Immaginiamo…immaginiamo un mondo in bianco e nero come in un fumetto.
Nessuna alba radiosa, nessun rosso tramonto… solo una indefinita, monotona ed avvilente scala di grigi!
E’ il colore che fa la differenza, che permette di percepire al meglio la realtà e di interagire con essa in modo accattivante, vivido, immediato…sensazioni, umori e sentimenti che scaturiscono proprio dalla sua presenza.
Guardando “I girasoli” al Van Gogh Museum di Amsterdam (1888-1889, olio su tela), proveremmo le stesse sensazioni se l’eccelsa opera fosse in bianco e nero o in scala di grigi?
E se rimanessimo chiusi all’interno del museo un’intera notte di luna nuova?
Come li vedremmo? Sicuramente in scala di grigi… sempre se prima non inciampiamo in qualche suppellettile!
Manca qualcosa, manca sicuramente qualcosa… la LUCE che permette la visione del colorato mondo che ci circonda.
LA LUCE
La doppia natura della luce
Con il termine luce viene comunemente indicato un agente fisico che, stimolando la sensibilità dell’occhio, provoca il fenomeno della visione.
La luce bianca ordinaria, quella solare, è costituita da un insieme di radiazioni di diverso colore di cui soltanto alcune possono essere percepite dall’occhio umano, ovvero quelle contenute nello spettro del visibile, dal rosso al violetto (radiazione policromatica). Un raggio luminoso costituito invece da una radiazione semplice, cioè di un solo colore, è detto monocromatico.
L’evidenza sperimentale del fatto che la luce bianca sia composta da diversi colori è la dispersione della stessa attraverso un prisma ottico, fenomeno osservato da I. Newton: un raggio di luce policromatico, attraversando un prisma, si scinde nelle diverse componenti ovvero nei diversi colori (Fig.1).
Per spiegare i diversi fenomeni osservati sperimentalmente riguardo la luce sono necessarie due teorie diverse ma complementari; la teoria ondulatoria relativa ai fenomeni di propagazione della luce nello spazio (riflessione, rifrazione, diffusione, interferenza, diffrazione) e quella corpuscolare relativa all’interazione della luce con la materia (corpo nero ed effetto fotoelettrico).
Secondo la teoria ondulatoria – elettromagnetica (C. Huygens – J. C. Maxwell), una radiazione
elettromagnetica è una forma di energia che si propaga nello spazio, ovvero un fenomeno ondulatorio dovuto alla simultanea propagazione nello spazio di un campo elettrico e di un campo magnetico oscillanti in tutte le direzioni dello spazio sempre perpendicolari tra loro (Fig. 2). Le onde elettromagnetiche, generate da una qualsiasi carica che subisce un’accelerazione, possono propagarsi nella materia e nel vuoto.
Qualsiasi onda è caratterizzata da cinque parametri fondamentali:
lunghezza d’onda (): distanza in nm (1 nm = 10-9 m) tra due massimi o due minimi consecutivi dell’onda
frequenza (): numero di onde che passano per un punto in un secondo (Hz = 1/s)
periodo (T): tempo impiegato da un’onda per compiere un ciclo completo
ampiezza (A): distanza massima dell’onda dal punto medio di oscillazione
intensità (I): numero di onde che attraversano un metro quadro di superficie in un secondo
Per lo studio della luce i parametri fondamentali sono la lunghezza d’onda e la frequenza legate tra loro dalla seguente relazione, valida nel vuoto, che mostra come esse siano inversamente proporzionali (Fig. 3):
= c / ove c = 3 108 m/s velocità della luce nel vuoto (costante universale)
Secondo la teoria corpuscolare – quantistica (I. Newton – M. Planck), ad ogni radiazione è associata un’energia data dall’equazione di Planck:
E = h= h (c/) nel vuoto
che rappresenta l’energia minima posseduta da un fotone (il quanto minimo di energia), per cui una radiazione è vista come un insieme di “corpuscoli” che trasportano un’energia pari al pacchetto minimo o suoi multipli interi. L’energia radiante, quindi la luce, non viene emessa o assorbita con continuità dagli atomi e dalle molecole dei corpi, ma sempre in quantità discrete: la più piccola di queste quantità costituisce la minima entità di energia fisicamente possibile. In altre parole, somministrando ad un corpo energia dall’esterno, ciascuno atomo o molecola, per effetto dell’eccitazione ricevuta, emette o assorbe una radiazione rispettando però un particolare meccanismo: l’energia si accumula man mano nella materia e viene poi espulsa o assorbita soltanto quando ha raggiunto un certo livello (analogia con la caduta di gocce di acqua dalla bocca di un rubinetto, Fig.4).
