Le nove parti del discorso

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Le nove parti del discorso


Morfologia ingenua

Nel capitolo precedente abbiamo osservato che la parola parola è ambigua, in quanto nel nostro parlare quotidiano la usiamo per riferirci a oggetti di tipi diversi, tra i quali possiamo distinguere, con appositi termini tecnici, almeno lessemi, loro forme flesse e loro forme contestuali, e loro occorrenze.
Nel seguito di questo libro continueremo, soprattutto nei primi capitoli, a usare qualche volta la parola parola, quando non sia utile, necessario o indispensabile fare riferimento alle distinzioni sopra introdotte.
Tutti noi usiamo le parole continuamente, e abbiamo delle idee su come esse siano fatte. Alcune di queste idee sono parte della nostra competenza di parlanti nativi di una lingua.
Altre delle idee che abbiamo su come sono fatte le parole non ci vengono dalla nostra competenza di parlanti, ma da quello che abbiamo studiato a scuola. A partire dalle elementari, e in alcuni casi fino alla fine delle superiori, ci è stato presentato un insieme di termini con cui nominare le caratteristiche e le parti delle parole dell’italiano e delle altre lingue che abbiamo studiato.
Questa terminologia non è neutra: è invece il frutto di una serie di tradizioni di studio, spesso distinte tra loro e incrociate in epoca moderna, a volte dando luogo ad incoerenze.
Esula dagli obiettivi di questo volume ripercorrere la storia del metalinguaggio utilizzato per le nozioni che rientrano nel campo di studio della morfologia. Qui di seguito richiameremo però alcuni dei termini e dei concetti più comunemente utilizzati nelle opere descrittive non specialistiche, quali vocabolari, grammatiche e manuali per lo studio delle lingue straniere, e nell’insegnamento pre-universitario (e qualche volta anche in corsi universitari di materie diverse dalla linguistica). Molti dei concetti e dei termini introdotti in questo capitolo saranno messi in discussione nei capitoli successivi, ma conoscerli è comunque indispensabile per avere un vocabolario minimo comune per fare riferimento ai fenomeni in discussione.
L’insieme dei concetti e dei termini utilizzati nell’insegnamento scolastico per far riferimento agli oggetti che ricadono nell’ambito di studio della morfologia può essere considerato una “morfologia ingenua”, nel senso in cui Graffi (1994, pp. 25-33), ispirandosi a concetti sviluppati nell’ambito della matematica e della fisica, parla di una “sintassi ingenua”, che comprende l’uso intuitivo di nozioni che fanno riferimento a oggetti che cadono nell’ambito di indagine della sintassi (ad esempio, “frase”) e la formulazione di descrizioni non fondate su principi espliciti. Anche noi dovremo passare, nel corso dei diversi capitoli di questo libro, dalla presentazione di una morfologia ingenua a quella dei principi fondamentali del livello di analisi morfologica delle lingue.

2.1       L’analisi grammaticale

 

