Groenlandia

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Groenlandia

Avamposti d’Europa  oppure Colonie vichinghe  oppure  Colonie di groenlandia

Nel Medioevo, è esistita, per secoli, una incredibile propaggine dell’Europa cristiana, una regione dove il vescovo e il clero riconoscevano l’autorità di un papa distante migliaia di chilometri e le messe venivano celebrate nell’antica lingua di Roma: la Groenlandia. La sua storia inizia nel 985 circa. Una flotta di venticinque navi sbarcò allora sulle coste meridionali dell’isola un gruppo di coloni, con donne, bambini, animali e attrezzi. Per quattro secoli e mezzo, i discendenti di questi pionieri vissero e valorizzarono un ambiente ostile, costruendo centinaia di case e di fattorie,  una cattedrale, due monasteri, tredici chiese parrocchiali e altre chiese più piccole. Circondate di prati e alte sopra un fiordo, le rovine della chiesa meglio conservata, la parrocchiale di Hvalsey, fanno bella mostra in tutti i depliant turistici della Groenlandia. In un momento imprecisato del XV secolo, tutto ciò ebbe fine: fattorie e chiese furono abbandonate, e i loro abitanti sparirono nel nulla, inghiottiti dal gelo.
La storia di questo estremo avamposto d’Europa ha affascinato gli storici soprattutto a causa della sua misteriosa fine. Ma altrettanto affascinante è la civiltà che questa comunità di tipo europeo dovette realizzare per poter svilupparsi. Oltre ad occuparci di come questi uomini scomparvero, dobbiamo vedere come vissero e, a loro modo, prosperarono.

 

