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DA CHARLES YRIARTE A JULES VERNE: IL TRAGITTO ISTRIANO DELL’AVVENTUROSO VIAGGIO DI MATHIAS SANDORF
1. ESPERIENZE STORICHE DELL’ISTRIA
Charles Yriarte, erudito francese e moderno touriste nelle terre dell’Adriatico, non immaginava certamente che il viaggio da Venezia fino alle coste montenegrine, da lui compiuto nel 1874, avrebbe ispirato, circa dieci anni più tardi, una tra le opere più famose del grande romanziere, suo contemporaneo e connazionale, Jules Verne.
L’avventuroso itinerario del conte Sandorf e dei suoi compagni, infatti, felicemente riportato da Verne nel romanzo Mathias Sandorf, ricalca fedelmente tappa dopo tappa il percorso compiuto dal turiste d’oltralpe e riportato in forma di appunti di viaggio nell’opera Les Bords de l’Adriatique.Nella nostra proposta di viaggio suggeriamo il tragitto istriano percorso da Yriarte, e, più precisamente, la tappa che da Buie (Buje), passando per Pisino (Pazin) e cogliendo i meravigliosi paesaggi dell’Istria interna, ci porta sulla sponda del Canale di Leme (Limski kanal) e alla vicina e pittoresca città di pescatori e isolotti, Rovigno d’Istria (Rovinj).
Ma Yriarte, dopo un viaggio di sette ore in piroscafo da Venezia, aveva prima sostato a Trieste, e aveva descritto con acutezza di spirito i diversi aspetti della città giuliana: da quello storico-politico a quello architettonico-urbanistico ed economico, a quello più strettamente sociologico, dandoci, della Trieste di Francesco Giuseppe, l’immagine di una città vitale e colorata, attiva, industriosa e multietnica. Così, a proposito della popolazione che in quel tempo abitava Trieste, leggiamo:
“In mezzo agli elementi stranieri, variati e influentissimi, dominano tre grandi elementi nazionali: l’Italiano, l’Austriaco e lo Slavo. L’Italiano si considera a Trieste come in Italia, e si fonda sulla ragione della lingua, della razza, delle memorie, e della vicinanza. L’Austriaco comanda con dolcezza, regna con mansuetudine e con bontà, ed ha la ragione evidente del possesso. Quanto agli Slavi, hanno la ragione del numero alle spalle della città e rinserrano da ogni parte la popolazione” (Giulio Verne, La congiura di Trieste, La cittadella, Trieste 1970, p. 217).
Anche Verne ambienta l’incipit del suo romanzo nella città giuliana, collocando i suoi protagonisti, il conte Mathias Sandorf, il conte Ladislao Zathmar e il professor Stefano Bathory, nel clima politicamente tormentato del 1867, propizio al destarsi di aneliti e propositi libertari che nei tre amici si concretizzeranno in un’attività cospirativa contro il governo austro-ungarico, a favore della separazione dell’Ungheria dall’Austria e della ricostituzione autonoma dell’antico regno magiaro. Verne, quindi, adottando il codice narrativo della verosimiglianza, ricostruisce ambienti ed eventi storici inserendo in essi i personaggi della sua finzione, attuando in tal modo una felice commistione tra il romanzo d’avventura fantastico-scientifica, tipico della prima fase dell’autore, e quello dai contenuti più libertari e progressisti, che Verne maturò soprattutto in seguito ai contatti con gli ambienti politici parigini, e in particolare con quelli socialisti e anarchici dell’epoca. Nell’ideazione e nella realizzazione del romanzo è rimarchevole il fatto che lo scrittore francese non visitò mai né Pisino né la penisola istriana - anche se si spinse con il suo yacht “Saint -Michel III” fino a Venezia - ma, per la descrizione minuziosa dei luoghi in cui sono ambientate le vicende dei tre personaggi, si affidò esclusivamente agli appunti di viaggio di Yriarte che quel tragitto l’aveva effettivamente compiuto nel lontano 1874. Ma com’era l’Istria di Yriarte? i luoghi e i borghi che egli visitò ed ebbe occasione di conoscere, seppur di sfuggita, fermandovisi non più di qualche ora? Sappiamo, infatti, come riportato nelle pagine del diario di viaggio, che Yriarte non sostò che “poche ore” a Pisino, prima di essere accompagnato dall’oste Bevilacqua a Parenzo (Poreč). E com’erano gli usi, i costumi, i paesaggi, le persone che incontrò e con le quali ebbe occasione di parlare? È questa l’Istria che, seguendo l’itinerario proposto, cercheremo di scoprire, indugiando sui colori, i suoni, le voci, sui profumi e i sapori quali già osservò e sentì il turista francese e che ancora oggi, adattando il passo a quello dell’autore (“impiegammo quindici ore per arrivare alla tappa” scrive Yriarte nel suo diario; op. cit. p. 225), possiamo riscoprire, per provare ancora quello stupore e quell’emozione che già affascinò lo scrittore francese e che lui felicemente tradusse nelle pagine del suo diario.
Come accennato, il tragitto istriano che i tre protagonisti del romanzo compiono nella carrozza della polizia alla volta del carcere di Pisino, dove saranno riconosciuti colpevoli di alto tradimento contro lo Stato e condannati a morte dalla corte marziale, segue, tappa dopo tappa, quello affidato da Yriarte ai suoi appunti di viaggio. Ma, mentre il viaggio reale compiuto da Yriarte si svolge di giorno, Verne ambienta quello fittizio dei suoi personaggi di notte, ovviando così, da esperto narratore e in armonia col canone della verosimiglianza, alla mancanza di descrizioni delle cittadine di volta in volta menzionate da Yriarte nei suoi appunti, e giocando, al contempo, a variare appena leggermente o ad arricchire la descrizione che il viaggiatore reale dà del paesaggio istriano effettivamente visto e conosciuto. Questa felice e raffinata trasposizione dal reale al fittizio si fa particolarmente evidente nelle descrizioni sensuali, visive e sensitive del paesaggio; così Yriarte descrive il golfo di Trieste e le coste dell’Istria viste dal Castello di Miramare:
“Da Miramar dominate il mare da grande altezza, e, appoggiati ai larghi balconi, sulle terrazze sbattute dal vento, vi sentite sospesi sulla voragine adriatica. Da qualunque parte vi volgiate, la veduta è splendida: Trieste, seduta appiè del Carso, col suo golfo e i porti di Muggia, di Pirano, e la costa dell’Istria, che fugge verso l’est” (Yriarte, cit.).
E Verne potrebbe forse essersi ispirato proprio a questa immagine nel descrivere l’uscita da Trieste dei tre prigionieri, nella carrozza della polizia, e l’inizio del tragitto che li avrebbe portati nel carcere imperiale di Pisino:
“Uscita da Trieste, la carrozza tornò, dopo aver fatto un giro, a procedere in diagonale verso la costa. Il conte Sandorf, fra lo scalpitar dei cavalli e lo sferragliar delle sciabole, potè udire il mormorio lontano delle onde che si frangevano sulla scogliera” (Verne, cit. p. 94).