Molto di quello che sappiamo delle parole può essere riassunto in quello che nella terminologia dell’insegnamento scolastico tradizionale si chiamava analisi grammaticale.
L’analisi grammaticale si occupa di analizzare le parole intese come occorrenze delle forme (flesse o contestuali) dei lessemi, non direttamente i lessemi. Ad esempio, l’analisi grammaticale minima di una parola come casa è “sostantivo femminile singolare”; un’analisi più ricca può definire casa come “nome comune di cosa, concreto, femminile, singolare”.
Si osservi che alcune delle informazioni che vengono date nell’analisi grammaticale di un’occorrenza si riferiscono all’intero lessema che l’occorrenza rappresenta, mentre altre si riferiscono solo alla specifica forma che l’occorrenza rappresenta: le proprietà “nome comune di cosa, concreto, femminile” rimangono vere anche se analizziamo un’occorrenza della forma case del lessema casa, mentre la proprietà “singolare” è vera per la forma casa, ma se analizziamo case l’analisi grammaticale dovrà essere “nome comune di cosa, concreto, femminile, plurale”.
Vediamo ora un altro esempio. Se facciamo l’analisi grammaticale della forma belle, diremo che si tratta di un “aggettivo qualificativo, femminile, plurale”. Anche qui, una parte di questa informazione è vera per tutte le forme del lessema bello: tutte le forme di questo lessema sono infatti aggettivi qualificativi. Ma, diversamente da quanto accade per il nome, un lessema italiano di categoria aggettivo non mantiene sempre lo stesso genere, ma ha forme flesse per i due generi, oltre che per i due numeri: il lessema italiano bello ha quindi le quattro forme flesse bello, bella, belli, belle, rispettivamente maschile singolare, femminile singolare, maschile plurale e femminile plurale.
Da questo esempio scopriamo che le proprietà delle parole prese in considerazione dall’analisi grammaticale possono presentare caratteristiche diverse in combinazione con lessemi di categorie diverse: mentre il genere nei nomi è una proprietà del lessema, che rimane invariata in tutte le sue forme flesse (non esiste “il maschile di casa”!), negli aggettivi il genere non è una proprietà del lessema: gli aggettivi hanno forme flesse dei due generi.
Analizziamo ora una forma verbale, ad esempio mangiano. Si tratta della “terza persona plurale del presente indicativo attivo del verbo transitivo mangiare”. Qui troviamo, al solito, informazioni che riguardano l’intero lessema  mangiare (il fatto che si tratta di un verbo transitivo) e informazioni sulla specifica forma mangiano (il fatto che si tratta della terza persona plurale del presente indicativo attivo). Il numero di informazioni contenute nell’analisi grammaticale di questa forma è molto superiore a quello delle informazioni riguardanti forme di nomi o di aggettivi, e la natura di queste informazioni si sovrappone solo parzialmente: sia nell’analisi della forma verbale che in quella delle forme di nomi e aggettivi abbiamo trovato l’informazione “plurale”, ma solo per i nomi e gli aggettivi abbiamo trovato un’informazione come “femminile”, e solo per il verbo abbiamo trovato informazioni come “terza persona”, “presente”, “indicativo”, “attivo”.
L’analisi di questi pochi esempi ci è servita per richiamare alla mente una serie di conoscenze che abbiamo sulle parole.
Una prima cosa che sappiamo è che i lessemi appartengono a categorie diverse, come per esempio nomi, verbi, aggettivi. Queste categorie sono tradizionalmente chiamate parti del discorso; nella terminologia della linguistica moderna, le parti del discorso sono spesso denominate classi di parole (denominazione che porta con sé la ormai a noi ben nota ambiguità del vocabolo parola), oppure categorie lessicali, o anche, con termini che presentano alcuni svantaggi che tra breve illustreremo, categorie sintattiche o categorie grammaticali . Nel seguito di questo libro useremo intercambiabilmente il termine tradizionale parti del discorso e quello moderno categorie lessicali, mentre eviteremo di usare, per riferirci a categorie come “nome”, “verbo”, ecc., gli altri termini appena elencati.
Le diverse parti del discorso, cioè le diverse categorie lessicali, se non comprendono solo lessemi invariabili (come ad esempio la categoria degli avverbi) presentano un numero e un tipo di forme flesse diverso per ogni categoria. Le forme flesse dei lessemi di una certa categoria portano informazioni di vario tipo: ad esempio, le forme flesse degli aggettivi italiani portano informazioni sul genere e sul numero della forma, quelle dei verbi su persona, numero, tempo/ aspetto, modo e diatesi. La terminologia dell’insegnamento grammaticale tradizionale non comprende un iperonimo sotto il quale siano raggruppate categorie come persona, numero, modo, ecc.; nella terminologia della linguistica moderna, queste categorie sono denominate categorie grammaticali o proprietà morfosintattiche. Nel seguito di questo libro useremo intercambiabilmente questi due termini.
Le categorie grammaticali, o proprietà morfosintattiche, presentano in lessemi diversi, e/o in forme flesse diverse di uno stesso lessema, diversi valori: ad esempio, il lessema casa presenta il valore femminile nella categoria del genere, mentre il lessema libro presenta il valore maschile della stessa categoria; nel caso del lessema bello, che appartiene alla categoria lessicale degli aggettivi, la forma flessa bello presenta il valore singolare nella categoria grammaticale numero, e il valore maschile nella categoria grammaticale genere, mentre la forma flessa belle presenta il valore plurale nella categoria numero, e il valore femminile nella categoria genere. Nella terminologia dell’insegnamento grammaticale tradizionale non esiste un termine specifico per indicare quelli che qui abbiamo chiamato valori delle categorie grammaticali; nella terminologia della linguistica moderna, questi elementi vengono chiamati valori o anche tratti morfosintattici.
Osserviamo infine che l’analisi grammaticale tradizionale non  prevede una trattazione particolare del problema posto da quelle che nel cap. 1 abbiamo chiamato forme contestuali dei lessemi. Bello è una forma flessa di bello, ma anche una sua forma contestale, che è in distribuzione complementare con le forme bel e bell’ (un bel / *bello / *bell’ ragazzo, un bell’ / *bello / *bel amico, un amico bello / *bell’ / *bel); l’analisi grammaticale tradizionale non fa menzione di questo aspetto della forma bello, limitandosi alla specificazione dei valori presentati da questa forma nell’ambito delle categorie grammaticali proprie della categoria lessicale aggettivo in italiano.
Riassumendo, i lessemi appartengono a categorie lessicali (o parti del discorso); alcune categorie lessicali (quelle che non comprendono solo lessemi invariabili) esprimono determinate categorie grammaticali o, detto in altri termini, presentano determinate proprietà morfosintattiche; ogni categoria grammaticale o proprietà morfosintattica presenta in ciascuna forma flessa di un lessema un determinato valore o tratto morfosintattico.

