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LA GLOBALIZZAZIONE. DEFINIZIONI E CONSEGUENZE.
1. Un termine « nuovo»
Il termine «globalizzazione» ha fatto bruscamente - e per certi versi brutalmente - irruzione nel nostro universo linguistico assai di recente: nel corso dell'ultimo decennio. È, si potrebbe dire, il vero - forse l'unico - «evento linguistico» degli anni Novanta.
Fino a pochi anni or sono, esso era pressoché sconosciuto. Il dizionario Webster's lo registra per la prima volta all'inizio degli anni sessanta, ma ancora senza particolari connotazioni spaziali, più come sinonimo di totalizzazione che di mondializzazione. Le Business Management Schools americane lo introducono nel linguaggio accademico nel corso degli anni Ottanta, ma ne fanno ancora un uso cauto e limitato, impiegandolo per nominare solo alcuni aspetti specifici del processo economico. Ancora all'inizio del 1994, nel catalogo della Library of Congress di Washington figuravano appena 34 volumi contenenti nel titolo la parola globalizotion. Nel 1998 erano saliti a 279, e un altro centinaio conteneva l'equivalente francese mondialisation. Oggi sono più di 500 (ma nel catalogo della Amazon raggiungono quota 897), cui si devono aggiungere 25 titoli in italiano, 65 in tedesco, più di 100 in francese, mentre in altri 7.000 titoli, nella stragrande maggioranza pubblicati nell'ultimo decennio, figura la radice global-.
Clamorosamente vincente sul piano quantitativo - ingrediente ormai irrinunciabile di ogni riflessione, o forse sarebbe meglio dire di ogni predica, sull'inevitabile ridimensionamento dello Stato sociale, sulla flessibilità del lavoro e sulla fine delle garanzie -, esso rimane, tuttavia, un concetto ancora preoccupantemente generico e impreciso. Un mot fétiche: una parola feticcio, per usare una felice espressione di Robert Boyer, uno dei principali esponenti della «scuola della regolazione» francese . O, se si preferisce, un mot chargé d'idéologie, come lo ha definito, fin dal suo apparire, Francois Chesnais , per l'implicita accettazione che esso presuppone del processo di «assolutizzazione dell'economia»; e per l'attribuzione ad esso di un carattere in se stesso «benefico e necessario», irresistibile e ingovernabile, rispetto al quale, come nel caso delle originarie religioni animistiche e tribali, l'unica chance lasciata ai soggetti sociali e agli individui è, puramente e semplicemente, quella di adattarsi («s'adapter... est le maître mot qui a maintenant valeur de slogan» ), facendo, se possibile, «sacrifici umani».
In realtà sotto quest'unico e generico termine si nascondono fenomeni e processi molteplici, di differente natura. Cosicché possiamo individuare diversi tipi di globalizzazione. O, meglio, diversi aspetti della globalizzazione. Ne indicherò almeno tre: la globalizzazione come fenomeno «spaziale»; la globalizzazione come fenomeno «culturale»; e infine la globalizzazione come fenomeno «economico» (o meglio, come insieme di fenomeni economici).
In una prima accezione del termine possiamo considerare la globalizzazione come una «rivoluzione spaziale». Cioè come una radicale trasformazione dello «spazio sociale» (dello spazio entro il quale avvengono i fatti percepiti dagli uomini come rilevanti al fine della loro condizione quotidiana); o, se si preferisce, della «percezione sociale» dello spazio (del modo in cui gli individui selezionano i fatti suscettibili di influenzare la loro vita lungo una scala di distanze). Distanze che erano brevi o brevissime in epoche pre-tecnologiche e pre-moderne (non superavano in genere il raggio della comunità di villaggio, del rapporto tra borgo e contado, entro cui si consumavano praticamente tutti gli eventi di un qualche rilievo per i loro abitanti); che sono andate crescendo con il diffondersi delle tecnologie meccaniche e in particolare con le tecnologie della «velocità» come la ferrovia, il telegrafo, l'automobile, il telefono, la radio, la televisione, ecc., estendendosi, nell'ultimo secolo, al raggio dei grandi stati-nazione (facendo delle frontiere degli stati il perimetro dello «spazio sociale» di riferimento nell'epoca, appunto, della nazionalizzazione delle masse); e che sono giunte ad abbracciare l'intero pianeta negli ultimi decenni.
Nell'ultimo ventennio, sotto la spinta di un duplice «salto tecnologico» - la «rivoluzione informatica» (computer più comunicazioni satellitari), da una parte, e la «rivoluzione dei trasporti» (containers più aerei cargo) dall'altra -, abbiamo infatti assistito a un nuovo scatto in avanti, per certi versi definitivo, di questo raggio spaziale. Per effetto di quella che possiamo a giusto titolo considerare come la «Terza rivoluzione industriale» (essendo la Prima quella consumatasi nell'Inghilterra della fine del '700 con l'invenzione del telaio meccanico e della manifattura semplice, e la Seconda quella maturata nel passaggio al '900 con la grande fabbrica meccanizzata, la catena di montaggio e l'«organizzazione scientifica del lavoro»), assistiamo all'estensione dello «spazio sociale» su scala globale. Alla coincidenza dello spazio socialmente percepito come significativo per la nostra esistenza quotidiana con la superficie dell'intero pianeta.
È quanto alcuni sociologi hanno recentemente rappresentato come una forma di «compressione spaziale» (Robertson), intendendo con ciò una sorta di «rimpicciolimento» del nostro pianeta, di ravvicinamento dei punti disposti sulla sua superficie, per la più rapida accessibilità di ognuno di essi da parte di ogni altro, per i minori costi di attraversamento delle distanze, cosicché ciò che accade in un luogo finisce per influenzare le scelte e le condizioni di vita anche di chi risiede nell'emisfero opposto . E che altri hanno considerato come una forma di stretching spaziale (A. Giddens), di «stiramento» dello spazio, nel senso dell'allungamento delle reti di riferimento spaziale degli individui, delle catene di eventi e di relazioni per essi significativi su distanze appunto «globali», e che hanno qualificato con l'espressione «azione a distanza» . Un fenomeno, questo, che possiamo leggere attraverso alcuni semplici indicatori quantitativi, come i volumi dei trasporti aerei transnazionali, i loro costi (come ben sanno i geografi, le distanze non sono misurate solo in chilometri, o in ore di viaggio, ma in un mondo sempre più dominato dall'economia, anche e soprattutto dal prezzo necessario per realizzare gli spostamenti), la diffusione delle comunicazioni telefoniche e telematiche, ecc.
