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Significato di Metrica
Metrica: La versificazione italiana, a differenza di quella latina, è sillabico-accentuativa. Per i latini, infatti, la metrica si basava sulla quantità (o durata) di vocale e di sillaba. L’opposizione fonematica vocale breve (ĕ) vocale lunga (ē) non di rado sanciva altresì una opposizione semantica (vĕnit, «egli viene» VERSUS vēnit, «egli venne»). La quantità della penultima determinava la posizione dell’accento e, almeno nel Latino arcaico, la differenza tra una sillaba breve e una sillaba lunga era data verosimilmente dalla maggiore durata della vocale (restando all’esempio, immaginiamo di leggere uenit, «egli viene» VERSUS ueenit, «egli venne»). Col passare dei secoli, a partire dalle regioni periferiche dell’impero romano, secondo una dinamica centripeta il senso della quantità e quindi della durata cominciò a perdersi e le vocali brevi iniziarono ad essere pronunciate aperte e le vocali lunghe chiuse. La distinzione non fu, dunque, più di durata (vocale breve VERSUS vocale lunga) ma di timbro (vocale aperta VERSUS vocale chiusa). Quando « il Latino cominciò ad estendersi in Europa e in Africa e si sovrappose a lingue che, nel loro sistema vocalico, non conoscevano l’opposizione fonematica fra vocali lunghe e vocali brevi, il senso della quantità cominciò a perdersi , Sant’Agostino dice espressamente che Afrae aures de correptione vocalium vel productione non iudicant e avverte che gli Africani confondevano facilmente ŏs ‘osso’ con ōs ‘bocca’» (C. TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine, Bologna, Patron, 1982, 237). La metrica studia l’insieme delle regole e delle convenzioni che si sono codificate nel tempo e che riguardano la struttura ritmica dei versi e la loro tecnica compositiva. Elementi strutturali di un testo poetico sono: la misura (il numero di sillabe o di posizioni) e dunque il tipo di verso, la distribuzione degli accenti (o degli ictus) sulle sillabe e sulle parole, e quindi il ritmo, le pause, la disposizione delle rime, le strutture di più versi e quindi i tipi di strofa, le strutture di più strofe e quindi il genere metrico (sonetto, ballata, madrigale, canzone, ecc.). Nelle metrica italiana due versi sono dello stesso tipo se hanno lo stesso numero di sillabe. Secondo il principio dell’isocronismo sillabico le parole vengono sentite di uguale durata se hanno lo stesso numero di sillabe e non lo stesso numero di fonemi: ala, cane, posta, strambo sono cinque parole «lunghe uguali», in quanto pronunciate con due emissioni di voce (due sillabe), anche se si va dai tre fonemi di ala ai sette di strambo. La sillaba è l’unità metrica della lingua italiana. Essa si costituisce di un fonema o di un insieme di fonemi che si possono articolare in modo autonomo attraverso una sola emissione di voce. Si ha iato quando due vocali successive nel corpo della parola costituiscono due sillabe distinte anziché una. Si ha iato dopo i prefissi bi-, ri-, tri-: bi en nio, ri u ni re, ri a ve re, tri an go lo, quando non si ha né la i né la u e si incontrano le vocali a, e, o: cor te o, pa e se, e ro e, quando una delle due vocali è i o u accentata: spì a, pa ù ra e i derivati da parole che hanno l’accento sulla i e sulla u: spi a re, pa u ro so. I dittonghi sono delle unità sillabiche composte di una i o una u semiconsonantiche (o semivocaliche) più una vocale con o senza accento. I dittonghi (ia, ie, io, iu, ua, ue, uo, ui) possono essere ascendenti e discendenti. Gli ascendenti si chiamano così perché in essi la sonorità aumenta passando dal primo al secondo elemento e sono quelli che presentano la semiconsonante i o u prima della vocale: nuoto, chiudi, piazza, quello, pioggia. I discendenti