Ma lasciamo realmente Trieste con Yriarte per seguirne il percorso attraverso le principali cittadine, che all’epoca molto probabilmente fungevano pure da stazioni di posta per la muta dei cavalli, e che potranno essere invece per il turista odierno occasione per un piacevole e interessante intrattenimento:
“Ho lasciato Trieste nella diligenza postale che porta il corriere a Pisino, capoluogo del distretto omonimo, proprio nel cuore dell’Istria. È la pesante diligenza classica, quella dei rapimenti di Scribe, colla cassa gialla, su cui spiccano le grandi armi imperiali e reali; impiegammo quindici ore per arrivare alla tappa, attraverso Capo d’Istria, Buje, Visinada, Caroiba e Fermo” ( cit. p. 225).
A differenza di Yriarte, impedito dalla natura stessa del mezzo su cui viaggiava ad intrattenersi più a lungo nelle cittadine via via toccate, il turista di oggi può permettersi una visita più agiata e prolungata, apprezzando così il fascino e la bellezza ancora intatte di quei luoghi, e riscoprendone al contempo la storia, le bellezze artistiche e culturali, le interessanti tradizioni e peculiarità tipiche. Ritornando al nostro itinerario, notiamo che, mentre Yriarte sorvola sullo spazio tra Trieste e Visinada (Vižinada), non fornendoci di esso alcuna descrizione, Verne invece, nell’immaginario, descrive molto realisticamente un tratto di strada tra Muggia e Buie:
“La carrozza percorreva una strada fra vigneti, i cui tralci s’intrecciavano a mo’ di festoni, ai rami dei moreri” (cit. p. 97).
Anche oggi la coltivazione della vite, accanto a quella dell’olivo, è molto diffusa in tutta la penisola e lungo l’itinerario proposto si può ammirare, da entrambi i lati della strada, il distendersi prolungato, accanto a ubertosi campi di oliveti e terreni coltivati a cereali, di filari e filari di vitigni dolcemente adagiati sui lievi pendii del paesaggio circostante. Ma soprattutto in autunno e in primavera, quando i colori della vegetazione sono più intensi, il paesaggio diventa una tavolozza dai colori lussureggianti e vivaci, l’aria, con l’inizio della bella stagione odora di fiori e profumi del bosco, mentre a settembre, attraversando i paesi più piccoli, le stanzie, cioè i casali antichi, il visitatore può sentire ancora la delicata fragranza del mosto espandersi dalle piccole cantine familiari. Grazie al notevole salto di qualità compiuto negli ultimi anni dalla produzione enologica istriana, nel buiese sono attive diverse aziende vinicole i cui pregiati vini rossi e bianchi si possono assaggiare e degustare direttamente nelle cantine stesse, seguendo le suggestive Strade del vino, o nelle enoteche locali. Agli amanti del buon bicchiere suggeriamo pertanto una visita ai pittoreschi villaggi di Momiano (Momjan), Corenichi (Koreniki), Bassania (Bašanija), Verteneglio (Brtonigla), Crassizza (Krasica), Farnesine (Farnežine), Madonna del Carso (Marijan na krasu), dove potranno assaggiare i tipici vini istriani, quali la malvasia, il terrano o il rinomato moscato di Momiano. Da ricordare, inoltre, il forte sviluppo registrato negli anni recenti anche dall’olivicoltura e dalla produzione di un ottimo olio extravergine di oliva, che, come per il vino, suggeriamo di degustare direttamente negli oleifici o presso i produttori stessi seguendo, come per il vino, le diverse Strade dell’olio d’oliva che porteranno il visitatore a sostare a Zambrattia (Zambratija), Bassania, Crassizza (già Villa Gardossi), passando per i numerosi villaggi più piccoli e i casali immersi ancora in un clima e in un ambiente tipicamente campestre e rurale: Gambizzi (Gamboci), Lozzari (Lozari), Montrino (Montrin), S. Pietro di Montrino (Fratrija), Tribano di Buie (Triban), Punta (Punta)… quest’ultima così descritta dal fine esploratore e conoscitore di queste terre, Dario Alberi:
“Il piccolo borgo di Punta è formato da una decina di case rurali in parte addossate, tutte in nudo calcare; sono piccole case rivolte a mezzogiorno, con scale in pietra che salgono al piano; esiste ancora qualche ballidor ,termine istriano per indicare un ballatoio. Fra le case, cani e galline girano da padroni, le miede di fieno e le pannocchie di mais appese sulle facciate delle case indicano il tipo di economia che dà vita a questo piccolo abitato.
La stradina che conduce a Punta merita una passeggiata, si passa fra grandi ginestre e si incontrano ampie querce che ombreggiano saltuariamente il percorso; si ammirano campi a rati, vigneti e olivi, lo sguardo spazia sui bei versanti verdeggianti di Baredine, verso nord-ovest, e sul promontorio di S. Pelagio a sud-est” (D. Alberi, Istria: storia, arte, cultura, Edizioni Lint, Trieste 1997, pp. 628-629).
Crassizza, situata a pochi chilometri a sud di Buie e da cui, lungo una stradina asfaltata si raggiunge il borgo di Punta, è sede di un’annuale Mostra dell’olio d’oliva, l’Oleum olivarum, che sta riscuotendo sempre più interesse e successo con la partecipazione di produttori che arrivano anche dalle regioni contermini, incentivando anche così un interesse già fortemente sentito per la coltivazione e il consumo di questo nobile frutto. Arrivando da Buie, poco prima di Crassizza un cartello stradale sulla destra indica il paese di Baredine di Buie (Baredine). La borgata, immersa in un’oasi di silenzio e tranquillità, è circondata da colli e lievi pendii coltivati a oliveti e frutteti: luogo ideale per una rigenerazione fisica e spirituale, tra passeggiate e momenti di riposo, o anche soltanto per una breve sosta, a contatto con la natura idilliaca del luogo…
2. PRESENTAZIONE DEI VALORI CULTURALI DELL’ISTRIA
L’oleicoltura e la viticoltura rappresentano le principali attività produttive di Buie, l’antica Bulla o Bullea romana, e dell’intero buiese, e quindi l’attenzione per la tradizione e soprattutto per la cultura culinaria autoctona è quanto il viaggiatore interessato e sensibile può trovare nei diversi agroturismi sorti negli anni recenti un po’ dappertutto nelle zone rurali e amene della penisola, spesso da ristrutturazioni di antiche masserie esistenti sul luogo e adattate a confortevoli magioni e posti di ristoro, o nei casolari, anch’essi riadattati e adibiti a luoghi di riposo e relax. Il visitatore vi può degustare i piatti tipici di stagione: dalle pietanze semplici di un tempo al pregiato prosciutto istriano, al formaggio pecorino, agli asparagi selvatici - di cui in numerose località si celebrano, tra marzo e maggio, le Giornate dell’asparago istriano -, fino al ricercato tartufo della vicina valle del Quieto e dei boschi di Montona (Motovun), festeggiato anch’esso tra ottobre e novembre a Levade (Livade), a cinque chilometri dall’incantevole borgo di Portole (Oprtalj). Ma soffermiamoci ancora un po’ a Buie. Situata su di un colle dove le case in pietra, addossate le une sulle altre, rivelano l’antica disposizione medievale del borgo entro la cinta muraria, già Castrum romano per la sua posizione strategica, e probabile sede di un castelliere preistorico, Buie è oggi una cittadina industriosa e vivace. Abitata da circa diecimila abitanti, il borgo nel dopoguerra si è notevolmente ampliato, espandendosi con nuove costruzioni soprattutto dalla parte opposta del colle, in direzione nord, lungo l’antica via Flavia che da Pola porta a Trieste. Ma è certamente il centro storico a destare il maggiore interesse: vi si accede salendo per una strada larga e lastricata, via Zoccolo Mazzini, che porta direttamente alla piazza principale, piazza s. Marco, dove si trova la chiesa dedicata al patrono della città, s. Servolo. La costruzione attuale risale all’incirca alla metà del XVIII secolo quando, su progetto del maestro Zuane Dongetti di Pirano, il duomo venne ricostruito riutilizzando in gran parte il materiale della precedente chiesa medievale risalente al XIV secolo. Questa, a sua volta, fu costruita sulla base di una chiesa paleocristiana sorta sui resti di un antico tempio romano. Come scrive l’Alberi, al visitatore odierno la chiesa “si presenta piuttosto semplice con nicchie laterali. La volta è stata decorata da ottimi artigiani con affreschi che riportano scene sacre. Le sei nicchie laterali sono fornite di notevoli altari ed interessanti pale del XVIII e del XIX secolo. (…) Sulla parte alta della parete absidale un dipinto di grande valore, “La morte del vescovo Negri”, vescovo di Cittanova, mostra in basso una veduta di Buie del XVII secolo. (…) Le pareti dell’unica navata sono decorate con 5 dipinti ad olio su tela che rappresentano parabole evangeliche e risalgono al 1784. Molto prezioso è l’organo del celebre professore Callido che venne collocato in chiesa nel 1791 in sostituzione di quello più antico del 1587” (Alberi, cit. p. 616).