Lo spettro delle radiazioni elettromagnetiche
Tutte le onde elettromagnetiche esistenti in natura sono riportate su di un diagramma in base alle loro frequenze o lunghezze d’onda (Fig. 5). Le proprietà di tali radiazioni variano a seconda della loro frequenza, ovvero delle energie ad esse associate mediante la relazione di Planck.
In ordine crescente di frequenza, quindi di energia:
onde radio: servono per la trasmissione radio a diverse distanze ed hanno comprese tra più di un chilometro e pochi centimetri (le radio a modulazione di frequenza); nel passaggio attraverso i corpi non vengono attenuate apprezzabilmente;
microonde: hanno variabile da qualche centimetro (radar) al millimetro (forni a microonde nei quali le onde vengono parzialmente assorbite cedendo parte della loro energia e producendo un effetto riscaldante in profondità):
raggi infrarossi (IR): hanno variabile dal millimetro a circa 800 nm (inizio del rosso per l’occhio umano) e vengono percepiti come calore (fatta eccezione per i serpenti che “vedono” nell’infrarosso);
zona del visibile: dagli 800 ai 400 nm;
raggi ultravioletti (UV): hanno variabile tra circa 400 nm (il violetto è l’ultima componente visibile dall’occhio umano) e 10 nm e sono responsabili dell’abbronzatura, utile alla formazione della vitamina D, ma se assorbiti in modo eccessivo provoca danni alla retina e favoriscono la formazione di tumori cutanei (quindi, in spiaggia e non solo, proteggere sempre gli occhi e la pelle!);
raggi X: si manifestano al di sotto dei 100 nm e vengono impiegati in radiologia;
raggi : corrispondono alle minime lunghezze d’onda, quindi elevate frequenze ed energie, caratteristiche delle trasformazioni nucleari (fissione e fusione)
La zona della spettro che interessa il nostro campo visivo è proprio quella del visibile che si estende dai
400 nm agli 800 nm circa, tipica della luce solare che contiene anche radiazioni IR e UV (Fig. 6): le componenti estreme sono il violetto a 400 nm, adiacente alla zona UV ad elevata energia, ed il rosso a 800 nm, adiacente alla zona IR a bassa energia.
Attenzione… nell’arte il rosso è un colore caldo ed il blu - viola un colore freddo, ma in realtà il blu - violetto è più “energetico” del rosso!
I colori della luce
Come si fa a stabilire che la luce bianca del Sole contiene tutte le lunghezza d’onda associate al colore? Grazie al caro amico Isaac Newton ed al suo esperimento sulla dispersione della luce precedentemente accennato.
Quando un raggio di luce bianca entra in un prisma di vetro, le varie componenti subiscono una deviazione (propriamente detta rifrazione) che è diversa per ciascuna di esse: ognuna subisce una deviazione dalla propria direzione di propagazione tanto più grande quanto più piccola è la lunghezza d’onda che le corrisponde (Fig.7). Così il rosso devia meno del violetto e le altre componenti mostrano un comportamento intermedio. Lo stesso fenomeno si ripete all’uscita del prisma per cui, su uno schermo posto dopo il prisma, si osserva che la luce è “sparpagliata”, componente per componente, su una vasta zona continua.
Il prisma agisce come uno spettroscopio ovvero uno strumento che permette di separare le componenti di una qualsiasi luce (l’elemento disperdente è un qualsiasi oggetto trasparente che abbia una forma prismatica come un posacenere di cristallo sfaccettato o una gemma, ma anche con un CD si ottiene un risultato analogo).
