontalmente tutto il paese, delineano una sorta di frontiera interna tra il Nord e il Sud del paese. La spaccatura della Costa d’Avorio, e la conseguente perdita di identità ivoriana, è uno degli elementi più spinosi con i quali la classe dirigente nazionale si dovrà raffrontare nel prossimo futuro.
Ma, come se fosse poco, non è il solo.
La questione identitaria non spacca il paese solo in due parti. Piuttosto lo frammenta e lo riversa in un caos nel quale hanno facile presa i discorsi propagandistici imbevuti di nazionalismo – o ultranazionalismo -, odio e xenofobia. Questa tendenza è particolarmente evidente nel Sud del paese, quello che, rimasto sotto il controllo diretto di Gbagbo, ha finito per essere una spugna intrisa di messaggi nei quali l’altro – chiunque fosse – diventa un nemico.
Questa strategia - supportata dal presidente, dall’FPI e dai loro simpatizzanti - aveva come obiettivo iniziale la costruzione e il rafforzamento di un immaginario dentro il quale avrebbe trovato tutela e difesa il potere acquisito dalla classe dirigente. Con la demonizzazione dell’altro infatti, ogni azione politica e militare può autogiustificarsi senza perdere il supporto che è necessario per intraprendere nuove iniziative. La propaganda, elemento costante di qualunque conflitto, ha quindi rivestito anche in Costa d’Avorio il suo ruolo abituale: la creazione della coesione sociale.
E così è stato, almeno sino a quando Gbagbo e i suoi uomini sono stati in grado di individuare un solo nemico comune.
Con la firma dei trattati di pace del 2003 e la stagnazione economica, politica e sociale, il sentimento di odio che si era creato è stato dirottato verso tutte le presenze “ingiustificate”. Le truppe ONU, quelle francesi, i gruppi di non nativi ed allogeni sono diventati l’oggetto della fase successiva della propaganda degli uomini del presidente. Sono così emersi rituali di degradazione che hanno riattivato il ricorso alla violenza che ha visto nuove vittime, altri attacchi e ulteriori tensioni. La questione del complôt permanent è stata svecchiata dei suoi anni e riproposta in nuove e più appetibili vesti; l’unità delle comunità rintracciata nella proclamazione di una seconda guerra di indipendenza [International Crisis Group 2004].
La strumentalizzazione politica di storie, simboli ed identità è culminata nella “caccia al bianco” che ha indotto migliaia di francesi – ed altri “stranieri” – a lasciare la Costa d’Avorio . Questa improvvisa migrazione non ha avuto soltanto ripercussioni nella composizione dello strato sociale delle comunità ma anche nell’assetto economico e finanziario del paese. Sebbene la Francia resti ancora il primo investitore occidentale, a seguito delle tensioni del 2004, sono state ingenti le somme di capitale che le aziende hanno sottratto al mercato, lasciando così prevedere tempi di ripresa per l’economia della Costa d’Avorio ancora più lunghi.
3.3.2.4 La militarizzazione
Come l’uso della propaganda si è dimostrato essere un’arma a doppio taglio nelle mani di Gbagbo, il processo di militarizzazione della società da lui avviato ha seguito la stessa sorte, con conseguenze ancora più minacciose per il futuro del paese.
All’indomani dell’insorgenza dei ribelli dell’FN, il presidente e il suo entourage divennero consapevoli che l’esercito nazionale non avrebbe potuto fronteggiare gli attacchi dispiegati né tanto meno assicurare una riconquista dei territori settentrionali. La migliore soluzione a questo problema fu individuata nella creazione di nuovi gruppi armati che, organizzati e finanziati dai vertici, avrebbero potuto agire con il supporto delle comunità locali.
Questo processo, pianificato da Gbagbo e dai suoi uomini, ha dato vita ad un fenomeno che, nel tempo, si è rivelato non essere più governabile dai suoi ideatori. Lo spazio lasciato alle milizie è stato lo spazio nel quale i leader di queste formazioni hanno creato uno stato ombra parallelo a quello istituzionale. Questi due universi non sono però scissi; essi si intrecciano, si sfumano e si presentano più come un continuum che come una coppia dicotomica. Per questo è difficile riuscire a fare ordine tra i soggetti che operano nello stato ombra, ad individuare il modo in cui agiscono e il ruolo che ricoprono nelle relazioni con le comunità locali e con i poteri centrali.
Ci sono almeno sei gruppi di miliziani in Costa d’Avorio, ognuno dei quali ha i suoi leader, le sue strategie, i suoi obiettivi e le sue zone di influenza.
Nelle aree rurali, le milizie sono principalmente strutturate su base etnica. La più importante formazione, la FLGO (Fronte di liberazione per il Grande Ovest), si appella alle tradizioni e alla storia dei We. La Lima Suppletive è costituita da miliziani liberiani dell’etnia Krahn, mentre la FSCO (Forze di sicurezza del centro-ovest) da giovani betè.
A differenza delle milizie che gestiscono la vita urbana, i gruppi occidentali assumo una struttura più organizzata e prettamente paramilitare. Questa caratteristica scaturisce dal ruolo strategico che questi soggetti ricoprono nello scenario ivoriano. Le regioni dell’ovest sono le aree più ricche di risorse naturali dell’intero stato (oro, gomma e legname) ed è evidente che, con lo scoppio della guerra civile, fosse indispensabile per il governo di mantenere sotto la propria egemonia i territori che potevano assicurare un costante afflusso di capitale.
Le zone urbane, in particolar modo Abidjan, sono controllate dai Giovani Patrioti (COJEP), dal Gruppo Patriottico per la Pace (GPP) e dall’Unione per la Liberazione Totale della Costa d’Avorio (UPLTCI). Contare di quanti uomini si avvalgano questi movimenti è praticamente impossibile. Le stime effettuate dai leader delle milizie e quelle fornite dalla National Commission sono così discrepanti, da non permettere di fornire dei numeri attendibili [Human Rights Watch 2005].
Quello che è certo, invece, è lo sfaldamento inarrestabile di questi gruppi che, se da un lato indebolisce l’azione corale dei giovani patriottici, dall’altro permette loro di inserirsi in ogni spazio politico e sociale di Abidjan. Le connessioni dei vertici con la classe dirigente e quelle della base con gli squadroni della morte hanno reso queste milizie protagoniste della vita urbana e, attraverso il costante ricorso a violenze, esecuzioni ed intimidazioni, hanno annullato qualunque forma di opposizione all’FPI.
L’acquisizione di forza ed autorità da parte di questi gruppi ha scavato un margine di illegalità e impunità che, se inizialmente assicurava a Gbagbo la “fedeltà” delle zone urbane, è poi diventato uno dei problemi più evidenti alla stabilità del suo potere. I miliziani stanno diventando sempre più insofferenti nel veder accumulare ricchezza al vertice della piramide e trovarsi confinati all’assoluta povertà. Questa percezione, unita alla netta consapevolezza di essere uno strumento necessario alla classe politica per tutelare i propri interessi, li pone in una condizione di potenziali antagonisti al presidente e all’FPI.
3.3.3 LO STATO DEI DIRITTI
3.3.3.1 L’impunità
Le più gravi violazioni di diritti umani registrate in Costa d’Avorio sono principalmente connesse ai retaggi della guerra civile del 2002. L’incertezza e la frammentazione sociale, enfatizzate da un’accurata opera di propaganda, hanno lasciato aperto un ampio margine entro il quale, sia nel Sud che nel Nord del paese, vengono perpetrati crimini contro coloro che sono ritenuti membri dell’opposizione o al presidente Gbagbo o ai ribelli.
La situazione di stallo che ha accompagnato tutto il 2005 è coincisa con una situazione di stallo della giustizia. Anzi, visto che il silenzio dell’opposizione è stato caldeggiato sia dall’FPI che dall’FN, l’impunità è stata la strategia che ambo le parti hanno abbracciato.
L’assoluta mancanza di regole e di ripristino della legalità – testimoniata dall’incapacità della classe politica ivoriana di avviare un’azione giudiziaria che individui e processi i colpevoli delle violenze protrattesi dalle elezioni del 2000 in poi – continua a legittimare le azioni delle milizie che, ormai prive di controllo, agiscono nello stato parallelo costruito con le loro regole.
La stabilità di questo scenario rende improbabile la cessazione degli abusi e il rispetto dei diritti umani. Gli organismi internazionali, visti trasversalmente come una minaccia dello status quo (le violazioni costituiscono uno strumento con il quale raccogliere ed obbligare al consenso i civili), hanno incontrato serie difficoltà ad indirizzare le loro azioni di advocacy dal momento che, in Costa d’Avorio, non sono individuabili delle figure chiave riconosciute leader da tutte le componenti sociali del paese [Human Rights Watch 2006].
3.3.3.2 Abusi dell’esercito, dei miliziani e dei ribelli
La polizia e l’esercito, che fanno capo al presidente Gbagbo, sono stati protagonisti di ripetute esecuzioni sommarie – giustificate come azioni contro il crimine “comune” – di cittadini ivoriani del Nord, immigrati dagli stati occidentali e simpatizzanti dei ribelli dell’FN. A questi crimini, si aggiungono le intimidazioni a scopo di estorsione e il reclutamento, specie nelle aree occidentali, di bambini soldato. In stretto contatto con le forze armate, hanno poi agito i gruppi paramilitari e le milizie dei giovani patrioti. La loro presenza capillare nel Sud della Costa d’Avorio ha determinato un’incessante serie di abusi nei confronti di tutti coloro che, per un motivo o per un altro, venivano percepiti come “nemici”. Uomini dell’opposizione, peacekeepers, giornalisti, studenti e civili hanno catalizzato l’attenzione delle milizie, diventando obiettivi di azioni intimidatorie o di abusi più gravi, come la tortura e lo stupro.
Anche nelle regioni del Nord vige un sistema giudiziario sommario ed arbitrario. I crimini commessi dai ribelli – dall’estorsione di beni e proprietà all’uso di tecniche di tortura, dagli stupri e alle esecuzioni – cadono nel buio del beneplacito dei leader delle FN mentre i crimini comuni, come i semplici taccheggi, sono puniti con anni di reclusione.
3.3.3.3 I diritti dei bambini
La situazione di conflitto e la crescente militarizzazione hanno determinato lo sfaldamento di uno degli apparati statali più efficienti dell’Africa Occidentale. Il sistema scolastico e quello sanitario si sono pian piano smantellati, lasciando sullo sfondo centinaia di migliaia di minori.
Le regioni occidentali e quelle settentrionali sono le aree che hanno registrato il maggior numero di bambini privati dell’istruzione primaria. E, (quasi) conseguentemente, il maggior numero di bambini reclutati dalle milizie di ambo le parti.
La riduzione dei servizi sanitari ha causato l’incremento della media della mortalità infantile nel primo anno di vita (da 103 a 117), la riduzione dell’aspettativa di vita alla nascita e la morte di 128.000 bambini sotto i cinque anni nel solo 2005.
Inoltre, le precarie condizioni sanitarie e igieniche sono divenute lo scenario “perfetto” di diffusione del virus dell’HIV . L’Unaids [2006] stima che 74.000 bambini sotto i quattordici anni siano sieropositivi, mentre 450.000 siano diventati orfani a causa dell’Aids.
Sebbene non si disponga di cifre attendibili degli ultimi anni, la Costa d’Avorio è uno degli stati che più fa ricorso al lavoro minorile. Si tratta di un vero e proprio mercato che si muove in mercati non meno reali (per esempio a Abidjan) dove i bambini possono essere “direttamente acquistati”. Si stima che la maggior parte di loro (centinaia di migliaia) sia impiegata nelle piantagioni di cacao.
3.4
BURUNDI
3.4.1
PREFAZIONE STORICA
Il primo conflitto mondiale viene portato nella regione dei Grandi Laghi dalla belligerante Germania, che aveva il possesso delle colonie nel Ruanda-Urundi (gli attuali Ruanda e Burundi).
I Tedeschi attaccano nel 1914 le città del Congo Belga sul Lago Tanganica scatenando la reazione del Belgio, alleato della Gran Bretagna che era attestata in Uganda. Tra il 1915 ed il 1916, sia il Ruanda che il futuro Burundi cadono nelle mani degli Anglo-Belgi, in netta superiorità numerica. Nel 1918 la Società delle Nazioni, con il trattato di Versailles, assegnerà il protettorato del Ruanda-Urundi al Belgio e quello del Lago Tanganica alla Gran Bretagna. I Batutsi e Bahutu, così si chiamano la maggioranza degli abitanti della regione, cambiano padrone.
Fin dal 1925 grazie ad una legge del Parlamento belga, il Ruanda-Urundi gode di un trattamento particolare: viene annesso amministrativamente al Congo belga e viene smantellata l'organizzazione amministrativa precedente istituita dai tedeschi, che si affidavano ad una sorta di autogestione del potere da parte dei capi locali (in maggioranza Batutsi), da loro controllata.
L'occupazione belga durerà fino all'inizio degli anni '60, dopo che nel 1946 al termine della seconda guerra mondiale, la neonata Organizzazione delle Nazioni Unite conferma l'assegnazione del protettorato sulla regione al Belgio, assegnando però alla potenza coloniale il compito di "favorire il progresso economico, politico e sociale delle popolazioni, lo sviluppo della loro istruzione ed inoltre favorire il progresso verso la loro capacità di amministrarsi da soli".
In seguito alle pressioni dell'ONU, che organizza visite di controllo per accertare che la risoluzione del 1946 venga rispettata, il potere coloniale nel 1952 emana un serie di ordinanze che ristrutturano l'organizzazione amministrativa, riassegnando la gran parte della gestione territoriale agli autoctoni. Il Governatore belga si limitava a nominare un vice-Governatore che presiedeva il Consiglio Superiore del Paese formato dalla locale aristocrazia, formata in maggioranza sempre Batutsi (o Tutsi).
L'occupazione coloniale porta nella regione la religione cattolica, soppiantando radicalmente la religione tradizionale, basata sul culto animista di Kiranga. Chi non si convertiva godeva di meno diritti sociali. Così, tra il 1919 ed il 1937, una grande campagna missionaria di evangelizzazione converte la quasi totalità degli abitanti della regione dei Grandi Laghi. In particolare la Chiesa privilegia l'evangelizzazione dei Tutsi, in accordo con il potere coloniale, allo scopo di formare una classe dirigente locale affidabile e fedele; le Missioni hanno anche il compito di fornire istruzione ed educazione politica. Gli Hutu sono quasi completamente esclusi dall'accesso all'istruzione ed oggetto di discriminazioni.
Una statistica stilata nel 1963 indicava come il 60% della popolazione della regione fosse di religione cattolica, mentre i musulmani erano praticamente assenti.
Decolonializzazione e nascita dello stato del Burundi
Negli anni '60 esplodono in Africa le lotte dei movimenti indipendentisti che porteranno alla cacciata degli occupanti europei ed alla nascita delle Nazioni africane. In quello che diventerà il Burundi già dalla fine degli anni '50 la popolazione chiedeva di poter costituire partiti politici e nel 1960 se ne contavano 23. Reclamavano tutti l'indipendenza del Paese, anche se secondo modalità diverse che andavano dalla più radicale richiesta di immediata partenza dei Belgi a quella di una fase di transizione assistita che avrebbe, comunque, dovuto portare alla costituzione di uno Stato sovrano.
I movimenti per l'indipendenza avevano come organizzatori soprattutto i Tutsi che detenevano molti ruoli chiave del potere amministrativo. A questo punto la Chiesa cattolica ed il Protettorato belga si rendono conto dell'errore commesso: di aver, cioè, privilegiato e formato una parte della società indigena che ora gli sta rivoltando contro e cercano di porre rimedio costituendo una lobby Hutu in funzione anti-Tutsi e quindi, si spera, anti-indipendentista; gli Hutu, da sempre tenuti lontano dalle leve del potere, hanno sviluppato astio e rancore verso i loro privilegiati conterranei.
Il clima di odio nella regione porta nel 1959, in Ruanda, al primo massacro di Tutsi da parte di una fazione Hutu che aveva tentato di mettere in atto una rivoluzione, sostenuti ed organizzati anche dalla Chiesa cattolica.
A fine 1959 il Governo belga cede alle pressioni internazionali ed annuncia un piano per dare l'autonomia alla regione; crea due sotto-governatorati, uno per il Ruanda e l'altro per l'Urundi, separandone l'amministrazione da quella del Congo.
Il Burundi diventa, così, una monarchia costituzionale con un re Tutsi, ispirata a quella belga; il Belgio dovrà rispettare una risoluzione ONU che lo invita a lasciare completamente il Paese entro il 1 agosto del 1962. Ma nel 1961 avviene un colpo di stato, sostenuto dal Belgio, che instaura nel Paese un governo repubblicano Hutu. Ma poco dopo il primo ministro Hutu viene assassinato ed il suo posto è preso da un Tutsi, che si ritrova però a capo di un Governo molto debole.
Gli odi tra le due componenti, Tutsi ed Hutu, ricevono nuovo combustibile quando nel 1965 viene di nuovo assassinato il primo ministro Hutu, Pierre Ngendandumwe ad opera di un espremista Tutsi; una enorme provocazione che rinfocola la rabbia.
Poco dopo un gruppo di Hutu tenta un colpo di stato ed in tutto il Paese avvengono delle rappresaglie contro i Tutsi, per il solo fatto che appartengono a questo gruppo sociale. Ma il colpo di stato fallisce, per la grande inferiorità di risorse militari ed economiche di cui gli Hutu dispongono e viene represso brutalmente dai Tutsi che riprendono il potere compiendo a loro volta massacri e dure repressioni: i morti sono migliaia.
Anche i grandi eccidi avvenuti nel 1972, nel 1988 e nel 1991-1993 non saranno altro che riedizioni della stessa storia; solo nel 1972 gli scontri etnici lasciano sul terreno circa 150.000 Hutu morti (i Tutsi compongono il 15% della popolazione del Burundi, il restante 85% sono Hutu).