2. 1. I dati quantitativi del salto tecnologico
Pochi dati, quantitativi, possono dare l'idea del salto di qualità consumatosi: ancora nel 1953, poco meno di mezzo secolo fa, il traffico internazionale di merci per via aerea era di 350 milioni di tonnellate/Km (un'unità di misura della quantità di prodotti trasportati e insieme della distanza coperta); nel 1963, dieci anni più tardi, il loro numero era salito a 1 miliardo e 700 milioni; nel 1976 raggiungeva i 13 miliardi e 300 milioni e nel 1992 il traffico internazionale di merci è stato di 62 miliardi di t/Km giungendo a sfiorare nel 2000 i 100 miliardi di t/km (un volume di 280 volte superiore a quello d'origine, e per il 75% costituito da «traffico internazionale» ). Contemporaneamente il volume di merci trasportate per nave cresceva del 500% e quello dei prodotti trasportati per ferrovia del 300%. Se si tiene conto del fatto che negli anni Trenta il totale del commercio mondiale strategico (per via marittima e ferroviaria) non superava i 500 milioni di tonnellate, si ha idea del salto in valori assoluti compiuto. E anche, si può aggiungere, della fragilità delle posizioni di quegli autori - come Hirst e Thompson - che sostengono non esservi nulla di nuovo nella «mondializzazione» di fine secolo, rispetto a tendenze e realtà già presenti alla vigilia della prima guerra mondiale quando, appunto, il grado d'integrazione economica planetaria e il peso del commercio estero sarebbero stati addirittura superiori a quelli attuali .
Un discorso analogo vale, d'altra parte, per il settore-chiave delle telecomunicazioni, da cui deriva in buona misura il senso di «compressione spaziale» a livello di massa. Ancora quarant’anni fa, alla metà degli anni '60, esisteva un solo cavo telefonico transatlantico, attraverso il quale non potevano transitare più di 89 conversazioni simultaneamente tra Europa e America. E la medesima situazione si registrava sul versante del Pacifico. Oggi la rete cablata e il sistema satellitare, a livello globale, permettono di gestire circa un milione di chiamate simultaneamente attraverso l'Atlantico, e di raggiungere in pochi istanti uno qualunque del miliardo e duecento milioni di terminali distribuiti in 185 paesi. Trent'anni fa, una telefonata transatlantica di 3 minuti costava in media 18 dollari al valore di allora (che sono l'equivalente di 90 dollari al valore attuale); alla metà degli anni '90 la stessa telefonata costava da un dollaro a un dollaro e cinquanta . E il costo ha continuato a diminuire con la successiva «esplosione» delle telecomunicazioni connesse alla New Economy, fino, appunto, a mettere in crisi l'intero settore.
Ciò ci dice quanto violenta sia stata quella «compressione spaziale» di cui parlano i sociologi. Quanto ristretto, e unitario, sia diventato quello spazio planetario che appena un secolo fa appariva pressoché illimitato e sconosciuto. Quanto fortemente siano stati avvicinati i punti del nostro pianeta, fino a farli precipitare in un'unica, omogenea unità spaziale in cui ognuno può, in qualche modo, interagire con l'altro. In cui il destino di ognuno è legato, per mille fili, al destino di ogni altro. O, per dirla con Edgar Morin, in cui «non solo ogni parte del mondo fa sempre più parte del mondo, ma il mondo come un tutto è sempre più presente in ognuna delle sue parti» .
Ma la globalizzazione non è solo un fenomeno spaziale. E anche un fenomeno culturale: una «rivoluzione culturale» (o, secondo taluni, una «controrivoluzione culturale»). Un processo di più accelerata circolazione delle informazioni, delle immagini e dei valori culturali a cui si accompagna, almeno in parte, un parallelo fenomeno di uniformazione, di omogeneizzazione e di «omologazione» delle culture.
Sono difficili da dimenticare le pagine de l’ Occidentalizzazione del mondo in cui Serge Latouche descrive le vie di Algeri che si svuotano, il tardo pomeriggio, all'ora in cui la televisione trasmette la quotidiana puntata di «Dallas». Ma l'anziana pensionata che incrocio tutte le mattine davanti al giornalaio, e che ormai da tempo è preoccupata per il destino delle borse asiatiche non lancia un messaggio molto diverso. Nel «mondo finito» che è appena incominciato, quella che va finendo con grande velocità è la pluralità dei mondi. Ce lo ricorda ancora Latouche : delle 20.000 lingue parlate dagli uomini del neolitico, non ne sopravvivono più di 6.000, ma sono solo 100 quelle che si spartiscono il 95% del pianeta, e una sola comanda per tutte nel mondo degli affari. «È possibile - aggiunge Latouche - sugli altopiani della Nuova Guinea sentire uscire da un transistor l'ultimo disco di successo che va di moda a New York». O, «nel cuore della jungla del Sud-est asiatico, vedere un contadino bere una Coca Cola». O ancora «incrociare in un villaggio della savana africana una Toyota guidata da un capo locale» .
D'altra parte il 100% dei messaggi pubblicitari (la vera produzione di immaginario su scala allargata, che ha sostituito ogni altra «sacra scrittura») viene pensato e prodotto nella triade Stati Uniti - Europa - Giappone, mentre è stato autorevolmente proposto di utilizzare i prezzi praticati dalla catena McDonald per misurare comparativamente il potere d'acquisto reale delle monete.
Infine vi è la globalizzazione come fenomeno economico. O meglio, vi sono le globalizzazioni economiche, poiché, come ha dimostrato la scuola francese «della regolazione», è opportuno abbandonare la concezione «globalizzata della globalizzazione», e tentare una più precisa descrizione dei diversi - e separati - processi attraverso i quali l'economia ha «superato i propri confini», conquistando spazi e raggio d'azione inediti. Dei diversi modi e circuiti con cui le diverse componenti della sfera economica si sono «mondializzate». Una via, questa, che permette di meglio cogliere, nel loro sviluppo cronologico, i diversi meccanismi della globalizzazione (l'attivazione dei suoi molteplici «circuiti»). I quali sono per lo meno tre, corrispondenti a tre diversi tipi di «globalizzazione»:
- una globalizzazione che potremmo definire «commerciale» (o marchande) corrispondente alla mondializzazione dei mercati delle merci;
- una globalizzazione che potremmo definire «produttiva», corrispondente alla mondializzazione dei processi e dei cicli produttivi (della struttura delle imprese);
- una globalizzazione che possiamo definire «finanziaria», corrispondente alla mondializzazione del mercato dei capitali.
Esaminiamoli separatamente.
In una prima accezione il concetto di globalizzazione è stato riferito al fenomeno specifico della progressiva e tendenziale unificazione su scala mondiale dei mercati delle merci, in rapporto sia alla riduzione delle barriere protezionistiche erette dai vari stati a difesa dei propri mercati nazionali, sia al processo di uniformazione - o di «omologazione» - culturale che ha generalizzato su scala mondiale stili di vita e modelli di consumo. È in questo senso che, fin dall'inizio degli anni '80, Théodore Levitt ha parlato della «società globale» come di un'«entità unica, che vende la stessa cosa, nello stesso modo, dappertutto» . E che, grazie a ciò, offre la possibilità alle imprese che possiedono la forza e le dimensioni adeguate (alle grandi multinazionali, cioè, come la Coca Cola, la Nike, o anche, per certi versi, i gruppi automobilistici), di contare su una domanda unificata così vasta da permettere di realizzare quelle economie di scala, e quindi quei ricuperi di profittabilità, che i sempre più asfittici mercati nazionali non garantiscono più.