Vi si trova inoltre la statua di San Sebastiano realizzata da Giovanni Marchiori di Canal d’Agordo, “uno dei migliori scarpelli del XVIII secolo”, come scrive Giuseppe Caprin nella sua importante opera L’Istria nobilissima.Motivo di particolare vanto dei buiesi nei confronti dei vicini piranesi è stato, nei secoli passati, il bel campanile che si erge staccato dalla chiesa e che risale al 1482. Sul lato sud del campanile sono tuttora ben visibili alcune lapidi e bassorilievi con iscrizioni latine risalenti ai secoli precedenti, nonché un’opera a tuttotondo raffigurante il leone di Venezia. Scendendo dal Belvedere si arriva in piazza Libertà, già piazza Italia, dove si trova la chiesa di s. Maria della Misericordia risalente al 1497 e, stando all’Alberi, restaurata poi tra il 1671 e il 1684 dal vescovo Bruti, quando assunse l’aspetto odierno. All’interno della chiesa il visitatore potrà osservare “significativi esempi della scultura e della pittura tardo gotica. Gaspare Mattoni, soprannominato della Vecchia e seguace di Paolo Veronese, nel 1711 dipinse otto grandi tele poi appese nel coro con fresche scene del Nuovo Testamento” (Alberi, cit. p. 619).
La brezza marina che per la vicinanza del mare spira con gradevole refrigerio fino all’interno del territorio, potrebbe tentare il viaggiatore a una tappa sulla bellissima costa umaghese, distante appena una decina di chilometri da Buie, per immergersi nelle acque cristalline delle insenature di Salvare (Savudrija), Bassanìa, Zambrattìa (Zambratija), Val Grande (Vela draga) e altre. Tali località sono da visitare preferibilmente nei mesi di giugno e settembre quando le temperature sono più miti e, per chi si prefiggesse un viaggio all’insegna della tranquillità, la presenza di turisti-vacanzieri è più contenuta e discreta. Nei dintorni si trovano gli incantevoli villaggi di Pizzudo (Picudo), Morno (Murine), Valizza (Valica), Zacchigni (Cakinji), Monterosso (Crveni vrh), e ancora Petrovia (Petrovija), Matterada (Materada) e Giurizzani (Juricani), tutti antichi e caratteristici villaggi istriani con case in nuda pietra calcarea rimaste ancora intatte. Le case, veri monumenti dell’architettura rurale istriana, sono cinte da pergolati e arricchite dal ballatoio, con un’aia, un orto, il colore rosso della terra del campo che si perde in lontananza, incasellato tra il grigio dei muriccioli a secco che delimitano ancor oggi i poderi. Fulvio Tomizza, nativo di Giurizzani, descrisse mirabilmente nei suoi romanzi questo idillio istriano inserendolo di volta in volta con meticolosa insistenza tra le fila dei racconti, incentrati prevalentemente sulle vicissitudini di questi territori e dell’Istria in genere nell’immediato secondo Dopoguerra. Ritornando al nostro itinerario, dopo questa digressione balneare, ritroviamo i tre protagonisti, dopo il cambio dei cavalli effettuato a Buie, in viaggio verso la meta che rimaneva loro ancor sempre sconosciuta, malgrado
“si sforzassero di cogliere ogni minimo indizio: caratteristiche della strada, direzione del vento, tempo trascorso dalla partenza, non riuscirono a capire dove andasse la carrozza” (Verne, cit., p. 97).
La carrozza aveva appena lasciato Buie e si dirigeva verso Visinada lungo la carreggiabile Pola – Trieste, l’antica via Flavia, fino a pochi anni fa l’unica arteria stradale che collegava il capoluogo istriano alla città giuliana. Pochi chilometri dopo Crassizza, sulla sinistra si scorge un colle e, sulla cima, un gruppo di case abbarbicate intorno al campanile: è Grisignana (Grožnjan), l’antica Graeciniana, suggestiva e incantevole cittadina, sede, d’estate, di importanti avvenimenti artistico-culturali che attirano numerosi visitatori ed estimatori di musica e pittura, anche da oltre confine.
La cittadina fu, come Buie, sede di un importante castelliere preistorico e, successivamente, fortilizio romano. Una volta Grisignana si poteva raggiungere anche con la Parenzana, la linea ferroviaria a scartamento ridotto, costruita durante l’amministrazione austriaca della penisola, che collegava Parenzo a Trieste toccando molti villaggi dell’entroterra istriano. Recuperato recentemente dall’imboschimento, l’itinerario si propone come suggestivo percorso turistico da compiere a cavallo, a piedi o in bici, oppure, nel tratto Visinada – Montona, anche in macchina, scoprendo e toccando così da vicino l’affascinante e incontaminato paesaggio istriano.
