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ANCHE LA GEOGRAFIA HA UNA STORIA
(MA POCHI LA CONOSCONO
PERCHE’ POCHI LA INSEGNANO)
"Ho in mente un´idea: racchiudere in un´opera
tutto il mondo materiale, tutto ciò che oggi sappiamo
delle apparizioni della volta celeste e della vita sulla Terra"
Alexander von Humboldt
Premessa. Anche la geografia ha una storia…
Osserviamo l’immagine sovrastante… E’ un quadro del pittore tedesco, dell’Ottocento, Friedrich Georg Weitsch, attualmente conservato conservato presso il Preußischer Schlösser und Gärten Berlin-Brandenburg di, Potsdam. L’interesse dell’opera, e dunque il motivo per cui l’abbiamo qui utilizzata, non è tanto di natura artistica (Weitsch non fu un grandissimo pittore, il suo stile rea piuttosto retorico e celebrativo, anche se in questo particolare quadro mette a frutto la lezione del paesaggismo naturalistico tedesco del XVX secolo che trovò la sua massima espressione nell’opera pittorica di Caspar David Friedrich) bensì per il soggetto che rappresenta. Si vede, sullo sfondo, una elevata montagna, la cui tipica forma conica ce la fa riconoscere come un vulcano. Lo scenario circostante richiama un paesaggio non europeo, più selvaggio di quello caratteristico del Vecchio Continente e a una ambientazione non europea fanno pensare anche quasi tutti gli esseri umani rappresentati. Però di forma europea sono chiaramente gli abiti indossati da uno dei due personaggi situati sul lato destro e anche il suo aspetto fisico è quello di un europeo. Egli, infatti, è il tedesco Alexander von Humboldt, il fondatore della geografia moderna, colui che Charles Darwin definì “il più grande viaggiatore-scienziato di tutti i tempi”.
Accompagnato dal medico e botanico francese Aimé Bonpland, nel 1799 von Hunboldt salpò da La Coruna a bordo della nave "Pizarro", portando con sé sestanti, quadranti, telescopi, cronometri, teodoliti, inclinometri, cianometri, igrometri, barometri e termometri, per effettuare il maggior numero di misurazioni possibili in quella terra americana verso cui era diretto. Fecero sosta a Tenerife, ove scalarono il vulcano Pico del Teide ed effettuarono alcune ricerche climatologiche. Dopo una traversata durata ventidue giorni approdarono, il 16 luglio 1799 a Cumaná in Venezuela. Da lì, si addentrarono nell’interno dell’America Meridionale, per esplorare il sistema fluviale del Rio delle Amazzoni. Il loro avventuroso viaggio durò quattro mesi e li portò ad attraversare 2.775 km di territori selvaggi e inesplorati e mostrò i legami fra il fiume Orinoco e il Rio delle Amazzoni. La ricerca delle sorgenti di tale fiume li portò poi a Lima, in Peru, ove rimasero affascinati dalla moltitudine delle specie botaniche e animali. Da lì si recarono a Cuba e poi tornarono sul continente: traversarono le Ande, recandosi in Ecuador e qui scalarono il vulcano Pichincha, 4960 metri, e cercarono di scalare il vulcano Chimborazo, 6310 metri, all’epoca considerato il monte più alto della terra. Giunsero fino a 5975 metri, poi rinunciarono per mancanza di ossigeno ma restarono a lungo i due esseri umani che erano saliti più in alto, scalando una montagna. Si recarono poi in Messico, per studiare il calendario azteco, e quindi negli USA, ove furono ricevuti con tutti gli onori dal presidente Thomas Jefferson. Infine, carichi di informazioni, di misurazioni, di appunti, tornarono in Europa. Di von Humboldt diremo ancora qualcosa, nelle pagine successive di questo nostro scritto dedicato alla storia della geografia, ma qui vorremmo chiederci: quanti dei ragazzi che frequentano la scuola italiana sanno chi sia Alexander von Humboldt, il più grande viaggiatore-scienziato del mondo, secondo Darwin (che di viaggi e di scienza si intendeva alquanto)? E perché non lo sanno (salvo che non l’abbiano appreso da un libro regalatogli dai genitori o dalla televisione, ma certamente non a scuola)? Perché nessuno, a scuola, parla loro della storia della geografia, così rendendo questa meravigliosa disciplina orfana, più difficilmente comprensibile e più noiosa di quel che meriterebbe.
Orfana, perché ai ragazzi viene illustrata come una serie di informazioni e conoscenza che non hanno mai un padre e una madre (né una data di nascita: come, appunto, se la geografia non avesse una storia, fosse una scienza paradossalmente atemporale).
Più difficilmente comprensibile perché una scienza (qualunque scienza, non soltanto la geografia) risulta arida come un elenco telefonico se a chi la va studiando viene presentata come un elenco di informazioni e acquisizioni già organizzate e preconfezionate invece che come il risultato continuamente cangiante di tentativi, ipotesi, esperimenti spesso falliti ma non perciò meno interessanti, scontri teorici tra i sostenitori di un punto di vista e quelli di un punto di vista opposto, discussioni anche accese tra quegli uomini ed quelle donne (appunto con nome e cognome) che sono coloro che hanno fatto la scienza. Insomma, non si capisce e ama davvero una scienza se non se ne coglie quella che potremmo chiamare l’intelaiatura epistemologica che le sta sottesa e l’intelaiatura epistemologica di una scienza è fatta, oltre che della sua “filosofia” (ipotesi e teorie, appunto, nonchè tentativi ed esperimenti), della sua “storia” (ovvero di ciò che, nel corso del tempo, gli scienziati hanno fatto e pensato per rispondere a domande e problemi la verità delle cui soluzioni non è, alfine, loro piovuta dal cielo).
Infine, meno divertente (e dunque meno appassionante nell’apprenderla) di quel che meriti: infatti, senza sapere quante avventurose imprese di esseri umani stiano dietro le scoperte e le verità geografiche esse appaiono necessariamente più noiose, e dunque meno appassionanti, agli occhi (alla mente e al cuore, anche) dei ragazzi. Eppure, la maggior parte dei manuali scolastici di geografia, ignorano la storia della geografia stessa ma “Geoviaggi” ha cercato di andare in un’altra direzione…
La geografia antica
Secondo Fabrizio Bartaletti autore di uno dei pochi libri di geografia che parlino anche della storia di questa disciplina, “…la prima descrizione del mondo conosciuto è la ‘Periegesi’ (in due libri: Ruropa e Asia) di Ecateo di Mileto (560-480 a.C., a commento di una sua carta della terra che integrava quella andata perdita di Anassimandro, prima rappresentazione consapevole del mondo su una carta…”(Bartaletti, 2006). Ecateo era di Mileto, ci dice Bartaletti e Mileto era (così come Efeso, ove nacquero Eraclito ed Erodoto eppoi anche Artemidoro) una colonia greca situata in Asia Minore, crocevia di sapienza non soltanto greca ma anche orientale e non a caso luogo ove sono nate contemporaneamente la geografia, la storia, la filosofia (di Mileto erano anche Talete, che della filosofia è considerato il più antico padre, e Anassimene e Anassimandro, che, come ci ricorda Bartaletti, fu non soltanto il filosofo dell’”apeiron” e lo scienziato che inventò lo “gnomone” ma anche il primo geografo a disegnare una carta della Terra: “…è probabile – afferma di lui Leon Robin nella sua magistrale “Storia del pensiero greco” – che egli abbia avuto per primo l’idea di una carta della terra…e quel che interessa la storia del pensiero è…il suo sforzo per costruire una rappresentazione sistematica del mondo…”, Robin, 1951). Insomma, la geografia nacque grande, a stretto contatto con la storia e la filosofia, a cavallo tra l’Occidente e l’Oriente. Conviene farlo sapere ai ragazzi, nel loro apprestarsi a studiare questa meravigliosa disciplina. Erodoto la arricchì con le tante storie scoperte durate i suoi viaggi in Egitto, Libia, Persia, Scizia e Artemidoro, alla fine del II secolo prima di Cristo fu autore di una monumentale Geografia in undici libri che contiene, tra l’altro, la prima descrizione della penisola iberica.
Ricostruzione moderna dell’Atlante di Anassimandro
La prima, grande sintesi delle conoscenze geografiche del mondo antico fu la “Geografia”, in tre libri, di Eratostene di Cirene (276-194 a.C.) che faceva il bibliotecario nella celeberrima, immensa biblioteca di Alessandria, a lungo, finchè non fu distrutta da un incendio, il vero tempio di tutto il sapere antico. Eratostene fu anche il primo a calcolare, con sorprendente esattezza, la lunghezza dell’equatore (secondo lui era di 39.690 Km: oggi sappiamo che è di 40.009 Km). Una seconda grande sintesi fu, in epoca già dominata dalla potenza romana, quella di Strabone (58 a.C./25 d.C.) che era greco ma, ammirando la romanità, si trasferì a Roma e qui si dedicò a scrivere i suoi diciassette “Gheographika Biblia”, che descrivevano l’Europa, l’Asia, l’Africa e, più particolareggiatamente, l’Italia.