presentano, invece, prima la vocale e poi la i o la u semivocalica: paura, causa, fai, poi, altruista, pneumatico, sei. I trittonghi sono composti da tre vocali pronunciate con una sola emissione di voce e formano una sola sillaba. Sono formati da i e u semiconsonantiche più una vocale accentata o da i semiconsonantica più vocale accentata più i semivocalica: buoi, miei. suoi. I digrammi sono rappresentati dai gruppi ch, gh, ci, gi, gl, gn, sc. Se il digramma gl, oltre che da una i è seguito da un’altra vocale, il gruppo gli forma un trigramma.Un altro aspetto importante della metrica riguarda la sillabazione. Per quanto riguarda il computo delle sillabe grammaticali valgono in generale le seguenti regole: «[…: una vocale, quando è all’inizio di parola ed è seguita da una sola consonante, fa sillaba a sé: a-mi-co. Le vocali di un dittongo o di un trittongo non possono mai essere divise e, quindi, formano una sola sillaba: a-iuo-la, pie-de. Erroneamente alcuni gruppi di vocali possono essere presi per dittonghi. Per non sbagliare è importante sapere che non forma dittongo il gruppo costituito dalla vocale i seguita da un’altra vocale nelle parole composte in cui la i appartiene alla prima parte del composto e le altre vocali alla seconda parte: ri-u-sci-re, chi-un-que. Allo stesso modo non forma dittongo e quindi è separabile dal resto la i seguita da altre vocali nelle parole derivate, se la forma primitiva della parola era accentuata sulla i e perciò non poteva formare dittongo: spi-a-re (da spì-a). Due vocali in iato possono essere divise: ma-e-stro, e-ro-e, una consonante semplice posta tra due vocali o seguita da vocale forma sempre sillaba con la vocale che segue: pa-lo, a-mo-re, fi-lo-so-fo, le consonanti doppie si dividono sempre fra due sillabe, cioè una sta con la vocale che precede e l’altra con quella che segue: bal-lo, car-ret- tie-re. I gruppi di due o più consonanti diverse tra loro e consecutive formano sillaba con la vocale che le segue se costituiscono un gruppo che può trovarsi all’inizio di una parola: ca-pri-no, de-sti-no, di-ma- gri-re (in italiano esistono parole che iniziano con pri-, sti-, gri-: primo, stima, grigio), i gruppi di due o più consonanti diverse tra loro e consecutive si dividono in modo che la prima consonante del gruppo vada con la vocale precedente e l’altra o le altre con la vocale della sillaba che segue se non costituiscono un gruppo che può trovarsi all’inizio di una parola. Ciò succede, in particolare, con i gruppi consonantici bd, bs, cm, cn, ct, dm, gm, lm, mb, mp, nc, nt ecc.: bac-te-rio, im-por-tan-za, dif-te-ri-te, com-bi-na-zio-ne, la s seguita da una o più consonanti (la cosiddetta s preconsonantica) forma sillaba con la vocale che segue: ri-spo-sta, e-sclu-sio-ne, le parole composte con i prefissi trans-, tras-, dis-, cis-, in- e simili si possono dividere secondo le regole citate, oppure, specialmente se nella parola i due componenti sono sentiti ancora come distinti, conservando integro il prefisso: così si può sillabare tanto tras-por-ta- re quanto tra-spor-ta-re, tanto dis-per-de-re quanto di-sper-de-re. La tendenza della lingua, tuttavia, è quella di rispettare le regole generali: tra-spor-ta-re, di-sper-de-re, di-spor-si, i digrammi e i trigrammi non si dividono mai: in-ge-gno, bi-scia, fi-glia-stro» (M. SENSINI, La grammatica della lingua italiana, Milano, Mondadori, 37-8 ). Il verso è senza dubbio l’elemento fondamentale del testo poetico. Infatti chiunque abbia sotto gli occhi un testo poetico lo riconosce immediatamente come tale per il fatto stesso che è scritto in versi, ossia per il fatto che l’autore nel suo gioco compositivo di stacchi ed accordi non sfrutta tutto lo spazio disponibile ma a un certo punto va a capo. Del resto la parola