Le statistiche relative al commercio internazionale ci dicono che questo è costantemente cresciuto, nell'ultimo trentennio, a un ritmo di gran lunga superiore a quello della crescita del Prodotto lordo mondiale, il che significa che una parte crescente della produzione sociale di ogni paese viene consumata al di fuori dei suoi confini. E ciò è proseguito - vale la pena di sottolinearlo - anche nel periodo che va dal 1990 al 1995, quando a fronte di una dinamica pressoché stagnante della crescita mondiale (un misero 0,5% nel quinquennio), le esportazioni hanno continuato ad aumentare al ritmo elevato del 5%: si consumano sempre di più beni prodotti da altri, e si producono sempre di più beni destinati ad altri. Ad un «altro» sempre più omologo a noi nei gusti, nelle aspettative, nella sua maschera di consumatore, nella sua natura astratta di «domanda aggregata».
Naturalmente tale processo di unificazione mercantile non è né omogeneo per tutte le merci, né altrettanto radicale per tutte le aree geografiche. Vi sono, senza dubbio, alcune merci che sono divenute a tutti gli effetti «globali», come la Coca Cola, i jeans Levy's, le T-Shirt, certi tipi di occhiali, alcuni modelli di scarpe, o marche di sigarette, i cui marchi, le cui fogge o i cui colori sono a tutti gli effetti universali. Altre che si sono globalizzate solo entro limitate fasce di reddito e di consumo, come i prodotti firmati da Gucci o gli abiti di Armani. Altre ancora, come l'auto, che si sono globalizzate «come prodotto» entro mercati comunque opulenti, ma che tendono a «personalizzarsi» nei singoli modelli, richiedendo delicati aggiustamenti a particolari preferenze «locali». Nel mondo dell'omologazione sempre più estesa, le vie del mercato restano infinite. E infinitamente mutevoli quanto più aspra si fa la competizione globale tra i grandi produttori. E tuttavia, pur nell'ampia varietà degli itinerari della globalizzazione, la tendenza all'ampliamento del raggio della competizione su spazi di gran lunga più estesi di quelli dei vecchi mercati nazionali, rimane del tutto evidente.
4.1.1. Le politiche anti-protezionistiche e la caduta delle barriere doganali
Basta, d'altra parte, dare un'occhiata alla dinamica delle barriere doganali tra la fine della seconda guerra mondiale - quando una serie di accordi multilaterali, prima il Gatt, poi l'attuale Organizzazione mondiale del commercio (il Wto), hanno incominciato a promuovere il progressivo processo di liberalizzazione degli scambi e l'abbattimento delle tariffe protezionistiche - e l'inizio degli anni '90, per avere un'idea del cammino compiuto dalla logica del «libero scambio», e dell'accelerazione nella formazione di un'economia mondiale ad elevato livello di interconnessione.
Nel 1945 le tariffe medie dei paesi industrializzati sull'importazione manifatturiera si aggiravano sul 40%; alla fine degli anni '80 esse risulteranno divise per otto, non superando, in genere, il 5%. Nello stesso arco di tempo si erano create vaste aree di « libero scambio» pressoché totale su scala macro-regionale (il Mercato comune europeo, il Mercosur per l'America Latina, l'Asean per l'Asia estremo-orientale, ecc.). Dopo di allora l'abbattimento delle barriere formali o di fatto è ulteriormente avanzata, estendendosi, con il cosiddetto Uruguay Round (1994), anche ai prodotti agricoli e ad alcuni tipi di servizi. E investendo anche le misure «non-tariffarie» di protezione nazionale (quelle misure, cioè, tese a favorire indirettamente i prodotti nazionali o a sfavorire indirettamente quelli d'importazione). Ancora nel 1973 la percentuale degli scambi internazionali sul totale della produzione mondiale non superava il 15%, alla fine degli anni '80 era salita al 22% e intorno al 2000 si è avvicinata al 30%. Per alcuni prodotti-chiave, come i computer e in generale l'elettronica tale percentuale è già superiore al 50%: il che significa che «la metà della produzione mondiale di beni elettronici è oggetto di uno scambio internazionale» .
Non solo: è ormai difficile trovare una sola merce, con un qualche grado di complessità tecnologica, che non incorpori componenti provenienti da paesi diversi da quello del suo assemblaggio finale, o comunque dal paese «ufficiale» d'origine del suo marchio: «Il cittadino americano che, ad esempio, compera dalla General Motors una Pontiac Le Mans - scriveva l'ex ministro del lavoro americano della prima amministrazione Clinton, Robert Reich - si impegna inconsapevolmente in una transazione internazionale. Dei 10.000 dollari pagati alla GM, circa 3000 vanno alla Corea del Sud per montaggi e lavori eseguiti da operai generici, 1750 dollari vanno al Giappone per componenti avanzati (motori, alberi di trasmissione ed elettronica), 750 dollari alla Germania occidentale per la progettazione stilistica e tecnica, 400 dollari a Taiwan, a Singapore e ancora al Giappone per l'acquisto di piccoli componenti, 250 dollari alla Gran Bretagna per servizi pubblicitari e di marketing e circa 50 dollari all'Irlanda e alle Barbados per l'elaborazione dati» .
Vi è poi una seconda accezione del termine in ambito economico, incentrata questa volta non sulla globalizzazione commerciale, o mercantile, ma su quella produttiva. Non solo sul carattere globale del mercato, ma sul carattere globale dell'impresa.
Nel 1990, infatti, per la prima volta l'allora direttore della McKinsey & C. di Tokyo, Kenichi Ohmae ha introdotto il concetto dell'«integrazione globale» dell'impresa, e della conseguente nascita di una «nuova forma di organizzazione, organica e amebiforme [amoebalike] », la quale costituirebbe il «quinto stadio» - quello «finale» - di una lunga marcia dell'impresa verso una dimensione compiutamente internazionale o, meglio, «trans-nazionale». «Il primo stadio - spiega Ohmae - è quello caratterizzato da un'attività di export «a lunghezza di braccio» da parte di compagnie essenzialmente nazionali, che muovono verso nuovi mercati esterni stabilendo rapporti con commercianti o distributori locali. Allo stadio due, l'impresa assume in proprio queste attività di distribuzione. Poi viene lo stadio tre, in cui le società a base nazionale incominciano a farsi carico in proprio della produzione, del marketing e delle vendite in alcuni mercati esteri giudicati chiave. Allo stadio quattro, l'impresa muove verso una posizione di vero e proprio produttore « interno» su questi mercati, sostenuta da un completo «sistema» comprendente Ricerca e Sviluppo e ingegnerizzazione» . E lo stadio, appunto, delle «multinazionali», le quali replicano nel «nuovo ambiente» l'intero ciclo aziendale della madre-patria (pur mantenendo in questa il proprio «quartier generale»), ed a cui segue il «quinto stadio», quello della vera globalizzazione, in cui invece le imprese si «sciolgono» effettivamente nello spazio globale, creando non un «arcipelago» di imprese tra loro simili e comunque legate ad un centro (al «vecchio centro», dove ha sede il «Quartier generale»), ma una rete (un network) di attività sparse per il mondo e capaci di interagire orizzontalmente tra loro in modo «organico», operando cioè come un «tutto» dotato dei medesimi linguaggi, del medesimo sistema di valori, dei medesimi criteri di valutazione e capace, per questo, di localizzarsi ovunque e di adattarsi alle specificità delle diverse « localizzazioni».