Il primo documento scritto a menzionare la Groenlandia è una lettera di papa Leone IX, del 1053, che attribuisce all’arcivescovo di Brema l’autorità sopra “Gronlant”. Questo nome –“Terra Verde”-  era stato creato un settantennio prima da un guerriero vichingo certo ben provvisto di iniziativa e coraggio, il celebre Erik il Rosso. La sua storia, come anche gran parte delle notizie sui primi secoli dell’insediamento groenlandese, ci sono noti attraverso alcune brevi notizie di cronache contemporanee e, soprattutto, grazie a due saghe tramandate a lungo oralmente, e messe per iscritto in Islanda all’inizio del XIII secolo. Sappiamo così che Erik il Rosso era uno dei capi vichinghi che, in Norvegia, vedevano la propria autorità progressivamente limitata dalla formazione della monarchia e dello stato. Accusato di violenze e di omicidi, intorno al 980 Erik fu costretto a partire. Si diresse allora verso l’Islanda, che era stata colonizzata dai norvegesi fra 870 e 930. Ma anche in Islanda gli fu impossibile raggiungere quel potere a cui aspirava, nonostante che in almeno due occasioni non esitasse a uccidere gli avversari. Condannato nel 982 ad un esilio di tre anni, si diresse allora verso occidente, alla ricerca delle isole che pochi anni prima erano state viste da altri islandesi.
Scoprì così un territorio immenso, frastagliato di fiordi, e –per la breve estate!- verdeggiante di pascoli: lo chiamò dunque Groenlandia. Per tre anni, Erik esplorò con attenzione la costa, cercando le località migliori, ricche di pascoli e di buone terre. Tornato in Islanda, ripartì dopo poco con una flotta di coloni, che durante i successivi dieci anni furono raggiunti da almeno altri tre gruppi di pionieri. Aveva inizio la storia della Groenlandia vichinga.
Il clima groenlandese è notoriamente perfido. Al freddo si aggiungono i forti venti e le nebbie. Ciò dipende non solo dalla latitudine, che in fin dei conti non è più settentrionale di buona parte della Norvegia, ma dalla presenza dell’immenso ghiacciaio interno, il più grande del mondo dopo quello dell’Antardide, e dalla freddissima corrente che scende dall’Artico lambendo le coste groenlandesi ad oriente. Sulla costa orientale, di conseguenza, Erik non trovò nessun sito adatto ai coloni. La sua scelta cadde invece su due zone situate sulla costa occidentale, estese lungo il mare per un centinaio di chilometri ma caratterizzate dalla presenza di fiordi molto profondi, che superano in molti casi i cinquanta o addirittura i cento chilometri. La lunghezza del fiordo era, per i coloni, un elemento essenziale, poiché il clima groenlandese è meno rigido all’interno dei fiordi che sulla costa. La vicinanza del mare, gelido e cosparso di iceberg anche durante l’estate, abbassa di molti gradi la temperatura estiva sulla costa, la cui vegetazione, del resto, è danneggiata dagli schizzi di acqua salmastra portati dagli impetuosi venti.
Il più grosso dei due insediamenti si trovava poco ad occidente dell’estremità meridionale della Groenlandia. Fra gli specialisti, è noto come “insediamento orientale”, ma in realtà era situato sulla costa occidentale. Era di gran lunga il più  popoloso e il più ricco dei due insediamenti. Fino ad oggi, sono state censite le rovine di 444 case e fattorie, che tuttavia non furono probabilmente mai tutte abitate nella stessa epoca. Si calcola che nel periodo di massimo sviluppo, nella seconda metà del XIII secolo, i discendenti degli antichi coloni siano stati 4-5000. L’altro  insediamento è chiamato di solito “occidentale”, ma in realtà è situato 500 km più a settentrione. Il clima è ancora più rigido, e la stagione vegetativa, durante la quale l’erba riprende a crescere, si riduce di oltre un mese. Al massimo, ha ospitato mille persone o poco più.
Sappiamo davvero poco sulle vicende politiche della Groenlandia. Non sembra, ad esempio, che vi si sia mai sviluppato un vero e proprio governo unitario. Tutti gli indizi, anzi, lasciano intravedere una situazione nel complesso simile a quella che ci è nota per i primi secoli della storia dell’Islanda, e per la stessa Scandinavia delle origini. La società era articolata in una serie di gruppi politicamente quasi del tutto autonomi. Un singolo gruppo  poteva essere costituito da tutti gli abitanti di un fiordo, o più spesso solo di una sua parte. Il capo proveniva dalle famiglie più ricche e dotate di prestigio, ma per affermare la sua autorità aveva bisogno del consenso e della collaborazione degli altri uomini liberi. Doveva intervenire con equità per sanare i contrasti, guidare con abilità le spedizioni di guerra e di caccia, distribuire doni agli amici e ai fedeli. Probabilmente esisteva anche una struttura di governo comune, come ad esempio un’assemblea dei capi. Ma il suo ruolo doveva essere, nella vita quotidiana delle varie comunità, del tutto marginale. Nel complesso, le notizie disponibili descrivono un’organizzazione del potere tipica, in Europa, del primissimo Medioevo. Nell’isola artica si perpetuò invece molto a lungo, fino all’età che altrove fu quella del Rinascimento, e per la Groenlandia quella dell’estinzione. Erik il Rosso, del resto, non aveva forse abbandonato la Norvegia proprio perché non riusciva ad adeguarsi alle inaudite novità causate dalla nascita della monarchia e dello stato?
In Groenlandia la presenza dei re di Norvegia restò invece sempre del tutto marginale. Per secoli l’insediamento fu del tutto indipendente. Solo nel 1261 i groenlandesi riconobbero di essere sottoposti al re di Norvegia. Ma quale poteva mai essere la reale capacità di intervento di un sovrano distante migliaia di chilometri di mare tempestoso? I viaggi dalla Norvegia alla Groenlandia duravano settimane e, quel più conta, erano molto rari. Dopo che si furono rotte le navi dei primi coloni i groenlandesi, privi di alberi e di altro legname, non disposero più di imbarcazioni abbastanza grandi da compiere la traversata, e dovettero dipendere dalle navi del continente. Tuttavia spesso non v’era nessuno che volesse tentare il rischioso viaggio. Non meraviglia, allora, che per accettare la sovranità norvegese i groenlandesi richiesero, prima di tutto, che il re facesse giungere nella colonia almeno due navi l’anno.
Che tipo di società fu quella realizzata dai coloni? Non immaginiamoci un mitico paradiso di egualitarismo e pace. Gli annali, le saghe e, negli ultimi decenni, anche gli scavi archeologici forniscono anzi l’immagine di una società violenta e  gerarchizzata. Gli omicidi e le faide sono menzionati a più riprese, e nei cimiteri delle chiese numerosi scheletri testimoniano una morte violenta: vicino la chiesetta di Brattahlid, i teschi di cinque uomini mostrano la tipica ferita causata da un colpo di ascia, mentre un sesto ha ancora un coltello tra le costole. Anche le differenze di ricchezza dovevano essere forti. Alcune fattorie disponevano di stalle vaste e ottimi pascoli, mentre i rifiuti e le analisi delle ossa attestano che i loro abitanti godevano di un’ottima alimentazione. Altre case, invece, sorgevano in zone marginali, lontano dalle buone terre e più esposte al gelo. I rifiuti lasciati dai loro miseri abitanti attestano un’alimentazione costituita in prevalenza da carne di foca, che invece risulta molto più rara negli strati archeologici delle maggiori fattorie.
L’ambiente e l’isolamento dovevano accentuare l’autorità dei capi, ma stimolavano anche la coesione comunitaria. Nessuno poteva sperare di cavarsela da solo. La cooperazione era necessaria non soltanto nei casi di emergenza, di per sé probabili in un ambiente così sfavorevole, ma per molte attività fondamentali. La caccia ai branchi di caribù in autunno e quella alle foche in primavera andavano praticate in gruppo, e la cooperazione era importante anche nei lavori di raccolta del fieno e di manutenzione delle fattorie. Poi, come vedremo, era indispensabile che gli abitanti di fattorie situate in aree diverse si scambiassero i prodotti nei quali ogni area era specializzata
L’autorità della chiesa era molto più presente di quella del re e dei suoi ufficiali. I coloni vichinghi si convertirono al cristianesimo già prima del 1000, pochi anni dopo la cristianizzazione della Norvegia, avvenuta nel 995. La nuova religione fu abbracciata dal figlio di Erik il Rosso, Leif il Fortunato.  A sud della fattoria che si suppone appartenuta a Erik, gli scavi archeologici hanno messo in luce la presenza di una piccola chiesa, che risalirebbe proprio alle prime fasi di storia dell’insediamento. Il numero delle chiese crebbe rapidamente. Le prime costruzioni erano edifici modesti, costruiti con zolle di torba. Nel XII e soprattutto nel XIII secolo vennero create chiese più vaste, anche se il ricorso alla pietra restò limitato alla parte inferiore delle pareti. In tutta la Groenlandia, sembra siano state costruite soltanto quattro chiese tutte in muratura. Ma la torba era un materiale molto più facile da utilizzare e, soprattutto, molto più adatto a isolare dal gelo. Tranne che per il materiale, lo stile architettonico delle chiese si evolveva seguendo quello delle coeve chiese scandinave. Anche la passione per l’ampiezza era simile: la cattedrale, dedicata a San Nicola, era lunga ben 32 metri e larga 16.
Quando c’è un cattedrale, c’è un vescovo. Nel 1123 venne infatti creata la diocesi di Groenlandia, e nominato un vescovo. La sede vescovile groenlandese, naturalmente, non era molto ambita. I dodici vescovi che si sono succeduti fino al 1378, data di morte dell’ultimo vescovo noto, hanno spesso tardato per anni prima di prendere possesso della loro sede, e in molti casi si sono affrettati a ripartire. In totale, su 255 anni di vita della diocesi, i vescovi hanno soggiornato in Groenlandia per appena 106. Oltre alla distanza, al  clima e ai disagi, il loro atteggiamento si giustifica con la peculiare situazione della chiesa. In questo sperduto angolo della cristianità, infatti, non vennero mai realizzate le prescrizioni della riforma gregoriana dell’XI secolo, che aveva limitato le ingerenze dei laici sulle chiese e i chierici. Come nell’Europa dell’alto medioevo, le chiese continuavano ad essere la proprietà dei capi locali, e la stessa cattedrale sembra dipendesse dal signore della ricca fattoria vicina. In questa situazione, l’autorità del vescovo era necessariamente minima.
Ai margini dell’immenso Artico, in un contesto ecologico, economico e sociale davvero particolare, i groenlandesi continuavano tuttavia ad essere europei e da cristiani. L’architettura delle loro chiese cercava di seguire l’evoluzione degli edifici sacri del continente, e analoghi adeguamenti si osservano nelle fogge degli abiti, nella forma dei pettini e in altri campi. Le piccole crocifissioni in legno ritrovate in fattorie e chiese sono indistinguibili da quelle coeve della Norvegia. Un simile parallelismo si osserva anche nelle tradizioni funerarie: sepolti inizialmente in aree diverse, uomini e donne di Groenlandia e Scandinavia iniziarono nello stesso periodo a condividere gli stessi spazi si sepoltura; e dopo il 1250, sul continente come sull’isola artica si iniziarono a ripiegare sul petto le braccia dei defunti, che in precedenza erano disposte parallele al corpo. Fra le rovine gelate degli antichi insediamenti, in molti casi sono stati ritrovati pezzi di scacchi…