Strabone in un’incisione del XVII secolo:
il globo che tiene in mano raffigura
i continenti di cui egli trattò
A Strabome si rifece poi Pomponio, il cui “De situ orbis” (noto anche come “Chorographia”) è un manuale scolastico, di carattere compilatorio, peraltro assai ben fatto e molto preciso, soprattutto nel descrivere il Mediterraneo e le sue coste. Anche geografo, oltre che naturalista (ma, al’epoca, le due cose erano spesso affiancate) fu poi Plinio il vecchio, autore di una monumentale “Naturalis Historia” che era anche un vero e proprio trattato geografico (egli, come si sa, morì nel 70 d.C. sommerso dalla lava uscita dal Vesuvio, in quanto, per studiare i caratteri di un’eruzione vulcanica, si era ad essa troppo avvicinato). L’ultimo grande geografo dell’Antichità fu Claudio Tolomeo (100-179 d.C.), astronomo (a lui si deve il cosiddetto “sistema tolemaico”, eliocentrico, che restò un punto di riferimento basilare per la cultura occidentale fino alla rivoluzione copernicana e galileiana) e geografo (pubblicò una “Geografia” consistente soltanto di carte: valutò assai più piccoli di quel che fossero in realtà gli oceani, così inducendo sia colombo che Magellano a ritenere assai più breve di quanto pii non risultasse davvero la loro navigazione verso le “Indie”). Ispirandosi a Ipparco di Nicea, un Greco vissuto due secoli prima di Cristo, approntò il metodo delle proiezioni coniche, che cercava di suddividere la superficie terrestre in paralleli e meridiani, così avviando quella ricerca sulla definizione della latitudine e della longitudine che durerà molti secoli (la questione della longitudine sarà risolta soltanto nel XVIII secolo) in quanto essenziale al viaggiare e all’esplorare, oltre che al commerciare e conquistare, della civiltà occidentale nel mondo.
La geografia medievale
Col termine Medioevo si indica tradizionalmente un periodo durato oltre mille anni, se si accetta come data iniziale quella della caduta dell’Impero Romano di Occidente (476 d. C.) e come data finale quella della scoperta dell’America (1492). Si tende anche a dare, di tale “evo”, un’immagine negativa, come d’un’era di regresso culturale, di oscurantismo religioso, di arresto e stagnazione del progresso umano. E’ però chiaro che, in mille anni, cambiano molte cose e quindi dare di questo lunghissimo periodo storico un’immagine omogenea conduce necessariamente a fornire chiavi interpretative, anche a livello scolastico, assai stereotipate. Certamente, l’Alto Medioevo, nei secoli immediatamente seguenti al crollo del potere imperiale di Roma, precipitò l’Europa in un’epoca di drammatica stasi culturale, di ritorno dell’analfabetismo diffuso (mentre il cittadino romano, anche il semplice “miles”, sapeva leggere e scrivere) e dunque anche di caduta complessiva delle conoscenze geografiche. Come scrive Bartaletti: “Nell’Alto Medioevo si assiste a un generale regresso delle conoscenze geografiche e cartografiche, che porta a dimenticare la stessa geografia di Tolomeo e a perdere la conoscenza di arcipelaghi precedentemente noti come le Canarie, che saranno riscoperte nel 1336 da Niccoloso da Recco e Lancelotto Malocello, navigatori genovesi al servizio del Portogallo…”(Bartaletti, 2006). Peraltro, anche nel campo della geografia così come sugli altri campi del sapere e del vivere civile, il Medioevo presenta un volto bifronte: a partire dall’espansione araba, dalla riforma carolingia, dal riattivarsi di viaggi e commerci collegati alla svolta economica, religiosa e latamente culturale del XII e XIII secolo, gli scambi, i viaggi, l’innovazione cognitiva e sociale tornano fiorenti, preparando quella che poi sarà la rivoluzione umanistica e rinascimentale, che proprio nel Basso medioevo trova le proprie più profonde radici. A caratterizzare positivamente, dal punto di vista delle conoscenze geografiche, questo secondo periodo del cosiddetto Medioevo sono vari aspetti:
La Via Francigena, da Canterbury a Roma
Itinerario della prima crociata
Le rotte commerciali di Genova e Venezia
Il viaggio di Marco Polo
La “Carta Pisana”
Sulla cartografia nautica, data la sua importanza storica e scientifica, vale la pena di soffermarsi con qualche ulteriore considerazione, prima di chiudere il nostro ragionamento sulla geografia del Medioevo, dedicando la dovuta attenzione alla geografia araba. La cartografia nautica è l'insieme di conoscenze scientifiche, tecniche e artistiche finalizzate alla rappresentazione, appunto su carta, di informazioni geografiche legate alla navigazione. La totale assenza di simili carte nei secoli precedenti il XIII ha sempre suscitato molte perplessità in chi si interessa di simili cose: possibile che navigatori instancabili quali i Fenici e i Greci, eppoi i Romani, che se ne andavano in giro per mare colonizzando l’intero Mediterraneo, lo facessero senza usare carte nautiche? C’è chi ha ipotizzato un loro deperimento dovuto al fatto che tali carte fossero ritenute strumenti operativi non degni d’essere conservati e chi ha invece ipotizzato che esse esistessero eccome ma siano andate distrutte, per naufragio, incendio e altri fortunali del genere. Il mistero, comunque, resta…Tornando alla produzione di carte e portolani iniziata nel XIII secolo, va detto che l'Italia è stata la terra d’origine di tale nuova espressione del sapere geografico. Per vari motivi: per esempio, la sua posizione centrale all'interno del bacino del Mediterraneo nonché il suo essere all’epoca, grazie alle Repubbliche Marinare, all’avanguardia nell’arte del navigare (non a caso, anche quando saranno altre potenze politiche e commerciali – come la Spagna e il Portogallo - a inaugurare la nuova era delle grandi scoperte geografiche globali, molti navigatori resteranno italiani: Cristoforo Colombo, Amerigo Vespucci, Giovanni da Verrazzano e altri ancora). La più antica carta nautica giunta ai giorni nostri è la Carta Pisana, anonima e non datata ma probabilmente del XII secolo, così chiamata perché originariamente rinvenuta a Pisa (oggi è conservata alla Bibliothèque nationale de France di Parigi). La buona produzione di carte nautiche divenne, tra il XIII e il XV secolo, un’attività così preziosa che i cartografi erano corteggiati e lautamente pagati dalle diverse potenze marinare, affinché restassero a disegnare per loro e non andassero a farlo per qualche potenza concorrente (il che, peraltro, avveniva spesso: un celebre cartografo come Pietro Vesconte, per esempio, si spostò da Genova a Venezia, ove veniva pagato meglio). Una importante scuola cartografica si sviluppò ad Ancona, di cui era originario un certo Grazioso Benincasa, che fu provetto autore di almeno ventidue carte. In seguito, altra sede importante di produzione cartografica divenne Messina, soprattutto per effetto dell'immigrazione di cartografi ebrei e maiorchini.
La geografia araba
Finchè lo spostamento dell’asse della storia mondiale non finì col relegare il Mediterraneo a un mare strategicamente, sia in senso commerciale che militare, di scarso rilievo, una delle maggiori potenze economiche e culturali della storia appunto mediterranea fu quella araba, che conobbe una grande espansione soprattutto nei quattro o cinque secoli che videro l’espansione della civiltà araba fino ai confini occidentali dell’Europa (Sicilia e Spagna comprese). Il contributo arabo al sapere del tempo, anche a quello europeo, è stato notevolissimo un po’ in tutti i campi dello scibile umano: dalla filosofia alla medicina, dalla matematica alla geografia (chi volesse saperne di più può utilmente consultare il bel libro di Ahmed Djabbar “Storia della scienza araba”, Djabbar, 2002). Un grande geografo arabo fu, nel X secolo, Ibn Hawqal, nato a Bagdad, che fu anche mercante e viaggiatore oltre che uomo di scienza. Fece il commerciante nella sua città ma una grave perdita patrimoniale lo indusse nel 943 a mettersi in giro per tutte le terre dell’Islam (Sicilia compresa, ove soggiornò nel 973 e sulla quale lasciò scritti ancor oggi suggestivi: “Isola…lunga sette giornate [di cammino], larga quattro giornate; montuosa, irta di rocche e di castella, abitata e coltivata per ogni luogo. Essa non ha altra città famosa e popolosa che…Palermo, capitale dell'isola. Sta [proprio] sulla spiaggia, nella costiera settentrionale…. “). Tornato nella natia Bagdad nel 976, raccolse tutte le memorie del suo lungo e attento girovagare in un’opera intitolata “Libro delle vie e dei reami”.