verso deriva dal verbo latino VERTERE che vuol dire appunto «tornare indietro, girare», mentre prosa deriva dall’aggettivo latino PRORSUS (PROSUS) che significa «ciò che va in linea retta». Il poeta nell’andare a capo determina ogni volta un particolare rapporto uditivo (piano fonetico), tra voce/silenzio, e visivo (piano grafico), tra presenza/assenza degli elementi grafici sulla superficie del foglio. Gli elementi costitutivi del verso italiano sono la sillaba metrica e l’accento (ossia la posizione e l’ictus). Il verso è costituito da un certo numero di sillabe metriche accentate e non (toniche e atone). Il numero delle sillabe metriche, o posizioni, determina la struttura metrica, mentre la struttura ritmica è data dalla presenza di ictus in certe posizioni, secondo uno schema fisso o entro certi limiti variabile. Si chiamano forti le posizioni marcate da un ictus, deboli le altre. A seconda del numero delle sillabe, il verso avrà misure diverse (da un minimo di due a un massimo di sedici, bisillabo, trisillabo, quadrisillabo o quaternario, quinario, senario, settenario, ecc) e sarà parisillabo o imparisillabo. Non sempre tuttavia le sillabe metriche coincidono con le sillabe grammaticali. Dal Canzoniere petrarchesco (CCCIII, v. 5) si veda l’esempio di un celebre verso di sedici sillabe grammaticali ma di undici sillabe metriche: Fior’, frondi, herbe, ombre, antri, onde, aure soavi (Fior’, fron di, her be, om bre, an tri, on de, au re so a vi). Per sinalefe si contano undici posizioni, diventando un endecasillabo: Fior’, frondi, ^ herbe, ^ ombre, ^ antri, ^ onde, ^ aure soavi (Fior’, fron diher beom brean trion deau re so a vi). Per un corretto computo delle sillabe metriche si deve, quindi, tener conto delle figure metriche e della posizione dell’accento sull’ultima parola del verso. Le figure metriche sono la sineresi e la dieresi, la sinalefe e la dialefe, la sinafìa, l’episinalefe, l’anasinalefe e la compensazione. La sineresi unisce in un unico suono (quindi in un’unica sillaba metrica) due vocali contigue che a regola (ossia nella sillaba grammaticale) formano due sillabe distinte (iato), per cui il verso conta una misura in meno. Ad esempio, in una lirica di Leopardi si legge: Ed er ra l’ar mo nia per que sta val le. La dieresi, figura metrica opposta alla sineresi, invece scinde in due una coppia di vocali contigue normalmente considerate come un solo suono (dittongo) nel conteggio delle sillabe. Si considerano perciò come due sillabe metriche distinte due vocali contigue che formano una sola sillaba grammaticale. Graficamente la dieresi viene rappresentata (ma non sempre) da due puntini, collocati sopra la prima delle due vocali: al-cï-o-ne anziché al-cio-ne. Dalla Commedia (DANTE, Purgatorio, I, v. 13): Dol ce co lor d’o rï en tal zaf fi ro. La sinalefe, come da esempio precedente (Fior’, frondi, ^ herbe, ^ ombre, ^ antri, ^ onde, ^ aure soavi) unisce in un’unica sillaba metrica la sillaba finale di una parola con la sillaba iniziale della parola successiva, per cui nel conteggio metrico il verso conta una misura in meno. La dialefe, figura metrica opposta alla sinalefe, consiste nel tenere distinte, nel computo delle sillabe metriche, la vocale finale di una parola e quella iniziale della parola successiva, determinando perciò due emissioni di suono. I casi in cui più facilmente si riscontra l’uso della dieresi sono quando la prima delle due vocali è tonica (parola tronca): E tu che se’ co stì, a ni ma vi va. Oppure dopo alcuni monosillabi: Chi ˇ u dì mai d’uom ve ro na scer fon te? Rarissimo l’uso di dieresi tra due vocali atone: D’in fan ti ˇ e di fem mi ne ˆ e di vi ri. La sinafìa, l’episinalefe, l’anasinalefe e la compensazione invece, rientrano tra quei fenomeni metrici (tipici se non esclusivi della poesia del Pascoli) che hanno in comune il superamento del limite prosodico di fine verso. La sinafìa - che propriamente significa coniunctio, congiunzione metrica fra due versi - si verifica quando l’ultima sillaba di un verso viene computata nella misura di quello successivo, iniziante per consonante: Si dondola dondola dòndola / senza rumore la cuna / nel mezzo al silenzio profondo (G. PASCOLI, Il canto della vergine, vv. 49-51). La sillaba finale di dondola (parola finale di un verso novenario sdrucciolo) è computata come prima posizione del verso di otto sillabe (anziché nove), che segue: senza. In tal modo si sana la sua misura irregolare. L’episinalefe (o sinalefe interversale progressiva) si ha, invece, quando la vocale dell’ultima sillaba di un verso - che dovrebbe essere piano e invece è sdrucciolo – si fonde (o entra in sinalefe) con la sillaba iniziale del verso seguente, iniziante non per consonante ma per vocale: È l’alba: si chiudono i pètali / un poco gualciti, si còva / dentro l’urna molle e segrèta / non so che felicità nuova (G. PASCOLI, Il gelsomino notturno, vv. 21-24). In quest’ultima strofa pascoliana il primo verso è un novenario sdrucciolo, gli altri tre che seguono sono novenari piani. Nonostante vi sia la legittimità metrica del primo verso (infatti, nel computo sillabico, nei versi sdrucciolo e bisdrucciolo conta solo la prima delle due o tre sillabe atone che seguono l’ultima sillaba tonica), Pascoli sana l’apparente asimmetria creando la fusione tra l’ultima sillaba di petali (di fatto e tuttavia ininfluente e da non considerarsi comunque posizione per il primo verso) e la prima sillaba del verso seguente: un. Si ha, invece, anasinalefe quando la sillaba eccedente, che si trova all’inizio di un verso che comincia per vocale, si fonde con l’ultima sillaba del verso precedente (sinalefe interversale regressiva): […: pei bimbi che mamma le andava / a prendere in cielo (G. PASCOLI, La figlia maggiore, vv. 7-8). Il componimento dei Canti di Castelvecchio è costituito di sedici strofe tetrastiche formate da tre novenari più un quinario. In alcune, però, al posto di un quinario c’è un senario apparente, che l’anasinalefe come da esempio trasforma in quinario. Si ha, infine, compensazione quando la sillaba finale di un verso sdrucciolo viene computata nel verso seguente ipometro, cioè mancante di una sillaba. Nell’esempio che segue il primo verso è un novenario sdrucciolo seguito da un verso ipometro (ottonario): […: Dei fulmini fragili restano / Cirri di porpora ^ e d’oro (G. PASCOLI, La mia sera, vv. 19-20 ). Con il termine accento, invece, si designa la più forte intensità di voce con cui si pronuncia la vocale della sillaba alla quale si dà il maggior rilievo tonale nella parola o nella frase. Secondo che siano o meno accentate, le vocali (e le corrispondenti sillabe cui appartengono) si distinguono in toniche e atone. L’accento che sottolinea l’intonazione della parola, dicesi tonico (o, più propriamente, intensivo). Quando viene espressamente segnato, prende il nome di grafico, ne esistono due tipi: l’accento grave ( \ ) e l’accento acuto ( / ). Secondo una convenzione ormai consolidata, si riserva l’accento grave ai suoni vocalici aperti (à, è, ò) e l’accento acuto a quelli chiusi (é, í, ó, ú). Quando si opera tale distinzione (vocale aperta e vocale chiusa), si parla di accento fonico. L’accento tonico può cadere in italiano sull’ultima (parole tronche o ossitone: città, virtú), penultima (parole piane o parossitone: lìbro, lettùra), terzultima (parole sdrucciole o proparossitone: tàvolo, lúcido), quartultima sillaba (parole bisdrucciole: andàtevene, càpitano), quintultima (parole trisdrucciole: comúnicamelo) e sulla sestultima sillaba (parole quadrisdrucciole: fabbrichiàmocelo). In poesia, accanto all’accento tonico, esiste, dunque, l’accento ritmico o ictus, ossia la sede del verso dove la voce insiste con più forza. Il ritmo è la cadenza musicale da cui deriva l’armonia poetica che caratterizza il verso. Esso è dato, come detto in precedenza, dal numero delle sillabe metriche del verso e dagli accenti ritmici disposti secondo particolari schemi in ogni tipo di verso. Ad esempio: il trisillabo (o ternario) ha un solo ictus sulla seconda posizione: Si tàce, / non gètta / più nùlla./ Si tàce,/ non s’òde / romóre / di sòrta, / che fórse…/ che fórse / sia mòrta? (A. PALAZZESCHI, La fontana malata ). Il quadrisillabo (o quaternario) ha ictus sulla prima e sulla terza posizione: Ècco ^ il móndo / vuòto ^ e tóndo / scénde, s’àlza / bàlza ^ e splénde. / […: / Ècco ^ il móndo. / Sùl suo gròsso / antìco dòsso / v’è ùna schiàtta / e sózza ^ e màtta,…(A. BOITO, Mefistofele, Atto II, Scena I). Il senario ha ictus sulla seconda e sulla quinta posizione: E càdono l’óre / giù giù, con un lènto / gocciàre. Nel cuòre / lontàne risènto / paròle di mòrti… (G. PASCOLI, Il nunzio, vv. 8-12). Il settenario, che è stato nella tradizione poetica italiana uno dei versi più usati, ha un ictus fisso sulla sesta posizione e l’altro mobile su una delle prime quattro: L’àlbero ^ a cui tendévi / la pargolétta màno, / il vèrde melogràno / da’ bei vermìgli fiòr, / nel muto ^ òrto solìngo / rinverdì tutto ^ or óra / e giùgno lo ristòra / di lùce ^ e di calór (G. CARDUCCI, Pianto antico, vv. 1-8). L’ottonario ha ictus sulla terza e sulla settima posizione: Quant’è bèlla giovinèzza / che si fùgge tuttavìa: / chi vuol èsser lieto, sìa, / di domàn non c’è certèzza. / Quest’è Bàcco e Ariànna, / belli, ^ e l’ùn dell’altro ^ ardènti: / perché ^ ‘l tèmpo fugge ^ e ^ ingànna, / sempre ^ insième stan contènti (LORENZO IL MAGNIFICO, Canzona di Bacco, vv. 1-8). Il novenario ha ictus fissi che cadono sulla seconda, sulla quinta e sull’ottava posizione: Il giòrno fu pièno di làmpi,/ ma óra verrànno le stélle, / le tàcite stélle. Nei càmpi / c’è un brève gre gré di ranèlle. / Le trèmule fóglie dei piòppi / trascórre ^ una giòia leggièra (G. PASCOLI, La mia sera, vv. 1-6). Il decasillabo ha ictus sulla terza, sulla sesta e sulla nona posizione: Soffermàti sull’àrida spónda, / volti ^ i guàrdi ^ al varcàto Ticìno, / tutti ^ assòrti nel nòvo destìno, / certi ^ in còr dell’antìca virtù, / han giuràto: Non fìa che quest’ónda / scorra più tra due rìve stranière, / non fia lòco ^ ove sòrgan barrière / tra l’Itàlia ^ e l’Itàlia, mai più! (A. MANZONI, Marzo 1821, vv. 1-8). L’endecasillabo è un verso di undici posizioni con ictus costante sulla decima posizione e ictus principale mobile che cade per lo più sulla quarta o sulla sesta posizione, sulla quarta e ottava, oppure sulla quarta e settima (oltre, naturalmente, la decima). L’endecasillabo ha una cesura (o pausa). La cesura divide il verso in due emistichi, uno più breve e uno più lungo. Quando il secondo ictus principale cade sulla quarta sillaba il primo emistichio è più corto e allora il verso è un endecasillabo a minore, quando invece cade sulla sesta sillaba il primo emistichio è più lungo, e si tratta allora di un endecasillabo a maiore. La cesura si trova alla fine della parola che porta l’ictus principale, e non può quindi cadere all’interno. Endecasillabo a minore: Sì che ^ il piè fèrmo || sempre era ‘l più basso (DANTE, Inferno, I, 30). Endecasillabo a maiore: Nel mezzo del cammìn || di nostra vita (DANTE, Inferno, I, 1). Importante per il livello metrico è l’accento e quindi il computo sillabico. Il verso italiano può presentare uscite diverse. Può finire con una parola accentata sull’ultima sillaba (parola ossitona, o