Ad ogni lunghezza d’onda corrisponde una componente diversa che non è altro che un colore. Pensando di suddividere il range 400 – 800 nm della radiazione visibile in intervalli sempre più piccoli (dell’ordine del nm) si nota che il numero di colori dispersi è infinito.
La sensazione visiva per l’occhio però si può ricondurre a sei famiglie di colori principali, i colori dell’arcobaleno: rosso, arancione, giallo, verde, azzurro e violetto (Fig.8).
E non ricominciamo con i soliti sette colori dell’iride!!!!! Al tempo di Newton il sette era considerato il numero della perfezione, quindi tutta la natura doveva esprimersi secondo tale mistica… lo distinguete l’indaco tra l’azzurro ed il violetto nell’arcobaleno?
All’interno di ogni famiglia o intervallo di lunghezze d’onda l’occhio umano avverte una continua e graduale variazione di tinta, come mostrato in Fig.9 dalla quale si nota che i colori più luminosi sono quelli giallo – verdi.
I colori dello spettro della luce visibile sono detti colori spettrali e corrispondono ad una precisa lunghezza d’onda (luce monocromatica). Sono colori spettrali anche quelli che si ottengono mescolando tra loro due o più colori (ovvero due luci monocromatiche, cioè due lunghezze d’onda). Ad esempio, blu e giallo insieme danno tutta la gamma dei verdi a seconda di come vengono miscelati, rosso e giallo danno gli arancioni, rosso e verde danno i gialli (o il marrone che è un giallo “venuto male” perché a bassa luminosità!).
Esiste un importante eccezione: la mescolanza di rosso e blu produce tutte le gradazioni di viola che non corrispondono però al colore equivalente ad una lunghezza d’onda intermedia che dovrebbe essere giallo o verde. Il viola è quindi un colore non spettrale perché non è presente nello spettro di alcuna sorgente luminosa, da non confondere con il violetto che ha una lunghezza d’onda molto maggiore, assente da qualsiasi miscela di rosso e blu (Fig.10).
Da quanto emerso finora il colore non è altro che una radiazione elettromagnetica nel campo del visibile caratterizzata da una precisa lunghezza d’onda.
Ma le cose non sono così semplici come appaiono!
IL COLORE
Il complesso mondo dei colori
La colorazione di qualsiasi sostanza è dovuta dall’interazione della luce con gli elettroni degli atomi che lo costituiscono; la maggior parte dei corpi, quando è illuminata dalla luce, assorbe selettivamente una parte della radiazione che riceve ( ovvero assorbe determinate lunghezze d’onda) e trasmette o riflette/diffonde le altre, a seconda che il corpo sia trasparente o opaco: la miscela delle radiazioni trasmesse o riflesse/diffuse produce nell’occhio una sensazione colorata unica che dipende proprio dalla composizione della radiazione in arrivo (Fig.11).
Nello specifico, se la sostanza non assorbe la luce bianca, tutte le radiazioni luminose vengono riflesse e la sostanza appare bianca; viceversa, se le assorbe completamente, il che equivale a dire che nessuna radiazione è riflessa, la sostanza appare nera. Se assorbe solo alcune radiazioni, la sostanza appare colorata mancando dalla luce riflessa le radiazioni che sono state assorbite: il colore della sostanza è dunque determinato dalla miscela delle radiazioni riflesse.
Nel caso in cui, invece, la sostanza non assorbe le radiazioni luminose ma si lascia attraversare dalle stesse, essa appare incolore e trasparente (ad esempio il vetro delle finestre).
Una misura sperimentale della relazione tra radiazione osservata e radiazione assorbita dalla sostanza in esame è data dal diagramma di riflettanza, un grafico che riporta la percentuale di luce riflessa ( %) in ordinata contro le lunghezze d’onda della luce incidente in ascissa (Fig.12).