Arrivati a Grisignana, prima di entrare nella cittadina attraverso la Porta Maggiore, suggeriamo una sosta al Belvedere dellemura, da dove si può ammirare un bellissimo panorama che spazia dai verdeggianti declivi sottostanti fino alla valle del Quieto e al suo sbocco nel mare presso Cittanova (Novigrad). Appena entrati nel centro storico, di fianco a destra si trova la Loggia, nell’omonima piazza, adibita un tempo alle sedute giudiziali e consiliari, mentre al centro dell’abitato si trova il bel duomo del XIV secolo dedicato ai ss. Vito e Modesto. Di fronte all’entrata di questo si trova il Palazzo del Podestà, una bella costruzione di epoca veneziana come la maggior parte delle case strette entro la cinta muraria, restaurata anch’essa durante il dominio della Serenissima che governò la cittadina dal 1358 fino alla fine della Repubblica. Ancora oggi, camminando lungo le calli strette e lastricate della “città degli artisti”, tra gli stemmi delle famiglie nobili e leoni veneti inseriti nelle facciate delle case, ci si trova immersi in un’atmosfera antica e preziosa: un che di medioevale traspare dal piccolo borgo destando, nel visitatore attento, una fine e piacevole sensazione di trasporto e coinvolgimento in un mondo favoloso e ormai remoto, quale fu quello della Repubblica marciana. Fuori della cinta muraria, sul piazzale antistante la Porta Maggiore, si trova la chiesetta dedicata ai ss. Cosma e Damiano, con il grande portico e il campanile a vela privo di campane, risalente alla metà del XVI secolo, completamente ristrutturata nel 1954. Nella cittadina, come pure nei dintorni, il visitatore può trovare numerosi posti di ristoro, dalle modeste osterie ai ristoranti più raffinati, ma con la possibilità ovunque di scoprire, attraverso la buona tavola offerta dalla cucina tipica, le tradizioni e la cultura del territorio.
Lasciando Grisignana e riprendendo nuovamente la via Flavia, dopo una decina di chilometri, e dopo aver passato Ponte Porton e l’omonima trattoria nota per le ottime specialità a base di tartufo, si arriva a Visinada. Nella piccola e amena cittadina dal Belvedere accanto alla chiesa di s. Giovanni Battista il visitatore può ammirare l’incantevole paesaggio dell’abitato sottostante. Di notevole interesse è soprattutto il duomo di Visinada, dedicato a s. Gerolamo, costruito attorno agli anni ‘40 del XIX secolo sulla base di una costruzione più antica, degli inizi del Seicento. Nella grande piazza di s. Gerolamo si trovano, di fianco alla chiesa, il lapidario e la loggia.
3. ATTRAZIONI TURISTICHE – ASPETTI PASSATI E FUTURI
Risalendo verso nord, ci si trova di fronte, sulla destra, alla grande cisterna in stile barocco, costruita, stando all’Alberi, da Simeon Battistella nel 1782. La cisterna rifornì d’acqua l’abitato fino agli anni ’30 del secolo scorso, quando venne realizzato l’Acquedotto istriano. Di fronte alla cisterna sorgeva un tempo il palazzo dei Grimani, signori di Visinada, in cui nacque la celebre cantante lirica Carlotta Grisi, vissuta nel XIX secolo. Un’altra celebrità di Visinada fu Michele Facchinetti, poeta, scrittore e giornalista, discendente anch’egli da nobile famiglia il cui palazzo sorgeva un tempo sull’area antistante la cisterna. Sullo spiazzo tra la loggia e palazzo Facchinetti facevano sosta, per il cambio dei cavalli, le diligenze di un tempo; ed è qui che sostò per un po’ anche Charles Yriarte che così descrive il territorio di Visinada:
“A cominciare da Visinada, l’aspetto si modifica singolarmente; la via diventa montuosa, l’orizzonte si restringe, le strade diventano disagiate, sebbene siano in buono stato. Si attraversano grandi spazii aridi; ma dappertutto dove l’uomo ha trovato un po’ di terra, ha seminato e raccoglie: il sorgo è anzi d’un altezza enorme. Sospese ai fianchi della montagna si vedono delle magre pecore nere, custodite da fanciulli che, vestiti di bigio, si confondono col tono della pietra; ma si rivelano col suono della loro zampogna a due canne” (Verne, cit., p. 225).
Quest’immagine di un’Istria arcadica con pastori che, custodendo il gregge, si dedicano a suonare la zampogna sembra quasi tratta dall’opera di Iacopo Sannazaro; l’immagine, per la sua calda espressività, ci viene subito riproposta anche dall’immaginario romanzesco di Verne:
“(…) la carrozza si fermò un’ultima volta per un rapido cambio di cavalli nella cittadina di Visinada. Da quel momento fu possibile rendersi conto solo del fatto che la strada diventava assai faticosa. Le grida del postiglione, lo schioccare della frusta non cessavano di stimolare i cavalli, e s’udivano i ferri battere il suolo aspro e pietroso d’una regione non più pianeggiante. Colline rivestite di boschi grigiastri restringevano l’orizzonte. Un paio di volte i prigionieri udirono il suono di uno zufolo. Erano giovani pastori che modulavano rustiche ariette, pascolando greggi di pecore nere: ma anche questa era un’indicazione troppo vaga per consentir loro di orizzontarsi”(Verne, cit. p. 98).
Ma la descrizione di Verne è più viva e coinvolgente, ricca di suoni, voci, rumori, che lo scrittore riesce efficacemente a trasfondere nel narrato dando così al lettore la possibilità di immedesimarsi pienamente nella storia. E percorrendo le strade della penisola, al viaggiatore odierno può ancora succedere di ritrovarsi protagonista casuale in un simile scenario: non è infatti raro scorgere dalla strada greggi di pecore custodite da pastori e paesaggi molto rassomiglianti a quelli descritti dai due autori, anzi, per quello dopo Visinada, perfettamente corrispondente al reale. È questo, infatti, un tratto in cui la strada, seguendo il versante collinare, si inerpica con frequenti tornanti in un ambiente che però muta frequentemente aspetto volgendo, entro brevi tratti, da zone pianeggianti e coltivate ad altre più impervie, aride o boscose. Ma tutto il territorio tra Buie e Visinada è caratterizzato da questo aspetto mosso e irregolare, costituito da vallate e colli sulla cui cima è ravvisabile la caratteristica silhouette di case raggruppate intorno alla slanciata figura del campanile; è il caso, a est, di Piemonte (Završje), Montona, Portole, e, a nord di Buie, Momiano, Pugnano, S. Mauro di Momiano e altri centri abitati più piccoli dove le incombenze della vita quotidiana sono rimaste quasi come quelle di un tempo, provocando nel visitatore la piacevole illusione di un momentaneo ritorno ad un passato idilliaco, agreste e fiabesco. Scrive l’Alberi a proposito di S. Mauro di Momiano: “(…) è un bel paese rurale dove le case sono tutte in pietra naturale, le stalle ancora ricoperte con lastre di pietra, tanti ulivi, lauri e “fiori di maggio”. Le galline circolano liberamente per le stradine come pedoni indaffarati. La bella chiesa con l’alto campanile cuspidato, posto alla destra della facciata, è situata sul poggio in posizione dominante dal quale si ammira tutto il vallone di Pirano, le saline e punta Salvore” (Alberi, cit., p. 508).
Lasciata Visinada si incontrano i villaggi di Cerclada (Crklada) e Ferenzi (Ferenci), fino ad arrivare, dopo una decina di chilometri, all’incrocio della statale Pola – Buie (l’antica via Flavia) con la provinciale Parenzo – Pisino via Caroiba (Karojba). Qui, seguendo il viaggio dei protagonisti, svoltiamo a destra prendendo la provinciale che, dopo sei chilometri in direzione est, arriva a Caroiba.