 

BOX: Trichechi per il papa
La Groenlandia faceva parte della cristianità. Poco ubbidienti ai dettami della Riforma gregoriana e del diritto canonico, i suoi abitanti erano guardati con sospetto dalle gerarchie ecclesiastiche del continente, e volavano talvolta accuse di paganesimo. Ma non si esitava a richiedere loro il pagamento delle decime e di altre imposte. Nel 1282 e nel 1327 abbiamo persino la ricevuta del versamento effettuato al papa: le zanne di 191 trichechi, per un valore totale di dodici chilogrammi di argento!

 

BOX: La Terra del vino
Anche se nella patria di Cristoforo Colombo non va troppo ripetuto, tutti sappiamo che i primi europei a mettere piede sul suolo americano sono stati i vichinghi. Ma, allora, occorre essere più esatti: non furono vichinghi qualsiasi, ma i nostri groenlandesi. L’iniziativa fu presa da due figli di Erik il Rosso, dapprima Leif e poi Thorvall. Già prima del 1000, con una nave carica anche di animali e donne in modo da potere eventualmente fondare una colonia, navigarono per circa tremila chilometri, fino a giungere in Terranova. Sbarcando su una spiaggia sabbiosa, con alle spalle una grande foresta, Leif decise, secondo la saga, di chiamare quella terra in base alla sua principale risorsa: Markland, cioè Terra delle foreste. Qui costruirono una base dove soggiornare durante l’inverno, e da cui esplorarono la costa verso sud, spingendosi fino alla Nuova Scozia, dove trovarono quelle piante di uva selvatica che li indussero a battezzare Vinlandia, Terra del Vino, i nuovi territori. Per chi veniva dall’Artico, era una terra ricchissima di risorse naturali, un vero paradiso. Altre quattro spedizioni si succedettero negli anni successivi, di solito con una nave sola e venti-trenta membri, in un caso con due o tre navi e almeno una sessantina di uomini e donne. In un caso gli esploratori si fermarono tre anni consecutivi. Ma dopo dieci anni di esplorazioni i vichinghi dovettero rinunciare alla fondazione di una nuova colonia. Una volta si erano infatti imbattuti in nove abitanti del nuovo continente, probabilmente indiani Micmacs o Beothuk, che non sembrano avere troppo gradito l’atteggiamento dei coloni appena sbarcati. I vichinghi, narra infatti la saga, si affrettarono ad ucciderli, ma uno degli indiani riuscì a sfuggire al massacro, chiamando in soccorso dei compagni. Fu la prima di una serie di battaglie, dai quali i vichinghi sarebbero usciti vittoriosi, ma con alcune perdite. Strappandosi dagli intestini la freccia che lo aveva colpito, prima di morire lo stesso Thorvall profetizzò: “Abbiamo trovato una terra ricca, c’è molto grasso intorno alla mia pancia… ma non potremo goderne”. I popoli che già abitavano quelle terre erano troppo numerosi e combattivi perché la piccola e povera Groenlandia, che in quel tempo contava forse mezzo migliaio di abitanti, potesse sperare di vincere. 

 

BOX: Anse-aux-Meadows
Le notizie delle saghe islandesi sulla scoperta della Vinlandia sono state a lungo ritenute inattendibili. Il massimo scetticismo accolse quindi negli ambienti scientifici l’annuncio di un esploratore norvegese, che nel 1960 dichiarò alla stampa di avere scoperto i resti di un insediamento vichingo ad Anse-aux-Meadows, sulla costa della Terranova. Dieci anni di scavi archeologici hanno invece accertato che si trattava in effetti di una dalle basi stabilite intorno al 1000 dagli esploratori vichinghi. Era costituita da otto costruzioni: abitazioni, magazzini per i preziosi beni raccolti nel nuovo territorio, e officine per riparare navi e attrezzi.