2.2       Le classi di flessione: coniugazioni e declinazioni

Ci sono anche altre informazioni che abbiamo sulle parole, perché siamo parlanti nativi di una lingua o perché la abbiamo studiata. Ad esempio, tutti noi parlanti nativi dell’italiano sappiamo rispondere alle domande in (1):

  1. a.         qual è il plurale di casa?

b.         qual è il plurale di ala?
c.         qual è il plurale di pilota?

Sappiamo che il plurale di casa è case, quello di ala è ali, e quello di pilota è piloti. A pensarci bene, non si tratta di conoscenze banali: noi sappiamo che due nomi femminili che al singolare finiscono in -a, come casa e ala, formano il plurale in modo diverso, uno sostituendo la -a finale con -e e l’altro sostituendola con -i; e sappiamo anche che il nome pilota, che al singolare finisce anch’esso con -a, ma è maschile, forma il plurale sostituendo la -a con -i, come ala che è femminile, ma non come casa, che è femminile quanto ala e finisce con -a quanto ala e pilota.
Tutte queste cose le sappiamo in quanto parlanti nativi dell’italiano. Se interrogati su perché questi nomi si comportano così, probabilmente non sapremmo che cosa aggiungere: sappiamo che è così perché ce lo dice la nostra competenza di parlanti nativi, ma probabilmente non sappiamo inquadrare il fenomeno facendo ricorso a concetti teorici di un livello superiore.
Come parlanti dell’italiano, sappiamo anche eseguire le istruzioni in (2):

(2)       a.         mettere all’imperfetto la frase lo chiamo spesso

  1. mettere all’imperfetto la frase lo temo molto
  2. mettere all’imperfetto la frase dormo poco