Situato a 4 chilometri da Montona e a 14 chilometri da Pisino, il piccolo borgo conobbe, in età antica, incursioni celtiche e fu successivamente sede di una colonia latina, come testimoniano rinvenimenti di lapidi e resti di muraglie romane scoperti nel territorio, in particolare nel cimitero e nella chiesetta cimiteriale di s. Andrea risalente al XV secolo. La chiesa parrocchiale, invece, costruita nel 1580 sulla base di una precedente, ha, come scrive l’Alberi, “una pianta a forma di croce, con la facciata classicheggiante, dipinta in giallo, con delle lesene ed un occhio sopra il portone,cui si accede per una breve scalinata. Alte finestre rettangolari la illuminano lateralmente. L’interno contiene tre bei altari (…). La chiesa di Caroiba eleggeva il proprio parroco, però doveva pagare un canone a titolo di risarcimento al capitolo di Montona, dal cui decanale dipendeva” (Alberi, cit. pp, 1132-1133).
La suggestiva e bellissima cittadina di Montona, per il viaggiatore che passi per Caroiba, è certamente una località da visitare, cinta dalle antiche mura ancora ben conservate della solitaria Castrum Montonae. Qui suggeriamo di visitare il bel duomo dedicato a s. Stefano Protomartire, riedificato nel 1610 su una chiesa preesistente e, come scrive l’Alberi, “probabile opera del Palladio”. La chiesa, situata al centro del castello, nella piazza di Sopra, chiamata dagli abitanti Piaza de Sora, “è tutta affrescata: sul soffitto una scena ricorda S. Stefano e S. Margherita, mentre sulle pareti sono riportate le immagini dei patroni delle chiese dipendenti da Montona. Il presbiterio, diviso dall’aula con un grande arco, contiene l’altare maggiore con le statue dei Santi Stefano e Lorenzo, opera di Francesco Bonazza, eseguiti nel 1725 con marmo bianco di Carrara. (…) Sopra l’altare maggiore una tela, raffigurante l’Ultima Cena, risale al XVII secolo ed è di scuola veneta. Un gioiello della chiesa è il piccolo altare portatile del Colleoni, di oreficeria friulana della metà del 1200 (…) Una croce astile, un calice in oro del XIV secolo, probabilmente donato alla chiesa dal Doge veneto quando il comune di Montona cedette a Venezia il suo bosco, le reliquie di S. Stefano, un anello di San Gregorio papa, candelieri, pissidi ed altri importanti e preziosi oggetti sacri completano il tesoro della chiesa” (Alberi, cit. p. 1164).
Si entra in Montona dal Torrione delle Porte nuove, costruzione rinascimentale dove è stato sistemato un lapidario contenente bassorilievi di leoni veneti, stemmi cittadini ed iscrizioni romane. Oltrepassato il torrione si entra in una bellissima piazza da dove si gode un magnifico paesaggio sul sottostante bassopianoattraversato dal fiume Quieto fino al mare che si scorge in lontananza. La piazza, un tempo chiamata Piaza de soto, interamente lastricata, ricorda molto la piazza principale di San Marino. Qui il visitatore troverà la Loggia costruita agli inizi del XIV secolo in cui si riuniva il Consiglio comunale e in cui aveva sede il podestà nel suo ufficio di amministratore della giustizia. Attraverso la Porta castellana dalla piazza di Sotto si arriva alla piazza di Sopra, già dedicata ad Andrea Antico di Montona, inventore delle note musicali a caratteri mobili, vissuto nel XVI secolo. Oltre alla chiesa, e situato di fronte ad essa, di particolare interesse è il Palazzo del Podestà e, dopo il campanile, a sinistra, la casa dei nobili Basilisco; sull’altro lato della piazza si erge il bel palazzo Polesini, del XVI secolo, oggi trasformato in albergo ed anch’esso, secondo la tradizione, opera del Palladio.
Ma molte altre sono ancora le bellezze e le attrattive della cittadina che il visitatore interessato potrà scoprire di persona, rivivendo l’emozione intensa di questo luogo carico di storia e di cultura.
Lasciati per un po’ i protagonisti dell’avventura verniana a Caroiba, dopo la visita a Montona continuiamo assieme a loro il nostro viaggio attraverso l’Istria turisticamente meno presente nell’offerta pubblicitaria – anche se ultimamente si assiste a una riscoperta della zona – ma non per questo meno affascinante di quella costiera, che attrae soprattutto nei mesi estivi un turismo di massa spesso poco interessato al patrimonio storico e artistico del territorio.
Il paesaggio da Caroiba a Pisino viene così descritto da Charles Yriarte:
“Spesso le colline sono coperte di boschetti folti e brevi, e formano delle macchie; e quando c’è un po’ di terra coltivabile sulla roccia bigia, apparisce d’una tinta rossa molto cupa. Di tanto in tanto, al ciglio della strada, una gran pietra miliare indica lo spazio percorso, ovvero è inciso sulla rupe stessa il numero delle miglia. La città di Pisino ci appare seduta all’orlo d’uno spaventoso precipizio, e pur essendo in una valle, sembra ancora sopra un’altura” (Verne, cit. p. 225).
Ci troviamo lungo il tratto che da Caroiba porta all’incrocio con la provinciale Parenzo – Pisino via Monpaderno (Baderna). Da qui, come già da Martinelli (Martineli), una frazione a pochi chilometri prima di Caroiba, e fino a Terviso (Trviž) si gode un bellissimo paesaggio collinare che si protrae fino all’Istria montana in direzione nord-est verso il Monte Maggiore (Učka) e somigliante molto, per l’alternarsi di poggi e vallate, al territorio dell’Umbria, della Toscana o delle Marche. Da Terviso, l’ultimo paese prima dell’incrocio con la provinciale per Pisino, la strada discende ripidamente fino al torrente Cipri nella valle di Vermo (Beram); all’attraente e antico villaggio si accede imboccando una strada sulla sinistra, subito dopo una larga curva al centro della valle. Vermo è nota soprattutto per la chiesetta cimiteriale del paese, chiamata Madonna delle Lastre, sulle cui pareti il visitatore può ammirare i pregevoli affreschi di Vincenzo da Castua, risalenti al XV secolo, e dedicati a motivi sacri quali l’Annunciazione, la Nascita, il Battesimo, e, in particolare, la famosa “danza macabra”: una processione in cui sono rappresentati scheletri che danzano insieme a personaggi della vita reale: un vescovo, un re, una regina, un oste, a significare l’ineluttabile transitorietà della vita umana e dell’uguaglianza di tutti di fronte alla morte. Al centro del paese invece si trova la chiesa parrocchiale dedicata a s. Martino, con interessanti affreschi di scuola veneta del XV secolo. Scendendo da Vermo, imbocchiamo nuovamente la provinciale per Pisino, da cui distiamo non più di quattro chilometri; ecco come Verne, dalla rilettura della testimonianza di Yriarte, ma avvicinandosi molto alla realtà, immaginò questo tratto di strada in prossimità di Pisino:
“Saranno state le nove antimeridiane,quando i cavalli presero un’andatura del tutto diversa. Non c’era da ingannarsi; la carrozza discendeva rapidamente, dopo aver raggiunto il sommo dell’erta. La sua velocità era considerevole e più volte furono stretti i freni per mantenerla, non senza pericolo, in carreggiata. Infatti, la strada, dopo essersi inerpicata in una regione molto impervia dominata dal Monte Maggiore, scende diagonalmente avvicinandosi a Pisino. La città si trova ad una certa altezza sopra il livello del mare, ma essendo circondata dai monti sembra adagiata in un fondo valle. Ancora prima di giungervi, si vede il campanile, che fa spicco in mezzo alle case, disposte su piani diversi in modo assai pittoresco” (Verne, cit., p. 98).