È, questa, l'impresa che si «de-nazionalizza» compiutamente, assumendo un'identità qualitativamente diversa dalla precedente (ancora segnata dall'appartenenza nazionale d'origine): un'identità, appunto, «globale». A cui corrisponde un apparato tecnico strutturalmente diverso, non più concentrato territorialmente in unità organiche onnicomprensive, ma «disseminato». Disarticolato territorialmente. È quella che i tecnici chiamano la «trans-nazionalizzazione dell'impresa»: la scomposizione in uno spazio ormai compiutamente trans-nazionale della stessa «catena di produzione del valore»: di quelle diverse funzioni, cioè, quali la progettazione, l'ingegnerizzazione, il marketing, l'assemblaggio e la commercializzazione dei prodotti che nel precedente modello produttivo (che potremmo chiamare per semplicità «fordista») le imprese concentravano in un unico luogo, in uno spazio uniforme e centralizzato, saldamente ancorato al territorio. E che ora, grazie al salto tecnologico connesso all'informatica e alla telematica, possono, con una certa facilità, essere de-localizzate: posizionate cioè in punti fisicamente anche assai distanti tra loro (addirittura in Stati, o in continenti diversi) purché connessi con efficienti reti di comunicazione che garantiscano la sincronicità - anzi, la simultaneità - dei processi di lavoro.
«Grazie a Groupware, database e reti private dedicate - scriverà al proposito Ohmae in un successivo, più radicale testo -, non è più necessario collocare le strutture produttive di un'azienda vicino all'ufficio tecnico centrale. È infatti possibile trasferire le informazioni necessarie, in tempo reale, da un punto all'altro del globo. Aspetto altrettanto importante, le sofisticate macchine utensili, le assemblatrici e le macchine di inserimento di cui disponiamo oggi sono abbastanza "intelligenti" da poter essere azionate da comuni Pc o stazioni di lavoro che utilizzino il software appropriato, e non necessitano più di dispositivi di comando specifici per le singole unità. Ciò significa che oggi è possibile creare in Cina una struttura produttiva di classe mondiale per realizzare le testine dei videoregistratori, impiegando manodopera locale addestrata a utilizzare le nuove stazioni di lavoro. Per contro, sarebbe stato assolutamente impossibile dieci, o addirittura cinque anni fa trasferire attività produttive tanto impegnative, per le quali si richiede una precisione a livello di submicron, dalle mani dei qualificatissimi operai tedeschi e giapponesi a quelle dei loro omologhi meno preparati che lavorano negli Stati Uniti o nel sud est asiatico» .
4.2.1. Gli Investimenti Diretti all'Estero come indicatori della crescente globalizzazione produttiva
Per avere un'idea della dimensione di questo tipo di globalizzazione, e della sua espansione negli ultimi decenni, si pensi alla clamorosa crescita dei cosiddetti Ide, gli Investimenti Diretti all'Estero: i flussi di denaro, cioè, che le grandi imprese trans-nazionali indirizzano verso i paesi diversi da quello proprio d'origine per alimentare le proprie filiali, o per realizzare joint-ventures con produttori locali. La letteratura specializzata sottolinea la spettacolarità del fenomeno per quanto riguarda il Giappone nella sua golden age (la transizione tra gli anni '80 e gli anni ‘90), i cui investimenti diretti all'estero (in buona parte orientati verso i «distretti industriali» del sud est asiatico e della Corea del Sud) sono passati da 17 miliardi di dollari nel 1980 a ben 217 miliardi di dollari nel 1991, con un aumento superiore al 1000 per cento (del 1176 per cento, per la precisione). E ci ricorda come da tempo la produzione all'estero dei grandi gruppi automobilistici giapponesi abbia superato ampiamente il volume delle loro esportazioni.
Ma la tendenza è universale: il flusso medio degli investimenti diretti all'estero dai cinque principali paesi (Usa, Regno Unito, Germania, Francia e Giappone) alla fine degli anni '70 era di 21 miliardi di dollari all'anno; nel 1993 era passato a 126 miliardi di dollari (circa 5 volte tanto) . E nel quinquennio successivo ha continuato a crescere, anche se a ritmi meno vertiginosi, a testimonianza di un crescente interesse delle imprese a guardare oltre i propri confini nazionali d'origine. Appunto, a internazionalizzarsi. L'insieme delle worldwide cross-border acquisitions - degli investimenti attraverso i confini per acquisire attività produttive - è passato da 39 miliardi di dollari nel 1986 a 113 nel 1988, a 122 nel 1989, per attestarsi su una media vicina ai 100 miliardi di dollari nei primi anni Novanta.
4.2.2. Lo sviluppo delle Trans-National Corporations
Il Rapporto delle Nazioni Unite sugli investimenti globali (il World Investment Report del 1994), ha censito un totale di 37.000 Tnc (Trans-National Corporations: imprese, cioè, con almeno un segmento del proprio ciclo in un paese diverso da quello d'origine), le quali controllano oltre 200.000 affiliate estere sparse per il mondo. Si dirà che ciò non significa ancora molto: che può trattarsi, appunto, di tradizionali «multinazionali», del tutto simili a quelle che operavano già tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta in tutto il mondo. Ed è vero. Ma vorrà pur dire qualcosa che ancora alla fine degli anni Sessanta esse non superassero le 7.000 unità (meno di un quinto). E che la rete di Tnc censite gestisse, alla fine del secolo, un giro di vendite per più di 4.800 miliardi di dollari: una cifra da capogiro, superiore all'intero ammontare del commercio mondiale!
Ancor più significativo è il fatto che le prime 100 tra queste detengono, da sole, un capitale di 3500 miliardi di dollari (oltre 6 milioni di miliardi di vecchie lire) e controllano più di un terzo dell'intero ammontare mondiale di investimenti diretto all'estero. Circa l'80% della merce fatturata in dollari fuori dagli Stati Uniti da parte di imprese «formalmente americane» (che cioè hanno negli Stati Uniti la propria sede giuridica principale) «non consiste in esportazioni, ma in vendite tra imprese affiliate, commercio tra imprese (intrafirm trade), prodotti liberati da brevetti o venduti attraverso accordi in franchigia» . Il valore delle loro infrastrutture «globali» di produzione è calcolato nell'ordine di 2100 miliardi di dollari (circa 4 milioni di miliardi di vecchie lire).