La riflettanza (o fattore di riflessione) è il rapporto tra l’intensità della radiazione riflessa (IR) e quella della radiazione incidente (I0):
se I0 = IR = 1 Riflessione totale della radiazione incidente
ρ=I_R/I_0 se I0 = 0 = 0 Nessuna riflessione (la radiazione è completamente assorbita)
se I0 > IR 0 < < 1 Parziale riflessione e parziale assorbimento della radiazione
Se il diagramma si presenta come una linea più o meno parallela all’asse delle ascisse, la sostanza riflette tutte le radiazioni perciò, se illuminata con luce bianca come quella solare, appare bianca.
Se nel diagramma si osserva un massimo, la radiazione riflessa ha lunghezze d’onda diverse da quelle della luce incidente e la sostanza appare colorata. In ogni caso, una parte della radiazione solare sarà riflessa senza variazioni di lunghezza d’onda per cui quelle che giunge all’occhio dell’osservatore è una radiazione formata di due componenti: una uguale a quella solare incidente (bianca), l’altra costituita dalle specifiche lunghezze d’onda non assorbite. Questo spiega perché uno stesso colore può essere più o meno chiaro: è la proporzione tra il bianco ed il colore che determina la chiarezza di un colore rispetto ad uno avente stessa tinta (vedere più avanti la saturazione).
Se il diagramma di riflettanza è parallelo all’asse delle ascisse, ma con un basso fattore di riflessione
(circa 15 – 20%), il corpo appare grigio (la scala dei grigi si estende fino ad una riflettanza dell’80%). Se il coefficiente di riflessione è ancora più basso, il corpo appare nero.
Quindi, un corpo colorato che riflette meno del 20 % di luce appare comunque grigio: l’occhio non riesce a distinguere le diverse lunghezze d’onda in arrivo anche se nel diagramma è presente un massimo di riflettanza (infatti gli oggetti colorati in presenza di scarsa illuminazione appaiono neri o grigi!).
E’ opportuno ora sottolineare l’importanza della frase “il corpo appare…”: il corpo appare giallo è più corretta di il corpo è giallo!
Questo perché il colore non è una semplice proprietà fisica del materiale osservato ma è una qualità associata dall’osservatore ad un fascio di luce che colpisce il suo occhio dovuta ad una sensazione non definibile in maniera univoca che dipende dalla composizione spettrale della luce.
Per un osservatore normale ad ogni determinata composizione spettrale corrisponde un colore ben definito, ma la sensazione di uno stesso colore può essere provocata da infinite combinazioni diverse di luci con differente lunghezza d’onda e dipende da molteplici fattori: proprietà del materiale osservato, tipo di sorgente luminosa, condizioni di illuminazione, risposta dell’occhio, elaborazione del cervello, colore del campo visivo circostante…
Quindi, il colore non è insito nelle radiazioni visibili, che sono pura energia elettromagnetica, ma è una sensazione che prova il nostro cervello, causata da uno stimolo proveniente dall’occhio quando questo percepisce la luce (Fig.13).
SORGENTE LUMINOSA OGGETTO VISIONE ⇄ COLORE
Da sottolineare che il colore assunto da un oggetto dipende notevolmente dal tipo di luce che lo investe, come si vedrà più avanti.
Gli attributi del colore
Se osservati isolatamente, tutti i colori presentano tre attributi caratterizzanti (Fig.14).
La TINTA o TONALITA’ DI COLORE è la particolare sensazione visiva prodotta al nostro occhio da una radiazione luminosa, corrispondente quindi ad una precisa lunghezza d’onda. E’ ovvio pensare che le tinte possibili siano potenzialmente infinite, ma l’occhio umano riesce a distinguerne solo circa duecento; infatti, l’occhio è sensibile alla cosiddetta lunghezza d’onda dominante che rappresenta una lunghezza d’onda intermedia tra le varie componenti della luce che lo colpisce.
I colori che possiedono una tinta sono detti colori cromatici. Il bianco, il nero e tutta la scala dei grigi sono definiti all’opposto, colori acromatici.