Gli anni '90 e l'attuale conflitto
"Queste storie tra Hutu e Tutsi sono folcloristiche. La simbiosi tra le comunità è più forte delle dissonanze e nessuno può cancellare il loro retaggio comune". Questa è la dichiarazione del Presidente Tutsi del Burundi, Bagaza, in una intervista del 1987 all'agenzia ANSA. Ma i fatti gli hanno dato tragicamente torto: dopo 15 anni di instabilità politica, con l'alternarsi di colpi di stato e Governi di breve durata, nello stesso anno il suo Governo viene rovesciato dall'ennesimo colpo di stato militare, sempre Tutsi, ed alla guida del Paese sale il maggiore Pierre Buyoya.
E, seguendo un triste copione, nel 1988 l'esercito Tutsti impone una violenta repressione massacrando migliaia di Hutu, almeno 50.000, sempre con la scusa di voler reprimere preventivamente eventuali ribellioni.
Ma, grazie a Buyoya, la situazione sembra prendere una svolta nuova e diversa: agli inizi degli anni '90, resosi conto che la guerra etnica non sarebbe potuta andare avanti per sempre, il maggiore golpista tenta di avviare un processo di democratizzazione del Paese che culmina con la stesura di una Carta costituzionale, la costituzione di più partiti e lo svolgimento di libere elezioni nell'aprile del 1993.
Le elezioni, caso incredibile per un Paese africano, si svolgono senza brogli e determinano la vittoria del FRODEBU (Fronte Democratico del Burundi, il principale partito Hutu), per cui gli Hutu guidati da Melchior Ndadaye divenuto Presidente si ritrovano al potere. Ed anche la composizione del Governo rispecchia il clima di distensione che sembra regnare in Burundi: i vincitori vogliono come Capo dell'esecutivo una donna Tutsi, l'economista Sylvie Kinigi.
Il sogno di democrazia dura, purtroppo, pochi mesi: nell'autunno del 1993 i militari dell'esercito rimasto a maggioranza Tutsi compiono un colpo di stato ed il Presidente Ndadaye viene ucciso. Anche se il colpo di stato, di fatto, non cambia la composizione del Governo (Sylvie Kinigi resta in carica) la reazione degli Hutu è tremenda: centinaia di Tutsi vengono massacrati nelle campagne burundesi per rappresaglia.
E la reazione dell'esercito è ancora peggiore: solo nell'ultimo decennio si calcola che la violenza intra-etnica abbia provocato 300.000 di morti. Gli sfollati nei Paesi vicini, soprattutto la Tanzania, sono centinaia di migliaia.
Il Burundi nel 1993 aveva richiesto l'intervento di una forza di interposizione di pace dell'ONU, ma questo viene rifiutato dall'allora segretario Boutros Ghali.
Ad aggravare la situazione interviene un altro fatto: nell'ennesimo tentativo di placare gli odi nel gennaio 1994 era stato eletto Presidente Cyprien Ntaryamira, un altro Hutu, che però viene ucciso tre mesi dopo sull'aereo presidenziale ruandese insieme al suo omologo Juvenal Habyarimana, Presidente del Ruanda ed Hutu anch'egli. I due stavano per atterrare all'aeroporto di Kigali, capitale del Ruanda.
L'attentato, condotto sembra da una fazione di Hutu ruandesi che poi hanno tentato di gettare la colpa sui Tutsi del Fronte Patriottico ruandese, accresce l'instabilità nell'intera regione, aggravando lo scontro in Burundi e provocando quel gigantesco massacro di Tutsi ed Hutu moderati, compiuto dagli Hutu, che viene perpetrato in Ruanda: quasi un milione di morti.
A fine 1994 viene eletto Presidente un altro Hutu, Ntibantunganya, ma la situazione nel Paese rimane altamente instabile a causa delle centinaia di migliaia di profughi provenienti dal Ruanda che alimentano ulteriormente disperazione, odi e contrasti tra le etnie che si fronteggiano.
la guerra civile continua, quindi, fino al 1996 quando, con un colpo di stato, sale al potere nuovamente Pierre Buyoya che nell'agosto '96 costituisce un Governo di unità nazionale nel tentativo di porre fine alla guerra civile, come al solito invano.
Un primo spiraglio di pace si apre nell'agosto del 2000 con gli accordi di Arusha (città della Tanzania sede, tra l'altro, di un Tribunale penale internazionale) quando viene siglato un accordo di cessate il fuoco tra Governo e forze ribelli grazie alla prestigiosa mediazione del Presidente del Sudafrica Nelson Mandela.
Due forze ribelli Hutu si rifiutano di firmare, però: sono le CNDD-FDD (Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia - Forze per la Difesa della Democrazia) di Pierre Nkurunziza e le FNL (Forze di liberazione nazionale) di Agathon Rwasa, che restano ancora i principali antagonisti del Governo di coalizione nazionale.
Ad Arusha si decide, oltre al cessate il fuoco, anche che il Paese sarebbe stato governato per i primi diciotto mesi dal Tutsi Pierre Buyoya a capo di un Governo di transizione misto e come vice Presidente Domitien Ndayizeye, Hutu appartenente al partito moderato FRODEBU. Alla fine dei 18 mesi sarà previsto un avvicendamento al potere con la nomina a Presidente proprio di Ndayizeye.
La volontà di deporre le armi viene ribadita a dicembre 2002 con un'altro accordo al quale questa volta partecipano le CNDD-FDD, sempre ad Arusha, ma anche questa volta gli odi hanno la meglio sulla volontà di pace: continuano le razzie e gli scontri.
Gli sfollati per quasi dieci anni di combattimenti sono quasi un milione: la Tanzania ne ospita circa 350.000, rifugiati nei campi dell'UNHCR, ma si stima che ve ne siano almeno altri 300.000 dispersi per il Paese. Almeno 280.000 vagano, invece, per il Burundi alla ricerca di cibo ed un riparo.
A Buyoya succede, come previsto, la scorsa primavera l'attuale Presidente Ndayizeye, anch'egli alla guida di un Governo di unità nazionale che dovrebbe traghettare il Paese verso la concordia etnica e le libere elezioni.
Al processo di pace messo in atto con le CNDD-FDD non hanno mai partecipato le FNL. Questi ribelli hanno sempre rifiutato ogni ipotesi di dialogo con il Governo, accusato di essere succube delle forze armate, guidate per ora dai Tutsi, secondo loro i veri detentori del potere in Burundi. Hanno chiesto, quindi, di poter condurre delle trattative direttamente con i generali Tutsi, cosa che è sempre stata loro rifiutata.
Il 20 luglio 2003, dopo una sanguinosa settimana di assalto alla capitale Bujumbura condotta dalle FNL che ha provocato più di trecento morti, CNDD-FDD e Governo siglano l'ennesimo impegno per una tregua. Questo accordo ha scatenato le ire degli uomini di Rwasa che accusano le CNDD_FDD di essersi alleate con il Governo per eliminarli. A settembre sono scoppiati violenti scontri tra le due forze ribelli nella provincia di Bujumbura ed in quella settentrionale di Bubanza, scontri che continuano sporadicamente anche ora.
Le trattative sono andate avanti: dopo altri incontri dall'esito negativo, l'8 ottobre 2003 è stato firmato un accordo definito "storico" tra Governo e CNDD-FDD, grazie alla la mediazione del Presidente del Sudafrica Thabo Mbeki e del Presidente del Parlamento sudafricano Jacob Zuma, mediatore-capo per il processo di pace in Burundi.
Nell'accordo è stato deciso il futuro assetto che dovranno avere Governo e Parlamento, ma soprattutto la ripartizione del controllo sulle forze armate. Le FDD occuperanno il 40% dei posti-chiave dell'esercito ed il 35% delle forze di polizia.
Sul piano politico le FDD hanno ottenuto quattro Ministeri e la vicepresidenza, nonchè 15 seggi in Parlamento.
3.4.2
SITUAZIONE ATTUALE
La firma degli accordi di pace dell'agosto del 2000, confermati poi a Dar es Salaam nell'aprile 2003, ha sancito la fine della lotta armata per le Fdd. Gli ex ribelli sono entrati a far parte del governo di transizione, nel febbraio del 2005 è stata approvata tramite referendum la nuova Costituzione e nei mesi successivi si sono tenute le elezioni per il rinnovo del Parlamento e delle amministrazioni locali, da cui sono usciti vincitori i partiti Hutu. Nell'agosto del 2005 il leader delle Fdd Pierre Nkurunziza è stato eletto presidente, sancendo così il ritorno alla presidenza di un Hutu dopo ben 12 anni. Secondo gli accordi di pace la composizione del Senato e delle Forze Armate burundesi sarà divisa al 50 percento tra Hutu e Tutsi, mentre per quanto riguarda i seggi alla Camera e il numero dei ministri gli Hutu avranno diritto al 60% dei posti. Le Fnl capeggiate da Pasteur Habimana continuano invece a rifiutare di trattare con il governo, che secondo i ribelli sarebbe solamente un prodotto delle pressioni internazionali e quindi non legittimo. Le Fnl sono attive nel distretto di Bujumbura Rural, alle porte della capitale.
Essendo il conflitto limitato prevalentemente alle zone intorno alla capitale, il resto del Paese ha goduto di una relativa calma. Gravi violazioni dei diritti umani come uccisioni illegali, torture, tra cui stupri e altre forme di violenza sessuale, rapimenti e arresti illegali sono state compiute da tutte le parti in causa. I detenuti che non avevano avuto un regolare processo erano circa 4.788. A fine anno, gli sfollati erano almeno 95.000. Si calcola che almeno 90.000 profughi abbiano fatto ritorno in patria, in Tanzania, sebbene molta gente abbia continuato a fuggire dal Burundi. Oltre 150 rifugiati congolesi sono stati uccisi durante un attacco a un centro di transito nei pressi di Bujumbura. Sono state comminate almeno 44 condanne a morte.
La crisi economica in Burundi non è diminuita e il Paese ha continuato a dipendere dall’assistenza e dagli aiuti di Paesi esteri, anche se gli impegni economici da parte dei donatori spesso non si sono concretizzati, oppure sono risultati insufficienti rispetto alle effettive necessità. Il crimine armato è aumentato. L’accesso al sistema sanitario nazionale è rimasto estremamente difficile per la maggioranza della popolazione.
3.4.2.1
Violazioni dei diritti umani nelle zone di conflitto
Nel Bujumbura rurale le forze armate governative si sono rese responsabili di gravi violazioni dei diritti umani nei confronti della popolazione civile, tra cui ripetuti saccheggi, distruzioni di proprietà, stupri ed esecuzioni extragiudiziali. I civili si sono spesso trovati nel mezzo di scontri a fuoco e, talvolta, sono stati deliberatamente attaccati. I combattenti del CNDD-FDD (Nkurunziza), le cui basi militari autonome nel Bujumbura rurale hanno condotto operazioni gestite in modo ambiguo, sono stati ripetutamente accusati di stupri, pestaggi, saccheggi e uccisioni di civili residenti nella zona.
Nel 2005 la situazione dei diritti umani si è deteriorata notevolmente nelle province occidentali, come risultato della campagna militare intensificata da parte del Governo contro l’FNL.
Un numero imprecisato di presunti simpatizzanti dell’FNL sono stati uccisi dalle forze governative e da membri del CNDD-FDD (Nkurunziza), specialmente nel corso di attacchi arbitrari e di rappresaglie che hanno accompagnato o seguito le operazioni militari.
Nel Bujumbura rurale, l’FNL ha ucciso ufficiali governativi di basso rango e alcuni civili sospettati di collaborare con il CNDD-FDD (Nkurunziza). Anche l’FNL ha continuato a reclutare bambini-soldato e ad amministrare un sistema di giustizia parallelo, ovvero con punizioni che non hanno escluso pestaggi e uccisioni.
Centinaia di presunti guerrieri o sostenitori dell’FNL rimango detenuti, incluso degli sostenitori ufficiali amministrativi di FRODEBU. Dei testimoni credibili dai numerosi detenuti tenuti dal servizio intelligente, indicano di essere stati torturati durante l’interrogatorio, prima di essere trasferiti nelle celle di polizia. Le organizzazioni dei diritti umani e ONUB hanno espresso la loro seria indignazione per quanto riguarda l’esposizione pubblica delle centinaia di persone arrestate per vari motivi, inclusi presunti collaboratori dell’FNL, nel 15 dicembre 2005 e 2 febbraio 2006. L’atto era una violazione seria dei diritti di queste persone, nessuno dei quali era accusato formalmente, e alcuni di loro sono stati rilasciati giorni dopo.
3.4.2.2
Arresti e rapimenti da parte del CNDD-FDD (Nkurunziza)
Per tutto l’anno, il CNDD-FDD (Nkurunziza) ha assunto il ruolo di forza di “polizia” parallela, capace di emettere veri e propri mandati di comparizione, effettuare perquisizioni e trattenere in stato di fermo decine di persone. La maggior parte dei detenuti sarebbe stata accusata dai comandanti locali del CNDD-FDD (Nkurunziza) di aver partecipato a rapine a mano armata oppure di aver avuto contatti con l’FNL. Alcuni sono stati costretti a pagare una “multa” prima di essere rilasciati. Altri hanno subito pestaggi e hanno visto le proprie proprietà saccheggiate. Tutti sono stati detenuti arbitrariamente e senza alcuna tutela legale. Molti dei sospettati sono stati picchiati, spesso duramente, altri risultano deceduti o “scomparsi”.
Centinaia di presunti guerrieri o sostenitori dell’FNL rimango detenuti, incluso degli sostenitori ufficiali amministrativi di FRODEBU. Dei testimoni credibili dai numerosi detenuti fermati dal servizio intelligente, segnalano di essere stati torturati durante l’interrogatorio, prima di essere trasferiti nelle celle di polizia. Le organizzazioni dei diritti umani e ONUB hanno espresso la loro seria indignazione per quanto riguarda l’esposizione pubblica delle centinaia di persone arrestate per vari motivi, inclusi presunti collaboratori dell’FNL, nel 15 dicembre 2005 e 2 febbraio 2006. L’atto era una violazione seria dei diritti di queste persone, nessuno dei quali era accusato formalmente, e alcuni di loro sono stati rilasciati giorni dopo.
3.4.2.3
Bambini-soldato
Nel 2004 è stato lanciato un programma di smobilitazione, disarmo e reintegro (SDR) per i bambini-soldato arruolati nelle forze governative e in due gruppi armati minori. A novembre erano già stati smobilitati oltre 2.300 bambini-soldato, alcuni di appena 11 anni. Il dato provvisorio fornito da diversi gruppi armati in merito al numero di bambini-soldato da far rientrare nel programma generale di SDR, che era iniziato a dicembre, era di 500 bambini, cifra molto inferiore alle aspettative. Il ministero dei Diritti Umani ha ammesso la probabile continua presenza di bambini-soldato nelle fila delle truppe governative.
3.4.2.4
Stupri e altre forme di violenza sessuale
Nonostante l’accresciuta consapevolezza riguardo al problema e l’unanime condanna degli stupri, sia in ambito domestico che di guerra, sono stati registrati numerosi casi di stupro e violenza sessuale. Tra le vittime figurano bambine in tenera età, uomini e ragazzini. Alcune donne sono state stuprate all’interno di accampamenti militari, dove erano state trascinate con la forza; altre hanno subito violenza mentre tentavano di sfuggire agli attacchi, mentre raccoglievano legna da ardere oppure mentre erano al lavoro nei campi.
Grazie soprattutto alla collaborazione tra associazioni nazionali per i diritti umani, organizzazioni non governative internazionali (ONG) e la magistratura, sono aumentati sia il numero di vittime che ha potuto beneficiare dell’assistenza medica sia i casi approdati in tribunale.
3.4.2.5
Amministrazione della giustizia
Il sistema giudiziario ha continuato a operare con difficoltà a causa di risorse inadeguate, scarsa formazione, corruzione, mancanza di fiducia nello Stato di diritto e di volontà da parte della classe politica di porre fine all’impunità. Si sono registrati diversi casi di linciaggio e maltrattamenti. Circa 4.788 persone sono rimaste in carcere senza processo. Sono invece proseguite le udienze che riguardano le persone coinvolte negli atti di violenza che avevano fatto seguito all’omicidio dell’ex presidente Melchior Ndadaye nel 1993. Ad aprile, 36 persone, di cui due civili, sono state condannate per aver partecipato adun tentativo di colpo di Stato nel giugno 2001. Altre 64 persone sono state assolte.
Almeno 2.202 detenuti da lungo tempo senza processo oppure trattenuti per reati connessi al conflitto, sono stati rilasciati. Tra questi figurano 6 prigionieri del CNDD-FDD (Nkurunziza) che erano stati condannati a morte.
Il Senato ha approvato la riforma della Corte Suprema, concedendole il diritto di riesaminare sentenze precedenti. Potrebbero essere così riviste le sentenze emesse da giurisdizioni nazionali o internazionali, il cui processo originale sarebbe risultato viziato. A fine anno il presidente non aveva ancora firmato la legge. Questa riforma potrebbe potenzialmente aiutare centinaia di imputati processati da Corti d’Appello tra il 1996 e il settembre 2003, spesso mediante processi ingiusti oppure senza assistenza legale. In passato il solo procedimento d’appello disponibile era il ricorso, basato su elementi tecnici, da presentare alla Camera di Cassazione della Corte Suprema. Se il ricorso veniva approvato, il caso veniva ridiscusso. Tuttavia, dal momento che molti imputati non erano assistiti legalmente, era praticamente impensabile che riuscissero a presentare ricorso.
3.4.2.6
Pena di morte
Sono state emesse almeno 44 condanne a morte. Nel 2005 erano in attesa di esecuzione 533 persone. Non vi sono state esecuzioni. Tuttavia, nel mese di febbraio, durante il processo a quattro imputati accusati di rapina in una banca di Bujumbura, il presidente Ndayizeye ha fatto temere una ripresa delle esecuzioni. Gli uomini sono stati in seguito condannati a morte e la loro condanna confermata in appello.