Vi è infine un terzo circuito: la mondializzazione del mercato dei capitali o dei «mercati finanziari». Ciò che vale per il capitale industriale - pesante, concreto, ancora implicato nella propria coriacea materialità, nella durezza degli atomi -, vale a maggior ragione per il capitale finanziario, ben più volatile nella sua natura astratta di segno, di pura cifra, di bit.
Un testimone partecipante - un giornalista di Wall Street autore di un duro libro sulla finanziarizzazione dell'economia dal significativo titolo, Finanza Barbara -, ha scritto qualche anno fa: « Ogni giorno gli operatori in valute muovono mille miliardi di dollari in tutto il mondo alla velocità della luce. Sommando tutto il petrolio saudita, le auto giapponesi, il frumento americano e gli aeroplani europei e aggiungendo il resto dei prodotti che i paesi comprano e vendono tra loro, si ottiene solo una piccola parte di questi mille miliardi di dollari. Il resto viene scambiato per ricavarne un profitto immediato in un mercato che si muove a grande velocità, in cui l'espressione "a lungo termine" significa dieci minuti: un periodo in cui si possono agevolmente vincere o perdere milioni» . E nell'ultimo quinquennio i volumi sono quasi raddoppiati, mentre i tempi si sono polverizzati: si calcola che un brocker medio faccia una media di 800-1000 transazioni al giorno, con investimenti di durata oscillante fra 3 e 1 minuto.
E’ difficile quantificare a quanto ammonti, complessivamente, la massa di questa ricchezza totalmente astratta, mobile, apolide, priva di radicamento e di responsabilità territoriale, in perenne movimento lungo le filiere della rete telematica in quel «casinò mondiale» che si apre al mattino con Tokyo e si chiude alla sera con Wall Street. Alcune stime parlano di 85.000 miliardi di dollari (all'incirca 150 milioni di miliardi di vecchie lire) : una proiezione della McKinsey &C. prevede che saranno 360.000 tra poco più di vent'anni (tradotti in biglietti da 1000 dollari, una colonna alta 70.000 chilometri, ci dicono) . Certo è che essa ha, già ora, un potenziale d'urto tale che nessuno stato nazionale, nessuna banca centrale, neppure nessuna alleanza tra banche centrali, fossero anche quelle di tutti i paesi del G8, è in grado di resistervi. Di imporre una propria forma di «regolazione» coattiva. O di compensarne i movimenti.
4.3.1. Conseguenze politiche della globalizzazione finanziaria
Tutto ciò significa che oggi nessuna autorità monetaria o economica nazionale è in grado di decidere autonomamente la propria politica. Che nessuna comunità politica su base nazionale è in grado di assumere decisioni «sovrane». Come è stato efficacemente osservato, « questi mercati oggi esercitano le stesse funzioni di legittimazione normalmente associate con la cittadinanza: essi possono "votare" a favore e contro le politiche economiche dei governi; essi possono costringere i governi ad assumere determinate misure piuttosto di altre». E ancora: « Gli investitori votano con i propri piedi, muovendosi rapidamente dentro o fuori i diversi paesi, spesso con massicce quote di denaro. Anche se il loro potere è per molti aspetti diverso da quello dell'elettorato politico, essi sono emersi come una sorta di elettorato economico globale, senza confini, in cui il diritto di voto è un attributo della possibilità di registrazione del capitale» .
Questa è la prima conseguenza «politica» della globalizzazione, in particolare della globalizzazione finanziaria: la crisi del potere di regolazione degli stati nazionali. Essa consiste nella messa fuori gioco di buona parte degli attributi dello stato mediatore e regolatore dei conflitti del modello «keynesiano» novecentesco: ma anche nella progressiva decostruzione di alcuni elementi costitutivi della «sovranità» statale, così come si è venuta configurando fin dall'origine dell'età moderna. In particolare di quel doppio monopolio della fiscalità e della giurisdizione che aveva costituito, appunto, l'attributo qualificante del potere politico statale.
4.3.2. Mobilità del capitale, crisi della sovranità
In misura crescente i nuovi soggetti economici trans-nazionali, giocando proprio sull'ubiquità che li caratterizza, sul loro abitare strutturalmente uno spazio interstatale, riescono ad aggirare buona parte delle normative fiscali ed i controlli di apparati fiscali anche assai sofisticati (come per esempio quello tedesco). La Bmw, per esempio, uno dei più importanti gruppi automobilistici tedeschi (ma dovremmo dire, ormai, «apolidi») con i profitti più alti d'Europa, che ancora nel 1988 aveva versato al fisco tedesco ben 545 milioni di marchi (l'equivalente di circa 500 miliardi di vecchie lire), quattro anni più tardi, nel 1992 ne ha pagati appena 31 (solo il 6% della precedente cifra), e nell'anno successivo, «nonostante un aumento dei profitti realizzati a livello internazionale e per quanto i dividendi rimanessero invariati », ha chiesto e ottenuto dallo Stato tedesco un rimborso fiscale di 32 miliardi di marchi, attraversando poi tutti gli anni '90 su livelli assai simili. «Cerchiamo di affrontare le spese nei paesi in cui le tasse sono più alte, ovvero nel territorio nazionale» , ha dichiarato «onestamente» il direttore finanziario Volker Doppelfeld, contabilizzando per contro i profitti in uno dei tanti paradisi fiscali in cui un qualche segmento della trans-nazionale è localizzato, o comunque in un qualche paese a fisco più debole, o semplicemente in una dei tanti stati emergenti che ritengono utile per attrarre capitali praticare forme di dumping fiscale.
Crisi di controllo degli Stati nazionali sulla propria ricchezza interna; ma crisi di controllo anche, e a maggior ragione, sui flussi di ricchezza, che ormai con sempre maggiore intensità attraversano i confini dei diversi stati-nazione: «In questo ultimo decennio del XX secolo - è ancora Robert Reich a parlare -, i governi riuscirebbero a bloccare alle proprie frontiere nazionali ben poche cose oltre ai beni tangibili di peso superiore ai 150 chilogrammi. Gran parte delle conoscenze, del denaro e di molti prodotti e servizi, che le persone in nazioni diverse vogliono scambiare tra loro, sono oggi facilmente trasformabili in segnali elettronici che si muovono nell'atmosfera alla velocità della luce. Nel 1988 qualcosa come 17.000 circuiti telefonici internazionali, in abbonamento a utenti, trasferirono istantaneamente progetti tecnici, immagini video e dati tra esperti che, in continenti diversi, collaboravano per individuare e risolvere problemi e per svolgere opera di intermediazione strategica. I fili di questi reticoli globali in via di sviluppo - concludeva - sono scarsamente distinguibili e, perciò, spesso inafferrabili» .