La SATURAZIONE o PUREZZA è la sensazione del grado di concentrazione della tinta rispetto al contenuto di bianco. Partendo dalla stessa tinta (componente cromatica) si ottengono colori diversi a seconda della quantità di bianco (componente acromatica) mescolata ad essa. Blu e celeste, rosso e rosa sono esempi di colori aventi stessa tinta ma diversa saturazione; questa è massima (100 %) per la componente cromatica pura (il blu o il rosso), poi scende all’aumentare del contenuto di bianco.
La LUMINOSITA’ o BRILLANZA corrisponde all’impressione di un colore che va da molto cupo (il viola) a molto brillante (il giallo). Più precisamente, la luminosità è il rapporto tra la luce riflessa da una superficie colorata e quella riflessa da una superficie avente luminosità che si considera normale o standard, cioè una superfice bianca (Fig.9).
Due colori sono perfettamente indistinguibili quando hanno stessa tinta, stessa saturazione e stessa luminosità, ovviamente se isolati dal contorno (cioè illuminati con la stessa sorgente, posti sullo stesso sfondo, osservati in medesime condizioni di illuminazione…).
Il meccanismo della visione
L’uomo percepisce l’intensità ed il colore della luce e delle varie sostanze grazie ad un complesso sistema che si trova nell’occhio: iride, cornea, umore acqueo e cristallino focalizzano le radiazioni luminose sulla retina che le converte in segnali nervosi diretti al cervello (Fig.15).
La retina svolge il ruolo che la pellicola fotosensibile assume in una macchina fotografica: su di essa l’obiettivo proietta e focalizza in scala ridotta l’immagine dell’oggetto osservato.
Questa membrana è ricca di capillari e nella sua parte posteriore si trovano milioni di minuscole cellule nervose che trasformano la radiazione luminosa in impulsi elettrici raccolti da terminazioni nervose che li inviano ai centri cerebrali addetti al meccanismo della visione, nel lobo occipitale.
Le cellule nervose della retina, dette fotorecettori, si distinguono in coni e bastoncelli (Fig.16).
I coni operano in condizione di piena luce permettendo la visione dei colori (VISIONE FOTOPICA ovvero visione in luce diurna); sono concentrati nella parte centrale della retina, la fovea.
I bastoncelli, invece, operano in condizioni di scarsa illuminazione (VISIONE SCOTOPICA ovvero visione crepuscolare) e si trovano nelle zone periferiche della retina; sono responsabili di una visione meno nitida poiché hanno minore risoluzione rispetto ai coni, pur essendo molto più sensibili.
La visione è un processo di tipo fotochimico causato da un assorbimento quantico della luce tale da produrre alterazioni nelle proprietà dei fotorecettori: particolari pigmenti, quali la rodopsina nei bastoncelli, vengono “scoloriti” producendo sostanze chimiche capaci di stimolare le terminazioni nervose che convogliano i vari segnali al cervello.
Lo sbiancamento dei fotorecettori è solo temporaneo ed è tanto maggiore quanto più intensa è la luce che colpisce la retina, così tanto maggiore è il numero di impulsi elettrici che arriva al cervello (questo funziona come un contatore: tanti impulsi in un certo tempo, maggiore sensazione di luminosità).
La sensazione di luminosità dipende dall’adattamento con cui i fotorecettori reagiscono alla radiazione luminosa (i coni avvertono immediatamente variazioni di luce anche se con sensibilità molto minore a quella dei bastoncelli) e dal contrasto di fondo (un colore risulta più luminoso se affiancato ad uno più scuro).
La visione dei bastoncelli è priva di colore essendo gli stessi ciechi a lunghezze d’onda maggiori di 600 nm (zona del rosso), con un massimo di risposta a 510 nm, a differenza dei coni (555 nm). In visione scotopica qualsiasi radiazione luminosa genera la stessa sensazione di colore: una tinta indefinibile grigio scuro-blu-verde tanto più scura quanto maggiore è l’oscurità. Quindi, i bastoncelli ci dicono solo se c’è luce e quanta ce n’è, ma ne ignorano la lunghezza d’onda.