Il presidente ha ordinato la stesura di nuove leggi, nel tentativo di contrastare i crescenti livelli di crimini violenti, tra cui rapine a mano armata e stupri. Il presidente non ha nascosto di auspicare una più ampia applicazione della pena di morte. Sempre a novembre è stata presentata in parlamento una nuova legge finalizzata a ridurre drasticamente i tempi necessari per perseguire penalmente soggetti colti in flagranza di reato. Queste nuove procedure non rispettano gli standard internazionali in materia di equo processo. In particolare fissano a 40 il numero massimo di giorni che possono intercorrere tra il momento dell’arresto e l’esecuzione o la grazia, compresi quelli eventualmente necessari per un nuovo processo.
3.4.2.7
Giustizia internazionale e di transizione
Nel 2005 il Burundi ha ratificato lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale. L’Assemblea Nazionale e il Senato hanno inoltre approvato una legge che istituisce una Commissione verità e riconciliazione (NTRC). Le associazioni burundesi per i diritti umani hanno tuttavia espresso il timore che tale legge non sia in grado di garantire l’indipendenza dei membri della commissione, e che la mancanza di chiarezza circa le competenze della NTRC e della commissione internazionale d’inchiesta prevista dall’Accordo di Pace possa mettere a repentaglio il lavoro di entrambe.
3.4.2.8
Rifugiati e sfollati
Le autorità della Tanzania e il governo del Burundi hanno aumentato le loro pressioni per indurre i rifugiati a far ritorno in patria. Nel corso dell’anno più di 90.000 rifugiati sono ritornati dalla Tanzania. Sebbene alcuni rifugiati siano rientrati spontaneamente, altri hanno fatto ritorno a causa dell’inasprimento delle condizioni di vita nei campi profughi e per paura di essere rimpatriati con la forza dalle autorità della Tanzania. Molti temevano addirittura di perdere la propria terra in Burundi in caso di permanenza all’estero. A parecchi dei rimpatriati erano state fornite informazioni sbagliate circa l’effettiva situazione in Burundi, ad altri erano state date false speranze dai funzionari governativi del Burundi in visita nei campi profughi. Le controversie in materia di proprietà terriera sono diventate più frequenti. Gli enti governativi preposti al reintegro dei rifugiati e alla risoluzione di tali controversie si sono dimostrati inadeguati e inefficienti.
A fine anno gli sfollati erano almeno 95.00, alcuni sin dal 1993, sebbene nel corso dell’anno fossero circa 160.000 coloro che erano rientrati nelle loro zone di origine. La popolazione del Bujumbura rurale ha continuato a essere sfollata per brevi periodi a causa dei continui conflitti che avevano reso la vita impossibile. In diverse zone del Paese la gente, compresi i rimpatriati, era così spaventata da non voler trascorrere la notte nella propria abitazione.
L’uccisione in agosto dell’anno scorso di oltre 150 profughi nel centro di transito di Gatumba ha evidenziato l’incapacità del governo di proteggere i rifugiati. Soltanto dopo il massacro il governo ha finalmente accettato di far allontanare i profughi dal confine con la Repubblica Democratica del Congo (RDC). L’esercito del Burundi, che peraltro possiede diverse basi militari vicine al centro di transito, non è intervenuto per proteggere i profughi.
3.5
UGANDA
Il conflitto nell’Uganda del nord continua a causare vittime tutte i giorni e più di 1.5 milioni di persone continuano a soffrire nei campi di profughi, vulnerabili dagli abusi brutali del LRA (Armata di Resistenza del Signore) e da un indisciplinato esercito governativo (La forza popolare per la difesa dell’Uganda). Nel Nord dell'Uganda, dal 1986 c'è un conflitto armato che strazia le popolazioni Acholi, Lango e Teso: ha causato 100.000 vittime, oltre un milione e mezzo di sfollati che cercano di sopravvivere nei campi profughi in condizioni disumane, interi villaggi distrutti, violazioni dei diritti civili e tanta miseria.
Più di 20.000 bambini sono stati rapiti e costretti a diventare soldati e schiave dei ribelli; chi non è morto ed è riuscito a fuggire, ora è profondamente segnato nel corpo e nella psiche. 20.000 bambini sono stati sequestrati e costretti a diventare soldati e schiave dei ribelli; chi non è morto ed è riuscito a fuggire, ora è profondamente segnato nel corpo e nella psiche.
L'Uganda era chiamata "perla dell'Africa" e dal punto di vista ambientale lo è ancora, ma, per le popolazioni del nord, la vita è carica di sofferenze e paura, a causa della guerra e delle malattie.
Jan Egeland, vicesegretario generale dell'Onu e responsabile delle questioni umanitarie, dopo una visita nell'autunno scorso nel nord Uganda, ha riconosciuto: “Quello del nord Uganda è uno dei peggiori disastri umanitari del mondo e noi, come Nazioni Unite, abbiamo fatto troppo poco".
Negli ultimi mesi, dopo un periodo di terrore, si comincia a parlare di tregue e di avvii di colloqui tra le parti in conflitto, ma questi segnali di pace potrebbero un'altra volta svanire.
La buona notizia verrà quando la comunità internazionale, l'Onu, l'Unione Europea e l'Unione Africana si decideranno a intervenire veramente, con iniziative e con forze di pace.
Per ora arrivano ancora notizie di incursioni degli olum (i ribelli del Lord Resisters Army) nei villaggi e di scontri armati con l'esercito, che a sua volta non lascia tranquilla la gente, che si ritrova tra l'incudine e il martello.
3.5.1
La guerra in Nord Uganda
Venti anni dopo il conflitto nel nord Uganda continua a vittimizzare la popolazione dei tre distretti di Acholi, più dei 90 % dei quali vivono nei campi costruiti per i sfollati e non sonno liberi a ritornare a casa. I ribelli del LRA continuano ad ammazzare persone civili, a sottoporli a torture, mutilazioni e abusi sessuali, dove s’include anche i “matrimoni” forzati di ragazze con comandanti di ribelli, e rapite migliaia di bambini i quali gli forzano a diventare bambini soldato. Se il governo assicura ripetutamente che ha vinto la guerra contro o ribelli, la LRA continua di rilanciare attacchi brutali, come forma di risposta alle assicurazioni governative.
Negoziati per la pace tra il governo del Uganda e la LRA, mediati dal Betty Bigombe, ex ministro del governo ma originario dal nord, si sonno interrotti al inizio del 2005, e i combattimenti hanno ripreso. La violenza si è intensificata dopo che il negoziatore principale del LRA, Brigadier Sam Kolo, è passato dalla parte governativa nel Febbraio 2005.
La LRA continua a lanciare attacchi all’Uganda del Nord dalle loro basi in Sud Sudan, e dall’altra parte aumentano anche gli attacchi contro i sudanesi in Sudan. In Settembre 2005, si contano quattro cento ribelli della LRA che hanno passato il confine e hanno attaccato villaggi sudanesi. La missione del ONU in RD di Congo gli ha intervistati. Il governo dell’Uganda ha rinnovato le minacce che entreranno in RDC e di confrontare li la LRA, ma la condanna internazionale su ogni azione aggressiva avrebbe destabilizzato il nordest del RDC. Sembra che la LRA si e ritirata da RDC nelle sue basi in sud Sudan.
3.5.2
LRA
L'LRA (Armata di resistenza del signore) è la forza ribelle che terrorizza le province del nord dell'Uganda fin dal 1987, abitate dagli Acholi, ai confini con il Sudan. Ed è proprio in Sudan che gli Olum ("erba" così vengono chiamati in lingua Acholi) hanno le loro basi e da lì partono molti dei loro attacchi.
Si calcola che fin'ora razzie e scontri abbiano causato 100.000 vittime ed 1.200.000 sfollati, senza contare il dramma dei bambini rapiti: i maschi vengono addestrati come piccoli soldati mentre le femmine divengono schiave sessuali dei ribelli.
La LRA è stata fondata dall'oggi quarantenne Joseph Kony di etnia Acholi, regione nel nord dell'Uganda ai confini con il Sudan, alla fine degli anni '80. Egli dichiara di essere il successore spirituale di una sua zia, Alice Lakwena pretessa vudù di grande carisma ("lakwena" significa messaggero in Acholi) che aveva condotto gli Acholi in guerra contro la giunta militare del Presidente Museveni durante le rivolte tribali avvenute tra il 1987 ed il 1988.
L'"Armata del santo Spirito" così era chiamato l'esercito composto da guerrieri Acholi che arrivarono fino a Kampala, la capitale, armati di lance e pietre. Morirono a migliaia sotto il fuoco dell'artiglieria dei militari.
Joseph Kony radunò i resti della Armata e con essi fondò l'Armata di resistenza del Signore con l'obbiettivo di vendicare i torti e le atrocità subite dagli Acholi da parte dell'esercito. L'armata iniziò le proprie operazioni di guerriglia nel 1989.
Ma ben presto da oppressi gli Olum si trasformarono in oppressori iniziando ad uccidere e depredare la popolazione ed a rapirne i bambini per addestrarli come piccoli soldati. Consuetudine già praticata dall'Armata del santo spirito di zia Lakwena. L'UNICEF calcola che siano più di ventimila i bambini rapiti dalla fine degli anni '80 ad oggi.
Gli obbiettivi dichiarati della LRA sono quelli di instaurare in Uganda un regime basato sull'applicazione letterale dei dieci comandamenti biblici. Kony stesso afferma di essere un profeta e di essere posseduto da uno spirito-guida divino. I bambini rapiti vengono indottrinati alle visioni di Kony: egli crede nell'avvento di un giorno in cui tutte le armi da fuoco del mondo smetterano di funzionare (il giorno del "mondo silenzioso" ) e solo coloro in grado di usare le armi bianche potranno sconfiggere i nemici e prendere il potere.
La religione di Kony, un misto di concetti cristiani, animismo e magia africani, ha recentemente aggiunto un undicesimo comandamento ai dieci della Bibbia: "non dovrai mai guidare una bicicletta"; i soldati della LRA puniscono i contadini trovati a bordo di un biciclo mutilando loro le natiche con il machete. In un crescendo di follia, recentemente è stata lanciata una campagna contro i proprietari di polli bianchi e i maiali che vengono uccisi in tutto l'Acholi, quando scoperti. I motivi? Questi sono i comandamenti che Kony riceve dal suo spirito e dagli angeli, che consigliano anche i metodi di addestramento e guidano i ribelli in battaglia.
I metodi di addestramento sono brutali: i bambini, spesso drogati, sono costretti a mutilare ed uccidere con il machete, per non incorrere i punizioni gravissime o addirittura essere uccisi a loro volta. In battaglia portano una pietra in tasca che dovrebbe, in caso di pericolo, innalzare una montagna di fronte a loro come protezione dal nemico ed una bottiglia d'acqua con un bastoncino che, versata, dovrebbe creare un fiume che disperda le pallottole degli avversari. Mai ritirarsi di fronte alla battaglia dice la dottrina di Kony che, comunque, rimane ben al riparo nelle retrovie a compiere le sue divinazioni.
Le principali basi della LRA sono nel sud del Sudan che per anni ha fornito ai ribelli armi e supporto logistico, nonostante il differente credo religioso: il Sudan è governato da un regime musulmani. Le motivazioni risiedono nei contrasti tra Sudan e Uganda, che a sua volta ha sempre finanziato i ribelli dello SPLA (Sudan People's Liberation Army) che da vent'anni lotta per il potere nel sud del Sudan.
Nel gennaio 2002 la guerra per procura sembrava essere finita, dopo la stipula di un accordo tra i due paesi e l'impegno reciproco a non finanziare più i gruppi ribelli, ma gli scambi di accuse tra i due Paesi sono proseguite; nuova speranza potrebbe derivare dalle trattative in corso tra Khartoum e ribelli dello SPLA che potrebbero portare la pace nel sud del Sudan e di conseguenza disinnescare l'intervento ed il sostegno dell'Uganda a questa forza ribelle.
Dall'indipendenza ad oggi una terribile storia di dittature
L'Uganda conquista la sua indipendenza dagli Inglesi nel 1962 e Primo Ministro viene eletto Milton Obote che poco dopo abolisce Costituzione e diritti e governerà con un duro regime dittatoriale per una decina d'anni, sostenuto inizialmente dagli Acholi e dai Langi dei distretti del nord.
Ad inizio 1971 il potere viene conquistato, con un colpo di stato, da un suo ex-fedele generale: Idi Amin. Obote che è costretto a fuggire all'estero.
Il regime di Amin è caratterizzato da spaventosi massacri di oppositori politici e della popolazione Acholi e Langi, accusata di aver appoggiato il regime precedente: in otto anni si calcola che Amin abbia mandato a morte almeno 300.000 persone. La politica estera di Amin, inoltre, precipita il Paese in una spaventosa crisi economica.
La sua dittatura termina nel 1979 quando, dopo aver ingaggiato una guerra con la Tanzania accusata di sostenere ed ospitare gli oppositori del suo regime, è costretto dai suoi oppositori interni e dall'esercito tanzaniano che invade Kampala a fuggire in aereo prima in Libia e quindi in Arabia Saudita dove morirà tra lussi ed agi nell'estate del 2003.
Al regime del poco rimpianto Amin succedono altri 5 anni sanguinosi: fuggito il nemico, Milton Obote può nuovamente rientrare in Uganda ed impadronirsi del potere, dopo un breve periodo nel quale viene tentata una transizione democratica. Ma Obote trova subito una forte opposizione da parte della NRA (Armata di resistenza nazionale) guidata da Roweri Museveni; ne segue una sanguinosa guerra civile che durerà fino al 1985.
Nel 1985 il generale Basilio Olara-Okello, a capo di un'armata composta principalmente di Acholi, sconfigge Obote che fugge in Zambia e si insedia al potere. Vengono aperti dei negoziati con la NRA di Museveni, nel tentativo di fermare i due decenni di spaventosi massacri e sistematiche violazioni dei diritti umani e dare un po' di pace al prostrato Paese, ma nelle campagne intorno a Kampala si continua a combattere e a morire.
A dispetto dei negoziati in atto infine la NRA riesce a conquistare Kampala, Okello fugge in Sudan e Museveni si insedia come Presidente.
3.5.3
Violenza sulle donne
Le notizie di stupro, anche di ragazzine, sono state frequenti e sono apparse in crescita. Secondo quanto riferito, nel Kabarole, nell’ovest del Paese, nel primo quadrimestre dell’anno sono state stuprate 54 bambine. Nel Gulu, la cifra è cresciuta da 55 ad agosto a 65 nel mese di settembre. Tra gennaio e giugno, sono stati registrati 320 casi di stupro di minorenni nella zona meridionale dei distretti di Rakai, Kalangala, Masaka e Sembalule, e 682 a Kampala, rispetto ai 437 registrati nello stesso arco di tempo nel 2003. Quasi la metà di coloro che sostenevano imputazioni capitali erano accusati di aver stuprato minorenni.
I servizi di assistenza sono rimasti inadeguati, e in assenza di appropriate cure mediche, la popolazione, in special modo donne e bambini, è rimasta altamente esposta a infezioni a trasmissione sessuale, comprese da HIV/AIDS.
3.5.4
Tortura
Sono continuate a pervenire segnalazioni di tortura da parte di agenti delle forze dell’ordine e dell’esercito. La tortura continua a essere utilizzata per estorcere confessioni e come metodo punitivo.
Ad aprile del 2005, un sopravvissuto alla tortura da parte di agenti della sicurezza del Capitanato dell’intelligence militare ha ottenuto un indennizzo economico dalla Commissione dei diritti umani dell’Uganda. La Commissione ha ritenuto il governo responsabile di aver violato i diritti del sopravvissuto alla libertà e alla protezione dalla tortura e dai maltrattamenti. A fine anno il governo non aveva ancora disposto il pagamento dell’indennizzo.
3.5.5
Libertà di espressione
La libertà di espressione dei media ha continuato a essere fortemente attaccata.
A giugno del 2005, sei giornalisti sono stati arrestati per ordine del presidente della Corte marziale generale militare. Il giorno stesso dell’arresto, i sei sono stati accusati di oltraggio alla corte. Assieme a un avvocato della difesa, sono stati accusati di aver pubblicato articoli riguardanti il processo di un ex capo di Stato maggiore dell’esercito, che la corte militare aveva ordinato di tenere a porte chiuse. Gli accusati sono stati multati e diffidati.
A febbraio, con una sentenza storica, la Corte Suprema ha sentenziato che il reato di “pubblicazione di notizie false” era nullo e incostituzionale e ha riaffermato che la libertà di espressione è un diritto umano fondamentale. La Corte Suprema ha inoltre deciso che la terminologia del codice penale che definiva il reato era troppo vaga.
3.5.6
Libertà di associazione e di riunione
In diverse occasioni, la polizia ha ostacolato il diritto costituzionalmente garantito alla libertà di associazione, disperdendo dimostrazioni pacifiche, raduni e comizi di partiti e gruppi di opposizione.
La sentenza della Corte costituzionale del 17 novembre che annulla alcuni articoli della PPOA del 2002 ha rimosso le restrizioni del diritto dei partiti politici di tenere pubblici raduni in qualsiasi parte del Paese. La Corte ha inoltre annullato l’art.13(b), che impediva ai cittadini ugandesi residenti all’estero da più di tre anni di guidare un partito politico o di ricoprire cariche politiche.
3.5.7
Persecuzione di minoranze sessuali
Il clima di ostilità contro lesbiche, gay, bisessuali e transgender (LGBT) non è cessato e la legislazione discriminatoria nei confronti delle minoranze sessuali è rimasta in vigore. Agenti della sicurezza hanno continuato a sottoporre a vessazioni membri della comunità LGBT, fino al punto di far temere per l’incolumità personale di alcuni attivisti per i diritti gay.