Quali le conseguenze di questo triplice processo di mondializzazione dell'economia? Una più ampia - ed equa - redistribuzione della ricchezza a livello mondiale, come farebbe sperare l'idea di un mondo più unito e più compatto, e come promette l'ideologia neo-liberista dominante? O un mondo spazialmente più unito ma socialmente più diviso, come denunciano i critici della globalizzazione? Le cifre - i numeri - sembrano dar ragione a questa seconda posizione.
Se si analizzano i vettori e le destinazioni degli Ide, infatti, si può verificare come oltre il 60% dei loro flussi sia costantemente rimasto nel circuito chiuso della cosiddetta «Triade»: del triangolo Stati Uniti-Europa-Giappone, dove, d'altra parte, rimane saldamente localizzato oltre il 75% degli stock di capitale investito all'estero. E come quel 40% che ne fuoriesce, si distribuisca in realtà nel «resto del mondo» in forma del tutto diseguale, a «macchia di leopardo», concentrandosi in ristrette aree regionali ad alto tasso di redditività, e «disertando» il resto. È significativo che il sud est asiatico ne abbia attirati (fin che ha «tirato», appunto) ben il 19,8% (all'incirca la metà), e alcuni paesi dell'America latina (anch'essi fin che hanno goduto della fiducia degli investitori, prima delle successive crisi che li hanno in parte atterrati: Messico, Brasile, Argentina) un altro 11%, mentre all'Africa - un intero continente! - non ne sia rimasto più che un misero 1,4%, e al Medio Oriente e all'Europa orientale insieme sia toccato spartirsi un sottilissimo 1,6%.
Dunque, è una promessa non mantenuta quella dell'espansione dei processi di industrializzazione dalle cittadelle dello sviluppo di prima generazione al resto del pianeta, secondo dinamiche diffusive omogenee.
Ma soprattutto una promessa non mantenuta è stata quella che ha lasciato intravedere la possibilità di una crescita generalizzata del reddito e dell'accesso a consumi opulenti da parte di quote crescenti di popolazione mondiale: l'ideale - in fondo plausibile - di una società cosmopolita di consumatori, ormai senza frontiere, capace di realizzare, su scala mondiale, quanto in pratica è avvenuto su scala nazionale tra la fine del XIX e la fine del XX secolo, quando la « questione sociale » fu affrontata, e in parte risolta, nei paesi ad alto tasso di industrializzazione, grazie a una crescita senza precedenti che ha permesso di migliorare le condizioni degli «ultimi» senza peggiorare quelle dei «primi». Secondo tutte le stime, non sta andando così. Nella prima rilevazione dell'Onu sullo «sviluppo umano», del 1990 risultava come il 20% più ricco della popolazione mondiale continuasse ad appropriarsi dell'82,7% della ricchezza del pianeta, mentre al restante 80% non ne restasse che il 17,3%: un 11,7% al «secondo quintile» (al 20% di seconda fascia), un 2,3% al terzo, un 1,9% al quarto, e soltanto un misero 1,4% al quinto quintile: a quel 20% di popolazione mondiale (che in valori assoluti ammonta, è utile ricordarlo, a più di un miliardo di individui), che si colloca al fondo della scala gerarchica di questo «mondo alla rovescia», che accumula una massa impressionante di ricchezza sulla cima, e dirada spaventosamente le risorse alla base . Il rapporto del 1999 ci dice che la percentuale dei primi è salita all'86% e quella degli ultimi è scesa all'1,0% . Una distanza, una divaricazione, va sottolineato, mai prima raggiunta: ancora negli anni '60 - all'inizio dell'epoca che avrebbe dovuto inaugurare un più intenso processo di «eguagliamento» - il 20% di popolazione mondiale più ricco possedeva una ricchezza di 30 volte superiore al 20% più povero; alla fine degli anni '80 tale rapporto era passato a 59 volte . E la forbice continua ad allargarsi.
Michel Chossudovsky, in un libro dal significativo titolo: The Globalization of Povertà, ha calcolato, sulla base di dati forniti dalla World Bank, che nel 1993 oltre tre miliardi di abitanti del pianeta (3.077.800.000, per la precisione, pari al 56% della popolazione mondiale) percepissero un reddito medio annuo pro capite inferiore ai 379 dollari (collocato su quella linea di un dollaro al giorno che traccia, ufficialmente, la soglia della povertà assoluta), e che un altro miliardo e duecento milioni di uomini (1.218.900.000) si collocassero nella fascia intermedia tra i 379 e i 951 dollari. I «mitici» clienti del mercato mondiale celebrati dalla retorica ottimistica neo-liberista - i titolari di un potere d'acquisto adeguato al prezzo dei prodotti strategici della nuova civiltà dei consumi globale: la parte di popolazione mondiale con un reddito medio annuo pro capite superiore ai 20.000 dollari - superano di poco gli 800 milioni (812.200.000, pari al 14% della popolazione mondiale). Restano un'isola di privilegio, in lenta, lentissima espansione, in un oceano di indigenza. In un mondo di labouring poors: di «poveri al lavoro», sempre più numerosi, è vero (l'ammontare complessivo della forza-lavoro mondiale è stato calcolato dalla World Bank, nell'ordine dei 2 miliardi e 400 milioni di unità all'inizio degli anni '90, contro 1 miliardo e 300 milioni della metà degli anni '60), ma proprio per questo non più facoltosi. Produttori cui resta precluso - contrariamente a quanto avvenuto in epoca fordista nelle aree dello sviluppo - di aspirare ad un contemporaneo «status» di consumatore.
Sempre secondo i dati della World Bank, più della metà di questo esercito del lavoro (all'incirca un miliardo e mezzo di uomini), vive in paesi classificati «a reddito debole», e un altro mezzo miliardo «a reddito intermedio»: nell'insieme percepiscono cioè un reddito medio pro capite annuo inferiore a 695 dollari. Solo 382 milioni di lavoratori «globali» vivono in paesi a reddito «elevato», ma sono destinati a diminuire, almeno in valori relativi: si calcola, infatti, che il 99.9% del miliardo di uomini che, nel prossimo ventennio, andrà ad ingrossare le file della forza-lavoro globale sarà concentrata nelle aree geografiche a basso reddito, dove, d'altra parte, l'industrializzazione non sembra aver indotto una parallela e univoca crescita salariale.
Ancora secondo il Rapporto della World Bank, infatti, i salari sarebbero aumentati parallelamente al processo di industrializzazione solo nell'area dell'Asia orientale e del Pacifico (dove appunto l'occupazione è aumentata del 400% tra il 1970 e il 1990 ed i salari sono cresciuti del 170%, ma dove i recentissimi crolli finanziari e industriali rivelano la sostanziale fragilità del fenomeno); mentre sarebbero rimasti stagnanti (un misero +12% nel ventennio, all'incirca uno 0,5% all'anno), o addirittura sarebbero diminuiti sia nell'America Latina che in Africa, e nella stessa Asia del sud, dove pure si è concentrato un intenso flusso di capitali .