Sappiamo che alle tre forme di prima persona singolare del presente indicativo chiamo, temo e dormo corrispondono le tre forme dell’imperfetto chiamavo, temevo e dormivo, e non, per esempio, *chiamevo, *temivo e * dormavo. Se interrogati sul perché è così, potremmo rispondere che è così perché chiamo è una forma del verbo chiamare, e il verbo chiamare è un verbo della prima coniugazione, e tutti i verbi della prima coniugazione hanno una prima persona singolare dell’imperfetto che finisce in -avo, e non in -evo (come i verbi della seconda coniugazione) o in -ivo (come i verbi della terza coniugazione). Questo tipo di spiegazione riusciamo a darla perché ci è stato detto esplicitamente che i verbi dell’italiano si raggruppano in diverse classi, dette coniugazioni:  i verbi che appartengono a una stessa coniugazione formano le proprie forme flesse nello stesso modo, e in un modo che può essere diverso da quello adottato in una coniugazione diversa.
A questo punto potremmo ripensare ai casi italiani visti in (1), e chiederci se i diversi modi di formare il plurale dei diversi nomi visti in (1) non si possano spiegare come dovuti al fatto che questi nomi appartengono a diverse classi, così come i diversi modi di formare l’imperfetto da parte di verbi che alla prima persona singolare del presente indicativo finiscono tutti in -mo (come chiamo, temo, dormo) sono dovuti al fatto che i tre verbi appartengono a tre diverse classi, dette coniugazioni. La risposta è sì: anche i nomi italiani, come i verbi, possono essere raggruppati in classi in base al modo in cui formano le proprie forme flesse. Casa appartiene alla stessa classe di arpa, vita, rosa, e migliaia di altri nomi che hanno il singolare in -a e il plurale in -e; ala e pilota appartengono alla stessa classe di poeta, papa, clima, e alcune centinaia di altri nomi che hanno il singolare in -a e il plurale in -i. Solo che nella tradizione grammaticale italiana non si è affermata una classificazione delle classi di flessione del nome, con classi ben definite e addirittura numerate, come le tre coniugazioni del verbo (o le cinque declinazioni del nome in latino). I nomi italiani sono raggruppabili in diverse classi di flessione, ma nella nostra tradizione di insegnamento grammaticale non si è fatto molto uso di questa possibilità, e non si è affermato quindi un sistema di denominazione o numerazione delle classi da tutti condiviso, probabilmente perché il numero di forme flesse dei nomi italiani è molto basso (si hanno solo due forme, il singolare e il plurale). La possibilità di raggruppare lessemi di una stessa categoria in classi è invece stata adottata nella tradizione grammaticale italiana per quanto riguarda i verbi: tutti noi abbiamo imparato fin dalle elementari la classificazione tradizionale dei verbi italiani in tre coniugazioni, che vengono indicate, facendo riferimeno alla terminazione della forma di citazione dei lessemi verbali italiani (l’infinito): la prima coniugazione comprende i  verbi in -are, la seconda i verbi in -ere, la terza i verbi in -ire.
Riassumendo, in questo paragrafo abbiamo riflettuto sul fatto che parte della nostra conoscenza delle parole comprende l’informazione che i lessemi che appartengono a una certa parte del discorso (i nomi, i verbi, ecc.) possono essere raggruppati in classi di flessione, che comprendono tutti i lessemi che formano le proprie forme flesse nello stesso modo. Le diverse tradizioni grammaticali possono dare riconoscimento esplicito all’esistenza di queste classi (come si è fatto per le declinazioni del nome in latino, e per le coniugazioni del verbo sia in italiano che in latino), oppure no (come nel caso delle classi di flessione del nome in italiano).

    1. Rapporti tra parole

 

Un tema che finora non abbiamo affrontato esplicitamente è quali siano i rapporti tra le diverse forme flesse di uno stesso lessema, che innegabilmente presentano parziali identità nel significante e nel significato.
Nella trattazione sulle forme flesse fin qui svolta, abbiamo usato formule del tipo “belli è la forma flessa maschile plurale di bello”, “belle è la forma flessa femminile plurale di bello”, ecc. Questo modo di concepire i rapporti tra queste forme è quello proprio della tradizione grammaticale greco-latina, ed è stato denominato modello a “parola e paradigma” (in inglese, “word and paradigm”). Dopo quello che abbiamo detto sull’ambiguità del termine parola, ci renderemo conto che sarebbe più corretto denominare il modello “lessema e paradigma”: tuttavia, poiché la formula “parola e paradigma” (e soprattutto il suo equivalente inglese) è in uso da decenni, potremo continuare ad usarla, a patto di tenere ben presente che in essa parola va intesa nel senso di lessema. Il paradigma di un lessema è l’insieme delle sue forme flesse. In un modello a parole e paradigma, le forme flesse di un lessema appartenente a una certa categoria lessicale sono concepite come realizzazioni di determinati valori delle proprietà morfosintattiche proprie dei lessemi di quella categoria lessicale. La realizzazione di questi valori è concepita come proprietà dell’intera forma flessa, e non di sue singole sottoparti. È l’intera forma bello a essere maschile e singolare, non sue singole componenti.
Tutti noi abbiamo però ben presente che è possibile assumere un punto di vista diverso sui rapporti tra le diverse forme flesse di un lessema. Secondo questo nuovo punto di vista, che è confluito con il precedente nel corpus di conoscenze che costituiscono l’oggetto dell’insegnamento grammaticale scolastico tradizionale, sono certe specifiche sottoparti delle forme flesse a portare certi valori delle proprietà morfosintattiche che la forma realizza. Sicuramente ci sono familiari formulazioni quali la seguente: “in bello, bell- è la radice e -o la desinenza del maschile singolare”.
Questo tipo di formulazione esprime un punto di vista completamente diverso da quello del modello a parole e paradigmi, il punto di vista secondo cui le forme flesse sono scomponibili in diversi elementi, ciascuno portatore di una parte del significato globale dell’intera forma. Il modello che assume questo punto di vista sulla costituzione delle forme flesse è stato chiamato modello a “entità e disposizioni” (in inglese, “items and arrangement”).
Il modello a entità e disposizioni ha avuto grandissimo successo nella linguistica del ventesimo secolo: è stato sviluppato soprattutto da studiosi appartenenti alla scuola dello strutturalismo nordamericano, ed è quello comunemente presentato nei manuali introduttivi di linguistica. Nel prossimo capitolo, quindi, lo presenteremo nel dettaglio. Anticipiamo però che questo modello, come vedremo nei capitoli successivi, presenta dei limiti, e che molti studiosi specialisti di morfologia recentemente si sono pronunciati in favore di un ritorno all’adozione di un modello a parole e paradigmi per spiegare la natura delle relazioni tra le diverse forme flesse di uno stesso lessema.