A ottobre 2005, una stazione radiofonica è stata costretta a pagare una multa per aver ospitato un talk show cui avevano preso parte attivisti per i diritti sessuali. Il Consiglio delle trasmissioni ha imposto un’ammenda a FM Radio Simba, sostenendo che il programma era “contrario alla moralità pubblica” e aveva infranto le leggi vigenti.
3.5.8
Pena di morte
Sono continuate le condanne a morte. Alla data di dicembre i prigionieri del braccio della morte erano almeno 525. Nessun civile è stato messo a morte dal maggio 1999, quando 28 prigionieri del braccio della morte furono impiccati nella prigione di Luzira. Tre soldati furono fucilati nel marzo 2003. Alti funzionari delle carceri hanno ripetutamente chiesto che le esecuzioni venissero effettuate da boia privati e non da dipendenti del Dipartimento delle carceri, nel caso in cui il governo intendesse mantenere la pena di morte.
3.5.9
Liberta politica
Nonostante le richieste di abolizione, la Commissione per le riforme costituzionali ha raccomandato il mantenimento della pena capitale e la sua applicazione per reati quali omicidio, rapina a mano armata, rapimento finalizzato all’omicidio e stupro di minorenni al di sotto dei 15 anni. A settembre il governo ha dato accettazione delle raccomandazioni, osservando che l’alto tradimento non era stato inserito tra i reati passibili di pena di morte.
Il governo ha organizzato un referendum il 28 luglio 2005 chiedendo agli elettori se volevano lasciare spazio politico ai partiti di contendersi per potere nelle elezioni programmate per il marzo 2006, cercando di far crescere la pressione internazionale per la democratizzazione dell’Uganda e far cambiare il sistema del Movimento politico “senza-partiti”. Le coalizioni principali dell’opposizione hanno boicottato il referendum, accusando che la decisione presa dal Presidente Youweri Museveni – il quale è stato presidente dal 1986 – comprometteva tutti gli sforzi fatti per una riforma democratica. Il Presidente pressava verso un emendamento costituzionale a giugno, il quale eliminava i limiti della durata presidenziale, permettendo cosi a lui di candidarsi per un terzo termine.
3.6
REPUBBLICA DEMOCRATICA DEL CONGO
3.6.1
La Storia
La storia di questo paese, grande come un quarto dell'Europa, è segnata da numerosi conflitti finalizzati spesso al controllo delle immense risorse naturali di cui dispone: oro, diamanti, uranio, cobalto, rame e coltan (columbite-tantalite, metallo utilizzato nella telefonia cellulare e per le componenti informatiche), legno pregiato e gomma arabica.
Sfruttato prima dalla colonizzazione belga, poi dalla trentennale dittatura di Sese Seko Mobutu (1965-1997) quindi, a partire dagli anni '90, invaso dagli eserciti dei paesi vicini e da bande mercenarie che hanno sostenuto e alimentato la guerra civile e gli scontri tra le componenti etniche delle province frontaliere.
Il conflitto in corso nella Repubblica Democratica del Congo è il più sanguinoso dai tempi della Seconda guerra mondiale e, anche a causa del gran numero di eserciti dei paesi limitrofi che ha coinvolto, è stato definito "Guerra mondiale africana". Nonostante i primi accordi di pace firmati nel 1999, i conflitti hanno avuto il loro apice tra il 1998 e il 2002, causando oltre 3,3 milioni di morti e circa 3 milioni di sfollati.
La maggior parte delle vittime sono civili, di esse i bambini, che costituiscono oltre il 50% della popolazione congolese, sono l'assoluta maggioranza.
Molti di loro sono morti a causa dei combattimenti, ma un numero certamente maggiore è deceduto per fame, malattie, mancanza d'acqua e d'ogni tipo d'assistenza medica e sociale: cause che sarebbero facilmente evitabili in situazioni di pace e di stabilità economica.
Nell'aprile 2002, è stata raggiunta un'intesa con il Ruanda e l'Uganda, cui sono seguiti gli accordi di pace firmati a Sun City l'anno successivo che hanno liberato il paese dagli eserciti limitrofi.
Contestualmente, un accordo di pace interno ha posto fine alla guerra civile nel paese e insediato un governo di transizione che ha realizzato un nuovo testo costituzionale approvato per via referendaria nel dicembre 2005.
Questo ha posto le premesse per la realizzazione di elezioni democratiche.
Se dal 2003 nelle regioni centro-occidentali della Repubblica Democratica del Congo si è raggiunta una relativa stabilità, nelle zone frontaliere nord-orientali e settentrionali, invece, permane una forte insicurezza che continua a degenerare, a fasi alterne, in una vera e propria guerra aperta con gravissime violazioni dei diritti umani e violenze efferate a danno dei civili, tra cui le più soggette sono le donne.
Come risposta all'emergenza, il 30 maggio 2003 il Consiglio di Sicurezza dell'ONU ha autorizzato l'intervento di una forza multinazionale di pace a Bunia, nel Nord-Est e, dal 1° settembre 2003, l'invio di 10.800 caschi blu Missione dell'ONU per il Congo (MONUC) dispiegati in Ituri, nel nord Kivu e nel Sud Kivu.
La presenza dei caschi blu ha reso le condizioni di sicurezza relativamente stabili fino al dicembre 2004, quando la situazione in quelle regioni è nuovamente precipitata. Da allora continuano a svilupparsi gravi focolai di tensione a fasi alterne, ancora non definitivamente controllabili.
3.6.2
Situazione attuale
Dopo l'assassinio di Laurent Kabila nel 2001, il figlio Joseph ha avviato nel 2002 il processo di pace (dialogo intercongolese, tenutosi in Sudafrica) che ha portato al ritiro degli eserciti stranieri alleati del governo (Angola, Namibia e Zimbabwe) e di quelli che sostenevano i ribelli (Ruanda e Uganda). Nonostante questo la presenza di milizie nelle regioni orientali del Paese resta considerevole, e nel Kivu si registrano sporadici scontri tra gli uomini del Rcd-Goma e le milizie Mayi-Mayi, che operano anche nel Katanga con attacchi frequenti alle truppe regolari congolesi.
La presenza dei ribelli Hutu delle Fdlr (Forze Democratiche di Liberazione del Ruanda), sostenute durante la guerra dal governo congolese, è un ulteriore fattore di instabilità per la regione. Dalla primavera del 2005 le Fdlr hanno rinunciato ufficialmente alla lotta armata, ma il programma di disarmo e rimpatrio non è ancora cominciato.
In Kivu si registrano periodicamente movimenti di truppe a cui non sarebbero estranei contingenti militari del Ruanda, più volte accusato di destabilizzare la regione. Le truppe del Rcd-Goma, che in seguito all'accordo di pace sono entrate a far parte dell'esercito nazionale, sono sospettate di avere ancora legami molto stretti con le autorità ruandesi, tanto che dal 2003 vi sono stati numerosi casi di ammutinamento tra i contingenti militari appartenenti all'ex-gruppo ribelle. Il più famoso tra questi gruppi di dissidenti è quello capeggiato dal generale Laurent Nkunda, che nel 2004 è riuscito a occupare per diversi giorni la città di Bukavu impegnando severamente l’esercito e i caschi blu della Monuc, la missione Onu nel Paese. I dissidenti di Nkunda sono poi tornati a colpire nel gennaio 2006, quando per alcuni giorni hanno occupato la città di Rushturu e altri centri abitati minori nelle circostanze. La Monuc tenta con scarso successo di stabilizzare la situazione, anche perché i dissidenti sconfinano spesso in Ruanda per sfuggire alla cattura.
Nella primavera del 2005 c'è stata una recrudescenza del conflitto in Ituri, regione che negli anni precedenti non era stata toccata dal programma di disarmo. I frequenti scontri tra le milizie che si contendono il territorio hanno causato centinaia di vittime e hanno provocato la fuga di milioni di persone. La Monuc ha conseguentemente avviato un programma di smantellamento forzato delle circa sette milizie che si fronteggiavano nella regione. L'operazione è sostanzialmente riuscita, visto che la maggior parte dei capi miliziani è stata arrestata e imprigionata, ma gli scontri nella regione continuano anche se con minore intensità.
Un ulteriore fattore di destabilizzazione è costituito dai ribelli ugandesi del Lra (Lord’s Resistance Army) che dalle loro basi nel sud del Sudan sconfinano spesso nel Congo settentrionale, attaccando la popolazione in cerca di soldi e viveri. A inizio 2006 la Monuc si è scontrata più volte con i ribelli.
3.6.2.1
Il Governo Transitorio
Il governo transitorio di coalizione non ha compiuto grandi progressi nell’avanzamento di leggi e riforme essenziali per la sicurezza e il rispetto dei diritti umani. L’autorità del governo è rimasta debole o inesistente in diverse zone orientali della Repubblica Democratica del Congo (RDC) che si sono di fatto trovate sotto il controllo di gruppi armati. Sono continuate le tensioni inter-etniche, l’insicurezza e le violazioni dei diritti umani, comprese uccisioni illegali, stupri diffusi, torture, reclutamento e impiego di bambini soldato. Il governo e la comunità internazionale hanno compiuto ben pochi sforzi comuni per dare una risposta alle immense necessità di una popolazione civile segnata dalla guerra. Secondo il Comitato Internazionale di Soccorso, a causa del conflitto sono morte circa 31.000 persone ogni mese. I sopravvissuti a violazioni dei diritti umani hanno avuto scarso, se non nullo, accesso alle cure mediche.
Il governo di transizione, costituitosi nel luglio 2003 e composto da rappresentati di tutti i gruppi belligeranti firmatari dell’Accordo di pace del 2002, è stato tormentato da conflitti interni e da una serie di crisi politiche e militari. Il governo ha compiuto solo progressi limitati nel miglioramento della sicurezza e del rispetto per i diritti umani e non è riuscito a estendere la propria autorità a molte zone orientali della RDC, dove permangono situazioni di instabilità e violenza localizzata, che minacciano di sfociare nuovamente in conflitto aperto.
Sono stati compiuti alcuni progressi, benché lenti, nell’approvazione di riforme essenziali per migliorare la sicurezza e l’unificazione nazionale. Sono stati programmati piani per l’integrazione degli ex combattenti in un esercito nazionale unificato, e per il disarmo, la smobilitazione e il reinserimento nella vita civile di circa 200.000 altri combattenti, ma a fine anno pochi di questi programmi, che avrebbero dovuto beneficiare di finanziamenti e assistenza tecnica internazionale, erano stati avviati. Solo il capo di Stato maggiore dell’esercito e altri ufficiali di alto rango, e una sola brigata dell’esercito erano stati integrati nel corso dell’anno. A maggio le cariche di governatore provinciale sono state suddivise tra i partiti. A settembre è stato lanciato nel distretto dell’Ituri un programma pilota di disarmo, smobilitazione e reinserimento. Tuttavia, a fine anno soltanto un numero esiguo dei circa 15.000 combattenti del distretto erano stati smobilitati. Si ritiene che i capi dei gruppi armati abbiano sottoposto a intimidazioni i combattenti per impedire loro di partecipare al processo di disarmo, smobilitazione e reinserimento nell’Ituri.
Alcune leggi chiave riguardanti la nuova Costituzione e l’organizzazione delle elezioni nazionali sono state rinviate e a fine anno non erano ancora state approvate dal parlamento. Una legge che definisce la nazionalità congolese è stata promulgata in dicembre.
Si è avuta notizia di tentativi di colpo di Stato a Kinshasa nei mesi di marzo e giugno, sebbene permangano dubbi circa l’attendibilità della notizia. Il primo tentativo è stato attributo a ufficiali mobutisti delle ex Forze armate dello Zaire (Forces armées zairoises – FAZ), che erano fuggiti nel Congo-Brazzaville nel 1997. Il secondo tentativo sarebbe stato opera di un ufficiale della Guardia speciale di sicurezza presidenziale (GSSP).
Il protrarsi della crisi militare e politica, con epicentro nelle strategiche province del Kivu ai confini col Rwanda, ha rischiato di far fallire il processo di transizione. A febbraio, nel Kivu del sud, soldati del Raggruppamento congolese per la democrazia-Goma (Rassemblement congolais pour la démocratie-Goma – RCD-Goma) si sono opposti con la forza all’autorità del comandante regionale nominato dal governo. Lo stallo che ne è risultato è culminato in giugno in uno scontro militare tra le forze filogovernative ribelli dell’RCD-Goma per il controllo di Bukavu, capitale della provincia. I civili sono stati presi di mira da entrambe le fazioni. Violente dimostrazioni in tutta la nazione, dirette soprattutto contro le forze di peacekeeping delle Nazioni Unite e gli avamposti governativi, hanno seguito la presa di Bukavu da parte delle forze ribelli dell’RCD-Goma. Le tensioni etniche fra i vari gruppi presenti nella regione, deliberatamente manipolate da alcuni capi-fazione, hanno subito una rapida escalation. Ad agosto più di 150 rifugiati tutsi, per lo più congolesi, sono stati massacrati a Gatumba, nel Burundi (vedi Burundi). Sempre ad agosto, l’RCD-Goma ha sospeso temporaneamente la propria partecipazione al governo. La maggior parte delle forze ribelli dell’RCD-Goma si sono successivamente riorganizzate nel Kivu settentrionale, dove hanno continuato ad agire in aperta sfida all’autorità centrale. A fine anno la crisi non era ancora stata risolta quando nuovi combattimenti si sono verificati a Kanyabayionga (Kivu settentrionale) fra soldati filo RCD-Goma e l’esercito nazionale.
A ottobre la RDC, il Rwanda e l’Uganda, i principali protagonisti del conflitto nella RDC, hanno firmato un accordo di sicurezza tripartito e hanno istituito una commissione per affrontare i problemi relativi alla sicurezza comune. La sfiducia fra questi Stati è tuttavia rimasta la dinamica regionale prevalente. Il Rwanda ha minacciato tre volte di rinnovare le proprie operazioni militari nella parte orientale della RDC, citando (in giugno) la necessità di proteggere i tutsi congolesi dalla violenza etnica e (in aprile e novembre) la necessità di controbattere la minaccia esercitata verso il Rwanda da forze ribelli rwandesi basate nella RDC orientale. Secondo fonti attendibili, unità dell’esercito rwandese sono entrate nella RDC in ciascuna di queste tre occasioni, sebbene il governo rwandese abbia negato che ciò sia mai avvenuto. Il Rwanda avrebbe inoltre esercitato un certo controllo sulle forze armate dell’RCD-Goma nel Kivu settentrionale e meridionale.
Le forze di peacekeeping delle Nazioni Unite (MONUC) hanno continuato a cercare di contenere la violenza e a proteggere i civili nella parte orientale della RDC. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha autorizzato a ottobre un aumento del dispiegamento da 10.700 a 16.600 unità, ma diverse zone orientali del Paese sono rimaste al di fuori della capacità operativa della MONUC. Un embargo sulla vendita di armi imposto dalle Nazioni Unite nel luglio 2003 e monitorato dalla MONUC è stato di efficacia solo limitata. A luglio il Gruppo di tecnici esperti sulla RDC nominato dalle Nazioni Unite ha riferito che i gruppi armati che operavano nella parte orientale della RDC ricevevano assistenza diretta e indiretta, compresa la fornitura di armi e munizioni in violazione dell’embargo, sia da Paesi confinanti che dall’interno della RDC.
A fine anno, secondo fonti della MONUC, il programma di rimpatrio volontario di combattenti (soprattutto ribelli rwandesi), sotto la supervisione dalla MONUC, aveva rimpatriato circa 11.000 combattenti e i loro familiari verso il Rwanda, il Burundi e l’Uganda. Tuttavia, molte migliaia di ribelli rwandesi e un numero inferiore di burundesi e ugandesi sono rimasti nella RDC orientale, dove hanno continuato a commettere abusi.
Sono state riferite violazioni dei diritti umani in tutto il Paese. La situazione nella parte orientale della RDC ha continuato ad essere particolarmente allarmante, in quanto sia i gruppi armati che le milizie hanno perpetrato gravi violazioni dei diritti umani contro i civili nelle province del Kivu settentrionale, Kivu meridionale, Maniema, Orientale (sopratutto nel distretto di Ituri ), Kasai Orientale e Katanga.
3.6.2.2
Bambini soldato
Decine di migliaia di bambini permangono nei ranghi dei gruppi armati e delle milizie, che continuano a reclutare nuovi bambini soldato. In alcuni casi, ex bambini soldato in corso di riabilitazione da parte di organizzazioni non governative locali nella RDC orientale sono stati reintegrati nei ranghi con la forza. Altri bambini hanno tentato di ritornare volontariamente a far parte di gruppi armati nella prospettiva di ricevere pagamenti da parte del governo della RDC destinati a tutte le forze combattenti e di essere integrati nell’esercito nazionale.
Su una popolazione stimata di 18.154.000 persone, si ritiene siano 750.000 gli uomini e le donne che hanno contratto il virus dell’HIV [Unaids 2006].
3.6.2.3
Violenza sulle donne
Nel corso del conflitto nella RDC, decine di migliaia di donne e ragazze sono state vittime di stupro sistematico da parte delle forze combattenti. Durante tutto l’anno donne e ragazze venivano continuamente aggredite nelle proprie abitazioni, nei campi o durante lo svolgimento delle normali attività quotidiane. Molte hanno subito stupri di gruppo o sono state ridotte in stato di schiavitù sessuale dai combattenti. Sono stati anche segnalati stupri di uomini e ragazzi. Lo stupro veniva spesso preceduto o seguito dal ferimento deliberato, dalla tortura o dall’uccisione della vittima. Alcuni stupri sono stati commessi in pubblico o di fronte a familiari della vittima, bambini compresi. Alcuni membri della MONUC, fra cui personale militare e di polizia, oltre che civili, si sono resi responsabili di stupri o di sfruttamento sessuale di donne e ragazze.