Nello spazio unificato e compresso dalla globalizzazione economica, le diseguaglianze sociali non si attenuano: sbalzano fuori, in tutta la loro feroce intollerabilità, rese più evidenti e «fisicamente» visibili dalla prossimità: tra il reddito medio pro capite di uno svizzero – che, ci dicono le statistiche, si aggira sui 35.000 dollari all'anno - e quello di un mozambicano - accreditato per un reddito pro-capite di poco superiore ai 70 dollari -, corre una distanza di 502 volte. Ma se, uscendo dalla logica delle medie, consideriamo i redditi reali degli individui, scopriamo che tra la remunerazione di un top manager di una grande transnazionale (di quelli indicizzati sul valore delle azioni, e posizionati sull'ordine di 100 milioni di dollari) e il pugno di miseria di uno qualunque degli uomini e delle donne collocati in quell'ultimo quintile della piramide rovesciata del reddito globale (quelli, appunto, da un dollaro al giorno), si estende una distanza vertiginosa: 780.000 volte!
Né discorso diverso vale per un altro misuratore di accesso alle risorse, forse più significativo ancora del grezzo dato del reddito: l'energia. È stato calcolato che un cittadino americano medio abbia a disposizione - grazie alla «potenza» del suo sistema-paese - un potenziale di energia di circa 250.000 kilocalorie, cui può attingere per i più semplici atti della propria vita quotidiana (per spostarsi in auto o in aereo, per fare una doccia o vedere un film alla televisione, per salire in ascensore o scaldarsi un hamburger). Un francese (ma anche un italiano) ne ha a disposizione 84.000; un giapponese (popolo notoriamente più sobrio) 63.000. Ma un indiano può contare solo su 4500 kilocalorie (la venticinquesima parte di un americano); un pachistano 1700 (la centoquarantasettesima parte); un etiope 588: (la quattrocentoventicinquesima parte). Mondi sociali diversi, incomparabili, ma parte del medesimo mondo fisico. Del medesimo spazio socialmente percepito.
Questo mondo unificato dalla tecnica, è irreparabilmente diviso dall'economia. Questa umanità resa prossima a se stessa, inclusa nel medesimo sistema comunicativo e riflessivo, si scopre mortalmente separata al proprio interno: produce e riproduce i propri stranieri interni che non può più né ignorare, né riconoscere. Unire questa umanità spaccata sarà compito, fin dove può (e sembra poter sempre meno) della politica. Ed oltre, dove questa si arrende, dell'etica. E di quella che un tempo si chiamava «cultura».
Il più significativo tentativo di affrontare politicamente le nuove sfide lanciate da una parte dai processi di globalizzazione, dall'altra dal permanere di vistose diseguaglianze nella distribuzione delle risorse e delle ricchezze globali (causa, a loro volta, di gravi difficoltà e inceppi per lo sviluppo anche delle economie dei paesi più industrializzate), risale all'inizio degli anni '80 e porta la firma di un grande uomo politico europeo: Willy Brandt.
Il 12 febbraio del 1980, infatti, l'«Independent Commission for International Developmental Issues», meglio conosciuta come la «North-South Commission», presieduta dall'ex cancelliere tedesco Willy Brandt, presentò il proprio rapporto conclusivo al Segretario Generale delle Nazioni Unite a New York. Il titolo per esteso recitava: « Assicurare la sopravvivenza - Interesse comune dei paesi industrializzati e di quelli in via di sviluppo», ma il documento divenne generalmente noto come «Rapporto Brandt» (Brandt Report), e costituisce, per molti versi, l'ultimo organico tentativo di dare un risposta politica e orientata ai principi di eguaglianza e di equità, alla sfida emergente da un mondo sempre più globale. O, se si preferisce, l'ultimo tentativo, a livello mondiale, di misurarsi politicamente con le trasformazioni economiche e sociali che avrebbero dominato l'ultimo ventennio del Novecento.
La «filosofia sociale» del Rapporto si basava infatti sul concetto di «responsabilità globale» e sull'idea di una partnership planetaria per lo sviluppo comprendente sia i paesi del Nord industrializzato che quelli del Sud povero, nella convinzione che un programma dettagliato e insieme universale di superamento della povertà e della fame, capace di integrare anche i paesi del Sud in un «nuovo sistema economico mondiale», avrebbe apportato vantaggi a entrambe le aree geo-economiche. A questo fine si riteneva che una sostanziale redistribuzione delle risorse, e dunque la riduzione delle diseguaglianze abissali tra le diverse zone del pianeta, sostenuta da una significativa riduzione del debito estero per i paesi più svantaggiati, non solo avrebbe favorito la pace nel mondo, e un più equilibrato sviluppo umano, ma avrebbe anche offerto alle economie dei paesi sviluppati - ormai vicine alla saturazione dei mercati - un'occasione di espansione della domanda simile a quanto, nell'America degli anni Trenta, era accaduto con il New Deal rooseweltiano.
In questo senso il progetto della «North-South Commission» si presentava come un prolungamento su scala globale delle politiche di sviluppo keynesiane che avevano costituito il terreno sul quale la socialdemocrazia europea aveva costruito la propria egemonia culturale e sociale su scala nazionale nel periodo precedente (1945-1975): nella lunga fase di sviluppo post-bellico che i francesi chiamano «les trente glorieuses» e che Eric Hobsbawm ha definito l'«età dell'oro» del Novecento. Come tale avrebbe potuto effettivamente delineare una via d'uscita dalla crisi di sovrapproduzione (o, meglio, di «sotto-consumo») che si andava addensando su un Occidente indubbiamente ricco ma sempre meno capace di assorbire la massa crescente di prodotti che il suo apparato produttivo era in grado di gettare sul mercato. E avrebbe potuto permettere alla sinistra di affrontare con una strategia adeguata ai nuovi spazi (globali) della politica, le sfide della fase storicamente nuova che si stava aprendo.
Brandt era allora segretario dell'Spd (Partito socialdemocratico tedesco), presidente della Internazionale socialista, membro autorevole del Parlamento europeo. La responsabilità della Commissione Nord-Sud gli era stata affidata dall'allora Presidente della World Bank, Robert McNamara, influente membro dell'establishment americano. Egli aveva, d'altra parte, elaborato il «Rapporto» con la collaborazione attiva di uomini di stato e dei più noti esperti economici a livello internazionale. Esistevano dunque tutte le condizioni perché il suo programma si potesse affermare come credibile alternativa di politica economica e sociale mondiale.