Esercizi

1.         Fare l’analisi grammaticale delle forme flesse di lessemi italiani elencate nella seguente tabella, utilizzando la terminologia introdotta in questo capitolo.

 

categoria lessicale

categorie grammaticali

valori

quelli

 

 

 

i

 

 

 

mela

 

 

 

vedrei

 

 

 

 

  1. Osservare le seguenti coppie di forme flesse di nomi del bulgaro:

                                    singolare         plurale
‘sedia’                         stol                  stolove
‘donna’                       žena                ženi
‘fornaio’                      pekar               pekari
‘temperamatite’          ostrilka            ostrilki
‘villaggio’                   selo                 sela
‘nonno’                       djado              djadovci
‘padre’                        bašta               bašti
‘città’                          grad                gradove

I lessemi elencati appartengono a diverse classi di flessione? se sì, a quante? come possiamo classificarle?

3.         Formulazioni seguenti sono carateristiche di un modello a parole e paradigmi o di un modello a entità e disposizioni?

  1. la forma inglese oxen è il plurale di ox

 

  1. -en è una possibile desinenza di plurale in inglese
  1. la forma latina amabatur contiene la radice am-, la vocale tematica -a-, la desinenza dell’imprfetto –ba-, la desinenza di persona -t- e la desinenza del passivo -ur

 

  1. la forma latina veni è la prima persona singolare del perfetto indicativo di venio

Nella terminologia tradizionale, i termini sostantivo e nome sono usati abbastanza intercambiabilmente. Nella tradizione lessicografica italiana prevale l’uso di sostantivo, mentre nella linguistica moderna prevale l’uso di nome, per evitare le connotazioni filosofiche del termine sostantivo. Nel seguito di questo libro utilizzeremo il termine nome.

Così Serianni

Dunque il termine categoria grammaticale da alcuni autori è usato per indicare una parte del discorso (per esempio, nome), da altri per indicare una proprietà dei lessemi o delle forme flesse appartenenti a una determinata parte del discorso (per esempio, il numero). Nei principali manuali di linguistica in lingua italiana Berruto Graffi / Scalise Nespor / Napoli, Simone check. Il termine categoria sintattica è usato per lo più nel senso di parte del discorso, ma a volte anche nel senso di categoria morfosintattica.  In questo libro…

Spesso inoltre non si distingue terminologicamente tra una categoria grammaticale e i suoi possibili valori, e si trovano formulazioni quali “la categoria del numero” e “la categoria del singolare”, o anche “il tratto di numero” e “il tratto di singolare”, anche in uno stesso autore. In questo libro cercheremo di osservare invece sempre una distinzione terminologica tra i due tipi di concetti.

Per approfondimenti sulle classi di flessione del nome italiano si rimanda a D’Achille, Thornton, 2003.

Hockett Robins Matthews ecc

Dressler- altre terminologie…

Fonte: http://annathornton.net/joomla/pdf/libro%20Carocci/provacap2Thornton.doc

Sito web da visitare: http://annathornton.net/

Autore del testo: http://annathornton.net

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