I diritti delle vittime sopravvissute allo stupro venivano ulteriormente violati, aggravando in tal modo la loro sofferenza. Le donne che avevano riportato ferite o contratto malattie a seguito dello stupro, in alcuni casi tali da metterne in pericolo la vita, si sono viste negare l’assistenza medica. Il sistema sanitario della RDC, che in molte zone è completamente devastato, non è stato in grado di offrire neppure le cure più elementari. A causa dei pregiudizi, molte donne sono state abbandonate dai mariti ed escluse dalla loro comunità, finendo col condannarle assieme ai loro figli a condizioni di povertà estrema. A causa della totale inefficienza del sistema giudiziario esse non hanno potuto beneficiare della giustizia né di risarcimenti per i crimini di cui erano state vittime.
3.6.2.4
Tortura e detenzione illegale
Arresti arbitrari e detenzioni illegali hanno continuato a essere frequenti in tutta la RDC. Molte persone hanno trascorso lunghi periodi in detenzione senza accuse né processo. Secondo quanto riferito, diversi hanno subito torture o maltrattamenti. Difensori dei diritti umani e giornalisti impegnati in legittime inchieste e critiche sono anch’essi stati minacciati e detenuti illegalmente.
3.6.2.5
Pena di morte
Fonti riferiscono che sarebbero circa 200 le persone nel braccio della morte. Sono state comminate almeno 27 nuove condanne. Non sono state riferite esecuzioni.
3.6.2.6
Giustizia internazionale e transizionale
Ad ottobre la Corte penale internazionale (ICC) e il governo della RDC hanno firmato un accordo di cooperazione che permette all’ICC di iniziare le indagini sui crimini di guerra e i crimini contro l’umanità commessi nel Paese. Investigatori dell’ICC hanno visitato l’Ituri, dove si sono concentrate le indagini iniziali dell’ICC.
L’impunità per i responsabili di violazioni dei diritti umani, e la mancanza di risarcimento per le vittime, sono rimaste pressoché assolute. L’efficacia del sistema giudiziario congolese continua a essere inficiata dalla mancanza di risorse umane e materiali, di adeguati meccanismi di tutela per le vittime e i testimoni, e dalla devastazione delle infrastrutture. L’unico caso di condanna è stato quello del comandante di un gruppo armato dell’Ituri, Rafiki Saba Aimable, a venti anni di detenzione per tortura da un tribunale di Bunia.
3.6.2.7
Rifugiati e sfollati
A fine anno erano circa 2,3 milioni i civili che vivevano lontano dalle loro case, soprattutto nella parte orientale della RDC. Molti non hanno avuto accesso ad alcun tipo di aiuto umanitario. In alcune zone i gruppi armati hanno impedito l’accesso ai volontari delle organizzazioni di soccorso, hanno attaccato i convogli di aiuti, saccheggiato le derrate alimentari, o sequestrato i veicoli delle agenzie di soccorso.
Le autorità congolesi non hanno adottato misure per assicurare l’incolumità e la dignità delle persone che rientravano nella RDC, rifugiati compresi.
Fra il dicembre 2003 e il mese di aprile, decine di migliaia di congolesi sono stati espulsi con la forza dall’Angola verso la RDC. Molti erano estremamente deboli a causa della disidratazione, della fame e delle lunghe marce affrontate. Gli espulsi hanno riferito di violazioni dei diritti umani verificatesi in entrambi i Paesi, e di essere stati oggetto di detenzioni e maltrattamenti da parte delle forze di sicurezza della RDC. A fine anno si trovavano nella RDC circa 40.000 profughi.
Tra settembre e ottobre rifugiati tutsi congolesi, tra cui donne e bambini, che facevano ritorno dal Burundi nella provincia del Kivu meridionale, sono stati attaccati a colpi di pietra dalla locale popolazione non tutsi.
3.7
ANGOLA
3.7.1
SITUAZIONE ATTUALE
Paese ricchissimo di diamanti e di petrolio al quale la comunità internazionale chiude un occhio sulla questione della povertà. Un Paese potenzialmente benestante, che ha deciso di vendere il suo petrolio alla Cina perché diversamente dalla comunità internazionale questa non ficca il naso sul livello di democrazia e di rispetto di libertà civili e diritti umani. Quaranta anni di guerra civile alle spalle, l'intero territorio minato, la savana disabitata e ripopolata in un modo fallito con le donazioni del Sudafrica, Luanda che da 500.000 cittadini se ne ritrova 5 milioni.
Il cessare del fuoco tra i ribelli dell’Unita e il governo nell’aprile 2002 (dopo l'uccisione del leader dell'Unita, Jonas Savimbi) è rispettato ovunque e nonostante qualche sporadico scontro la guerra si può dire conclusa. Negli anni 2002-2003 in Cabinda si sono intensificati i combattimenti tra i separatisti del Flec e l'esercito governativo (che alla fine nel 2002 ha lanciato una massiccia offensiva in seguito al disimpegno contro l'Unita). Le Forze Armate angolane sono accusate di condurre una sorta di guerra sporca in Cabinda, con sistematiche torture contro i ribelli catturati e i civili sospettati di collaborazionismo. Quella condotta in Cabinda è comunque una guerra a bassa intensità visto che gli scontri sono piuttosto sporadici, anche a causa della scarsa capacità operativa dei ribelli.
I rifugiati hanno continuato a far ritorno dai Paesi vicini. Il funzionamento, tra gli altri, dei servizi sociali, della giustizia nelle zone rurali distrutte dalla guerra sono rimasti inadeguati. Si sono registrate violenze a sfondo politico e repressione di dimostrazioni non violente. Le violazioni dei diritti umani da parte dei soldati e della polizia nella regione di Cabinda e nelle zone di estrazione dei diamanti sono continuate. Sono stati inoltre segnalati molti casi di violazioni dei diritti umani compiute dalla polizia in altre parti del Paese. Almeno 500 famiglie sono state sfrattate con la forza dalle proprie abitazioni.
3.7.1.1
Contesto
Il governo di unità nazionale, tra cui rappresentanti dell’ex opposizione armata Unione nazionale per l’indipendenza totale dell’Angola (União nacional para a independência total de Angola – UNITA), ha progredito nei suoi sforzi per ridurre l’inflazione e si è proposto di combattere la povertà. Più di un milione di persone hanno continuato a dipendere dagli aiuti umanitari per gli approvvigionamenti alimentari.
Il governo, in cooperazione con le Nazioni Unite, ha cominciato a gennaio a sviluppare un piano nazionale d’azione per i diritti umani, il cui il lavoro era ancora in corso alla fine dell’anno. A Luanda è rifiorita una stampa indipendente, ma l’accesso all’informazione fuori della capitale è avvenuto principalmente attraverso la radio controllata dallo Stato. La Rappresentante speciale delle Nazioni Unite sui difensori dei diritti umani, Hina Dilani, ha visitato l’Angola ad agosto. La Rappresentante ha riconosciuto un accresciuto rispetto per i diritti umani, ma ha esortato il governo a ricostruire il sistema giudiziario e ad essere più aperto verso la società civile.
3.7.1.2
Rientro dei rifugiati
Il 25% della popolazione, in grande maggioranza donne e bambini, è rimasto sfollato a causa del conflitto; il sistema dei servizi pubblici è ridotto in uno stato di grave decadimento; il massiccio esodo verso i centri urbani, conseguenza dello sfollamento delle popolazioni, ha contribuito a sottoporre i servizi sociali di base a una pressione insostenibile, limitandone fortemente le possibilità di accesso, a scapito, in primo luogo, delle fasce più povere e vulnerabili della popolazione. Su oltre 13 milioni di abitanti, il 60% risulta oggi concentrato nelle aree urbane, con le popolazioni sfollate spesso ammassate in baraccopoli fatiscenti, che crescono in modo incontrollato alle periferie dei grandi centri urbani; la situazione è addirittura peggiore nelle zone rurali, dove i servizi di base sono stati distrutti durante la guerra e risultano oggi virtualmente inesistenti; le vie di comunicazione sono in pessimo stato, a partire dai ponti crollati sino ai tanti territori densamente minati (terzo paese per presenza di mine antiuomo); oltre 3 milioni gli sfollati che stanno facendo progressivamente ritorno alle rispettive comunità di origine; l'Angola figura ancora agli ultimi posti della graduatoria ONU sullo sviluppo umano.
Più di 90.000 rifugiati sono stati rimpatriati o sono tornati spontaneamente dai Paesi vicini. Strutture di governo deboli nelle zone di ricezione, mancanza di scuole e cliniche e insufficienti fondi per approvvigionamenti alimentari, sementi e attrezzi, hanno reso difficile il reinsediamento. L’inadeguatezza del sistema per il rilascio di documenti di identità ha lasciato molti dei reinsediati senza accesso ai servizi sociali ed esposti a estorsioni e maltrattamenti da parte di poliziotti e soldati preposti ai controlli sull’identità.
3.7.1.3
Violenza politica
L’UNITA ha lamentato il fatto che membri del Movimento popolare per la liberazione dell’Angola (Movimento popular de libertação de Angola – MPLA), al governo, avevano attaccato i propri appartenenti e uffici in diverse zone.
A luglio, dopo che l’UNITA aveva cercato di stabilire sedi di partito a Cazombo, nella provincia di Moxico, una folla in tumulto ha bruciato o saccheggiato un’ottantina di case appartenenti a sostenitori dell’UNITA e ad altri che non parlavano la lingua locale. La folla, secondo quanto riferito, incoraggiata dalle autorità municipali, avrebbe anche ferito una decina di persone. Sarebbero stati schierati poliziotti non armati, ma questi non hanno poi fatto nulla per fermare la violenza.
3.7.1.4
Cabinda
La regione della Cabinda è ricca di petrolio (la quasi totalità dei giacimenti angolani è in Cabinda) e diamanti. Il governo ha dichiarato la fine dei combattimenti in questo posto, un’enclave dell’Angola situata tra la Repubblica Democratica del Congo (RDC) e la Repubblica del Congo. Tuttavia, circa 30.000 soldati governativi avrebbero mantenuto una presenza repressiva, detenendo e assalendo persone sospettate di sostenere il Fronte per la liberazione dell’enclave di Cabinda (Frente de libertação do enclave de Cabinda – FLEC), saccheggiando beni e raccolti e costringendo gli abitanti a fuggire in altre zone.
Operatori dei diritti umani hanno riferito che i soldati di stanza a Nkuto, nella municipalità di Buco-Zau, detenevano persone sospettate di sostenere il FLEC. Più di 60 donne sarebbero state detenute brevemente a gennaio e accusate di fornire approvvigionamenti alimentari al FLEC. Alcune sono state picchiate. Mateus Bulo, di 66 anni, e sua figlia erano nel gruppo di persone arrestate a maggio. Mateus Bulo è stato oggetto di una finta esecuzione, per poi essere picchiato assieme alla figlia con dei bastoni. Entrambi sono stati infine lasciati tornare ai loro campi.
Membri di un’organizzazione della società civile Mpalabanda hanno presentato una petizione per la pace, con migliaia di firme, alle autorità della città di Cabinda a luglio. Ad agosto le due fazioni armate del FLEC, il FLEC Rinnovato (FLEC Renovada) e FLEC-Esercito di Cabinda (FLEC-Forças armadas de Cabinda – FLEC-FAC), hanno annunciato che si erano unite sotto il nome di FLEC ed erano pronte per i colloqui di pace con il governo.
3.7.1.5
Polizia
Sforzi per migliorare i rapporti tra polizia e comunità e programmi di addestramento erano parte del Piano di modernizzazione e sviluppo 2003/2007. Tuttavia, sono state segnalate frequenti violazioni dei diritti umani perpetrate da poliziotti. Ufficiali d’alto rango hanno ammesso che erano avvenuti eccessi, ma in molti dei casi in questione non sarebbe stata intrapresa alcuna azione disciplinare o penale.
Tre uomini, Manuel do Rosario, Laurindo de Oliveira e Antonio Francisco, sarebbero “scomparsi” ad aprile dopo che erano stati arrestati a Luanda, colti in possesso di un’auto rubata. I familiari, alla ricerca dei loro congiunti, hanno visto l’auto in questione parcheggiata alla stazione di polizia. A maggio i corpi dei tre uomini sono stati rinvenuti in un cimitero non ufficiale nel sobborgo di Cazenga. La polizia ha esumato i corpi e ha avviato un’inchiesta, ma a fine anno nessun risultato era stato ancora reso noto.
Stando alle fonti, la polizia è ricorsa a un uso eccessivo della forza per controllare dimostrazioni sia violente che pacifiche.
A febbraio, una violenta protesta riguardante la fornitura di elettricità a Cafunfo, una città vicina alle miniere di diamanti nel nord dell’Angola, secondo fonti ufficiali avrebbe causato almeno 3 morti. Fonti non ufficiali hanno invece riferito che la polizia aveva sparato indiscriminatamente, uccidendo più di 10 persone, compresi due adolescenti e il dodicenne David Alexandre Carlos, e ferendone circa altre 20. Diciassette manifestanti sarebbero stati poi tratti in arresto e accusati di disobbedienza alle autorità, un reato punibile fino a 7 mesi di carcere. Le richieste di cauzione non sono state garantite. Il processo è iniziato a luglio, ma è stato sospeso e a fine anno non si era ancora concluso. Uno degli imputati, un quindicenne, è stato detenuto assieme ad adulti per diversi mesi, prima che gli venisse data una sistemazione separata. Non sarebbe stata avviata alcuna inchiesta sulle denunce secondo cui la polizia sarebbe ricorsa a un uso eccessivo della forza.
Le autorità di polizia hanno espresso preoccupazione per la mancanza di rispetto dei diritti umani, in particolare dopo che cinque persone erano morte soffocate in una sovraffollata cella della polizia nella municipalità di Capendo-Camulemba nel nord dell’Angola, a dicembre. La polizia ha ucciso a colpi d’arma da fuoco due persone di una folla di manifestanti che si erano radunati fuori dalla stazione di polizia. Sul caso la polizia ha aperto un’inchiesta.
Ad ottobre, la polizia paramilitare ha disperso una dimostrazione pacifica contro la corruzione, organizzata dal Partito per il sostegno democratico e il progresso dell’Angola (Partido do apoio democrático e progresso de Angola – PADEPA), che chiedeva la pubblicazione dei rendiconti sul petrolio. A novembre la polizia ha disperso un altro raduno pacifico e ha arrestato per un breve periodo decine di dimostranti. Sette sono stati portati in celle della polizia e hanno denunciato di essere stati picchiati per essersi rifiutati di firmare delle confessioni. Sono stati accusati di resistenza alle autorità, processati e assolti.
Secondo quanto riferito, centinaia di persone sono state maltrattate dalla polizia paramilitare e dai soldati tra il dicembre 2003 e il mese di gennaio, durante la prima fase di un’operazione per espellere gli stranieri che erano entrati nei campi di diamanti dell’Angola dopo la fine della guerra. Le vittime hanno riferito di essere state tenute in dure condizioni fino a 3 mesi. Molti hanno denunciato di essere stati picchiati, umiliati e di aver subito perquisizioni corporali nelle parti intime e di essere stati derubati. Alcune donne sarebbero state stuprate. A febbraio il ministro dell’Interno ha ammesso che vi erano stati degli abusi. La polizia ha dichiarato che alla data di settembre erano stati espulsi più di 300.000 stranieri.
La polizia ha dichiarato che l’Organizzazione di difesa civile (Organização da defesa civil – ODC), istituita durante la guerra, era stata abolita. Tuttavia, rapporti dettagliati hanno indicato come cellule dell’ODC fossero ancora operative, a volte affiancate dalla polizia e che gli abusi fossero da attribuirsi a membri del personale.
3.7.1.6
Disponibilità di armi
Il tasso di criminalità è rimasto alto, alimentato dalla diffusa disoccupazione e dalla disponibilità di armi. Circa un milione di persone sono in possesso di armi illegali. A luglio è stata istituita una commissione nazionale per evitare il traffico di armi leggere e di piccolo calibro. Le organizzazioni non governative (ONG) e le chiese hanno incoraggiato la gente a consegnare le armi e la polizia e l’esercito ne hanno sequestrate migliaia.
3.7.1.7
Diritti economici, sociali e culturali
I piani del governo provinciale di Luanda di chiudere i mercati abusivi e clandestini vicini al centro della città e di sostituirli con altri, soprattutto nei sobborghi di periferia, ha messo a repentaglio la sussistenza di molte persone. I commercianti hanno protestato dopo che il mercato di Estalagem era stato chiuso a marzo, a quanto pare senza preavviso e prima che venisse predisposto uno spazio alternativo. Alcuni dimostranti hanno usato violenza e la polizia ha reagito con modalità che avrebbero implicato un uso eccessivo della forza, uccidendo tre persone.
L’Assemblea Nazionale ha approvato leggi sullo sviluppo urbano e territoriale rispettivamente a marzo e ad agosto. Le ONG avevano presentato raccomandazioni dettagliate durante la stesura della bozza e avevano espresso preoccupazioni riguardo al fatto che le nuove leggi non sarebbero state in grado di fornire un’adeguata garanzia di occupazione per i gruppi svantaggiati, che vivono in insediamenti urbani abusivi e in zone comunali tradizionali.
Almeno 500 famiglie residenti a Luanda, in zone destinate allo sviluppo, sono state sfrattate senza un adeguato preavviso o risarcimento. Centinaia di altre sono state minacciate di sfratto. Molte sono stati rialloggiate in zone remote prive di comodità, scuole o cliniche. Alcune famiglie hanno dovuto condividere le case e alcune hanno perso i loro orti. Le ultime di circa 4.000 famiglie alloggiate in tende dal loro sfratto da Boavista nel 2001, sono state fatte spostare in nuove case a Viana.