Mappa del Mediterraneo disegnata da Ibn Hawkal
Geografo e viaggiatore ancor più celebre di Ibn Hawkal (anzi, probabilmente il maggior geografo medievale di cultura islamica) fu Ibdn Idrisi Abū, nato a Ceuta (in Andalusia) nel 1099, studiò a Cordova, all’epoca centro luminoso di cultura araba e internazionale. Viaggiò in tutti i paesi del mediterraneo, stabilendosi poi in Sicilia, a Palermo, ove fu consigliere di corte del re normanno Ruggero II, il quale aveva dato vita a una civiltà siculo-normanna assai tollerante, aperta al dialogo con l’Islam, fervidamente interessata al sapere e alla cultura, anche geografica. Nel 1154 realizzò un planisfero, inciso su una lastra d'argento, purtroppo andato distrutto. Scrisse anche un famoso libro di geografia (una vera e propria enciclopedia geografica), “La gioia per chi si diletta di girare il mondo”, noto anche come “Il libro di Ruggero”, essendo stato scritto su sollecitazione del re normanno. Tale opera rappresenta un'eccezionale testimonianza della cultura geografica del XII secolo e dimostra come le conoscenze geografiche di Ibn Idrīsī fossero, per l’epoca in cui visse, davvero notevoli. Fu anche esperto di botanica e di medicina, occupandosi soprattutto della classificazione e della raccolta delle piante officinali. Morì nell’amata Palermo nel 1164.
Il mappamondo di Idrisi presente nel “Libro di Ruggero”
Altro geografo arabo di rilievo fu Al-Muqaddasi (cioè "il Gerosolimitano", essendo nato a Gerusalemme nel 945). La sua opera, scritta nel 985, s’intitola "La migliore divisione per la conoscenza delle regioni") e descrive i tanti Paesi da lui visitati nel suo instancabile peregrinare per le vie del mondo. Particolarmente suggestive sono le descrizioni della Palestina e della Sicilia, così precise e dettagliate da essere tuttora citate nelle moderne guide turistiche. Più tardo, rispetto a quello dei viaggiatori/geografi arabi fin qui rammentatai, fu il girovagare e lo scrivere di Ibn Battuta, nato in Marocco nel XIV secolo. Per trent'anni girò il mondo, avventurandosi in Africa, India, Sud-Est asiatico e Cina. Iniziò le sue peregrinazioni nel 1325, partendo da Tangeri alla volta della Mecca, dove studiò legge. Poi si recò in Kenia e nello Yemen, per dirigersi verso l'India attraversando Siria, Russia meridionale e Afghanistan, fino a giungere a Delhi. Nella città indiana fu nominato giudice dal sultano e da lui poi inviato come suo ambasciatore in Cina. Fece però naufragio e, rifugiatosi alle Maldive, vi sposò sei donne isolane, per poi ripartire per Ceylon, la Malesia, Giava, Sumatra, fino a Pechino, finalmente raggiunta. Tornato in Africa, si recò poi in Mali e nel Sahara, ove soggiornò tra i Tuareg, i nomadi del deserto. Morì infine, ormai vecchio e pago d’una vita da vero avventuriero curioso di tutto, nel suo Marocco.
I viaggi di Ibn Battura
Ibn Battuta (“il principe dei viaggiatori”, come fu chiamato: ma fu anche un grande geografo e un grande antropologo, capace di comprendere e descrivere gli usi e i costumi dei popoli dell’Africa e dell’Asia, potendosi così considerare uno dei primi “scienziati sociali”) percorse, nei trent’anni del suo vagare per il mondo, oltre 120.000 chilometri! Egli narrò, da vecchio, i suoi viaggi, con attente e vivaci descrizioni delle molte terre e dei molti popoli incontrati e conosciuti, dettando le sue memorie allo scriba Ibn Juzay. Ne nacque un meraviglioso libro conosciuto come "Rihla ", viaggio, che divenne anche il nome di un genere letterario molto apprezzato in Nord Africa tra il XII e XIV secolo, le cronache di viaggio appunto. Solo nel XIX secolo l’Europa si interessò a questo grande etnogeografo quando due studiosi tedeschi pubblicarono separatamente la traduzione di alcune parti della " Rihla ". Una bellissima traduzione integrale in lingua italiana è assai recente, col titolo “I viaggi”. Ne citiamo un passo relativo all’uso indiano di immolare le donne sul rogo del cadavere del marito (tale rito si chiama “sati”): “Per gli Indù il rogo della donna dopo la morte del marito è un atto raccomandato ma non obbligatorio. Però, se la vedova lo compie, assicura un grande onore ai membri della sua famiglia…La donna che invece non si dà alle fiamme…torna dai suoi genitori, misera e disprezzata…anche se nessuno la obbliga a salire sul rogo…”(Ibn Battuta, 2006).. Insomma, il “principe dei viaggiatori” già aveva l’intelligenza, assai moderna, di cogliere le forme di costrizione sociale – di “ideologia”, diremmo oggi - che spingono le persone a compiere gesti per loro dannosi pur non essendovi, apparentemente, costrette(di questo splendido libro si tornerà ancora a dire qualcosa, trattando, il altra parte del presente volume, di grandi libri e di grandi viaggi..
Uno piccolo, utilissimo strumento: la bussola
Amalfi: monumento a Flavio Gioia
Osserviamo l’immagine sovrastante: rappresenta il monumento, eretto nella città di Amalfi, a una persona quasi certamente mai esistita. Non è l’unico monumento al mondo, a possedere questa curiosa caratteristica: per esempio, a Bruxelles c’è il monumento a Tin Tin, l’eroe dei fumetti di Georges Remi detto Hergè, grande cartoonist belga (Tin Tin - sulle cui storie i ragazzi potrebbero, oltre che divertirsi, anche studiare geografia – nella suddetta statua è raffigurato con l’amato cagnolino, Milou, anch’esso un personaggio di fantasia) e, ancora per esempio, a New York, in Central Park, c’è il monumento ad Alice, l’eroina del viaggio nel Paese delle Meraviglie creato dalla fantasia del matematico inglese Charles Lutwidge Dogson, più noto con lo pseudonimo di Lewis Carroll (in realtà una Alice è esistita davvero, si chiamava Alice Liddell ed era una bambina cui Carroll raccontava storie da lui inventate, finendo poi con farla diventare il personaggio della sua storia più bella: ma l’Alice del monumento in Central Park è il personaggio fantastico, non la bambina vera). Però, la differenza tra questi monumenti, a personaggi inesistenti nella realtà, e quello di Amalfi sta nel fatto che la persona raffigurata nella statua di Amalfi, un tale di nome Flavio Gioia, è stato a lungo creduto storicamente reale, tanto che a lungo è stata presentata, anche dai libri di scuola italiani, come l’inventore della bussola.
Oggi sappiamo che, quasi certamente, Flavio Gioia non è mai esistito, però la bussola esiste e, se non proprio inventata (infatti uno strumento simile era già da tempo conosciuto in Cina), certamente ha fatto la sua comparsa in Europa, agli inizi del XII secolo, proprio a partire dalla repubblica marinara di Amalfi: lo storico trecentesco Flavio Biondo scrisse, in un suo libro sulle regioni d’Italia, che “…gli amalfitani si vantano che l’uso del magnete…(per navigare)…p stato scoperto ad Amalfi: che sia vero o no, è certo che questo aiuto per navigare…era del tutto sconosciuto agli antichi…” (Aczel, 2005) e l’umanista Antonio Beccatelli scrisse, in un suo libro del XV secolo, che “…la gente di Amalfi fu la prima a usare il magnete nella navigazione…” (Ibidem). Come abbiano fatto gli amalfitani a venire a conoscenza della bussola non lo sappiamo. Sicuramente non, come qualcuno pure ha ipotizzato, in quanto fatta conoscere in Occidente da Marco Polo, di ritorno dalla Cina, in quanto l’uso della bussola magnetica in Europa è citato in documenti anteriori di vari decenni il ritorno del viaggiatore veneziano. Comunque sia andata la cosa (che gli amalfitani abbiano appreso dello strumento cinese durante qualcuno dei loro viaggi in giro per il Mediterraneo o che l’abbiano, per così dire, reinventato autonomamente), una cosa è certa: sono stati i primi a farne un utilizzo come strumento di orientamento geografico (i cinesi, infatti, usavano il loro ago magnetico per gioco, non per navigare – era una forma di spettacolo: venivano lanciate casualmente delle frecce magnetizzate, come si fa con i dadi, e "magicamente" queste si allineavano verso il nord, impressionando gli spettatori – e l’uso della bussola come utensile di grande utilità sociale doveva essere loro sconosciuto, dal momento che ne “Il Milione” di Marco Polo essa non è mai ricordata). .
Possiamo dunque dire che il monumento a Flavio Gioia, se anche Flavio Gioia non è mai esistito, è giusto che sia stato eretto e si trovi ad Amalfi, perché in fondo è un monumento alla città che ha introdotto in Occidente la bussola come utilissimo strumento per viaggiare, soprattutto per mare. Il nome “bussola” viene da “bussolo” (dal latino medievale “buxus”, scatola di legno, a sua volta proveniente dal latino classico “pyxis”) e indica il piccolo contenitore, appunto di legno, in cui è racchiuso l’ago magnetico che indica, come suol dirsi, “sempre il nord”. Il suo utilizzo per navigare compare per la prima volta in uno scritto del 1187, dovuto a un monaco inglese che aveva viaggiato in Italia, ov’è molto probabile che abbia visto per la prima volta una bussola magnetica (Ibidem).