Giunto finalmente a destinazione, Yriarte ci dà un’accurata e interessante descrizione della città istriana:
“Una vecchia fortezza in buono stato di conservazione occupa il davanti, e vari grandi stabilimenti ospitalieri o militari, costruzioni tutte moderne dell’autorità austriaca, indicano un gran centro amministrativo.
Basta vedere il castello di Pisino per capire che la città ebbe le istituzioni di una baronia e fu soggetta all’autorità feudale. È il Burg in tutto il suo bel carattere, coi merli, colle fosse, i ponti levatoi, le gallerie e feritoie. Sulla facciata si vedono ancora gli stemmi sovrapposti, incastrati gli uni accanto agli altri, colla data del dominio de’ conti e de’ baroni.
Pisino è il nome italiano della città; Mitterburg n’è ancora oggi il nome tedesco” (Verne, cit. p. 226).
Verne, che fin qui segue molto da vicino le pagine del diario di viaggio di Yriarte, fornisce anch’egli una rapida descrizione della città, per continuare poi la storia affidandosi interamente all’estro fecondo della sua immaginazione. Scrive Verne:
“Pisino, capoluogo di un distretto che conta circa venticinquemila abitanti, è situata pressoché al centro della penisola istriana. Morlacchi, Slavi di varie comunità e persino zingari vi convengono in occasione di fiere, che sono molto frequentate.
Antica cittadella, la capitale dell’Istria, ha conservato il suo aspetto feudale. Non manca un castello che sovrasta costruzioni militari più moderne, ove sono insediati gli uffici amministrativi del Governo austriaco.
Appunto nel cortile del Castello si fermò la carrozza, il 9 giugno, verso le dieci del mattino, dopo un viaggio di quindici ore” (Verne, cit., pp. 98-99).
Anche al viaggiatore odierno suggeriamo un percorso di non minore durata, all’insegna dell’agiatezza e della comodità che i moderni mezzi di locomozione oggi permettono. Lasciando da parte la carrozza, percorrere questo tratto in bici, in moto o in macchina potrà diventare occasione di conoscenza delle specificità storico-artistiche delle località e dei territori via via attraversati, oppure stimolo di ulteriore approfondimento e complicità con questa terra e la sua gente.
Con l’arrivo al castello di Pisino, per i cospiratori iniziano le ore più drammatiche e incerte: imprigionati “in celle dal soffitto a volta”, il giorno successivo vengono riconosciuti colpevoli di alto tradimento contro lo Stato e condannati a morte. L’unica possibilità di salvezza per i tre amici è quella di fuggire dalla fortezza attraverso la finestra della cella: è questo il filo narrativo su cui Verne sviluppa il proseguimento del racconto, dosando abilmente elementi realistici a coinvolgenti spunti fantastico-avventurosi, portando così la storia, attraverso una ben dosata suspense, dalla fuga rocambolesca alla discesa per la scoscesa parete della voragine, all’attraversamento del torrente della foiba, fino al clou della narrazione fantastica. Proponiamo pertanto una visita all’antico Castello, la maggiore e meglio conservata opera militare medievale dell’Istria, oggi adibita a Museo etnografico e Museo civico di Pisino.
La costruzione del castello risalirebbe al IX secolo quando Berengario I re d’Italia, per proteggere l’agro parentino dalle frequenti scorrerie delle popolazioni slave, promosse la costruzione della rocca, in posizione strategica, sul ciglio della foiba di Pisino. Nel corso dei secoli il castello fu più volte restaurato e modificato; oggi esso ha una forma poligonale con un cortile interno da cui si accede alle sale: vi sono esposti oggetti, abiti e strumenti di lavoro della cultura popolare, preziose testimonianze della vita e dei costumi della popolazione di un tempo.
Non distante dal castello si trova il Duomo dedicato a s. Nicola, patrono della città. La costruzione della chiesa risale al 1266. Fu poi ricostruita ed ampliata in stile gotico tedesco nella prima metà del XV secolo. Successivamente venne nuovamente rimaneggiata fino ad assumere, nel 1730, con l’aggiunta delle due navate laterali, l’aspetto odierno. All’interno della chiesa si possono ammirare, accanto ai sette altari, l’antico presbiterio, l’abside a volta affrescata con raffigurazioni risalenti al 1460. Da visitare sono anche il convento di s. Francesco della fine del XV secolo, e la chiesa della Madonna delle Grazie, anch’essa del XV secolo, nella quale si trovano interessanti sculture e pitture di scuola veneta, tra cui un quadro di San Notburga attribuito a Cima da Conegliano.
Numerosi sono nella zona di Pisino i posti di ristoro e di alloggio ricavati da case e casolari rurali e situati in piccoli paesi che attorniano la città: Boljun, Šurani, Picupari, Vela Traba, Belci, Heki sono solo alcuni dei luoghi dove il turista odierno potrà trovare, lontano dallo stress e dal rumore della città, una natura incontaminata, tranquilla e silenziosa. Ma vediamo dalle pagine del Diario come si presentavano il Castello, la voragine e la città di Pisino al turiste di fine Ottocento:
“Pisino trae il proprio carattere dalla sua postura all’orlo della Foiba, il cui torrente si è scavato un letto formidabile, e s’inabissa in una cupa caverna, dove le sue acque scompaiono. Il disegno che ne abbiamo fatto, mostra la città sospesa al di sopra di quello scosceso precipizio; ma si può arrivare al letto del torrente da declivi, se non facili, almeno accessibili al pedone risoluto. Da un lato sorge una vecchia torre merlata, di bellissimo stile, con gallerie e feritoie, saracinesche, manganelle, tutta la rozza difesa del medio evo, e le porte ogivali a ponti levatoi; dall’altro lato si erge un muro, traforato da numerose finestre inferriate, munite alla parte inferiore di botole, che impediscono di comunicare coll’esterno, e non permettono la vista che dal basso all’alto: è la prigione della città (Verne, cit. p. 226).
Interessante la descrizione che Yriarte ci dà della modalità di trasmissione delle notizie tra i parenti o gli amici del carcerato e viceversa:
“Siccome è giorno di mercato, la maggior parte de’ carcerati, all’ora della ricreazione, applicano l’orecchio contro le sbarre, e, rispondendo al loro nome, proferito da un visitatore per avvertirli ch’è lì, appiè della muraglia, danno udienza agli amici e ai parenti venuti dal villaggio nativo, i quali raccontano a voce alta tutti gl’interessi della famiglia, e s’informano degli incidenti della prigionia” (Ibid.).