A settembre, più di 1.100 persone sono state sfrattate da 340 case a Cambamba e Banga Ué, a Luanda Sud, senza preavviso. Una ditta di costruzioni civili e una squadra militare di costruzione hanno demolito le case, sotto la scorta di 50 poliziotti armati pesantemente. La maggior parte degli sfrattati sono rimasti nella zona senza riparo.
Sempre a settembre, la mancanza di terra e la siccità nel sud-est dell’Angola hanno portato a un conflitto tra due gruppi di allevatori nomadi, conflitto in cui avrebbero perso la vita quattro persone. La chiusura di vasti appezzamenti di terra per le coltivazioni commerciali aveva fatto accrescere la tensione riguardo alla terra restante e alle risorse idriche.
3.7.1.8
Donne e bambini
Il rapporto del governo sui diritti delle donne, presentato a giugno al Comitato delle Nazioni Unite sull’eliminazione della discriminazione contro le donne, ha riconosciuto che la protezione legale per le vittime della violenza domestica era stata inadeguata e che la polizia si era dimostrata insensibile al problema.
La condizione dell'infanzia è uno dei fattori più preoccupanti dell'attuale stato di salute dell'Angola: su una popolazione di 13.184.000 abitanti, oltre 7 milioni hanno meno di 18 anni, 2.609.000 meno di 5 anni. L"Angola è il terzo paese al mondo per mortalità infantile, con 260 bambini che, ogni 1.000 nati vivi, non raggiungono il quinto anno di vita; sotto l'anno di età siamo su una statistica di 154 bambini morti ogni 1.000 nati vivi. 1.800 donne, ogni 100.000 parti, muoiano per complicazioni legate alla gravidanza o al parto stesso. La malaria è responsabile del 76% della mortalità infantile, mentre la seconda minaccia è l'AIDS. Altro grave problema legato all'infanzia tocca il settore dell'istruzione, con oltre un milione di bambini che non frequentano la scuola. Tanti tra i più piccoli infine sono orfani o hanno subito la separazione forzata dalla guerra dai propri genitori. La speranza di vita media è di appena 40 anni, il reddito annuo pro capite di soli 660 dollari
A settembre 2005 il Comitato delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia ha esaminato il rapporto iniziale dell’Angola sui diritti dei minorenni. Il Comitato ha apprezzato i progressi ottenuti in alcune aree, ma ha auspicato, tra le altre cose, una maggiore protezione legale dei minorenni e l’istituzione di un organismo nazionale sui diritti umani indipendente.
Il Sahara Occidentale, ex Sahara spagnolo, è il territorio situato nel Nord Ovest del continente africano, con una superficie di 266.000 kmq, confina a Nord con il Marocco, a Nord Est con l'Algeria, a Sud e Sud Est con la Mauritania e a Ovest con l'Oceano Atlantico, anche se risulta difficoltoso stabilire esattamente l'estensione del Sahara Occidentale a causa dell'imprecisione della sue frontiere. Lo stesso Governo spagnolo non conosceva con esattezza il suo territorio coloniale, e la prova è data dalle discrepanze dei dati forniti da alcuni dei suoi organi ufficiali: il Ministero di Informazione e Turismo stimava che la superficie fosse di 278.000 kmq.; per il Ministero di Affari Esteri per di 280.000 kmq… Certamente la differenza non è molta, ma questa imprecisione generale caratterizzerà sempre le conoscenze che abbiamo del Sahara Occidentale e del suo popolo. Per molto tempo le popolazioni nomadi nel territorio ignorarono questi confini artificiali ma, a partire dagli inizi di questo secolo, sono diventati oggetto di un'attenta sorveglianza da parte della polizia coloniale. Le frontiere divennero allora ben reali per quelle popolazioni ma ancora oggi, sono oggetto di contenzioso, per le particolare vicende legate alla decolonizzazione della regione. La popolazione appartiene al complesso delle tribù Saharawi. Organizzate da secoli in modo autonomo, con forme proprie di lingua, cultura e organizzazione sociale, nomadi fino a tempi recenti. Prima dell'arrivo degli spagnoli le tribù erano numerose, 40 secondo la tradizione riunite in una confederazione.
Il Sahara Occidentale ha una storia lunga e difficile, ma senza di essa non si riuscirebbe a capire perché oggi esso è l’ultimo paese africano ad non aver ancora ottenuto l’indipendenza formale e sostanziale, una questione che tutt’oggi blocca il processo di integrazione dell’area maghrebina. Il Sahara Occidentale è il cuore delle comunicazione tra Marocco, Algeria e Mauritania, e, quindi, la stabilità e la convivenza pacifica tra i popoli di questa zona è una priorità assoluta sia nei rapporti interni all’Africa settentrionale, che nell’instaurazione dei rapporti euromediterranei. Il Sahara Occidentale è vittima di gravissime violazioni dei diritti umani , al tal punto da essere oggetto di continui pareri e risoluzioni dell’ONU da determinare la mediandone dell’OUA, ecc. La storia del Sahara Occidentale è davvero particolare e si considerasse vera l’affermazione di Rajab Ali, cioè, che “L’ ex Sahara Spagnolo è la regione più triste, la più desolata, la meno abitata e la più arida di queste terre sahariane” non ci riusciremmo mai a spiegare perché dal 1884 ad oggi la questione del Sahara Occidentale non è ancora risolta, perché essa ha coinvolto l’interesse di paesi occidentali, quali Spagna, Francia e indirettamente Stati Uniti e paesi africani quali Algeria, Marocco, Mauritania, Libia, Tunisia. Il motivo è chiaro il Sahara Occidentale è un importante nodo strategico nel mediterraneo ed è anche, a differenza di quello che può sembrare, una terra ricca di risorse.
Cosa è successo nel Sahara Occidentale, chi è il popolo saharawi? Abitato dai berberi divisi in due gruppi rivali, i Sanhaja e i Veneti, fu invaso dagli arabi per tutto il periodo che va dal VII al XII secolo, tale evento determinò l’adozione della lingua araba. All’inizio del XII secolo la popolazione saharawi subì l’invasione marocchina, ma l’evento che ha segnato la vita dei saharawi è la colonizzazione spagnola iniziata nel 1884-1885, anno della conferenza di Berlino in cui gli stati europei si spartirono a tavolino il continente africano, disegnando pertanto lo stato con i confini più artificiali del continente africano, il Sahara Spagnolo. La presenza spagnola, durata meno di un secolo, ha avuto un’importante influenza sia nella costituzione del popolo saharawi sia nella definizione delle frontiere del Sahara Occidentale. Esse vennero confermate e definite a Parigi nel 1900 e nel 1904 e poi a Madrid nel 1912 . Pertanto, la parte nord fino al parallelo 27°40’ andava sotto il protettorato marocchino, mentre l’altra parte più a sud, che comprendeva la Suguia el Hamra e il Rio de Oro, formava il Sahara Spagnolo ed aveva lo statuto di colonia della Spagna . Fu solo verso la fine degli anni cinquanta, quando furono scoperti i giacimenti di fosfato nella città di Bu Craa, che la Spagna si interessa al Sahara Occidentale insieme all’Algeria, alla Mauritania e agli Stati Uniti e soprattutto al Marocco, il quale una volta raggiunta l’indipendenza nel 1956, punta alla realizzazione del progetto espansionistico definito del “Grande Marocco”, nel quale rientrano il Sahara Occidentale, le Canarie e anche porzioni di stati già indipendenti come il Mali, l’Algeria, il Senegal e la Mauritania: A differenza delle altre, le rivendicazioni sul Sahara Occidentale si protrarranno fino ai giorni nostri, nonostante la spagnolizzazione del Sahara Occidentale continuasse in modo sempre più costante. Fondamentale in questo periodo è la prima risoluzione a favore dell’indipendenza del popolo saharawi, emanata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1963, sulla scia della risoluzione 1514 del 1960, che chiedeva alla Spagna di liberare il Sahara Occidentale per lasciare che il popolo saharawi potesse decidere liberamente del proprio destino attraverso lo strumento del referendum. Nel frattempo, infatti, la popolazione saharawi si era organizzata. Il primo nucleo indipendentista è quello di Ma’ el Ainin e dei suoi figli che, contrari al colonialismo europeo, decisero di stabilire nel lontano 1885 un polo di potere nazionalista nella città di Smara. In seguito nasce nel 1968 intorno a Mohammed Sidi Ibrahim Basiri, un giovane giornalista saharawi, un Movimento di Liberazione del Sahara (MLS), che però a causa della morte del suo stesso capo durante una repressione spagnola, si scioglie nel 1970. Un altro gruppo si forma in Marocco tra studenti saharawi, dove agli inizi degli anni settanta, si forma un nucleo intorno a El Ouali Mustafa Sayyed, che insieme a Mohammed Ould Ziou matura la decisione di fondare un movimento armato di liberazione del Sahara Occidentale. Ed è così che il 10 maggio del 1973 si costituisce il Fronte Polisario (Fonte Popolare di Liberazione del Saggia el Hamra e Rio de Oro) che lotterà contro il colonialismo e che dal 1974 si prefiggerà come obiettivo principale l’indipendenza dalla colonizzazione spagnola. Nel frattempo la visione del Grande Marocco si era di gran lunga ridimensionata, anche se con scontri violenti. A differenza di tutte le rivendicazioni marocchine, quella sul Sahara Occidentale non verrà mai abbandonata ed, in particolare in concomitanza con un periodo di crisi interna, re Hassan decide, anche per restaurare il prestigio del suo Regno, di invadere il Sahara Occidentale, operazione considerata non di conquista di un territorio (operazione prettamente coloniale contro cui il Marocco aveva lottato) ma di recupero di un territorio, naturale prolungamento geografico, culturale, politico, storico del Regno del Marocco. Ovviamente ciò scatenò le reazioni dei paesi limitrofi. L’Algeria considera quest’espansione marocchina un attentato alla sua sicurezza, e a differenza della Mauritania, non rivendica il territorio del Sahara Occidentale, ma sostiene da allora il principio all’autodeterminazione del popolo saharawi. Ma l’evento chiave che determinerà un cambiamento nel Sahara Occidentale e nella vita dei saharawi, sarà l’accordo di Madrid del 14 novembre del 1975, che sancirà: il disimpegno della Spagna, la spartizione del Sahara Occidentale, (la parte meridionale andava al Marocco e la parte settentrionale alla Mauritania), l’inizio dell’esodo del popolo saharawi, con la reazione immediata del Fonte Polisario. Esso di fronte la notizia di spartizione del Sahara Occidentale, il 28 febbraio1976 proclama, infatti, insieme al Consiglio nazionale sahariano la nascita della RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica).
Il popolo saharawi per sfuggire al genocidio, da allora, si rifugerà nel deserto algerino in prossimità di Tindouf, dove ancora oggi vive buona parte del popolo saharawi. L’occupazione marocchina verrà camuffata dalla “marcia verde”, che vedrà il trasferimento di un ampia fetta della popolazione marocchina. Questo momento rappresenterà secondo Barbier Maurice “una frattura brutale e profonda” nella storia del popolo saharawi. Da questo momento in poi, infatti, non solo le condizioni umane di vita saranno a dir poco, ma il lavoro, l’opera di diffusione, di radicamento del senso di appartenenza culturale, di comunanza socio-politica che si costruisce naturalmente all’interno di una nazione con una base territoriale compatta, diventerà difficile, spezzettata, faticosa, e spingerà la comunità saharawi a cominciare a sognare, ad immaginare di essere una nazione compatta, nell’attesa di potersi costituire su un unico territorio come tale. Ma spesso la forza dell’immaginazione, come ci insegna Anderson, può essere fondamentale nel processo di costruzione di identità. Ora, infatti, il popolo saharawi si trovava diviso in tre: una parte viveva nel territorio occupato dai marocchini (ad ovest del muro), una parte nel territorio liberato dal Fronte Polisario (ad est del muro) l’altra in esilio, soprattutto nei campi profughi algerini. La RASD fu immediatamente riconosciuta da una serie di paesi, ad oggi 74, tra i quali l’Algeria, il cui supporto sarà fondamentale non solo dal punto di vista logistico, vista la presenza di saharawi a Tindouf, ma anche dal punto di vista militare. Nel frattempo la Mauritania, a causa dell’onere economico dell’occupazione, della costante guerriglia portata avanti dal Fronte Polisario, dell’assenza di una reale contropartita e di fronte, anche, ad un colpo di stato che depone il presidente Ould Daddach, all’assunzione del potere da parte del colonnello Mustafa Ould Mohammed Salek, procedeva il 25 agosto del 1979 ad un accordo di pace con il Fonte Polisario firmato ad Algeri, in base al quale la Mauritania si ritirava dalle zone occupate. E’ di fronte a questa scelta che il Marocco decideva di estendere ancor di più il controllo sul Sahara Occidentale, attraverso “la strategia dei muri”, lunghi 2500 km che racchiudono 200.000 kmq di territorio.
Ad accelerare il processo di riconoscimento internazionale della RASD e dell’autodeterminazione del popolo saharawi sarà l’OUA, che nel 1979, attraverso l’istituzione del “comitato dei sette” o dei saggi, decide di elaborare un piano di pace che sancisce il diritto all’indipendenza e all’autodeterminazione del popolo saharawi ed impernia la sua decisione sull’istituzione di un referendum, garantito da una forza di pace dell’ONU, che recepisce questo input considerando il Fronte Polisario “ il rappresentante del popolo saharawi” . E’ poi nel febbraio del 1982 che la RASD è ammessa come 51° membro dell’OUA, nonostante il boicottaggio della decisone da parte del Marocco e di altre diciotto delegazioni. Ma l’OUA seguì il suo principio chiave, cioè quello dell’intangibilità delle frontiere coloniali, frontiere che il Marocco aveva violato, ciò provocherà l’uscita del Marocco dall’OUA. Sarà la comunità internazionale che tra il 1990 e il 1991, ribadendo il principio di autodeterminazione del popolo saharawi in diverse sedi porterà all’approvazione, nel 18 maggio del 1991 con una risoluzione 690/91 del Consiglio di Sicurezza, del primo piano di pace che oltre ad una serie di clausole prevedrà la formazione della MINURSO (Missione Internazionale delle Nazione Unite per il Referendum nel Sahara Occidentale). L’attuazione del referendum era prevista per il 26 gennaio del 1992 e la missione aveva il compito di garantire il cessate il fuoco e, tra le varie clausole, la determinazione del corpo elettorale saharawi. Sarà questa un’opera difficilissima a causa dell’ostruzionismo del Marocco, per la difficoltà di identificazione delle persone che alla fine del periodo coloniale vivevano nel Sahara Spagnolo, anche a causa della seconda marcia verde organizzata dal Marocco, alla quale prendevano parte tra 150.000 e 200.000 coloni marocchini portando a 1 a 7 il rapporto marocchini/saharawi. Quello che è avvenuto è stata una sottovalutazione del problema, si pensava di identificare il corpo elettorale in 20 settimane e ma ancora nel 1996 non solo non si è ancora riusciti ad identificare i saharawi, ma nel 1996 si ha il blocco completo del piano di pace. Di fronte a questa situazione di stallo il Segretario Generale Kofi Annan, nomina un inviato personale per il Sahara Occidentale, James Baker, ex Segretario di Stato americano, che nel 1997 porta avanti le negoziazioni tra Marocco e Polisario, processo che sfocerà nell’Accordo di Huston, accordo che sposterà la data del referendum al 7 dicembre 1998.
Il problema dell’identificazione è difficile da risolvere, esistono, infatti, tribù contestate che corrispondono a circa 65.000 persone, che non sono saharawi, ma il Marocco vuole che vengano inserite nelle liste perché stanziatisi sul territorio del Sahara Occidentale successivamente all’epoca coloniale. Nel gennaio del 2000 i votanti individuati erano 85.000, ma il Marocco ha presentato 150.000 ricorsi rendendo così di nuovo impossibile il referendum. Il problema è che oggi il Marocco non è più intenzionato a concedere l’indipendenza e ha proposto la cosiddetta "terza via”, cioè fare del Sahara Occidentale una regione autonoma all’interno del Marocco. Ciò viene istituzionalizzato attraverso il Piano Baker I del 2001, nel quale si propone alle parti l’accettazione di un Sahara Occidentale autonomo all’interno del territorio marocchino. Tale decisone oltre ad essere rifiutata dal Fronte Polisario, determina anche una risoluzione S/RES/1359/2001 del Consiglio di Sicurezza, nel quale le Nazioni Unite, per il rispetto della norma di autodeterminazione dei popoli, sostanzialmente rigettano “la terza via”.
Baker ripresenta un nuovo piano, il piano Baker II, accettando almeno in parte le critiche del Polisario e dell’Algeria, garantendo ai Saharawi un’effettiva autonomia nel Sahara Occidentale nei cinque anni precedenti il referendum, con maggiori/migliori garanzie internazionali contro le interferenze del Marocco. Solo i Saharawi voterebbero per l’autorità ad interim (per 5 anni), anche se poi tutti i residenti voterebbero nel referendum finale. Il Piano viene rifiutato dal Marocco e accettato dal Polisario Pertanto il mandato della MINURSO è stato prolungato fino a gennaio 2003. Il 23 Aprile 2004 il segretario generale dell'ONU, Kofi Annan, chiede al Consiglio di Sicurezza di prorogare il mandato della missione nel Sahara Occidentale (MINURSO) di dieci mesi per cercare di realizzare un accordo con le parti che rallenta seriamente il processo. Il prolungamento del mandato della MINURSO, è stato accettato fino al 28 di febbraio del 2005, ed è molto più lunga di quelle adottate nell'ultimo anno dal Consiglio di Sicurezza, normalmente di due o tre mesi .