Un’antica bussola
Nella seconda metà del Duecento, l’ago magnetico è rammentato anche in una poesia di Guido Guinicellli, poeta bolognese assai amato da Dante Alighieri, che lo considera un suo maestro nel versificare in “dolce stil novo”. Guinizzeli scrisse, infatti: “In quella parte sotto tramontana/solo li monti della calamita/che dan vertude all’aire/di trar lo ferro; ma perch’è lontana/vole di simil petra aver aita/per farl’adoperare/che si dirizzo l’ago ver la stella… “ (Guinizzelli, 1986). Lo stesso Dante citerà la bussola (a testimonianza dell’interesse del suo tempo verso questa straordinaria invenzione) nel canto XII del Paradiso, laddove parla di Bonaventura di Bagnoregio, paragonando con bella metafora l’attrazione dell’anima verso l’amore divino a quello esercitato dal nord sull’ago della bussola! Il principio sul quale il piccolo ma geniale strumento si basa è noto: la Terra è un gigantesco magnete che crea attorno a sé un campo magnetico le cui linee di forza sono orientate da un polo del campo all’altro, opposto, polo del campo stesso. I due poli, nel caso della terra, sono il cosiddetto Polo Nord e il cosiddetto Polo Sud e il fatto che le linee di forza del campo magnetico terrestre vadano dall’uno all’altro fa sì che qualunque piccolo magnete esistente sulla superficie della terra (come l’ago magnetizzato della bussola) se lasciato libero di muoversi finisce con l’orientarsi sulla direzione delle linee di forza medesime e quindi verso il Polo Nord. Così, l’ago della bussola indica dove si trovi, geograficamente, il Nord! Proprio questo cominciò, a partire da quelli amalfitani, a permettere ai naviganti di orientarsi geograficamente anche quando le condizioni atmosferiche non permettevano loro di utilizzare, a tal fine, il sole o le stelle.
Il campo magnetico terrestre
“Come facevano i navigatori dell’Antichità a trovare la propria strada senza usare la bussola?”(Aczel, 2005) si chiede, all’inizio del suo bel “L’enigma della bussola. L’invenzione che ha cambiato il mondo”, il matematico americano Amir D. Aczel. Prima di conoscere e usare la bussola, i marinai navigavano basandosi sulla posizione delle stelle ed in alcuni casi con l'uso dello scandaglio. La prima tecnica non è utilizzabile quando il cielo è coperto o quando c'è nebbia (infatti generalmente non si navigava nei periodi invernali) mentre la seconda non serve quando il mare è troppo profondo. Con la bussola, invece, si cominciò a poter navigare in ogni periodo dell’anno e con assai maggior sicurezza. Tramontata la potenza di Amalfi, fu un’altra Repubblica Marinara, Venezia, a fare della bussola lo strumento decisivo per il solcare il mare, portando in patria ricchezza e permettendo di estendere il dominio veneziano sul Mediterraneo, i propri vascelli. Come scrive Aczel: “…il diario di bordo di una nave veneziana del Cinquecento registra il viaggio di ritorno da Alessandria attraverso una rotta diretta a sud e a ovest di Creta. Partita il 21 ottobre 1561, raggiunse Corfù il 7 novembre. Un viaggio del genere non sarebbe stato possibile senza la bussola. La bussola, assieme alle dettagliate mappe e a un buon libro contenete l’elenco di tutti i porti…, doveva mutare una volta per tutte lo stile della navigazione nel Mediterraneo…”(Ibidem).Però questo strumento innovativo fu, in seguito, anche quello che sancì, storicamente, la decadenza di Venezia e del Mediterraneo in genere nell’arte della navigazione e nella capacità di percorrere i mari e conoscere/dominare il mondo: grazie alla bussola infatti (oltre che al progresso della tecnologia costruttiva delle imbarcazioni, rese più attrezzate alla navigazione oceanica) a partire dal XV secolo navi europee salparono verso nuovi continenti, così dando inizio a quell’era delle grandi scoperte geografiche dalla quale, e non a caso, di fa iniziare l’evo moderno. Scrive ancora Aczel: “La bussola magnetica, assieme alle nuove carte e ai portolani, doveva aprire la via all’esplorazione degli oceani al di là del Mediterraneo. Durante l’epoca delle grandi esplorazioni, i navigatori, equipaggiati da buone bussole, innescarono una vera e propria rivoluzione del commercio. Una rivoluzione che doveva mutare per sempre il mondo…” (Ibidem). Forse egli esagera quando scrive che “Si può sostenere che la bussola sia stata la più importate invenzione dopo la ruota…” (Ibidem), però, per l’evoluzione storica dell’umanità, l’importanza del piccolo e geniale strumento inventato in Cina e reinventato, e applicato alla navigazione, ad Amalfi è stata indubbiamente grandissima.
Le grandi esplorazioni geografiche (XV-XVII secolo)
Tropo spesso sui libri, purtroppo anche su quelli scolastici, si tende a dare risposte schematiche e unilaterali alla domanda “Perchè è avvenuto un certo fatto importante nella storia del mondo?”. Che sia la rivoluzione agricola 12.000 anni fa o quella industriale due secoli fa, il crollo dell’impero romano pochi secoli dopo Cristo o quello dell’impero inglese quasi due millenni dopo Cristo medesimo, il fatto che i greci abbiano vinto i persiani a Maratona o quello che gli alleati abbiano battuto il nazifascismo (e il loro alleato asiatico: l’imperialismo nipponico) nella II guerra mondiale, la tentazione di cercare risposte schematiche e univoche alla domanda sul perché sia andata così, invece che in un altro modo, è assai tentatrice per gli studiosi e forse, ancor più ma ancor più improduttivamente dal punto di vista pedagogico, per gli insegnanti. In realtà, poiché la storia umana è cosa alquanto complessa, nulla di ciò che accade nel mondo ha una sola ragione, una sola causa, una sola origine. E’sbagliato crederlo in generale ed è sbagliato crederlo, e farlo credere ai nostri allievi a scuola, in sede educativa poiché induce ad assumere sguardi sull’evoluzione e la storia dell’umanità assai parziali, interessati a vedere soltanto ciò che serve ad avvalorare l’univoca risposta preferita, alla fin fine diseducativi in quanto orientati a far credere che c’è sempre una e una sola causa per tutto ciò che avviene. Non è mai così e non lo è infatti stato neppure per quanto riguarda il perché, nel XV secolo, a partire dall’Europa si sia avviata l’era delle grandi scoperte geografiche (che fu anche un’era di ben altre cose: per esempio, di nuova dislocazione geopolitica del potere sul mondo man mano scoperto). Come ogni grande avvenimento che abbia mutato il corso della storia, anche le gradi scoperte geografiche trovano radici in fatti socio-culturali, economico-politici, tecnologici (un bellissimo, e utilissimo, libro sul tema è “Le grandi scoperte geografiche” di J.H. Perry, Perry, 1991).
Dai diversi fatti, di diversa natura (appunto socio-culturale, economico-politica, tecnologica)m cui s’è poco sopra trattato, nacque, nella cerchia dei regnanti di Spagna e Portogallo, il desiderio di raggiungere l’Oriente, la terra della set e delle spezie e di chissà quanti altri tesori, direttamente per la via del mare. Ciò si poteva, in teoria almeno, fare in due diversi modi: circumnavigando l’Africa o, ormai nuovamente certi (com’erano stati gli antichi greci e gli antichi romani) della sfericità della Terra, cercando l’Oriente navigando verso Occidente. La prima modalità fu tentata e realizzata, per la prima volta, da Vasco de Gama, un navigatore portoghese, nel 1497. Già dal 1492, peraltro, il navigatore genovese, ma ingaggiato dai regnanti spagnoli, Cristoforo Colombo, aveva cercato di attuare la seconda modalità (in realtà, non giungendo fino alle Indie, bensì in un nuovo continente, poi denominato America, fino ad allora sconosciuto agli europei). Proprio dal viaggio di Colombo, dunque, inizieremo una seppur concisa illustrazione dei principali viaggi che caratterizzarono l’era delle grandi scoperte geografiche.