 

 

Economia artica

Di cosa vissero i groenlandesi? L’agricoltura, a quelle latitudini, è quasi impossibile. In tutta la loro vita, molti coloni non videro mai un pezzo di pane o una spiga di grano. Al più, nelle buone stagioni, era possibile coltivare un po’ d’orzo e qualche verdura resistente al freddo, come il cavolo, la rapa e la lattuga. Nell’alimentazione venivano molto utilizzati alcuni tipi di muschio, forse poco gustosi ma ricchi sia di proprietà nutritive che mediche, e inoltre alcune alghe e una serie di erbe commestibili, come l’angelica; vi erano poi, importanti per il contenuto di vitamina C, frutti di bosco di ogni tipo. E’ chiaro comunque che i prodotti della terra, spontanei o coltivati che fossero, non avrebbero consentito la sopravvivenza. L’alimentazione groenlandese, infatti, si basava essenzialmente sui prodotti dell’allevamento, della caccia e della pesca.
Nel suo insieme, era un sistema produttivo efficace, anche se molto delicato. L’allevamento riguardava mucche, pecore e capre. All’inizio vennero introdotti anche i maiali, che tradizionalmente ricoprivano un posto centrale nell’alimentazione dei vichinghi. Ma i coloni dovettero rinunciare ai suini nel giro di pochi decenni, perché i maiali arrecavano danni gravissimi alle fragili boscaglie artiche.  Anche la mucca, in realtà, non era l’animale più adatto all’ecosistema groenlandese. Capre e pecore resistevano al freddo, potevano restare all’aperto fin quando la neve non era alta o troppo gelata, ed erano in grado di scavare nel manto nevoso per procurarsi un po’ di erba; andavano tenute al chiuso solo nei tre-quattro mesi più freddi. Al contrario, le mucche dovevano essere rinchiuse nelle stalle alle prime nevi: in Groenlandia, voleva dire nutrirle con fieno e foraggio per nove mesi l’anno!
L’allevamento bovino non era dunque, rispetto a quello di pecore e capre, una scelta economicamente razionale. Ma nella cultura vichinga il latte vaccino era particolarmente apprezzato, e il possesso di mucche era simbolo di prestigio e ricchezza. Non a caso, le fattorie più grandi e meglio dotate di buoni pascoli sembrano dedicarsi in primo luogo ai bovini. Per allevare mucche e ovini, era comunque essenziale riuscire ad accumulare durante l’estate una grande scorta di fieno. Con la buona stagione, secondo una pratica simile a quella delle malghe alpine di alta montagna, appena possibile il bestiame era mandato nelle aree montane, dove erano costruiti dei rifugi stagionali per gli uomini incaricati di custodire gli animali e di produrre un po’ di fieno. I terreni prossimi alla fattoria principale, la sola abitata d’inverno, venivano falciati ad agosto; per aumentare la produzione, quelli migliori erano concimati e irrigati attraverso un sistema di canali e piccole dighe.
Il bestiame era allevato più per il latte che per la carne. Formaggi, burro e yogurt (il cosiddetto skyr) venivano prodotti in grande quantità soprattutto durante l’estate, e conservati al fresco in ripostigli di torba. A settembre, all’arrivo della neve, in base alla quantità di fieno accumulato si decideva quanto bestiame poteva venire rinchiuso nelle stalle, e quanto invece andava macellato. Probabilmente, era il solo momento dell’anno in cui tutti mangiavano carne vaccina e ovina. Per mesi gli animali vivevano al chiuso, spesso nello stesso ambiente utilizzato dagli uomini. Per scaldarsi, era del resto bene ricorrere al calore delle bestie, ottimamente trattenuto dalle pareti di torba delle abitazioni, spesse fino a quasi due metri. Il caminetto era sconosciuto, e il fumo del focolare invadeva tutto l’ambiente, prima di fuoriuscire da un piccolo foro praticato sul tetto e protetto dalla neve con una pietra. Se l’inverno si prolungava, il fieno scarseggiava, e occorreva ricorrere alle alghe: fino a quanto l’erba spuntava e le mucche, smagrite e incapaci di camminare, dovevano venire portate a braccia all’aperto.
Non immaginiamoci però che fosse possibile sopravvivere in Groenlandia solo con i latticini e i pochi prodotti agricoli disponibili. Occorreva anche molta carne. E, in effetti, la carne mancava raramente dalle mense dei coloni. Veniva mangiata fresca, oppure essiccata in magazzini aperti al vento. Proveniva dalla caccia di animali selvatici, e non dall’allevamento. In autunno, era il momento di organizzare le grandi battute alle mandrie di caribù che ritornavano verso la costa dai pascoli estivi dell’interno. In primavera, la caccia riguardava invece tutt’altro tipo di mammifero, la foca. Le due specie di foca di gran lunga più importanti e numerose erano migratorie, e arrivavano in Groenlandia nella tarda primavera, proprio quando le provviste di latticini e di carne di caribù andavano esaurendosi. Per cacciare le foche, che restavano sulle coste senza spingersi nei fiordi, occorreva organizzare delle squadre e spingersi anche molto lontano dalle fattorie. Ma nessuno poteva fare a meno del ricco bottino di pelli e di carne.
Senza moneta né un’economia di mercato, la Groenlandia conosceva però molti scambi. Nessun insediamento poteva accedere a tutte le risorse a disposizione, ma nell’ostile ambiente artico nessuno poteva fare a meno di utilizzarle tutte. Dunque era necessaria una integrazione spaziale delle risorse. Scambi continui avvenivano fra l’insediamento settentrionale, più fornito di  trichechi e pelli d’orso, e quello meridionale, meglio dotato di prodotti agricoli. Ma un continuo flusso di prodotti avveniva soprattutto a livello locale, fra le fattorie situate vicino alla costa, meglio fornite dei prodotti del mare aperto, quelle specializzate nell’allevamento poste in fondo ai fiordi, e quelle di montagna. L’analisi archeologica dei  cumuli di rifiuti ha dimostrato che lo scambio fra i prodotti di aree diverse, indispensabile per accedere a tutte le poche risorse naturali della grande isola, era in effetti largamente praticato.
Vi erano poi i commerci con l’Islanda e soprattutto la Norvegia. In molti libri di divulgazione capita ancora di leggere che i prodotti agricoli indispensabili alla alimentazione dei coloni arrivavano via mare. Nulla di più falso. Unita al continente da collegamenti saltuari e comunque tramite imbarcazioni dalla modesta capacità di carico, la Groenlandia non importava generi alimentari, salvo forse il sale, un po’ di miele e pochi prodotti di pregio. Le importazioni riguardavano soprattutto legname di buona qualità, catrame, attrezzi e ferro grezzo, che l’insufficienza del legno rendeva impossibile estrarre e raffinare in Groenlandia. Inoltre erano importati tutta una serie di oggetti che potremmo definire, almeno per gli standard groenlandesi, di lusso, che servivano a ostentare e mantenere il prestigio dei capi. I beni importati più reperiti dagli scavi archeologici sono le vetrate e le decorazioni per le chiese, ma sappiamo anche che erano richiesti il vino per la messa, gioielli, vasellame e seta.
Con cosa pagare tutto questo? Salvo forse per le migliori pelli di foca e la lana di pregio, i costi di trasporto non rendevano competitivo sul mercato europeo nessuno dei prodotti tipici degli insediamenti groenlandesi. Ma il grande Artico aveva dei beni che facevano gola agli europei:  il girifalco, l’orso polare, i trichechi e i narvali. I falconi bianchi groenlandesi erano i più grandi e i più ambiti dai cacciatori dell’epoca. Dell’orso polare si apprezzava naturalmente la pelliccia, anche se certamente il possesso di un orso bianco vivo era per un sovrano un simbolo di prestigio: non a caso un feroce orso polare faceva bella figura fra i regali che i groenlandesi inviarono al re di Norvegia nel 1120 circa per ottenere il suo appoggio alla creazione di una diocesi di Groenlandia. Il tricheco era ricercato soprattutto per l’avorio delle sue zanne, e con la sua pelle si fabbricavano le migliori corde per imbarcazioni. Le rare zanne del narvalo, da parte loro, non venivano intagliate, ma collezionate con orgoglio perché ritenute  appartenere ad unicorni, oppure utilizzate per preparare pozioni e medicine.
Queste merci preziose costavano ai groenlandesi sacrifici immensi. Per cacciare orsi e trichechi, occorreva recarsi molto a nord, a quasi mille chilometri di distanza dall’insediamento più grande, e a circa la metà da quello minore, più settentrionale. Dalla fine di giugno alla fine di agosto, proprio durante i pochi mesi di intenso lavoro agricolo, la caccia artica sottraeva agli insediamenti le barche migliori e gli uomini più vigorosi. Quanti di loro, inoltre, morivano nell’impresa? Il viaggio verso le zone di caccia settentrionali richiedeva due o più settimane di navigazione fra i ghiacci. E poi, c’è forse bisogno di sottolineare i rischi di chi affrontava un orso polare inferocito armato solo di lancia e frecce?
I re di Norvegia cercarono di assicurarsi il monopolio di queste preziose merci. Dal 1261, fu vietato alle navi private fare rotta verso l’isola artica. Era la corona, del resto, che si era impegnata a fare partire dal porto regio di Bergen, ogni anno, una o due navi dirette in Groenlandia. L’impegno sembra essere stato più o meno mantenuto, salvo le numerose interruzioni dovute alle annate di cattivo tempo e di difficoltà politiche in Norvegia, fino alla metà del Trecento. Dopo di che le navi del re si fecero sempre più rare. L’ultima giunse nel 1368. In seguito i collegamenti furono assicurati, sporadicamente, solo da imbarcazioni private che sfidavano il monopolio regio.