tronca), sulla penultima (parossitona, o piana), sulla terzultima (proparossitona, o sdrucciola), sulla quartultima (bisdrucciola). In relazione a questo, può dunque essere un verso tronco, piano o sdrucciolo. Può anche, raramente, essere bisdrucciolo, quando l’ictus cade sulla quart’ultima posizione. Dal momento che le parole italiane sono per la maggior parte accentate sulla penultima sillaba (ovvero sono parole piane), il verso tipico italiano è il verso piano. Questo è importante per il computo sillabico, ossia per il conteggio delle posizioni. Nella metrica italiana si contano tutte le posizioni sino alla sillaba atona (non accentata) che segue l’ultima sillaba tonica (accentata) del verso piano. Vale a dire che, se la parola finale del verso ha l’accento tonico sull’ultima sillaba (parola tronca e verso tronco), allora l’ultima sillaba dev’essere calcolata come doppia posizione. Come esempio si propone un endecasillabo tronco che in realtà ha dieci sillabe (qui con sinalefe), ma l’ultima (làr) nel computo vale doppia (1+1): van da San Gui do ^ in du pli ce fi làr (G. CARDUCCI, Davanti San Guido, v. 2). E così un settenario tronco che in realtà ha sei sillabe (qui con sinalefe): sguar do cer can do ^ il ciél (A. MANZONI, Morte di Ermengarda, v. 6). Se, invece, la parola finale del verso ha l’accento tonico sulla penultima sillaba (parola piana e verso piano), allora il computo sillabico è regolare. Segue un endecasillabo piano: il mi glior tem po del la no stra vì ta (V. CARDARELLI, Autunno, v. 11). Se, infine, la parola finale del verso ha l’accento tonico sulla terzultima sillaba o sulla quartultima (parola sdrucciola o bisdrucciola), le ultime due o tre sillabe atone che seguono dopo l’ictus valgono nel computo solo una posizione, o, più correttamente, vale la prima atona ma non le succesive. Come esempio si propone un noto settenario sdrucciolo che in realtà ha otto sillabe, ma l’ultima (de) non rientra nel computo: Spar sa le trec ce mór bi de (A. MANZONI, Morte…, v. 1). Riepilogando, quindi, al fine del computo delle posizioni, i versi tronchi, sdruccioli e bisdruccioli si misurano sul verso piano, contando rispettivamente una o due posizioni in meno oppure una posizione in più. Così nei versi sdrucciolo e bisdrucciolo conta solo la prima delle due o tre sillabe atone che seguono l’ultima sillaba tonica, mentre nel verso tronco bisogna aggiungere una posizione, che in realtà non esiste. Figure di accento sono, infine, la sistole e la diastole. Si ha sistole quando l’accento tonico di una parola si ritrae verso l’inizio di questa: […: la notte ch’io passai con tanta pièta (anziché pietà) (DANTE, Inferno, I, v. 21). Si ha, invece, diastole quando - per converso - l’accento tonico di una parola si sposta in avanti rispetto alla sua sede naturale: […: abbraccia terre il gran padre Oceàno (anziché Ocèano) (U. FOSCOLO, Dei Sepolcri, v. 291). L’ipèrmetro è, invece, un tipo di verso che oltrepassa la misura prestabilita, vale a dire che ha una o più sillabe in più del dovuto. Il verso ipòmetro ha, al contrario, una o più sillabe in meno. L’ultima sillaba del verso ipèrmetro si fonde con la prima sillaba del verso successivo (episinalefe), che sovente è ipometro, avente cioè una sillaba in meno: Dei fulmini fragili rèstano / cirri di porpora e d’oro (G. PASCOLI, La mia sera, 17-20). L’ultima sillaba del novenario sdrucciolo viene assegnata all’ottonario piano che segue (verso ipòmetro) che diventa così novenario. Oltre i casi di ipometrìa e ipermetrìa apparente tramite giunzione con il verso che segue o che precede (si vedano altresì le figure della sinafìa e dell’episinalefe) i fenomeni di ipometrìa e ipermetrìa sono riscontrabili nella poesia anisosillabica soprattutto delle Origini e, in