Il primo viaggio di Cristoforo Colombo
Il viaggio di Vasco de Gama
Il viaggio di Magellano: diventa tratteggiato dal luogo della sua morte
Ci siamo limitati a narrare rapidamente le imprese di tre celebri navigatori, i primi che tentarono di aprire, in due maniera radicalmente diverse (la circumnavigazione dell’Africa e la rotta “americana”), l’approdo europeo, via mare, in Asia. Molti altri grandi navigatori, tra la fine del XV e il XVI e XVII secolo, aaprirono l’Europa alla conoscenza (anche geografica) eppoi al dominio commerciale a e anche politico del mondo:
Oltre ai paesi europei sinora citati (Portogallo, Spagna, Gran Bretagna), un ruolo importante, nell’era delle grandi scoperte geografiche del mondo da parte degli europei, ebbe anche l’Olanda: non soltanto perché, a partire dal XVII secolo, divenne anch’essa una potenza colonizzatrice e commerciale nei confronti soprattutto dell’Asia (ma ci furono insediamenti olandesi anche in America: il primo nome di New York fu Nuova Amsterdam) ma anche e soprattutto perché in Olanda sorse e si sviluppò una scuola cartografica di eccezionale rilevanza, nel tradurre appunto in mappe e carte le immense scoperte geografiche del tempo. Il più celebre rappresentante di tale scuola fu il filosofo e teologo, astronomo e matematico, oltre che geografo e cartografo, fiammingo:
La mappa del mondo di Mercatore
La longitudine, i viaggi di Cook e il dominio inglese sui mari
La posizione di un qualsiasi luogo sulla superficie terrestre è definita, notoriamente, dalle sue coordinate geografiche, che consistono nella definizione/misurazione della sua latitudine e della sua longitudine. La latitudine di un luogo ha come sistema di riferimento quello dei paralleli e la longitudine quello dei meridiani. Proprio per questo la Terra è stata convenzionalmente suddivisa in meridiani e paralleli per individuare le coordinate geografiche di un punto qualsiasi situato sulla sua superficie. I paralleli si chiamano così perché sono cerchi appunto paralleli all’Equatore, che è il parallelo massimo: convenzionalmente sono 90 verso il Polo Nord e 90 verso il Polo Sud. Essi hanno lunghezza differente, a seconda della loro posizione: dall’Equatore, che è appunto il cerchio più lungo, cerchio massimo, diventano sempre più piccoli fino a ridursi a un punto (il punto zero) ai due Poli. I meridiani, invece, sono le semicirconferenze immaginarie, tutte uguali tra loro, che passano per i Poli. Attualmente il meridiano fondamentale, quello di riferimento, è quello di Greenwich (meridiano zero). Convenzionalmente, a partire dal meridiano fondamentale, si contano 180 meridiani verso Est e 180 verso Ovest, uno per ognuno dei di 360 gradi dell’intera superficie terrestre. Le coordinate geografiche di un luogo situato sulla superficie della Terra sono, come già detto, la longitudine e la latitudine. La prima indica il meridiano di riferimento. E’ la distanza angolare dal meridiano di Greenwich misurata lungo il parallelo. Si misura in gradi e frazioni di grado da 0° a 180° Est od Ovest. La latitudine indica, invece, il parallelo di riferimento. E’ la distanza angolare dall’equatore misurata lungo il meridiano in gradi e frazioni di grado da 0° a 90° Nord o Sud. Insomma, l’intera superficie terrestre è come coperta da una rete immaginaria e convenzionale di paralleli e meridiani che agiscono come sistema unitario di riferimento, contemporaneamente facente capo alla latitudine e alla longitudine. Però, non è sempre stato così, nel corso della storia.
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Ai giorni nostri, conoscere le coordinate geografiche di un certo luogo è piuttosto semplice, grazie al Global Positioning System (GPS): si tratta di un sistema satellitare che consente di conoscere rapidamente, per via tecnologica anzi elettronica, la posizione geografica di qualunque località del Pianeta. Per secoli e secoli, però, non è stato. Per una nave vagante per il mare, per esempio, è stato a lungo tutt’altro che facile comprendere quale fosse la propria posizione geografica. Ciò faceva sì che perdersi, andare alla deriva, infrangersi contro scogli vari, incagliarsi e così via, erano fatti assai frequenti, economicamente dannosi, socialmente e umanamente drammatici.
In verità, il problema della latitudine era stato efficacemente affrontato fin dall’Antichità e facilmente risolto, sia teoricamente (quale fosse il parallelo zero era stato, infatti, definito dalla natura stessa, visto che la Terra aveva, appunto naturalmente, un solo cerchio massimo, l’Equatore) che praticamente (come scrive Dava Sobel nel suo bel “Longitudine”, “…ogni marinaio un po’ avveduto può misurare la latitudine dalla lunghezza del giorno, dall’altezza del sole, dalle note stelle di riferimento sopra l’orizzonte…”, Sobel, 1996). Il problema della longitudine, invece, era di più difficile soluzione. Sostanzialmente per due motivi: il primo era l’inesistenza naturale del meridiano zero e dunque il fatto che “…l’identificazione del meridiano fondamentale era una decisone squisitamente politica…” (Ibidem). Tolomeo, per esempio, lo fece passare dalle isole Fortunate (oggi, Isole Canarie). Il secondo è che, di conseguenza, non risulta affatto semplice misurare una posizione geografica dal punto di vista della sua longitudine, essendo ciò influenzato dall’ora: “…per calcolare la longitudine un alto mare bisogna sapere non soltanto che ora è a bordo…ma anche che ora è, in quello stesso istante, nel porto di partenza o in qualunque altro posto di cui si conosca la longitudine…” (Ibidem). Per questo, in epoche nelle quali conoscere l’ora esatta del giorno era assai complicato (ma anche dopo l’invenzione degli orologi a pendolo, ingestibili a bordo d’una nave), “…in assenza di un metodo pratico per determinare la longitudine, tutti i capitani dell’era delle grandi esplorazioni, che pure disponevano di carte nautiche e di bussole attendibili, si persero in mare: Da Vasco de Gama…a sir Francis Drake, tutti, volenti o nolenti, attivarono dove arrivarono per grazia di Dio o benevolenza della fortuna…” (Ibidem). Forse anche per la loro, pur priva di misurazioni della longitudine, bravura marinara, però è certamente vero che, con l’affermarsi coloniale dell’Europa, “…a mano a mano che un numero crescete di navi partiva per esplorare o conquistare nuovi territori, per muover guerre o trasportare oro e merci da un paese all’altro, sempre più la ricchezza delle nazioni veleggiava sugli oceani…(ma)…nessuna nave possedeva un sistema sicuro per stabilire la propria posizione…” (Ibidem), Fino al XVIII secolo la ricerca di una soluzione al problema della misurazione della longitudine tolse il sonno ai naviganti, e ai politici, delle grandi potenze marittime europee.
Nel 1714, intenzionata a risolvere finalmente la questione, la Gran Bretagna approvò il Longitude Act, una legge che prometteva una ricchissima ricompensa a chi avesse trovato un metodo esatto per calcolare la longitudine di una nave vagante nel mare. La storia dei vari tentativi, da parte di innumerevoli ricercatori e studiosi, per incassare la lauta cifra del premio, non può essere qui narrata nei suoi particolari (lo fa, con rigore scientifico ed estro narrativo, il già citato libro di Dava Sobel). Basti dire che la maggioranza di quanti tentarono di offrire una soluzione accettabile dalla commissione all’uopo istituita dal governo britannico, seguì piste di tipo astronomico: per calcolare la longitudine intendevano utilizzare la posizione delle stelle fisse e una serie di correlate tavole numeriche. Pochi tentarono la via del calcolo diretto, cronografino, dell’ora e tra loro ci fu un orologiaio dello Yorkshire, John Harrison.
John Harrison
Era egli un uomo di scarsa cultura ma appassionato di meccanica e genialmente capace di applicarla al calcolo del tempo. Riuscì, dopo vari tentativi, a costruire un orologio – meccanico, appunto, non a pendolo - capace di non risentire delle variazioni di temperatura e di pressione legate ai viaggi marittimi, nonchè dei rollii e beccheggi e movimenti tumultuosi cui erano sottoposte le imbarcazioni quando il mare era in tempesta, continuando imperterrito a segnare l'ora esatta. Un orologio, insomma, capace di conservare con precisione l'ora del porto di partenza. Ciò permetteva di calcolare con grande facilità la longitudine di qualsiasi luogo: era sufficiente determinare l'ora locale e confrontarla con l'ora segnata dal cronometro di riferimento.
L’orologio di John Harrison
Essendo la lobby degli astronomi assai potente, e poco propensa a riconoscere che il risolutore del secolare problema della longitudine fosse un semplice orologiaio di campagna, lo boicottarono in tutti i modi, facendo sì che non riscuotesse il premio, del resto mai assegnato, previsto dal Longitude Act (anche se, ormai vecchio, ricevette una sorta di grosso premio di consolazione da parte del governo inglese, finalmente grato per i grandi benefici portati alla sua marina dall’invenzione di John “Longitude” Harrison). Perfezionato dal lavoro di un altro, più giovane, orologiaio, Larcum Kendall, il cronografo di Harrison divenne ben presto il compagno indispensabile e fedele d’ogni navigazione della marina inglese e ciò finì col risolvere anche l’altro problema legato al calcolo della longitudine, quello relativo al meridiano di riferimento: essendo stati gli inglesi a trovare la soluzione alla questione di come misurarla ed essendo ormai, anche per questo, essi i “padroni del mare”, furono essi stessi, alla fine accettati seppur malvolentieri anche dalle altre nazioni europee, a definire quale fosse il meridiano fondamentale, il meridiano zero: quello di Greenwich, presso Londra. Quando, a partire dal 1768, James Cook partì per esplorare le terre australi e l’Oceano Pacifico nel suo complesso, aveva con sé sulla “Resolution”, la sua nave di capitano della spedizione, un orologio di Harrison nella versione ammodernata di Kendall.