 

BOX: Il mistero del pesce
Gli archeologi che studiano la Groenlandia si trovano di fronte a un mistero: durante i pazienti scavi condotti nelle case e nei vicini cumuli di rifiuti hanno trovato di tutto, tranne resti di pesce. E se negli scavi archeologici sono stati trovati alcuni pesi che sembra fossero utilizzati per le reti, mancano quasi ritrovamenti di ami e di fiocine. L’assenza di resti di pesce e, a quel che sembra, di attrezzatura da pesca è stupefacente se si pensa alla ricchissima fauna ittica della Groenlandia. Per spiegarla, alcuni archeologi ipotizzano che tutti i resti di pesce venissero utilizzati per concimare i campi, oppure, macinati, fossero usati come mangime per cani e bestiame. V’è addirittura chi ha pensato che i primi coloni, in seguito a una intossicazione alimentare, avessero sviluppato un tabù verso il pesce. Per adesso, il mistero del pesce resta però irrisolto.

 

BOX: Caccia al caribù
Un’importante risorsa delle terre di montagna groenlandesi, situate oltre i 400 metri di altezza, era costituita dai caribù. Nei pressi di alcune delle fattorie più alte sono stati rinvenuti i resti di sistemi di caccia al robusto erbivoro. I coloni sceglievano, lungo il percorso migratorio dei caribù, valli strette che terminavano con un lato aperto verso un precipizio. Quando la mandria si era inoltrata nella valle, i battitori e i loro cani balzavano fuori da nascondigli e la mettevano in fuga a velocità crescente,  spingendola  verso i cacciatori appostati in fondo, dal lato opposto del precipizio. Gli animali finivano così per cascare nel dirupo, rimanendo uccisi o feriti gravemente, oppure erano a costretti a passare accanto ai cacciatori, che li potevano colpire da una distanza ravvicinata.

 

BOX: La Groenlandia di Ivar Bárdarson
Alcuni storici hanno pensato che la principale responsabile del declino della Groenlandia sia stata la chiesa, colpevole di avere accumulato nelle sue mani gran parte delle terre migliori, sottraendo risorse indispensabili alla società laica e sfruttando in modo sconsiderato i fragili suoli artici. All’origine di questa tesi  vi è Ivar Bárdarson, un chierico norvegese giunto in Groenlandia nel 1341, e poi restatovi per diciotto anni come amministratore dei beni del vescovo. Ivar ci ha lasciato la sola descrizione dettagliata dell’insediamento più grande, un lungo manoscritto noto appunto come “Descrizione della Groenlandia”. Fiordo dopo fiordo, enumera tutte le chiese, indicando i territori che, scrive Ivar, esse “possiedono”: è allora facile vedere che almeno i tre quarti di tutti i territori che sappiamo abitati dai coloni appartengono alla cattedrale, a una delle tredici parrocchie,  oppure al monastero di Agostiniani situato nel fiordo di Tasermiut e alla comunità di monache benedettine nel fiordo di Uunartoq. La descrizione di Ivar è spesso il solo documento ad indicare il nome che gli antichi coloni avevano dato a molte località, nomi che altrimenti sarebbero andati perduti per sempre con la loro scomparsa. E’ una fonte preziosa, ricca di informazioni. Ma è anche un documento fuorviante. Solo di recente, studiandone il lessico e paragonandolo con altre descrizioni del genere condotte per alcune diocesi della Norvegia, gli storici hanno capito che la descrizione non elenca i patrimoni delle chiese, ma soltanto le loro circoscrizioni, cioè le aree dove le diverse chiese avevano diritto di esercitare in esclusiva la cura d’anime e incassare le offerte e gli altri pagamenti richiesti ai fedeli. La spiegazione della catastrofe che, pochi decenni dopo il ritorno in Norvegia di Ivar, annienterà tutti i cristiani di Groenlandia non va dunque cercata nella chiesa…