O ancora, continuando, degli usi, non proprio cortesi, tra i contadini del contado:
“È una curiosa scena questo parlatorio all’aria aperta, in cui dei due interlocutori, uno solo è visibile. Domando ad un passeggero se siano malfattori, ovvero semplici delinquenti. Baruffa, mi risponde; e una baruffa, dopo bevuto, trae seco le percosse, talvolta una coltellata. I contadini che ier sera cantavano a squarciagola, pare abbiano talora il sangue caldo. Bevilacqua, l’oste che mi condurrò tra poche ore a Parenzo, mi racconta che ieri, nella sua osteria, un litigante ha ucciso l’altro con una coltellata: “L’ha ucciso secco”. Visito il castello, e mi appoggio col gomito al parapetto: la vista è imponente e terribile; la voragine ha una profondità enorme ed una larghezza considerevole; da questo balcone, le case che sorgono fino all’orlo, paiono proprio sospese sull’abisso; il letto è appena melmoso; l’acqua si divide in magri rigagnoli, che lasciano a secco le rupi del fondo, e aprendosi una via nel suolo argilloso, si perde dentro un buco nero, scavato dalla corrente impetuosa; è una grotta, una caverna, un imbuto misterioso, dove il torrente scompare. In certe stagioni, l’immenso buco, - il buso, come qui dicesi con voce del dialetto veneto, - si riempie a un tratto, e le onde fangose ne bagnano le pareti fin al punto dove si vedono le liane dondolare al di sopra della voragine” (Ibid. pp. 226-227).
Ed ecco come, dalla lettura di quelle pagine, Verne immagina il castello e la voragine sul cui ciglio esso si erge:
“Il castello di Pisino è uno dei più curiosi esempi di quelle formidabili fortezze che si solevano costruire nel Medio Evo. Il suo aspetto feudale è severo ma gradevole. Nelle sue vaste sale a vôlte vorremmo incontrare i cavalieri del tempo andato e non ci stupiremmo se alle sue finestre ogivali si affacciassero castellane, vestite di stoffe damascate e con il capo coperto di berretti a punta, se arcieri e balestrieri spiassero dalle feritoie delle sue gallerie merlate, dai vani delle sue mura, presso i ponti levatoi. L’edificio è assai ben conservato, ma fra quelle splendide testimonianze del passato il Governatore con la sua uniforme austriaca, i soldati in montura moderna, i custodi e il guardaportone che non indossano più gli antichi costumi giallo-rossi, sono vere e proprie stonature.
Anche nella descrizione della voragine Verne segue molto da vicino lo scritto di Yriarte, ma la abbellisce e la arricchisce con immagini vive, espressive e fantastiche, sempre molto vicine alla reale annotazione di Yriarte:
“Essa [la voragine] sorge su uno dei lati d’uno spiazzo che delimita nettamente quella parte della città. Chi si appoggia al parapetto di quello spiazzo, vede un precipizio ampio e profondo, le cui impervie pareti, tappezzate di fogliame intricato, scendono a picco. Nessuna sporgenza in quella muraglia. Non un gradino per salire o per discendere. Non una cengia per sostare. Nessun punto d’appoggio. Soltanto scanalature, qua e là, liscie, logorate, poco profonde che fendono le rocce. In una parola, un abisso che attira, che affascina e che non restituirebbe nulla di quanto vi si facesse piombare” (Ibid. pp. 117-118).
Il nostro viaggio reale, alla stregua di quello compiuto da Yriarte, a questo punto si interrompe, non essendo provato che il torrente che si inabissa nell’antro di Pisino sfoci, dopo un tragitto sotterraneo, nel Canale di Leme, come invece accade nell’immaginario fantastico del romanzo di Verne. Scrive Yriarte:
“Per canali misteriosi, di cui non si può seguire la traccia, il torrente prosegue il suo corso, per riapparire a distanza di parecchie leghe, ma in direzioni così opposte, da non poter riconoscere se siano le medesime acque inabissatesi sotto la città di Pisino. Il giovane conte Ensdorff, addetto alla prefettura o capitanato di Pisino, con una barchetta di piccole dimensioni ha cercato di penetrare nella caverna, per veder fin dove potesse seguire il corso del torrente; ma, a poco a poco…” (Ibid. p. 227).
Ed ecco l’eco immaginosa di Verne all’obbiettività perentoria di Yriarte:
“Quell’abisso è detto nel paese Foiba, e serve da serbatoio al soverchio delle acque del torrente. Questo torrente non ha altro sfogo se non una caverna, che si è formata a poco a poco fra le rocce, e nella quale esso precipita con furia indescrivibile. Dove va il corso d’acqua che passa sotto la città? Chi può dirlo? Ove ricompare? Anche questo è un mistero. Di quella caverna, o piuttosto di quel canale che solca lo schisto e l’argilla, non si conosce né la lunghezza, né l’altezza, né la direzione…” (Ibid., pp. 118, 121).
Dopo aver corso più volte il pericolo di perdere la vita nei turbinosi vortici del torrente sotterraneo, il conte Sandorf e Stefano Bathory escono finalmente alla luce del sole sulla costa del Canale di Leme. Suggeriamo di visitare il pittoresco porticciolo dell’insenatura prendendo la strada provinciale Pisino – Gimino (Žminj), svoltando poi all’incrocio di quest’ultimo a destra, in direzione di Canfanaro (Kanfanar), e proseguendo fino all’incrocio di Sossici (Sošići) da dove, imboccando a destra nuovamente la statale Pola - Buie, dopo cinque chilometri per una strada che scende ripida e tortuosa lungo il versante sud del vallone della Draga, si arriva al locus amenus, dove il romanziere ambienta il ritorno alla vita dei due eroi sopravvissuti. Così, mentre in Yriarte non troviamo alcun accenno al porticciolo dell’antico Limes romano, Verne ci dà una descrizione molto consona a quello che doveva essere all’epoca l’aspetto del luogo da lui immaginato, molto diverso da come oggi si mostra: un punto di richiamo turistico che registra una forte affluenza di visitatori. Nella locale pescheria si può trovare sempre del pesce fresco, seppur di allevamento; svariate specialità di pesce si possono gustare anche nei due ottimi ristoranti del luogo. Così ce lo descrive Verne:
“Lo specchio d’acqua, in cui sfocia il torrente della Foiba, non è né una laguna, né un lago, bensì un estuario. Si chiama Canale di Leme, e comunica con l’Adriatico, attraverso un angusto passaggio fra Orsera e Rovigno, sulla costa occidentale della penisola istriana. Ma allora si ignorava che le acque del torrente della Foiba finissero in quel canale. C’era sulle rive, a pochi passi un capanno di caccia…” (Ibid., p. 151).