James Cook
James Cook è stato sicuramente uno dei più grandi esploratori e navigatori d’ogni tempo: di umili origini (come Harrison, del resto), dotato di grandi doti di comando ma anche di comunicazione e di osservazione della natura e degli uomini, aprì all’Occidente la conoscenza, geografica ma non soltanto geografica, del Pacifico e dell’emisfero australe, e alla gran Bretagna il reale predominio sui mari del mondo. Effettuò il suo primo viaggio tra il 1768 e il 1771, il secondo tra il 1772 e il 1775, il terzo – quello in cui andò incontro alla morte per mano degli indigeni nella baia di Kalakekua - tra il 1776 e il 1779, data appunto della sua uccisione. Egli chiamava l’orologio Harrison/Kendall che aveva a bordo “il nostro fidato amico e infallibile guida Orologio…” (Ibidem). Scrisse Cook nel suo giornale di bordo “Non renderei giustizia al signor Harrsion e al signor Kendall se non riconoscessi di aver trovatp in questo utile e valido strumento per la misurazione del tempo un validissimo aiuto…” (Ibidem).
L’orologio Kendall di James Cook
Alla fine del XVIII secolo il problema del calcolo della longitudine era alfine dimostratamente risolto, l’Oceano Pacifico era diventato grazie a Cook “mare europeo” e la potenza marittima della Gran Bretagna era al suo culmine.
I viaggi di Cook
La nascita della geografia moderna
Le grandi esplorazioni geografiche che stanno a fondamento dell’era moderna dettero un enorme impulso alla ricerca e alla riflessione geografica, tesa a risistemare in studi e libri esaurienti e innovativi rispetto al passato le tante e tutte nuove conoscenze che di tali esplorazioni furono conseguenza. Nel XVIII secolo un’opera basilare della nuova scienza geografica fu la “Geographia generalis” del tedesco Bernhardus Varenius. Egli divise la geografia in tre rami, in qualche modo tuttora praticati: a) forma e dimensioni della Terra, b) clima, stagioni e altri elementi variabili, comunque legati alla posizione geografica dei luoghi; c) studi comparativi di aree geografiche diversamente collocate sulla superficie terrestre. Nel 1625 Nathaniel Carpenter pubblicò poi il primo trattato di geografia generale in lingua inglese. L’impatto culturale delle grandi scoperte geografiche europee, legate ai viaggi per mare, rinsaldarono anche, alle soglie dell’era moderna, quel legame tra geografia e filosofia che era stato tipico dell’antica cultura greca e delle origini stesse del pensiero geografico. Nel corso del XVIII secolo, per esempio, Immanuel Kant sostenne con forza il carattere scientifico della geografia, verso cui provava grande interesse: ciò rappresentò un primo passo verso l’ingresso della geografia stessa negli insegnamenti universitari tedeschi, poiché Kant era un pensatore molto influente, una vera autoirità culturale nell’epoca sua, e il fatto che credesse nell’importanza scientifica della geografia fu un importante fattore a favore della sua futura istituzionalizzazione come disciplina legittimamente autonoma e poi anche accademica. Il pieno riconoscimento della geografia come disciplina degna di entrare come tale anche nell’Università avvenne nel secolo successivo, soprattutto grazie ai due “padri fondatori” (entrambi tedeschi: la Germania non era affatto stata una delle potenze europee che furono protagoniste dell’era della esplorazione eppoi della colonizzazione del mondo ma fu, invece, la nazione che più di tali avvenimenti seppe far tesoro in sede teorica e scientifica) della geografia moderna ossia Alexander von Humboldt e Karl Ritter.
Tra Settecento e Ottocento avevano cominciato a venire a galla, nelle impostazioni del nuovo pensiero geografico, le due questioni che poi ne caratterizzeranno l’evoluzione moderna e contemporanea: a) lo studio della differenziata morfologia naturale della superficie terrestre, b) lo studio della relazione uomo/ambiente. Von Humboldt e Ritter rappresentarono i portavoce più autorevoli, nel XIX secolo, dell’uno e dell’altro filone degli studi geografici. I due geografi erano assai diversi tra loro e non soltanto rispetto al loro rispettivo interesse per le scienze naturali e il loro rapporto con la geografia (Von Humboldt) e con l’antropologia e la storia (Ritter). L’uno, von Humboldt, era un instancabile viaggiatore mentre l’altro era piuttosto un pensatore, allievo della corrente filosofica storicistica e idealistica di Herder.
Alexander von Hunboldt
Karl Ritter
Nella seconda metà dell’Ottocento, poi, la nascita darwiniana dell’evoluzionismo e quella haeckeliana dell’ecologia andarono a rafforzare sia la componente naturalistica, humboldtiana, della geografia sia quella ambientalistica, ritteriana, di essa, orientando le scienze geografiche a una sempre maggiore integrazione tra i due diversi ma complementari punti di vista. La rivoluzione industriale, iniziata nel XVIII secolo ma nel XIX ormai largamente estesa ad altri Paesi europei, oltre alla Gran Betagna, e al Nord America stimolò una sempre più accentuata attenzione dei geografi agli aspetti economici e produttivi della vita sociale, dando avvio a quel ramo della disciplina, la geografia economica, che troverà poi nel XX secolo sviluppo e consolidamento. Ne divennero poco a poco un elemento basilare le teorie della localizzazione, tese a spiegare perché certe attività economiche (a cominciare dall’agricoltura, secondo i modelli di Von Thunen, dal nome del geografo tedesco Johann Heirich von Thunen che li elaborò). Le teorie della localizzazione si ampliarono poi, nel corso del XIX e XX secolo ben oltre i modelli relativi agli insediamenti agricoli: per esempio Alfred Weber, geografo tedesco anch’egli, elaborò una teoria tesa a spiegare il motivo della localizzazione in una certa zona invece che in un’altra delle industrie. Nel corso del XX secolo, poi, la questione si estese agli insediamenti urbani e alle decisioni relative al governo pianificato del territorio: da analisi a posteriori del perché una certa localizzazione (agricola, industriale, commerciale, urbana) ha storicamente avuto luogo, le teorie della localizzazione, appaiate alle valutazioni di impatto ambientale, sono diventate strumento previsionale e programmatorio per l’orientamento dell’evoluzione futura del territorio.
La rivoluzione industriale fu anche una rivoluzione dei trasporti, sia terrestri che marittimi: il treno e la nave a vapore offrirono ai viaggiatori, geografi compresi, innovative e assai più rapide possibilità di movimento (di cui fu adeguato e avventuroso “poema letterario” il romanzo “Il giro del mondo in 80 giorni” di Jukles Verne, uscito nel 1872: il protagonista del romanzo verniano, Phileas Fogg, e il suo maggiordomo, Passepartout, vincono alfine la scommessa di percorrere il giro del mondo, compiuto tre secoli prima dai marinai di Magellano in oltre due anni, in soli 80 giorni in quanto, a parte qualche avventurosa gita in pallone aerostatico e cose del genere, messe lì dall’autore per movimentare la trama, essi usano alternativamente treni e navi a vapore). La moderna passione per i viaggi, e per la geografia, fece sì che il XIX secolo fosse anche il secolo della fondazione delle società geografiche che sorsero negli anni Venti a Parigi, Berlino, Londra. Nel 1851 fu creata negli Stati Uniti la American Geographical Society, che fu seguita dalla National Geographic Society nel 1888. La prima conferenza geografica internazionale si svolse ad Anversa, nel 1871. Non soltanto la geografia era stata ormai riconosciuta come disciplina legittimamente scientifica e accademica, ma essa cominciò addirittura a rappresentare, nel mondo della cultura ma anche nell’immaginario collettivo, la scienza per eccellenza di un mondo avviato a diventare globale.(nel senso di sempre più “europeo”, sulla scia del dilagante colonialismo).
Le società geografiche, oltre a testimoniare del crescente interesse dei dotti ma anche della gente comune e della stampa (di quelli che oggi si direbbero i mass media) per la nuova “scienza dei viaggi”, furono soggetto propulsore di esplorazioni e studi sul campo: resta celebre la spedizione, poi diventata accesa rivalità tra i due protagonisti dell’impresa, di Richard Francis Burton e John Hanning Speke alla ricerca delle sorgenti del Nilo, sulle quali già s’era interrogato l’antico Tolomeo, descrivendole situate nelle mitiche “montagne della luna”. Nel 1856 il Ministero degli Affari Esteri britannico e la Royal Geographical Society inviarono appunto due esploratori alla ricerca delle famose ma misteriose sorgent: Richard Francis Burton, ex ufficiale dell’Esercito delle Indie, famoso per essere stato il primo europeo a raggiungere la Mecca travestito da pellegrino, per aver tradotto le “Mille e una notte” e per il carattere estremamente scontroso e difficile, e John Hanning Speke, anch’egli un ex ufficiale dell’Esercito delle Indie, dal carattere più conformista, spinto a viaggiare soprattutto dalla accesa passione per la caccia. Essi si recarono a Zanzibar e da lì, traveraando l’attuale Tanzania, giunsero nel cuore dell’Africa, laddove pochi uomini bianchi mai avevano messo piede.