 

 

 

Morte di una civiltà

Nella sua Descrizione della Groenlandia Ivar Bárdarson racconta di essere andato, prima del 1360, nell’insediamento settentrionale assieme ad altri uomini con lo scopo di combattere gli eschimesi, aiutando i coloni locali a cacciarli dal loro territorio. Ma gli eschimesi, secondo Ivar, avevano già distrutto tutto, tanto che la spedizione di soccorso avrebbe trovato (e subito macellato) soltanto mucche, pecore e capre inselvatichite, senza nessun uomo, “né cristiano, né pagano”. La notizia è stata a lungo discussa, e vi è persino chi ha pensato che Ivar abbia saccheggiato i beni degli ultimi coloni, accusando poi gli eschimesi per giustificare il carico di animali uccisi con il quale ritornò all’insediamento meridionale. Almeno in parte il suo racconto è stato però confermato dagli scavi condotti nel 1993 nella cosiddetta “fattoria sotto la sabbia”, un sito giuntoci in ottimo stato di conservazione poiché fu ricoperto da sabbia gelata poco dopo l’abbandono. Gli scavi hanno infatti dimostrato che, dopo la partenza dei suoi abitanti, nella fattoria restarono in effetti, per qualche tempo, pecore e capre. Tuttavia né questo, né nessuno dei numerosi altri siti dell’insediamento presenta tracce di distruzioni o di un abbandono precipitoso.
Durante il XV secolo anche l’insediamento meridionale, il grande avamposto d’Europa che vantava ormai  una storia secolare, è svanito nel nulla. L’ultima menzione di una nave sbarcata sulle coste della Groenlandia risale al 1406. Le ultime esplicite testimonianze circa avvenimenti della Groenlandia  sono appunto fornite dal capitano di questa nave, che si trattenne quattro anni sull’isola. Parlano fra l’altro di un uomo di bassa condizione sociale bruciato vivo per avere sedotto, tramite arti magiche,  la moglie di un importante islandese. L’ultima fonte archeologica conosciuta è un vestito femminile trovato in una tomba, datato al 1435 tramite l’analisi del radiocarbonio. Poi dalla Groenlandia non giunge più nessuna notizia diretta.
Possiamo solo contare sulle vaghe informazioni arrivate fino alla corte pontificia, migliaia di chilometri più a sud. Nel 1448, papa Niccolò V racconta in una lettera che un trentennio prima “barbari pagani vennero dal mare devastando la terra e i suoi edifici sacri con il fuoco e la spada”, portando via come schiavi i sopravvissuti. Ricorda poi come, passati alcuni anni, molti prigionieri fossero riusciti a ritornare e a ricostruire i loro villaggi: ed ora essi richiedevano l’invio di preti, poiché erano infine riusciti ad accumulare risorse sufficienti al loro mantenimento. Non se ne fece nulla. Dopo molti altri decenni di silenzio, nel 1492 un altro papa, Alessandro VI, riferiva con cautela alcune confuse notizie relative alla Groenlandia giunte presso la curia papale, secondo le quali i pochi abitanti dell’isola, privi da ottanta anni di preti e chierici, avevano del tutto abbandonato il cristianesimo. E’ l’ultima, vaghissima notizia.
Per quanto basate solo su voci, queste lettere sembrano attestare una morte violenta, causata dall’attacco di popolazioni “barbariche” che è facile identificare come eschimesi. La stessa spiegazione venne come abbiamo visto avanzata da Ivar Bárdarson per la scomparsa dell’insediamento settentrionale. Negli annali islandesi, v’è qualche piccola altra notizia di scontri con eschimesi. Ma la distruzione ad opera dei “barbari pagani” è una spiegazione che non ha mai del tutto convinto. Nei tanti scavi archeologici condotti, è accaduto solo raramente di trovare la traccia di distruzioni violente. Di solito, la stratigrafia testimonia una decadenza lenta, protrattasi per decenni. Del resto, sappiamo che le colonie, dopo essersi sviluppate per almeno tre secoli, risultano trovarsi già nel Trecento in una situazione difficile. L’intensa attività di costruzione di edifici sacri che caratterizza il Duecento, ad esempio, è del tutto assente nel secolo successivo. Negli strati di rifiuti più recenti, i resti delle mucche diminuiscono con il passare del tempo, sostituiti da quelle di capre e pecore, carni meno pregiate, e soprattutto delle foche, l’alimento dei groenlandesi poveri.  Così, oltre allo sterminio da parte degli eschimesi, gli storici hanno di volta in volta trovato il responsabile a loro più congeniale: le difficoltà di comunicazione con l’Europa, il mutamento climatico, l’eccessivo sviluppo delle proprietà ecclesiastiche,  il degrado ambientale. Ma appare chiaro, in realtà, che occorre rifiutare le spiegazioni semplicistiche, monotematiche. Perché una civiltà secolare muoia, molti debbono essere i suoi assassini.
In primo luogo, assolviamo per insufficienza di prove quella che, nel resto d’Europa, potrebbe essere la principale imputata: la peste. La Groenlandia era troppo lontana e troppo poco collegata con il continente per esser colpita dalla Peste Nera, che nel 1349 sconvolse la Norvegia. L’Islanda stessa fu raggiunta dalla peste solo nel 1402, e gli storici hanno sostenuto che in Groenlandia essa non sia mai giunta. Non ne fece menzione nei suoi racconti il capitano della nave arrivata nel 1406, mentre da parte loro gli archeologi non hanno trovato alcun indizio della presenza di topi, che erano, con le proprie pulci, il mezzo di propagazione della peste. Sembra dunque che la peste vada assolta.