Il problema è capire perché dopo 25 anni di lotte il Sahara Occidentale non sia ancora indipendente. Una prima risposta va ricercata nelle risorse. Infatti, stante l’analisi di Alberto Castagnola, il Sahara occidentale sarebbe una delle coste più pescose dell’atlantico, sarebbe il quarto paese più ricco di fosfati al mondo, fosfati che in passato venivano trasportarti su un nastro mobile in territorio marocchino (il quale era allora detentore dei 2/3 di produzione mondiale di fosfati), sarebbe una meta ottimale per il turismo per la presenza di più di 100 km di coste, per le risorse artistiche, al tal punto da far concorrenza alle isole Canarie. Le ricerche continue della Spagna avevano, inoltre, portato alla scoperta di idrocarburi, minerali tra i quali l’uranio. E’inoltre accertata la presenza del ferro e del petrolio, d’oro, urano e cobalto. E’ anche accertata una vasta falda acquifera sotterranea. Insomma il Sahara Occidentale non solo non è una terra povera e desolata e senza speranze, ma potrebbe addirittura essere un importante nodo geostrategico all’interno dell’area maghrebina, tendenzialmente scarsa di alcune risorse come l’acqua.
Il problema del popolo saharawi non è solo quello di affermare la propria esistenza, ma anche quello di non essere cancellato, non solo dagli atlanti, come si è detto all’inizio, ma anche fisicamente. Purtroppo una delle più grandi violazioni che avvengono nel Sahara Occidentale è, infatti, la scomparsa, il rapimento di saharawi in generale, tristemente famosi sono, infatti, i desaparecidos. Oggi si contano ancora 800 civili saharawi scomparsi. Di fronte alla ricerca dei desaparecidos, Amnesty International è stata espulsa dal Marocco e la Croce Rossa Civile non ha accesso alle carceri. Le testimonianze delle torture, delle umiliazioni nelle carceri segrete in Marocco sono tante e documentate. La violazione dei diritti umani non avviene solo per i desaparecidos, ma anche per coloro che vivono all’interno dei muri (berm o rabotu) dai quali non solo non possono uscire ma, ai quali, non possono neanche avvicinarsi, a causa della trincea che li circonda e a causa delle mine antiuomo, anticarro posizionate nei dintorni. Le fortificazioni sono dotate, inoltre, di radar e di postazioni militari ogni 4 km lungo il muro. A ciò si aggiunge anche la vita difficile nei campi, dovuta alla salinità, alla durezza del suolo, alla sedentarizzazione forzata, che rappresenta un’esperienza di uno “Stato in esilio”, organizzato in quattro tendopoli che riprendono i nomi delle città saharawi prima dell’invasione marocchina, una marocchinizzazione del Sahara non solo a livello militare ma anche e soprattutto a livello politico attuando oltre ad investimenti in alloggi, strade, edifici, un regime di repressione sulla popolazione civile. Le wilaya sono El Ayoun (che comprende le daira di Hagunia, Tcera, Amgala, Dora, Guelfa e Bou Craa), Ausseer (con Bir Genduz, Zug, Myek, Tichla, Aguenit e La Guera), Smara (con Mahbes, Farsia, Tifariti, Bir Lehlu, Gderia, Hausa) e Dakhla (con Argub, Bir Enzaran, Ain Beda, Glabat al Fula, Oumdreiga, Boujdour e Zarefia). Ogni comune, diviso in quattro quartieri, conta circa ottomila abitanti in gran parte donne, anziani e bambini. Oggi i saharawi lottano nel tentativo di ricostruire altrove uno Stato sahariano in nome di un popolo.
Sahara Occidentale: relazioni e interessi dei paesi esteri
L'inizio del conflitto nel Sahara Occidentale nel 1975 avvenne in un periodo in cui la Guerra Fredda si combatteva ancora a pieno, su tutti i fronti e i conflitti internazionali erano giudicati e trattati non in concordanza con il diritto internazionale, ma in funzione degli interessi delle due superpotenze (USA, URSS) e dei loro alleati.
Gli Stati Uniti e la Francia furono entrambi gli artefici principali dell'accordo tripartito del 14 novembre 1975 fra Spagna, Marocco e Mauritania. Valery Giscard d'Estaing, il Presidente francese, e Kissinger, Segretario degli Affari Esteri americano, con il re del Marocco Hassan II, riuscirono a convincere Arias Navarro, Primo Ministro spagnolo, ad abbandonare l'idea avanzata dalla Spagna nel 1974, di organizzare un referendum per l'autodeterminazione del popolo Sahrawi, e a dividere invece il territorio fra Marocco e Mauritania. In questo modo la Spagna avrebbe continuato a godere degli interessi economici nel Sahara (un terzo dei suoi giacimenti di fosfato ed accordi privilegiati per la pesca).
Gli americani, in quel momento, temevano uno Stato indipendente nel Sahara Occidentale, perché avrebbe potuto costituire una minaccia per la NATO offrendo basi militari allo schieramento socialista; e inoltre volevano allargare, attraverso le loro relazioni con il Marocco, il controllo sul mercato internazionale del fosfato di cui il territorio è molto ricco.
Per quanto riguarda invece la Francia, interessi particolari la spingevano a partecipare accanto agli USA alla ricostruzione dell'assetto dell'Africa nord - occidentale, dopo la decisione della Spagna di abbandonare il Sahara: la Francia voleva coinvolgere la Mauritania nella questione del Sahara per assicurare il riconoscimento dell'indipendenza di questo paese da parte del re del Marocco, Hassan II, (che tempo prima l'aveva rivendicato), e proprio l'accordo del 14 novembre 1975 rappresentò l'occasione per il manifestarsi di questo riconoscimento dato che il Marocco in quel momento trattò la Mauritania come pari.
La Francia temeva sempre l'ambizione del re del Marocco nei confronti della Mauritania, che costituiva (e costituisce ancora) una riserva importante di ferro necessario all'industria francese. È noto che dopo tre anni la guerra aveva messo questo paese in ginocchio, costringendolo a rivolgersi ai suoi alleati chiedendo loro protezione; così la Francia mandò i suoi aerei sofisticati di allora (Jaguar), stanziati in Senegal, per combattere le Unità militari del Polisario (Tmemichat, dicembre 1977), mentre il Marocco mandò nel 1977-78, circa 8000 soldati per proteggere le città del Nord della Mauritania, contro gli attacchi del Polisario, soldati che sono stati ritirati su richiesta della Mauritania nel Marzo 1979.
La presenza delle truppe marocchine sul territorio mauritano era preoccupante per la Francia, perché temeva che diventasse un ombrello per qualsiasi tentativo da parte del Marocco di rovesciare il regime della Mauritania, appena installato dopo un colpo di Stato (il 10 luglio 1978), e che il Marocco potesse sostituirlo con un governo fantoccio. Uno scenario che, se si fosse realizzato, avrebbe portato alla fusione della Mauritania con il Regno del Marocco, progetto ispirato dalle idee d'Alal Alfasi. Per la Francia avrebbe significato la messa in pericolo dei suoi interessi in Mauritania e anche nei paesi vicini: entrambi, infatti, il Marocco e la Mauritania, erano stati domini francesi, ma la Francia avrebbe preferito comunque continuare a gestire il suo rapporto con questi paesi in modo separato, e non sarebbe stata tanto meno disposta a vedere un Marocco esteso dal mare Mediterraneo fino al confine del Senegal ,soprattutto dopo che i vari tentativi, negli anni '70, di colpo di Stato da parte dell'esercito marocchino contro il re, Hassan II, avevano dimostrato che il regime del Marocco avrebbe potuto essere rovesciato da un momento all'altro. Quindi davanti all'incertezza del futuro politico di questo paese, una Mauritania indipendente rappresentava l'ideale per gli interessi della Francia; e dato che la Mauritania non poteva continuare la guerra, la soluzione adeguata alle esigenze francesi comprendeva la fuoriuscita della Mauritania dal conflitto, e il ritiro delle truppe marocchine. Così andarono le cose, la Francia evitò i rischi temuti, e garantì alle sue industrie il flusso del ferro dai giacimenti della Mauritania.
Per quanto riguarda la posizione della Francia circa le pretese del Marocco sul Sahara Occidentale, la sua strategia d'appoggio al Marocco si basava su: l'esclusione della presenza di uno Stato di lingua spagnolo per garantire la continuità fisica del dominio francofono; garantire gli interessi dei francesi residenti nel Marocco che gestivano una quota considerevole dell'economia di questo paese; mantenere il ruolo che il Marocco svolgeva nelle operazioni militari francesi in Africa (molteplici erano stati gli interventi nello Zaire, Benin e Guinea Equatoriale); continuare a considerare il Marocco quale ponte assolutamente necessario per qualsiasi integrazione fra Europa e Nord Africa.
Per l'Occidente, il Regno del Marocco era un paese molto importante nella strategia della NATO: la sua posizione geografica aveva all'epoca del bipolarismo un'importanza particolare perché insieme alla Spagna e alle sue isole Canarie, costituiva il "triangolo della Sicurezza" all'entrata del Mediterraneo dove operava, e opera, la Sesta Flotta.
Altri elementi a vantaggio del Marocco furono:
Queste furono le ragioni per le quali la stabilità del Regno era una priorità nelle strategie degli importanti paesi occidentali; così quando il Marocco non riuscì a resistere agli attacchi durissimi del Polisario nei primi anni della guerra, Peter Duignan, esperto dell'Africa nell'influente Hoover Institution, chiese al governo americano di aiutare il Marocco sostenendo: " Gli Stati Uniti dovranno provvedere con soldi, armi e alimentari per aiutare il Marocco nella sua lotta contro il Polisario. Mantenere il Marocco ben vigilato e stabile comporta questo prezzo".
Durante la guerra contro il Polisario, il Marocco ricevette armi da USA, Francia, Belgio, Regno Unito, Spagna, Italia ed Egitto, e aiuti finanziari ed energetici dai paesi arabi quali Arabia Saudita, Emirati Arabi, Kuwait e Iraq.
Per quanto riguarda l'Unione Sovietica, la sua posizione nella regione era piuttosto debole: forniva le armi all'Algeria, e collaborava nel campo della formazione militare di questo paese, mentre le sue relazioni economiche erano per il resto poco rilevanti, in quanto gli impianti industriali algerini erano stati costruiti grazie alla collaborazione di RFT, Giappone e Stati Uniti.
Il Fronte Polisario, a differenza dagli altri movimenti di liberazione, non ha avuto legami stretti con l'URSS, nonostante la provenienza sovietica di gran parte delle armi usate dai suoi soldati, che furono ottenute indirettamente tramite altri paesi come la Libia (fino al 1984), l'Algeria e l'ex Yugoslavia (fino 1989). L'Unione Sovietica, dal lato suo invece, faceva grandi sforzi per instaurare le sue relazioni economiche e politiche con il Marocco, relazioni che riuscì a intensificare dopo il 1974, concludendo accordi di cooperazione particolari nel campo dell'importazione del fosfato, tantochè, nel 1978, il Marocco era diventato il suo primo partner in Africa .
Si può affermare che il Marocco, al momento dell'occupazione del Sahara Occidentale, nel novembre 1975, non temeva nessuna reazione da parte del Consiglio di Sicurezza, perché contava sull'appoggio delle potenze occidentali (Francia, USA, Regno Unito) che preferivano un Sahara controllato da un paese amico dell'Occidente, sapeva che l'URSS era interessata maggiormente ai rapporti economici con lui piuttosto che alla nuova situazione nella regione nord - africana, e che la Cina, appena insediatasi nel seggio permanente, al Consiglio di Sicurezza, sarebbe stata molto cauta non essendo pronta ad intromettersi in conflitti regionali tanto lontani dai suoi impegni geo-strategici.
Le Nazioni Unite si trovavano sotto l'influenza dell'era bipolare e questo spiega perché la Quarta Commissione delle Nazioni Unite approvò il 4 dicembre 1975, due proposte di risoluzione, una favorevole al Marocco e alla Mauritania, l'altra all'autodeterminazione per il popolo Sahrawi, l'adozione delle quali aveva raccomandato all'Assemblea Generale. La prima proposta da Africa Centrale, Gabon, Gambia, Giordania, Oman, Senegal, Togo e Tunisia, dava il benvenuto all'accordo di Madrid, e invitava al rispetto del principio dell'autodeterminazione usando però il termine della "popolazione" includendo cioè anche i partecipanti alla "Marcia Verde". La seconda risoluzione che invece fu presentata da 27 paesi, richiedeva il rispetto del diritto inalienabile dell'autodeterminazione del popolo Sahrawi, riaffermava la responsabilità della Spagna come ex- amministratrice del territorio e la invitava a prendere tutte le misure necessarie che permettessero al popolo del territorio di decidere il suo futuro tramite un referendum sotto la vigilanza delle Nazioni Unite.
Il Consiglio di Sicurezza si limitò a invitare il Marocco a ritirare dal territorio del Sahara Occidentale tutti i partecipanti alla "Marcia Verde".
Durante l'era del bipolarismo, il conflitto del Sahara Occidentale quindi restava nell'agenda secondaria delle Grandi Potenze, e perciò non fu regolato nonostante la sua presenza nell'agenda delle Nazioni Unite fin dagli anni '60.
Dopo il crollo del sistema sovietico e la caduta del muro di Berlino (1989-1991), gli Stati Uniti adottarono una nuova politica che mirava al controllo di tutti gli spazi strategici possibili nel mondo. Nella prima metà degli anni '90 gli Stati Uniti erano impegnati nelle zone di tensione più importanti in base alla loro strategia: il Golfo con la questione dell'Iraq-Kuwait, i Balcani, il Corno d'Africa (guerra di Somalia) e il Medio Oriente. Ma questo non ha escluso l'estensione di nuovi piani strategici ad altre zone che non erano al centro della loro politica estera nel passato, e per la precisione in quell'Africa tradizionalmente divisa nei due domini, britannico e francese.
La Francia, dopo la fine del sistema bipolare, fu uno dei promotori principali della spinta verso l'accelerazione del processo di costruzione dell'Europa unita, allo scopo di farne un attore di primo piano nella scena internazionale, capace di contribuire alla pace e alla stabilità nel mondo, cioè un'Europa non intesa soltanto come zona di libero scambio.
In questo senso si possono leggere l'attuazione del partnership euromediterraneo, lanciato a Barcellona nel 1995, e l'intenzione di creare rapporti di fiducia e di buon vicinato, di incoraggiare lo sviluppo in tutto il Mediterraneo, nonché il sostegno alle iniziative dell'Unione Europea a favore dell'integrazione regionale (ad esempio tra i paesi del Maghreb).
Semplicemente la Francia non ha gradito la gestione quasi unilaterale delle questioni mondiali da parte degli Stati Uniti, e per questo sta seguendo, con la Germania, una politica che, secondo le sue dichiarazioni, mira ad instaurare un ordine mondiale più equo, caratterizzato dalla presenza di un sistema multipolare fondato sulla diplomazia preventiva e sulla regolazione pacifica dei contenziosi .
Nel contesto della nuova politica americana, la Francia sentì la necessità di cambiare la sua politica applicata nel Continente africano: il Primo Ministro Lionel Jospin, durante una visita in Mali il 22 dicembre 1997, dichiarò che " la Francia ha l'intenzione di abbandonare il suo ruolo paternalista in Africa assunto durante gli ultimi trent'anni". Questo nuovo orientamento della politica francese divenne particolarmente urgente con l'aumento dell'attenzione americana verso l'Africa. La visita del Presidente americano, Bill Clinton, ad alcuni paesi africani (Botswana, Ghana, Ruanda, Senegal, Sud Africa e Uganda) nel marzo 1998, ha suscitato la cautela della Francia sulle nuove mosse degli Stati Uniti. Subito dopo anche il Presidente francese Jacques Chirac si è recato nel continente nero per consolidare le relazioni francoafricane e avviare la nuova politica annunciata dal Primo Ministro, Lionel Jospin, l'anno prima. Questa politica prevedeva la riduzione delle truppe francesi in Africa a 5000 soldati, la revisione della politica degli aiuti destinati ai paesi africani, e la stipulazione di contratti che riorganizzavano il flusso degli immigrati e il controllo della immigrazione illegale.
Il Nord Africa era uno dei luoghi nevralgici che gli Stati Uniti non avrebbero omesso dai loro piani di influenza per l'importanza, sia strategica che economica; il loro comportamento però, prima della caduta del sistema bipolare, fu un po' condizionato dai legami storici della Francia con i paesi della zona, volevano infatti evitare qualsiasi rottura nel rapporto fra i membri della NATO, che avrebbe potuto indebolirla innanzi al blocco comunista.
Quando era stato eletto Ronald Reagan alla presidenza americana, le relazioni fra Marocco e Stati Uniti si erano intensificate molto soprattutto con la creazione del Rapid Deployment Force, necessaria per la politica americana nel Medio Oriente. Così le due parti il 27 maggio 1982 conclusero un accordo di mutua difesa. Il rapporto tra Marocco e Francia aveva già conosciuto un deterioramento a causa della campagna della sinistra francese contro la repressione, condotta dalla monarchia, delle manifestazioni popolari di Casablanca nel giugno 1981. Ma la scelta del Marocco di aderire all'accordo con gli USA arrivò soprattutto come reazione alla politica di F. Mitterrand che il Marocco accusava di intromettersi nei suoi affari interni in seguito alla dichiarazione fatta il 29 gennaio 1982, nella quale il presidente Mitterrand aveva affermato il suo appoggio a un negoziato diretto fra Marocco e Polisario.
La Francia però non poté rinunciare così facilmente ai suoi interessi in Marocco, quindi l'anno dopo il presidente Mitterrand vi si recò in una visita in cui, mettendo fine alle divergenze, reinstaurò i rapporti in modo solido e continuo, facendo della Francia il primo difensore della politica del Marocco nel Sahara Occidentale.