Il viaggio di Burton e Speke
Al ritorno, le loro conclusioni furono diverse: per Burton il Nilo nasce dal lago Tanganika, per Speke da un lago sconosciuto situato più a nord e da lui chiamato, in onore della regina d’Inghilterra, Lago Vittoria. La contesa tra i due è accesa ma viene interrotta dalla morte drammatica (forse un incidente, forse un suicidio) di Speke. La passione per la conoscenza del continente africano, che ormai ha contagiato tutta l’Europa (e dietro alla quale ci sono anche precisi interessi colonialistici da parte delle potenze europee) induce altri esploratori a percorrere l’Africa in lungo e in largo. Ma la questione delle sorgenti del Nilo resta aperta: cercherà di risolverla un altro grande esploratore – nonché missionario – inglese, il dottor David Livingstone eppoi, con Livingston, il giornalista americano che lo ritrovò dopo che era stato dato per disperso dalla stampa mondiale, Henry Morton Stanley . Quando Livingston morì, Stanley continuò le ricerche da solo e alfine confermò con certezza che aveva ragione Speke: il Nilo nasce dal Lago Vittoria, non dal Lago Tanganika. Stanley risose anche la questione delle mitiche “montagne della luna” rammentate da Tolomeo: esistevano davvero ed erano le cime coperte di candida neve del massiccio del Ruwenzori (nella lingua indigena, “colui che fa le piogge”): le cime innevate del Ruwenzori sono quasi sempre coperte di nuvole e questo aveva impedito a tutti i precedenti esploratori di avvistare i ghiacciai del massiccio che alimentano costantemente il lago da cui sorge il più lungo fiume del mondo, il fiume sacro del “continente nero” (George, 1982). Oggi quei ghiacciai vanno sparendo, a causa del surriscaldamento globale del clima, conseguenza dell’inquinamento atmosferico e dell’accentuazione antropica, fino a limiti insostenibili, del naturale “effetto serra”. Questi, ormai, sono i drammatici problemi della geografia del nostro tempo. Di ciò si parlerà, con la dovuta rapidità, nelle pagine successive, eppoi conclusive, di questo testo.
La geografia nel XX secolo e oltre
A cavallo tra il XIX e il XX secolo si pose la ricerca geografica di Friedrich Ratzel, tedesco e continuatore dell’impostazione teorica di Ritter: egli viene considerato uno dei fondatori della geografia umana (o antropogeografia), fu autore di una importante “Geografia dell’uomo” nella quale studiava “…il ruolo dell’ambiente e della configurazione del territorio sul destino dei popoli…” (Bartaletti, 2006), così sviluppando le correnti dell’ambientalismo e del determinismo nell’ambito delle scienze geografiche. Interessato alla geografia umana, soprattutto nei suoi rapporti con la storia, più che a quella fisica fu anche il francese Paul Vidal de la Brache, però la sua teoria del possibilismo si opponeva radicalmente, seppur sullo steso terreno di sviluppo delle scienze geografiche ossia quello antropologico piuttosto che quello naturalistico, al determinismo ratzeliano. Vidal ebbe a scrivere che il compito della geografia è quello di “…studiare le espressioni cangianti che nei diversi luoghi riveste la fisionomia della Terra…” (Ibidem). Egli è considerato uno dei fondatori della classica geografia novecentesca, principalmente attenta al ruolo della presenza umana nel mondo, e dunque anche all’impatto delle attività antropiche sul territorio, ma con assoluta contrarietà verso qualunque forma di determinismo, secondo il principio per cui “la natura propone e l’uomo dispone”, non condizionato, nel disporre, da alcunché di meccanicamente e forzatamente determinato. Non casualmente fu allievo di Vidal uno dei due fondatori (l’altro fu Marc Bloch, insigne figura di storico oltre che di militante democratico: fu fucilato dai nazisti per le sue attività di resistente) di quella “nouvelle histoire” che, a partire dalla Francia e dalla rivista “Les Annales”, tanto ha saputo rinnovare, con la sua capacità interdisciplinare di dialogare sia con le scienze naturali che con quelle sociali, la ricerca storiografica del XX secolo: Lucien Febvre, autore di un capolavoro come “La Terra e l’evoluzione umana” (Febvre, 1980).
Il maggior lascito metodologico di Vidal e della sua scuola alla geografia contemporanea è l’attenzione al concetto di regione (intesa come area geografico-storica unitaria da studiare in tutti i suoi complessi e correlati aspetti: si tratta di un concetto di cui si è fatto largo uso anche in “Geoviaggi”) e a quello di genere di vita, inteso come ogetto multiforme di studio di una geografia interessata a porre come proprio campo d’indagine le interrelazioni tra contesto naturale, realtà sociale, vita quotidiana e istituzionale, insomma di tutte quante le “virtualità geografiche di una regione” (Bartaletti, 2006). In tempi più vicini ai nostri, fu ancora un francese di scuola vidaliana, Maximilien Sorre, a porre al centro della ricerca geografica, nel suo “I fondamenti della geografia umana”, un concetto che trovava le sue prime espressioni nell’opera di von Humboldt, quello di paesaggio, diventato centrale nella geografia della seconda metà del XX secolo e anche da noi ampiamente utilizzato in “Geoviaggi” (riprendendo la definizione della Convenzione europea del paesaggio, 2000, secondo la quale si intende con tale termine “…una determinata parte di territorio, così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall’azione di fattori naturali e umani e dalle loro interrelazioni…”, Ibidem).
Va detto, peraltro, che anche sul versante delle scienze naturali, e dunque della grande eredità humboldtiana, la geografia del XX secolo potò trovare occasioni fertili di dialogo con la ricerca naturalistica, sia biologica che geologica. Difficile sottovalutare, per esempio, l’impatto che anche sulla geografia, su quella fisica in particolare, ebbe la teoria della deriva dei continenti proposta nel 1910 dal geologo tedesco Alfred von Wegener: essa (Wegener, 1976), successivamente arricchita dei contributi di altri scienziati europei e americani, ha infine condotto alla costruzione di una complessiva teoria della tettonica a placche che s’è dimostrata capace di spiegare fenomeni apparentemente differenziati quali la formazione dei continenti, l’orogenesi, gli eventi sismici, eccetera eccetera, così da risultare di estremo interesse anche per gli studi geografici.
Dovendo fare qualche altro nome tra i molti che nel XX secolo hanno contribuito a rendere adulta la geografia e ad aprirla ai suoi imprevedibili sviluppi nel Terzo Millennio, vale la pena di ricordare quelli del tedesco Alfred Hettnere dell’americano Richard Hartshorne, entrambi impegnati nel definire lo specifico statuto epistemologico della disciplina geografica, da tempo in espansione culturale e sociale ma tuttora incerta nel disegnare i confini della propria specificità e autonomia appunto epistemologica.
Alfred Hettner fu autore di un opera fondamentale, in tal senso: “La geografia, la sua storia, la sua essenza, i suoi metodi”, nella quale sostenne con rigore e passione la natura di scienza della superficie terrestre e delle sue differenziazioni regionali della geografia, il cui scopo principale resta quello “…di conoscere gli spazi terrestri nella loro differenziazione…”(Ibidem). L’idea, assai moderna, di geografia promossa da Hettner era quella di una scienza sistemica, complessivamente intenta a descrivere e spiegare, piuttosto nelle sue commissioni che nel suo isolato presentarsi, tutti gli eventi naturali e sociali aventi luogo (appunto: è una questione di luogo, di localizzazione) nello spazio terrestre.
Richard Hartshorne fu autore di un’opera altrettanto fondamentale: “Prospettive sulla natura della geografia”. Nella sua concezione, la geografia è la scienza degli spazi terrestri. Suo oggetto non sono mai “…singole categorie di fenomeni ma associazioni di fenomeni che danno un certo carattere a particolari luoghi e somiglianze e differenze ai luoghi stessi…” (Ibidem). Insomma, la geografia è la scienza della differenziazione spaziale: una scienza di sintesi, insomma, che non ha un oggetto autonomo di studio ma è interessata e attenta a tutti gli oggetti studiati da altre scienze sia naturali che sociali guardandoli da un particolare, specifico punto di vista, quello spaziale appunto.