Oltre agli eschimesi, l’imputato più indiziato è, allora, il clima. Dalle analisi climatiche (condotte studiando sia i campioni di polline raccolti nei sedimenti delle paludi, sia soprattutto la composizione degli strati di ghiaccio) sappiamo che intorno al 1000, quanto giunsero i primi vichinghi, il clima attraversava una fase ottimale, con temperature relativamente elevate e una minore incidenza di tempeste. Dal 1300 circa, invece, è iniziata la cosiddetta Piccola glaciazione, durata fino al XIX secolo. Dunque, un peggioramento climatico è in effetti avvenuto, e può senz’altro avere accentuato le difficoltà dei coloni. Ma, ancora una volta, è impossibile pensare che il clima sia stato la sola causa del disastro. Il succedersi di annate molto sfavorevoli è attestato infatti, sebbene più sporadicamente, anche nel XII-XIII secolo, e non pare allora essere riuscito a diminuire lo sviluppo complessivo degli insediamenti.
Un altro responsabile potrebbe essere la fine dei commerci con l’Europa. Sappiamo già che l’arrivo di imbarcazioni dal continente divenne molto raro negli ultimi decenni del XIV secolo. Oltre che dalla maggiore presenza di ghiacci e burrasche, il crollo dei viaggi e dei commerci aveva due cause, una politica e una prettamente commerciale. La causa politica era costituita dalla crisi della monarchia di Norvegia, detentrice del monopolio delle relazioni con la Groenlandia, crisi che portò alla annessione della Norvegia da parte della Svezia. La causa commerciale, da parte sua, era ancora più grave: la scomparsa delle merci più ricercate dagli europei, cioè l’avorio dei trichechi e le pelli dell’orso bianco. La crescente presenza di eschimesi e, soprattutto, l’abbandono dell’insediamento settentrionale, che fungeva da base per le spedizioni nell’estremo nord, ridusse molto la caccia a trichechi e orsi. Incapaci di procurarsi i più importanti prodotti del commercio con l’Europa, i groenlandesi persero la possibilità di attrarre navi di forestieri. Vennero così meno una serie di risorse strategiche (in primo luogo attrezzi e ferro grezzo) e, soprattutto, simboliche. La mancanza di contatti oltremare, è stato infatti supposto, sminuì il prestigio delle aristocrazie. Così, secondo alcuni importanti studiosi, esse non furono più in grado di coordinare con efficacia la società in una situazione già difficile, aiutando i sottoposti in difficoltà, arginando la conflittualità sociale e imponendo la cooperazione reciproca. L’ininterrotto deterioramento della situazione socio-politica avrebbe infine condotto la società groenlandese, è stato detto, ad “andare in pezzi”, collassando dall’interno.
Gli ultimi due imputati del disastro sono il degrado ambientale causato dai coloni e –sorpresa!- la loro cultura. Il suolo artico è povero e, in caso di danneggiamento, molto lento a ricostituirsi perché la stagione vegetativa è breve e fredda. Lo studio dei sedimenti di pollini attesta che i coloni distrussero durante i primi decenni tutte le poche foreste dell’isola, privandosi per sempre del legname per costruire barche e case. Altri danni furono fatti in un primo tempo soprattutto dai maiali, e poi dal numero eccessivo di pecore e capre, che brucarono tutta l’erba esponendo il suolo all’erosione delle piogge e dei fortissimi venti groenlandesi. Da parte sua, l’uso massiccio di zolle di torba per il riscaldamento e per la costruzione degli edifici ridusse ulteriormente i suoli produttivi: per costruire un edificio di media grandezza, è stato calcolato occorresse un ettaro di tappeto erboso!
Un ambiente impoverito, un clima in peggioramento, la minaccia di popolazioni nemiche, il drammatico rarefarsi dei contatti con l’Europa, la crisi di autorità dei vertici sociali: la situazione era indubbiamente difficile. Tuttavia ciò che in definitiva uccise i coloni sarebbe stata, secondo Jared Diamond, la loro cultura. Una interpretazione che ha trovato di recente molti consensi sottolinea infatti come i norvegesi della Groenlandia, grazie all’allevamento e alle complesse attività di raccolta e di caccia, sfruttassero un ampio ventaglio di risorse. Tuttavia la loro cultura, cioè il loro attaccamento alla identità di cristiani e di europei, provocò lo spreco di risorse preziose. Per procurarsi l’avorio e le pelli d’orso necessarie ad importare generi economicamente del tutto superflui, come il vino per la messa o la seta per i migliori vestiti, uomini e imbarcazioni dovevano passare i pochi mesi di bel tempo nel lontano settentrione. Anche senza contare gli incidenti di caccia, si trattava di uno spreco inaudito: quelle stesse energie potevano essere utilizzate molto meglio, per lavori agricoli, per la caccia e la pesca di prede commestibili, oppure per moltiplicare le spedizioni dirette a prelevare sulla costa americana il prezioso legname e altre risorse importanti. L’orgoglio di europei e cristiani, inoltre, sembra avere impedito ogni reale contatto pacifico con gli eschimesi, giudicati selvaggi e pagani. In tal modo i coloni non appresero le tecniche fondamentali per la vita nel gelo  elaborate dai popoli dell’Artico. Ad esempio continuarono ad utilizzare barche costruite con il legno, che era scarso e prezioso, senza apprendere la tecnica di fabbricazione dei kayak e delle altre imbarcazioni eschimesi, che utilizzavano viceversa un materiale molto abbondante, cioè le pelli di foca. Inoltre non impararono a cacciare le balene né, quel che fu forse ancor più grave, la foca degli anelli, la specie di foca di gran lunga più presente  in Groenlandia durante i mesi invernali, quando il rischio di morire di fame era maggiore.
La fine della civiltà dei cristiani di Groenlandia dipese insomma da molti fattori. Ciò che tuttora rappresenta un mistero storico irrisolto sono soltanto i suoi ultimi istanti. Soccombettero ad un attacco eschimese, oppure si dilaniarono in una guerra civile per le ultime risorse? Morirono di freddo e di fame? Tentarono di scappare via mare? Per il momento, lo ignoriamo.