Gli USA, oltre alla collaborazione nel campo militare e della sicurezza per la lotta contro il terrorismo, dopo l'11 settembre 2001, soprattutto con Algeria e Marocco, nei ultimi anni hanno lanciato una politica che mira all'apertura dei mercati del Maghreb ai prodotti americani, all'aumento del volume degli investimenti delle imprese petrolifere americane in Algeria e Libia (recentemente), e addirittura alla ricerca del petrolio nel territorio conteso fra Marocco e Fronte Polisario. Due imprese petrolifere infatti, TotalFinalElf (Francia) e Keer-McGee (USA) hanno cominciato la ricerca del petrolio nel territorio del Sahara Occidentale occupato dal Marocco. Le Nazione Unite hanno sollevato la questione al Sottosegretario Generale per le questioni legali, Hans Corell, che ha risposto in una lettera al Consiglio di Sicurezza il 5 febbraio 2002, affermando l'illegalità di questa esplorazione in un territorio contestato senza il consenso della popolazione locale, e negando al Marocco la possibilità di concedere licenze per l'estrazione del petrolio. Era ovvio che il Marocco cercava di complicare la soluzione del conflitto coinvolgendo sia gli USA che la Francia nello sfruttamento della ricchezza del Sahara .
" Non c'è amico né nemico per sempre ", sembrerebbe che questa sia una delle regole che hanno dominato le relazioni internazionali dopo il crollo del sistema bipolare. Nessuno avrebbe potuto immaginare che il Vietnam e gli Stati Uniti avrebbero instaurato rapporti diplomatici normali, dopo quella lunga ostilità dovuta alla guerra tremenda negli anni '70, come nessuno avrebbe pensato di vedere gli USA rimuovere con la forza il regime di Saddam Hussen, l'amico di una volta, e la stessa cosa vale per il modificarsi dei rapporti fra Libia e paesi dell'Occidente.
Il Governo francese, vedendo i suoi interessi minacciati nelle zone che aveva sempre considerato dominio riservato (perché ex colonie), ha espresso il suo dissenso in modo chiaro in occasione della conclusione dell'accordo commerciale, nel gennaio 2003, fra Stati Uniti e Marocco, quando il ministro delegato per il commercio estero, Francois Loos, ha avvertito che questo accordo sarebbe stato incompatibile con i legami economici tra Regno del Marocco e UE .
Bernard Ravenel, esperto nelle questioni mediterranee, scrive: "Questa concorrenza fra Francia e Stati Uniti per il Marocco non presenta che un aspetto di una competizione più generale che si estende a tutta l'Africa. Il Marocco tende a diventare con la Costa d'Avorio e il Camerun una delle zone più calde del confronto severo tra la Francia e gli Stati Uniti per il controllo dei mercati africani ".
Perciò si può dire che la Francia, e quindi anche l'Europa, si sono messe in una posizione che potrebbe condurle allo scontro, non necessariamente bellico, con gli Stati Uniti .
A questo punto, gli Stati Uniti hanno fatto i loro conti riguardo la regione del Nord Africa e hanno dedotto che la modalità di risoluzione del conflitto nel Sahara Occidentale potrebbe essere decisiva per i loro interessi futuri.
Gli Stati Uniti, che nel 1975 furono tra i principali alleati di Re Hassan II e i promotori insieme alla Francia dell'occupazione del Sahara Occidentale da parte del Marocco, senza però riconoscergli la sovranità sul territorio (come nessun altro Stato, del resto gliela riconosce), ora, coerentemente con i loro interessi, per risolvere il conflitto sostengono la necessità di applicare le risoluzioni delle Nazioni Unite, di rispettare il diritto di autodeterminazione dei popoli, sancito nella risoluzione storica 1514 (XV) del 1960, e di organizzare un referendum in concordanza con le risoluzioni dell'ONU .
La possibilità per il popolo sahrawi di decidere in modo democratico e trasparente il suo futuro in armonia con le regole internazionali, rappresenta la soluzione meno imbarazzante per gli USA nei confronti del loro amico storico, il Marocco, in quanto si limitano a chiedere solo il rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite.
In realtà gli USA non vogliono abbandonare il Marocco, ma stanno cercando una soluzione che possa conciliare i loro interessi con tutte le parti coinvolte in modo diretto o indiretto nel conflitto, specialmente con l'Algeria, principale sostenitore del Polisario, con la quale il volume degli scambi commerciali è aumentato più che con qualsiasi altro paese del Maghreb. Inoltre gli USA stanno anche valutando eventuali possibili vantaggi di uno Stato indipendente nel Sahara Occidentale, senza per questo perdere quelli esistenti con il Marocco. Quest'ultimo rimane sempre importante per loro perché è considerato il promotore del dialogo fra i paesi arabi e Israele, e perché la presenza di una minoranza ebraica, tollerata in Marocco, ha valore per la lobby ebraica degli Stati Uniti.
La nomina dell'ex Segretario degli Affari Esteri americano James Baker III nel 1997, come Inviato Personale del Segretario Generale delle Nazioni Unite per la questione del Sahara Occidentale, dimostrò l'importanza che gli americani attribuiscono alla regione del Nord Africa.
La Francia invece vede in una soluzione del genere una minaccia ai suoi interessi: un referendum libero e trasparente per il popolo sahrawi porterà sicuramente alla creazione di uno Stato indipendente nel Sahara, con l'uso di una lingua diversa da quella francese (lo spagnolo), a fianco di un'Algeria considerata sempre un paese ribelle nei riguardi della politica francese e che potrebbe essere più forte se il nuovo stato gli concedesse la possibilità d'accesso all'Oceano Atlantico. Al contrario, se il Marocco riuscisse a integrare il territorio, questo garantirebbe alla Francia una continuità del "dominio francofono", chiuderebbe il cerchio intorno all'Algeria e condizionerebbe il rapporto di quest'ultima con l'estero.
La politica della Francia nei confronti all'Algeria negli anni passati, provocò alla prima perdite enormi: davanti all'intransigenza della politica francese, l'Algeria si è rivolta agli Stati Uniti come essenziale partner economico, e siccome la Francia aveva perso le sue quote di petrolio che gestiva in Iraq prima dell'ultimo intervento americano, ha cercato di riprendere i suoi rapporti con l'Algeria che si è trovata nella condizione favorevole di negoziare da una posizione forte.
La Spagna, ex amministratrice del territorio, è in una situazione scomoda con il Marocco riguardo la questione del Sahara: da una parte il Marocco fa pressione sulla Spagna strumentalizzando la questione di Ceata e Melilla, la tendenza separatista delle Isole delle Canarie (la Spagna teme un sostegno marocchino ai separatisti), e il peso che riveste nell'economia spagnola la pesca sulle coste marocchine; mentre dall'altra parte, il Governo sta sotto la pressione dell'opinione pubblica spagnola favorevole alla causa del popolo saharawi, e questo giustifica la sua posizione ambigua che oscilla fra il sostegno al Marocco e l'affermazione di essere favorevole a una soluzione che rispetti le risoluzione delle Nazioni Unite.
Accanto all'attuale potenza dominante, gli USA, due nuove forze economiche gigantesche stanno conquistando quote enormi nei mercati mondiali e con il passare del tempo, grazie al loro peso economico, avranno anche sicuramente un ruolo nella politica mondiale. Si tratta di Cina e India. Davanti ad uno scenario del genere l'Europa, che ora ha la sensazione di essere esclusa da qualsiasi ruolo importante nella politica mondiale, sarebbe del tutto emarginata in futuro se rimanesse chiusa in se stessa.
La necessità e l'emergenza potrebbero spingere l'Europa a cercare nuovi alleati che, insieme, potrebbero giocare un ruolo importante nell'equilibrio mondiale, e per ragioni varie (geografiche, storiche, culturali, strategiche) il futuro la obbligherebbe ad avvicinarsi ai paesi arabi, musulmani e africani, per poter affrontare le sfide che verranno.
L'iniziativa presentata da Zapatero, Primo Ministro Spagnolo, alla riunione della Lega Araba ad Algeri, fra il 22 e il 23 marzo 2005, che porta il nome di "Dialogo fra le Civiltà", non è altro che un invito mascherato rivolto proprio a questi paesi dalla Comunità Europea.
I paesi del Nord Africa sono molto importanti per l'Europa, sia da un punto di vista economico che per ragioni di sicurezza, quindi la stabilità di questa zona costituisce un elemento vitale per il presente e il futuro dell'Europa. Però i piani della futura strategia americana, per garantire il flusso di petrolio, prevedono l'installazione di basi militari anche in questi paesi: un elenco di dodici paesi che hanno il petrolio o sono situati a ridosso di grandi oleodotti o lungo le rotte dei rifornimenti e che sono nel mirino della strategia americana. Fra questi figurano i seguenti Stati africani: Algeria, Camerun, Gabon, Sao Tomi e Principe e Tunisia .
Le previsioni del dipartimento americano dell'energia indicano che entro il 2025 le zone di Golfo, Africa, e America Latina produrranno circa il 61% del prodotto mondiale, quindi saranno sicuramente oggetto della strategia americana che è sempre disposta a far di tutto pur di garantire il flusso dell'oro nero .
La questione del Sahara Occidentale rimane uno degli principali elementi che destabilizzano la zona del Maghreb e impediscono l'integrazione regionale fra i suoi paesi.
La Comunità Europea è sempre (eccetto la Francia) a favore di una soluzione accettata dalle due parti che rispetti il principio di autodeterminazione del popolo sahrawi. L'Europa però non è mai arrivata al punto di prendere iniziative che potessero obbligare le parti a trovare una soluzione al conflitto, e i motivi sono tanti:
- l'esistenza di legami economici e turistici consistenti col Marocco.
- per alcuni paesi europei come Gran Bretagna, Francia e Spagna, ragioni di politica interna hanno impedito loro di tenere una posizione ferma a favore dell'autodeterminazione del popolo sahrawi. Quindi, per evitare qualsiasi incentivo ai movimenti che chiedono l'indipendenza in Irlanda del Nord, Costarica, Paesi Baschi, questi Stati hanno preferito mantenere la situazione del Sahara occidentale come è, oppure adottare una posizione piuttosto ambigua e comunque favorevole al Marocco.
Ultimamente Francia e Spagna, i paesi dell'Europa più interessati alla questione, hanno preso un'iniziativa finalizzata alla ricerca di una soluzione del conflitto e hanno invitato a partecipare anche l'Algeria e il Marocco (Incontro dei Quattro). Tale tentativo è fallito a causa del rifiuto dell'Algeria a partecipare, motivato dal fatto che i promotori avessero escluso una dalle parti direttamente implicate nel conflitto, cioè il Polisario, a cui le Nazioni Unite hanno sempre fatto riferimento come portavoce del popolo Sahrawi. Un'iniziativa miope condizionata dall'egoismo dei suoi sponsor.
I paesi del Nord Africa sono molto importanti per l'Europa per la fornitura del petrolio e del gas che provengono da Algeria e Libia, anche per l'offerta di mano d'opera, e perché nello stesso tempo costituiscono una frontiera di sicurezza. Quindi la stabilità della zona dovrebbe essere una priorità per l'Europa.
Davanti alla concorrenza mondiale, l'Europa dovrebbe capire che questi paesi sono nella condizione di valutare le offerte migliori che i colossi in concorrenza sono disposti a concedere, e per questo dovrebbe fare sforzi verso questi paesi:
- dare un contributo enorme per la stabilità politica della regione, tramite:
1. L'incoraggiamento di un processo vero per la democratizzazione di tutti i paesi componenti la zona, evitando l'esportazione forzata dei modelli che non combaciano con i loro valori culturali e religiosi, affinchè non si dia l'impressione che si tratti solo di un'invasione culturale;
2. L'incoraggiamento del processo di integrazione regionale del Maghreb, che richiede inevitabilmente la soluzione del problema del Sahara Occidentale, una soluzione che dovrebbe essere definitiva e giusta, secondo le norme del diritto internazionale, e nel rispetto delle risoluzioni delle Nazioni Unite.
- Contribuire allo sviluppo economico di questi paesi, e facilitare loro l'accesso alla tecnologia, che potrebbe anche risolvere il problema dell'immigrazione illegale verso l'Europa.
- Cercare di creare un rapporto volto alla mutua cooperazione, eliminando l'idea che questi paesi siano solo come fonti di materie prime.
- Questi paesi a loro volta devono:
- Accelerare il processo di democratizzazione, creando le condizioni migliori per garantire la libertà d'espressione e il rispetto dei diritti umani. Inoltre adeguare le leggi interne in modo che garantiscano la possibilità e la sicurezza per le imprese e le persone straniere che vogliono investire nei loro paesi.
Collaborare con l'Europa nel campo della sicurezza (lotta contro il terrorismo, traffico della droga, immigrazione illegale..).
LO STATO DEI DIRITTI
Con l’avvio del conflitto, il Sahara occidentale è divenuto teatro di repressioni e violenze attuate dallo stato marocchino nei confronti delle popolazioni saharawi.
Le violazioni dei diritti umani che sono oggi perpetrate in questi territori trovano la loro genesi nell’invasione pianificata - e realizzata - dal Marocco nel 1975. Da quel momento questo stato è divenuto il principale, forse unico, protagonista delle azioni che hanno scalfito la tutela e il rispetto dei diritti dell’uomo e delle sue libertà fondamentali in questa regione africana. Delle violazioni, degli abusi e delle vessazioni sono state fornite numerose – e inconfutabili – prove.
“Si tratta di arresti e processi arbitrari di uomini saharawi accusati di favoreggiare il Fronte Polisario, di torture e trattamenti inumani nei carceri di Rabat, di assassini politici avvenuti soprattutto nelle zone occupate. Ogni attività associativa o politica è vietata ai pochi saharawi rimasti nei territori occupati che sono, inoltre, assolutamente vietati alla stampa straniera. Molti sono i saharawi scomparsi durante gli anni di lotta armata di cui non si hanno notizie ma si pensa che alcuni siano ancora prigionieri del governo reale e altri siano morti nelle fosse comuni ritrovate a Lamsayad e a Jdeyria o siano stati lanciati da elicotteri in volo dall'esercito reale” [Lanfredi 2004]”.
Se il mancato rispetto delle risoluzioni Onu, delle convenzioni e delle dichiarazioni sembra non alterare la volontà di Rabat di imporre il proprio “governo”, esso finisce per rendere più drammatica la condizione delle popolazioni locali e, quindi, per rendere più coeso l’impegno della società civile internazionale. Un impegno determinante e necessario che, però, non è ancora in grado di arginare l’asprezza con la quale vengono compiuti gli interventi dell’esercito maghrebino.
Come documenta Amensty International (2006), tra il maggio e il dicembre del 2005, le dimostrazioni popolari a favore dell’indipendenza del popolo saharawi sono state tutte sistematicamente sedate con la violenza. Un violenza che, come dichiarato dai testimoni, è stata spesso gratuita ed eccessiva. In queste occasioni sono state catturate centinaia di persone; mentre due sono morte, quando erano già sotto la custodia delle autorità. Il ricorso alla tortura e ai trattamenti degradanti nei confronti dei sostenitori dell’indipendenza del Sahara occidentale sembra essere ormai divenuta la prassi ben tollerata dai poteri di Rabat.
Se il caldo e la siccità sono le principali caratteristiche di una regione dove le aree arabili sono limitate, non si può non constatare che esiste anche un contributo dato dal Marocco nel rendere questo ambiente ancora più ostile per i suoi popoli. Il patrimonio naturale del Sahara Occidentale è stato parzialmente distrutto dalle truppe marocchine - che per nutrirsi hanno cacciato diverse specie di animali e abbattuto gran parte dei pochi alberi esistenti -; le Forze Armate hanno avvelenato e distrutto diversi pozzi d'acqua nelle zone rurali del Sahara Occidentale - per obbligare così la popolazione a trasferirsi nelle città, dove sarebbe stata più controllabile dall'esercito -.
Il Marocco ha poi esteso il suo controllo sulle “vecchie” (i fosfati e le riserve di pese) e le “nuove” (i giacimenti petroliferi) risorse naturali della regione.
Diritti delle donne
Lo stato dei diritti delle donne saharawi è molto diverso a seconda della prospettiva che si adotta per analizzarlo. Nei territori occupati, infatti, esse continuano ad essere l’oggetto degli abusi e delle violenze da parte delle forze di polizia e dai membri delle comunità di coloni marocchini.
Ben diverso è invece lo status che esse ricoprono all’interno della loro società. Il ruolo che viene infatti attribuito ad una donna saharawi è decisamente distante dal modello che ci si potrebbe aspettare di trovare in una comunità islamica. Alle funzioni più tradizionali – legate all’istruzione e alla tutela della cultura del suo popolo -, le sono attribuiti compiti rilevanti nelle attività produttive e nella vita civile.
Sul cambiamento del ruolo della donna ha avuto un effetto diretto la condizione dell’esilio . Visto che la maggior parte degli uomini era impegnata nell’esercito del Fronte Polisario, le donne hanno finito per avere la responsabilità primaria nell’organizzare e amministrare le “città” dei profughi.
Diritti dei bambini
Nei campi profughi saharawi, collocati nella regione desertica del Tindouf, vivono più di 200.000 persone. Queste hanno cercato di restituire una dimensione “umana” ai luoghi nei quali sono costretti a vivere, strutturando i campi come fossero le città nelle quali avevano vissuto prima dell’invasione marocchina del 1975.
Nonostante l’efficienza organizzativa – riscontrabile sia nei servizi sanitari sia in quelli scolastici –, la vita dei profughi resta interamente dipendete dagli aiuti internazionali (recentemente ridotti). Così il 35% dei bambini soffre di malnutrizione cronica, e il 13% di malnutrizione acuta. Sono inoltre aumentati i bambini in cui si registrano ritardi nella crescita.
Fonte: http://www.regione.toscana.it/documents/10180/9273088/Report+CIRPAC+Prof+Flores.doc/e5b505f5-d0cf-48e5-90db-5d7f6cf1b4f3;jsessionid=8D80A4C0BEEA9E38062D1049395C962E.web-rt-as01-p2?version=1.0
Sito web da visitare: http://www.regione.toscana.it
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