A partire da queste due fondamentali impostazioni epistemologiche, si è andata evolvendo la geografia del XX secolo, passando attraverso accentuazioni sistemiche, sociali in senso radicale e talora marxista, percettivistiche e valorizzanti la soggettività personale e collettiva. La tradizionale geografia umana si è arricchita di varie geografie per così dire “critiche”, attente a mettere in luce, e denunciare in un’ottica di promozione della democrazia e dell’equità, le differenze che tuttora attraversano, pur in un panorama di progresso tecnologico ed economico quale quello tipico del Novecento, i diversi Paesi del mondo. Si sono così andate definendo una geografia dello sviluppo (e del sottosviluppo), una della salute (e una dell’ammalarsi diffuso e del morire precoce), una dell’istruzione (e una del perdurante analfabetismo), una dell’alimentazione (e una della fame), una della condizione femminile nelle sue diseguali connotazioni sociopolitiche e così via (nel corso di “Geoviaggi” si è cercato di renderne conto) tutte miranti a mostrare come il mondo, seppur avviato a diventare un unico “villaggio globale” (per usare un’espressione coniata dal sociologo canadese Marshall Mc Luhan alla fine degli anni Sessanta, Mc Luhan, 1967), resta caratterizzato da disequità, ingiustizie, fenomeni di sfruttamento, di emarginazione, di esclusione sociale, economica, culturale. A partire dagli anni Settanta del Novecento, peraltro, i diversi metodi e campi di ricerca della geografia hanno potuto cominciare ad avvalersi di strumentazioni tecnologiche sconosciute in anche recentissimo passato: l'impiego sistematico dei computer ha avuto inizio proprio a partire dagli Anni Settanta, con la creazione da parte del governo canadese del primo Sistema Informativo Geografico (GIS). Esso, riprodotto in diversi altri Paesi del mondo, ha permesso lo scambio e l'analisi di masse di informazioni geografiche di entità e precisione inimmaginabile fino a pochissimi anni prima.
Comunque, la geografia contemporanea tende sempre di più ad essere caratterizzata, nelle sue problematiche e nei suoi interessi di ricerca, dai grandi sommovimenti del mondo globalizzato:
Com’è sempre avvenuto, ma in uno scenario di rara e contraddittoria seppur modernissima complessità, gli intenti e i metodi della geografia, scienza della descrizione della Terra, rispecchiano l’evolversi dei problemi che la Terra stessa, e i suoi abitanti (oggi diventati vari miliardi), si vanno ponendo e vanno affrontando.
Per una didattica storica della geografia. Conclusioni
Osserviamo l’immagine sovrastante: mostra un bambino che, grazie ai francobolli che sta collezionando, ha sviluppato una curiosità per la conoscenza del mondo, così da essersi procurato un mappamondo e guardarlo attentamente (studiarlo, potremmo azzardarci a dire) con una lente di ingrandimento. Una simile immagine, francobolli a parte, ci fa venire in mente una caratteristica di tutti i bambini “svegli” (in quanto, sperabilmente, risvegliati invece che addormentati dal loro ambiente familiare e scolastico): la curiosità di conoscere il mondo, immenso e affascinante ma anche misterioso e ignoto, nel quale sono capitati nascendo. Crediamo che nessun poeta abbia mai espresso tale sentimento come Charles Baudelaire, il padre indiscusso della poesia moderna, nei versi del suo componimento “Il viaggio” (Baudelaire, 1998). Rileggiamoli:
Per il fanciullo appassionato di carte e di mappe
l’universo è pari alle sue immense brame.
Com’è grande il mondo al chiarore delle lampade!
Sicuramente quasi tutti noi, coloro che hanno scritto “Geoviaggi” e coloro che l’hanno adottato a scuola (epperciò si sono poi messi a leggere questa Guida), abbiamo provato da ragazzi (o da ragazze: purtroppo l’assenza in italiano di una versione neutra del linguaggio, costringe continuamente a seppur non desiderati maschilismi lessicali) la voglia di partire, viaggiare, esplorare e conoscere il mondo così ben descritta da Baudelaire. Chiediamoci, peraltro, con franchezza: i libri che, leggendoli al chiarore delle lampade, ci hanno invogliato a farci giramondo, erano libri di scuola, insomma manuali scolastici di geografia? E’ molto improbabile seppure non necessariamente impossibile. I manuali scolastici, infatti, sono generalmente noiosi, aridi, incapaci di agire, ancor prima se non ancor più che sull’intelligenza, sull’animo, sulla passione, sul desiderio del ragazzo. D’altronde, l’appassionarsi a carte e mappe è la condizione emotiva che, poi, spinge ad appassionarsi, e ad apprendere, la disciplina geografica (sulla base di un universale principio pedagogico/didattico, che Friedrich Herbart declinò sul versante intellettivo, dicendo che senza interesse non c’è apprendimento, e don Lorenzo Milani su quello affettivo, dicendo che l’apprendimento non è separabile dall’amore). Insomma, la voglia di andare a scoprire (anche sui libri scolastici e anche a scuola, non soltanto dal vero) quanto sia grande il mondo – su questo Baudelaire è esplicito e, oltre che poeticamente, pedagogicamente lungimirante – viene soltanto al ragazzo (e alla ragazza) che sia appassionato (e appassionata) di mappe e carte. Questa, dunque, è la chiave didattica dell’interesse e dell’amore, insomma dell’apprendimento, della geografia da parte dei ragazzi.
Perché è difficile che siano libri di geografia scolastica a far sviluppare e crescere il suddetto interesse e il suddetto amore? Perché solitamente i libri scolastici (il discorso è vero ben oltre la geografia: riguarda tutte quelle discipline scientifiche dietro le quali il ragazzo non vede volti umani, avventure – sia pure soltanto intellettuali – della mente e del cuore umano, insomma verità precotte, come gli zamponi che ormai – insipidi e papposi – usa a Natale chi non ha più la voglia ricuocerli come Dio comanda) presentano la geografia come una disciplina senza storia.
Noi ci auguriamo che lo scritto, ormai avviato a concludersi, sulla storia della geografia che abbiamo inserito in questa Guida all’uso di “Geoviaggi”, abbia fatto venire la voglia, a molti lettori/educatori, di utilizzare la ricchissima e umanissima storia della geografia (bella come un poema epico, appassionante come un romanzo d’avventure, travolgente come una storia “gialla”) come chiave didattica, tra altre logicamente, per insegnare in maniera non noiosa e dunque stimolante all’apprendimento la geografia stessa. Ci piacerebbe che, così, leggere “Geoviaggi” (e studiarlo: ma non c’è studio che non si fondi su una lettura motivata e attenta) assomigliasse, per gli allievi che lo leggeranno, piuttosto alla lettura di un romanzo di avventure di viaggio, terrestri e marinare, che a un libro di scuola (quale “Geoviaggi” è, mai dimenticandolo, essendo orgoglioso d’esserlo ma cercando d’esserlo in maniera abbastanza innovativa).
Aldilà del divertimento, della voglia, della passione (che sono comunque ingredienti didattici indispensabili di qualunque apprendimento reale, convinto, durevole) c’è, dietro alla necessità di utilizzare la storia delle discipline (della geografia, nel nostro caso, ma non soltanto di essa, più in generale) come strategia didattica, tra altre val la pena di ripetere, c’è qualcosa di più cognitivamente serio, profondo, importante: c’è il fatto che una scuola moderna deve, qualunque disciplina insegni, educare il giovane a un atteggiamento, assieme metacognitivo ed etico, modernamente e dunque laicamente scientifico nei confronti del sapere, della conoscenza del mondo, delle verità scientifiche sul mondo stesso (e del “valore di verità” della scienza stessa). La scienza è opera umana, fatta di domande, ricerche, dubbi, ripensamenti, discussioni, confronti, diatribe… Dietro ogni carta geografica, ogni teorema matematico, ogni legge fisica, ogni interpretazione storica, ogni valutazione letteraria, ogni sistema filosofico, ci sono esseri umani che hanno pensato, esaminato, ipotizzato, cercato di convincere, reagito a obiezioni e talora anche a persecuzioni da parte di chi non era con loro d’accordo. Insegnare la scienza, qualunque scienza geografia compresa, come fosse un asettico elenco di verità preconfezionate apposta per distenderle lungo le pagine di quella sorta di fast-food culturale che è un libro di scuola, sarebbe come proporre ai ragazzi di mangiare un cibo laboriosamente predisposto dall’umano lavoro di un cuoco o di una cuoca lasciando loro credere che sia uscito già pronto da una macchinina dispensa-cibi a gettoni. “Geoviaggi” non intende presentare la geografia come un cibo a gettoni (anche perché esso stesso non lo è, essendo invece, come la geografia, frutto del lavoro di persone appassionate ma giustamente dubitose, coordinate tra loro ma spesso in disaccordo su questo o quel punto e comunque bisognose di discussioni e chiarimenti tra loro, amanti della scienza come umile e sempre falsificabile indagine sulla molteplicità del mondo ma non dello scientismo come presuntuosa e alquanto semplificata convinzione che il mondo sia riducibile a un elenco di verità precotte.
Insomma, insegnare la geografia anche utilizzando l’avventurosa storia della geografia medesima, insomma, serve a rendere tale insegnamento non soltanto più divertente (il che, didatticamente parlando, non è poco) ma anche più scientifico ovvero più epistemologicamente ed eticamente rigoroso.
NOTE
Fonte: https://stefanobeccastrini.files.wordpress.com/2008/11/anche-la-geografia-ha-una-storia.doc
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