 

 

BOX: Archeologia dell’orrore
A volte, il lavoro dell’archeologo ricostruisce sequenze da film dell’orrore. Chi non ha presente i calchi degli abitanti di Pompei sorpresi dall’eruzione del Vesuvio? Qualcosa del genere è avvenuto anche in Groenlandia, scavando gli strati più superficiali di una fattoria abbandonata alla metà del XIV secolo. Gli ossi degli animali rinvenuti raccontano, infatti, una storia terribile. Contengono i resti di un vitello e di un agnello, venuti alla luce in primavera e subito divorati. Poi ecco le ossa di tutte le mucche della stalla, mangiate fino all’interno dello zoccolo. Infine, troviamo ossa dei grandi cani indispensabili per la caccia al caribù, che recano ancora il segno del coltello del padrone che li uccise.  Gli ultimi abitanti erano chiaramente troppo affamati per preoccuparsi del loro futuro, e divorarono tutto. Dovevano anche avere finito il combustibile. Lo suggeriscono, i resti delle mosche, che sono presenti solo negli strati profondi, e mancano da quelli superficiali: venuto meno il calore degli animali, evidentemente morirono tutte le mosche che vivevano all’interno dell’abitazione, cibandosi delle feci di uomini e bestie. Non vi sono cadaveri umani: probabilmente gli abitanti affamati tentarono un’ultima, disperata spedizione nella gelida primavera artica, alla ricerca di cibo e di aiuto.

 

BOX: I barbari dell’Artico
Fra i responsabili della distruzione degli insediamenti groenlandesi, un posto di primo piano va attribuito a quelli che i chierici di Roma chiamarono “barbari pagani”, e i norvegesi skraeling, che vuol dire miserabili: gli eschimesi, o inuit. Non a torto, i vichinghi dovevano considerarli degli intrusi. Quando fondarono le loro colonie, infatti, gli eschimesi vivevano ancora nel nord del Canada. Intorno al 1000, in Groenlandia esistevano soltanto popoli della cosiddetta cultura Dorset, che tuttavia non avevano cani e slitte, non usavano arco e frecce e non sapevano fabbricare barche con le pelli di animali. Non erano certo avversari temibili, poiché la loro mobilità era ridotta, le capacità belliche limitate e gli insediamenti che riuscivano a costituire contavano al massimo una o due case, con una decina di abitanti appena. Gli eschimesi, viceversa, disponevano di conoscenze molto ampie, che permettevano di sfruttare tutte le risorse dell’Artico, erano molto più numerosi, molto mobili e meglio armati. Entrarono in Groenlandia, dal versante nord-occidentale, intorno al 1200, e procedettero poi verso meridione raggiungendo un secolo dopo le zone dove erano insediati i coloni cristiani.

 

BOX: Fuga in America
La misteriosa scomparsa dei norvegesi di Groenlandia continua a suscitare ipotesi. Una delle ultime, discutibile pur se molto documentata, è dovuta a Kirsten Seaver, autrice di un libro sulla storia dei vichinghi di Groenlandia, The Frozen Echo (Eco gelata). Secondo questa studiosa, le colonie norvegesi sopravvissero ancora per tutto il XV secolo, sebbene si trovassero in grave crisi e fossero ormai del tutto distaccate dalla Scandinavia. La sopravvivenza sarebbe dimostrata dalle fogge dei vestiti rintracciati nelle ultime tombe, che assomigliano a quelli entrati in uso in Inghilterra e nel continente solo nel Quattrocento. Vi sono poi altri elementi a favore di una sopravvivenza, come due lettere pontificie del 1448 e del 1492, che parlano di coloni ormai privi di sacerdoti e in via di distacco dalla fede cristiana. Altri indizi fanno pensare che, abbandonati dalla Scandinavia, i groenlandesi fossero però visitati da imbarcazioni inglesi. Il completo abbandono degli insediamenti artici sarebbe avvenuto solo ai primi del XVI secolo, proprio quando inglesi e portoghesi iniziavano ad esplorare l’America settentrionale. Perché non pensare, sostiene la Seaver, che anche i groenlandesi, che da secoli avevano un frequentato le coste atlantiche, si siano uniti alla cinquecentesca ondata europea verso l’America? Potremmo così spiegarci come mai molte case dei groenlandesi sembrino essere state abbandonate portando via con calma ogni oggetto di valore, e perché sia così difficile trovare i resti di defunti nelle loro rovine…

 

Per saperne di più
In italiano, oltre a F. D. Logan, Vichinghi: viaggi, guerre e cultura dei marinai dei ghiacci, Piemme, Casale Monferrato, 1999, sono molto belli i tre capitoli dedicati alla colonie vichinghe da J. Diamond, Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere,  Einaudi, Torino, 2005. Per maggiori informazioni, si può partire da K. Seaver, The Frozen Echo. Greenlnd and the Exploration of North America, ca. a.d. 1000-1500, Stanford University Press, 1996, e da Vikings. The North Atlantic Saga, a cura di W. Fitzhugh e E. Ward, Washington 2000.

 

Fonte: http://didattica.uniroma2.it/assets/uploads/corsi/39411/jcmvGroenlandia.doc

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