genere, nella poesia popolare, oppure, come accade nella poesia d’Avanguardia del Novecento, a scelta consapevole di trasgressione delle norme metriche, più di rado tali fenomeni possono essere dovuti ad imperizia autorale. Soprattutto a partire dal XIV secolo in avanti il sistema metrico della poesia italiana è fondamentalmente isosillabico, nel senso che generalmente tutti i versi dello stesso tipo hanno un numero eguale di sillabe metriche (contate secondo le convenzioni appena illustrate), a meno che l’architettura strofica non preveda l’alternanza di versi di differente lunghezza. Nella poesia del Duecento, epoca in cui si accetta ancora una certa flessibilità metrica, la versificazione isosillabica coesiste con quella anisosillabica, cioè con forme di versificazione nelle quali a versi di misura regolare si alternano, senza alcun schema o ordine prestabilito, versi più lunghi (per anacrusi) o più brevi (per acefalìa) in genere di una o due sillabe rispetto alla misura di un tipo di verso di base. Tali oscillazioni o escursioni sillabiche erano date soprattutto dal fatto che nella gerarchia degli elementi metrici, prevaleva la rima sull’esattezza del computo sillabico. Ciononostante non si perdeva il riferimento al verso di base e il senso che i versi comunque si riferivano ad uno stesso tipo. Nelle laude, ad esempio, sovente si trovano novenari e decasillabi in componimenti di base ottonaria: Mia è la terra cicigliana / Calavrïa e Puglia piana, / Campagna e Terra romana / Con tutto el pian de Lombardia (JACOPONE DA TODI, Povertade ennamorata, vv. 19- 22). La strofa di ottonari di Iacopone si chiude con l’ultimo verso che ha la prima sillaba fuori battuta, cioè in anacrusi (fenomeno metrico che consiste, appunto, nell’aggiunta di una o più sillabe ad inizio di verso). In alcuni testi giullareschi, inoltre, si riscontra l’inserimento di ottonari in componimenti di base novenaria. Nel Quattrocento l’anisosillabismo si trova negli endecasillabi dei cantari. La trasmissione orale di questi testi, in forma recitata o cantata, di fatto consentiva di porre in secondo piano – in quanto oggettivamente non sempre percepibili - le oscillazioni sillabiche in eccesso o in difetto rispetto alla misura di base. Forme di anisosillabismo si trovano a partire da Pascoli anche in alcuni poeti del Novecento come Montale e Pasolini. Discorso a parte merita altresì la metrica barbara. Nel 1877 uscirono le Odi barbare di Giosuè Carducci, il primo libro in versi costruiti secondo gli schemi della metrica barbara al quale fece seguito nel 1882 le Nuove Odi barbare e nel 1889 le Terze Odi barbare. Con la metrica barbara Carducci tentò di riprodurre nel sistema sillabico-accentativo italiano la poesia classica greco-romana fondata sulla quantità, in modo che al rapporto fra lunghe e brevi corrispondesse quello fra toniche ed atone. Carducci definì barbare le sue Odi perché tali sarebbero sembrate agli antichi. Tuttavia il vero iniziatore della metrica barbara «deve essere considerato il Chiabrera, il quale, prendendo come modello la poesia lirica di Orazio, ne imitò innanzi tutto le strofe e i ritmi trasponendoli in italiano mediante la combinazione di vari versi. Il Rolli, il Fantoni, il Carducci e il Pascoli non fecero che riprendere e perfezionare le soluzioni del Chiabrera» (A. MARCHESE, Dizionario…, 197). Con la definizione di versi liberi si designano quei versi che non rispondono alla regolarità propria della tradizione metrica di sillabe, di accenti e di forme strofiche. I versi liberi sono, in altri termini, quei versi che non si basano su un numero fisso di sillabe e si possono applicare a diversi contesti metrici. Essi, «liberi» e indipendenti da schemi metrici precostituiti, assegnano un’importanza