Invece non fu così. Il «Rapporto Brandt» rimase un esempio «culturale» cui si ispireranno tutti i più raffinati tentativi successivi di formulare programmi di «sviluppo sostenibile» e di «Global Governance» (si pensi alla Commissione Palme sul disarmo e la sicurezza, al Rapporto della Commissione Bruntland sull'ambiente e lo sviluppo - Our Common Future, del 1987 -, all'« Agenda 21 », sboccata nel 1997 nella Sessione speciale dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite sul sustainable development). Costituì dunque un repertorio di obiettivi socio-economici e una imprescindibile «fonte di pensiero radicale sullo sviluppo». Ma non si tradusse in concrete politiche a livello nazionale o internazionale. Non definì un’alternativa politica effettiva di tipo strategico.
L'iniziativa fu invece assunta - prima in due paesi-cardine come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, poi a livello mondiale - dalla destra neo-liberista, con un programma aggressivamente «monetarista» incentrato sugli obiettivi della riduzione dell'intervento pubblico in economia e del ridimensionamento del potere sindacale in campo politico e sociale e fondato sul dogma della capacità di autoregolazione ottimale del mercato. Un programma che, appunto, segnò profondamente le modalità con cui il processo di globalizzazione si è sviluppato negli ultimi due decenni, e ne ha condizionato fortemente gli aspetti selettivi e disegualitari. Oggi - quando i «guasti» di quel paradigma politico ed economico sono ormai visibili nelle dimensioni della recessione mondiale - è assai più difficile di allora incidere su un processo che si è consolidato e distorto. Tentare di farlo implica la necessità di profonde innovazioni nella pratica, nei modelli organizzativi e nei metodi di azione, rispetto a quelli che avevano prevalso nel corso del XX secolo.
L'espressione è contenuta nel saggio di Robert Boyer, La Globalisation. Mythes et réalités, Cepremap. 31 juillet 1996.
Francois Chesnais. La mondialisation du capital, Syros. Paris 1994
ìbidem, p. 16.
Cfr. Globalization. Social Theory and Global Culture, Sage. London 1992, p. 8.
Anthony Giddens. Living in a Post-traditional Society, in Ulrich Beck, Anthony Giddens, Scott Lasc, Reflexive Modernization. Politics. Tradition and Aesthetics in the Modem Social Order. Stanford U.P., Stanford 1994, p. 96.
Cfr. Sergio Finardi. Carlo Tombola. Il sistema mondiale dei trasporti. L'economia-mondo nel XX secolo. Il Mulino. Bologna 1995.
Paul Hirst, Grahame Thompson. Globalization in question. Polity Press, Cambridge 1966.
Michael Kidron. Ronald Segai. Atlas des désordres du monde. Points chauds et lignes de fraclurc. Editions Autrernent. Paris 1995. p. 138.
Edgar Morin. Anne Brigitte Kern, Terre-Patrie. Seuil, Paris 1993, p. 33.
Serge Latouche. L'occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de l’ uniformisation planétaire, La Découverte. Paris 1989: tr.it.: L'occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell'uniformazione planetaria. Bollati Boringhieri, Torino 1992. p. 9.
L'espressione fu usata da Paul Valéry, alla metà degli anni Trenta per descrivere un pianeta ormai interamente esplorato, privo dì zone sconosciute, di territori non « appropriati» da qualcuno, non cartografati, su cui non sventoli una qualche bandiera (P. Valéry, Regards sur le monde actuel et autres essais, Gallimard, Paris 1945).
Serge Latouche, Il pianeta uniforme. Significato, portata e limiti dell'occidentalizzazione del mondo. Paravia Scriptorium. Torino 1997, p. 22.
Ibidem, p. 21.
Theodore Levitt. The Globalization of Markets. in «Harvard Business Review», n. 3, 1983, pp. 92-102.
Jacques Adda. La mondialisation de l'économie. 1. Genèse. La Découverte. Paris 1996. p. 68.
Ibidem, p. 128.
Kenichi Ohmae, The Borderless World. Power and Strategy in the Intcrlinked Eco-nomy. Harper Perennial, New York 1990. p. 91.
Keniche Ohmae, The End ofthe Nation State - The Rise of regìonal Economies. The Free Press. New York 1995; tr. it.: La fine dello Slato-nazione, Baldini e Castoldi. Milano 1996. pp. 179-180.
UNCTAD. World Investment Report. Transnational Corporations. Employment and the Workplace. 1994. United Nations, New York and Geneva 1994. Table 1.6. Outflows of foreign direct investment front the five major home countries. 1981-1993. p. 17.
Cfr. Heinz Dieterich Steffen, La societad global. Educaciòn. Mercado y Democracia. Ed. Joaquin Mortiz, Mexico 1995; tr. it.: Globalizzazione, educazione e democrazia in America Latina, in Noam Chomsky, Heinz Dieterich. La società globale. Educazione, mercato, democrazia. La Piccola Editrice. Celleno (VT) 1997, p. 41.
Gregory J. Millman, The Vandals' Crown, The Free Press. New York 1995. tr. il.: Finanza barbara. Il nuovo mercato mondiale dei capitali. Garzanti, Milano 1996. p. 14.
Cfr. Saskia Sasseti, Losing control? Sovereignity in an age of globalization. Columbia U.P., New York 1996.
Lowell Bryan. Diana Farrell, Market Unbound. John Wiley & Sons. New York 1996.
Ibidem, p. 40.
Citato in Hans-Peter Martin, Harald Schumann, Die Globalisierungsfalle. Der Angriff auf Demokratie und Wohlstand. Rowohlt Verlag. Reinbeck bei Hamburg 1996, tr. it,: La trappola della globalizzazione. L'attacco alla democrazia e al benessere. Edition Raetia, Bolzano 1997, p. 195.
Robert B. Reich. The Work of Nations. Preparing Ourselves for 21st. Century Capitalism. Random House. New York 1991 (tr. it: L'economia delle nazioni. Il sole 24 ore. Milano 1993, p. 126).
UNDP, Human Devclopment Report 1990. Oxford U.P., Oxf'ord-New York 1990.
UNDP. Human Devclopment Report 1999. Oxford U.P.. Oxford-New York 1999.
Cfr. Roger Burbach. Orlando Nùnez, Boris Kagarlitsky. Globalìzation and its discon-tents. Pluto Press. London-Chicago 1997, p. 13. La World Bank, d'altra parte — una fonte, quindi, non certo sospetta di « pessimismo » — afferma, in un suo recente rapporto, che « il reddito medio per abitante era, nel 1870. Il volte più elevato nei paesi ricchi che nei paesi più poveri », e che «tale rapporto era salito a 38 volte nel 1960 e a 52 volte nel 1985 », World Bank, Rapport sur le développement dans le monde 1995. Le monde du travati dans une economie sansfrontieres. World Bank, Washington 1995, p. 1 1.
Ibidem, p. 4.
Fonte: http://profscilironi.altervista.org/files/la_globalizzazione.doc
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