Queste sono invece le informazioni che sull’insenatura ci dà l’Alberi nella sua non lontana visita al sito:
“Questa splendida insenatura, con sponde che scendono a picco dai 100 m degli altipiani circostanti, è un enorme solco blu che si addentra nel calcare del Cretaceo. (…) Non esiste alcun insediamento urbano nel canal di Leme salvo in fondo all’insenatura nel luogo che porta il nome Cul di Leme. Qui la vita esiste da millenni; già in epoca preistorica, per i numerosi castellieri della zona questo era il luogo di sbarco ed imbarco di merci e di derrate. (…) A Cul di Leme da secoli vi era un’osteria, già ricordata da Pietro Coppo nella sua descrizione dell’Istria del 1540, poi abbandonata nel XVII secolo e vi era anche l’antica chiesa dedicata a San Lorenzo, ricordata dal Tommasini nel XVII secolo, nei cui pressi furono trovate monete ed altri reperti antichi. (…) Fino all’ultimo conflitto, vi era un casale che portava anch’esso il nome di Leme, una stazione di polizia e due trattorie con alloggio, la chiesuola privata di Sant’Andrea e la casa dei pescatori, adibita a magazzino, chiamata Nardella. Ora due nuovi ristoranti presentano una serie di piatti a base di ostriche del vicino allevamento, un’attività quest’ultima già praticata dai Romani. Oltre alla coltura delle ostriche, è stata avviata la maricoltura con la fecondazione induttiva e relativa nutrizione con filoplancton, di ottimi branzini” (Alberi, cit., pp. 1334-1335).
Al viaggiatore giunto fino a Leme suggeriamo un’escursione in barca fino alla vicina Rovigno, città ricca di storia e di cultura, dove è ancora possibile sentire, camminando per le calli lastricate, l’antico idioma istrioto di Rovigno. Anche se quasi scomparso, tale dialetto è ancora parlato dagli anziani della popolazione italiana che nell’immediato secondo Dopoguerra decise di rimanere a Rovigno. In rovignese poi, soprattutto durante i mesi estivi, è possibile ascoltare nelle piazze della città vecchia le bitinade, ovvero i canti tradizionali che i pescatori intonavano imitando vari strumenti quando si trovavano sulla riva a rammendare le reti. Suggeriamo una visita al centro storico di Rovigno, nucleo dell’antica cittadina situata un tempo su di un isolotto chiamato mons Rubens, o, secondo il Benussi, insigne storico rovignese, mons Albanus, e che con un ponte era collegato alla terraferma.
Entrati nella città vecchia, molte sono le calli che ci portano alla sommità del monte dove si trova il duomo. La chiesa, che merita una visita, è dedicata a S. Eufemia, patrona di Rovigno, che arrivò nell’arca sulla riva dell’isolotto agli inizi del IX secolo. Il sarcofago della santa venne sistemato all’interno di una precedente chiesa paleocristiana, di dimensioni molto minori all’attuale, sulla cui base venne costruita nel 950 la chiesa dedicata ai ss. Giorgio ed Eufemia. Nel XVIII secolo, quest’ultima venne completamente riedificata ed ampliata su progetto dell’arch. Dozzi che la munì di tre navate e di tre ingressi sulla facciata, nonché di un’ampia scalinata d’accesso. Nella visita alla chiesa l’Alberi osserva: “In una cripta nella navata laterale destra, dietro l’altare, è collocato l’antico sarcofago di Sant’Eufemia in marmo greco, un’opera romana del basso medioevo (…) Nella chiesa sono custodite valide tele quali “l’ultima cena”, scuola veneziana del 1574, e “Cristo nell’orto di Getsemani”, pure scuola veneta del XVII secolo. Sul terzo altare laterale di destra, in una tela di scuola veneta del XVIII secolo, si vede “S. Francesco che riceve le stimmate”” (Alberi, cit., pp. 1518-1519).
Quasi ogni contrada della città un tempo aveva la sua propria chiesa; suggeriamo di visitare, oltre al duomo, la chiesa di s. Francesco, nell’omonimo convento, la chiesetta di Santa Croce, eretta nel 1592 sul limite della riva pietrosa sottostante il duomo, dove secondo la leggenda sarebbe approdato il sarcofago della santa, la chiesa di s. Tommaso, costruita nel 1338 dall’omonima confraternita, la chiesa di s. Benedetto del 1589, in cui la funzione veniva officiata dai frati Riformati che la domenica scendevano in piazza Riva, oggi piazza Tito, a tenere la predica.
Numerosissimi sono inoltre i siti balneari: baie, insenature, isolotti, che il visitatore può raggiungere facilmente per godere del clima mite e del mare limpido e cristallino, anche al di fuori delle usuali destinazioni del turismo tradizionale.Non mancano, poi, nei dintorni di Rovigno, piste ciclabili e sentieri grazie ai quali il visitatore può spingersi più a sud, fino alla vicina palude di Palù (Palud), oggi parco ornitologico protetto; o fino alle vicine e ancora incontaminate insenature di Cisterna, Colona e San Pol. A nord, invece, dove ha termine l’avventura dell’unico sopravvissuto del romanzo di Verne, il conte Sandorf, il territorio di Rovigno termina sulla sponda meridionale del Canale di Leme, e con le baie di Fabroso e Saline, e, ancor più a nord, con il porto di Vall’Alta e punta Sfilsa sull’imboccatura del Leme. A sud di Fibroso si trova punta Croce, ben descritta da Yriarte come la “punta del golfo”. Scrive infatti il turista francese, a proposito di Rovigno, nel suo diario:
“Rovigno è costruita sopra una rupe, e la chiesa, che ne occupa la cima, è fiancheggiata da un campanile, la cui forma è esattamente ricalcata da quello del Sansovino.
Per entrare nel porto abbiamo dovuto girare la rupe, su cui si elevano a gradinata i fabbricati; quelli della punta posano sopra un masso tagliato a picco come un muro di sostegno; e il mare, quando è in furore, deve schiumeggiare fino alle prime finestre, battendo sordamente le basi. Le case della città vecchia sorgono sull’altura, e si aggruppano intorno alla chiesa; la città austriaca si distende lungo le nuove rive, e specchia nell’acqua i suoi magazzini, le sue caserme, i suoi stabilimenti.
Esaminando il porto, vi discerniamo due ancoraggi, uno al nord, l’altro a mezzodì, e intorno a noi vediamo operarsi un movimento abbastanza grande di polacche, di tartane, di trabaccoli, di navi d’ogni fatta, che vengono a prendere l’olio prodotto ne’ dintorni.
Uscendo da Rovino, prendiamo un istante il largo, per evitare la rupe che costituisce la punta del golfo” (Verne, cit., p. 228).
CONCLUSIONE
E qui, sul bellissimo promontorio rovignese dove il conte Sandorf, a conclusione della drammatica avventura, lanciò il suo “grido d’addio che salì al cielo”, concludiamo anche il nostro viaggio. Ci eravamo proposti di guidarvi alla scoperta delle bellezze meno conosciute dell’Istria, dei luoghi meno frequentati e alternativi ai comuni circuiti turistici di massa. Speriamo di esserci riusciti almeno un po’ e ci auguriamo che, grazie a queste pagine, nel lettore sorga il desiderio di esplorare questo bel tratto d’Istria, percorso un secolo e mezzo fa da Charles Yriarte e immortalato, seppur attraverso una rielaborazione fantastica, dall’avventurosa narrazione del grande scrittore francese Jules Verne.
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http://www.viaggioadriatico.it/ViaggiADR/literary-touristic-itineraries
Fonte: https://bib.irb.hr/datoteka/610087.itinerario_istria.doc
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