fondamentale alla disposizione grafica delle parole nello spazio bianco della pagina. Il verso libero moderno fu teorizzato e utilizzato da poeti come Baudelaire e Withman ma soprattutto dai poeti simbolisti (Rimbaud, Verlaine, Kahn, Laforgue). Essi col verso libero poterono oltre che esplicitare il rifiuto della tradizione, altresì avere la possibilità, nel corrispondere alla «proteiforme tensione ritmica della parola», di costruire all’insegna della novità e dell’eversività un proprio linguaggio poetico. In realtà il ricorso a una poesia libera da schemi metrici, da norme codificatorie e versificatorie condivise e consolidate, fa parte di un fenomeno storico che parte prima dell’Ottocento, un fenomeno più o meno carsico che ha accompagnato e attraversato tutta la produzione poetica italiana. La polimetria corriva, l’anisosillabismo, l’assenza di rime, l’asimmetria compositiva, fanno parte di un libero gioco combinatorio proprio di generi metrici soprattutto popolari (il discordo, la caccia, la frottola, il madrigale cinquecentesco, la canzone a selva, l’endecasillabo sciolto, gli endecasillabi irrelati sino alla canzone libera leopardiana). La categoria del verso libero può essere schematizzata in tre differenti tipologie: la polimetria, che consiste nell’utilizzo di versi regolari (endecasillabo, settenario, novenario, ecc.) che però si susseguono in modo imprevedibile, senza costituire strofe regolari, il verso-frase, che varia per numero di battute, accenti ed estensione, coincide con la pausa di fine verso (quindi con la frase) creando effetti sentenziosi, il verso lineare, il cui carattere metrico – in assenza di ogni modello metrico-ritmico - viene affidato solamente alla linea tipografica e allo spazio bianco e che può essere rappresentato con una pausa nella dizione, l’anisosillabismo, quando – come già spiegato precedentemente - a versi di misura regolare si alternano, senza alcun schema o ordine prestabilito, versi più lunghi (per anacrusi) o più brevi (per acefalìa) in genere di una o due sillabe rispetto alla misura di un tipo di verso di base. La strofa è una unità metrica (o periodo metrico o modulo istituzionale) di più versi, di misura eguale (strofa omometrica) o di misura diversa (strofa eterometrica), disposti secondo uno schema prestabilito (di versi, rime o assonanze) figlio delle convenzioni metrico-letterarie. Sino al secolo scorso si componevano prevalentemente poesie con strofe fisse, composte cioè secondo regole codificate relativamente al numero e alla tipologia dei versi, alla distribuzione degli ictus, alla disposizione delle rime. La strofa libera, non vincolata a un preciso schema metrico e numero di versi, fu inventata dal Leopardi. A partire dal Novecento - quando cioè i poeti iniziano ad essere più liberi di costruire versi e strofe di varia lunghezza - con questo termine si designa più generalmente un raggruppamento di versi, all’interno di un componimento poetico, separato da uno spazio tipografico dal resto del testo. Le strofe a schema fisso della nostra tradizione prendono il nome dal numero di versi da cui sono composti. Esse sono: il distico, la terzina, la quartina, la sestina, l’ottava, la stanza. Il distico è una strofa di due versi di eguale misura per lo più in rima baciata (AA, BB...) o alternata (AB, AB...). Nella metrica classica la forma più comune è quella del distico elegiaco, composta da un esametro seguito da un pentametro. Una forma particolare di distico classico è altresì il distico ecoico, in cui l’emistichio finale del pentametro è uguale a quello iniziale dell’esametro:
Fonte: http://www.filologiasarda.eu/didattica/glossario_manca.pdf
Sito web da visitare: http://www.filologiasarda.eu/
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