I fotorecettori che sono effettivamente responsabile della visione fotopica sono i coni che, stimolati dall’arrivo di radiazioni luminose, forniscono le circa 200 tinte rilevate dall’occhio umano. Thomas Young, attraverso studi di sintesi additiva di colori, dimostrò che i coni della retina possono essere classificati in tre tipi diversi, ognuno corrispondente ad una tinta primaria (Fig. 17):
coni con massima risposta a circa 570 nm, sensibili al rosso;
coni con massima risposta a circa 540 nm, sensibili al verde;
coni con massima sensibilità a circa 450 nm, sensibili al blu.
Ogni altra tinta risulta dalla contemporanea stimolazione di questi tre differenti tipi di recettori.
Ne segue che i colori primari sono rappresentati dalla terna RGB (Red, Green, Blue): rosso, verde e blu (Fig.18).
La scelta dei colori primari non è casuale perché, se si vogliono ottenere tutte le tinte dello spettro visibile ed il bianco, è necessario che nessuno dei tre colori primari additivi possa essere ricavato mescolando gli altri due. Ad esempio, la terna giallo, blu e verde non andrebbe bene perché il verde si ricava mescolando blu e giallo.
La sintesi additiva dei colori porta ad un colore risultante diverso dai tre primari e quest’ultimo può essere variato a piacimento variando l’intensità luminosa delle singole componenti luminose.
Il processo della visione, come studiato da H. Von Helmholtz, avviene esattamente in senso inverso alla composizione dei colori sopra esposta in quanto si verifica attraverso la scissione del colore osservato nelle sue tre componenti: la radiazione luminosa in arrivo sulla retina stimola simultaneamente i diversi tipi di coni, ma in modo diverso a seconda della composizione spettrale della luce in arrivo, generando una tripletta di segnali che viene inviata al cervello il quale la riconosce come caratteristica di quel preciso colore. Per il cervello non è importante il valore assoluto dei tre stimoli, che dipende dall’intensità, ma il rapporto tra gli stessi.
Si riporta a titolo di esempio l’osservazione di un’arancia che spedisce sulla nostra retina una radiazione compresa tra 510 e 680 nm. Ogni lunghezza d’onda entro questo intervallo corrisponde ad una particolare tinta, ma perché l’occhio ne vede solo una ed in particolar modo quella dell’arancia?
Dalla Fig.19 si nota che i coni del blu sono fuori gioco, mentre i coni del rosso e del verde inviano al cervello segnali diversi. Ipotizzando che i coni del verde inviino al cervello uno stimolo pari a 18, il segnale inviato dai coni del rosso sarà di 58, circa tre volte maggiore.
Al cervello giunge una tripletta di stimoli RGB pari a
(58-18-0) che lo stesso codifica come quel particolare tono di arancione che corrisponde alla lunghezza d’onda di 595 nm.
Il cervello però non distingue la sensazione di colore provocata dalla larga banda di radiazioni riflessa dall’arancia da una radiazione monocromatica a 595 nm, per questo si parla di lunghezza d’onda dominante.
Considerazione particolare va fatta per il viola che, come già accennato, non è un colore spettrale poiché non esiste alcuna radiazione luminosa monocromatica capace di eccitare insieme i coni del rosso e del blu senza mettere in azione i coni del verde: le miscele di rosso e blu non trovano alcun corrispettivo spettrale [non può esistere una tripletta (92,0,15)!]. Il cervello si adegua a tale imbarazzo facendo corrispondere a triplette impossibili tinte fatte su misura: i vari viola e le porpore.
Riassumendo, una precisa tinta si può ottenere combinando varie righe o bande luminose. Il bianco si ottiene miscelando additivamente in opportune proporzioni le tre tinte primarie di Young (RGB), ma si può ottenere ottenendo anche mescolando una terna diversa, ad esempio quella che deriva dalla combinazione a due a due dei colori primari:
GIALLO = VERDE + ROSSO
CIANO = VERDE + BLU
MAGENTA = BLU + ROSSO
Ovviamente, il bianco si può ottenere anche solo con due colori: un primario ed il colore risultante dalla miscela degli altri due (verde + magenta, giallo + blu, ciano + rosso). Questa è la definizione di coppie di colori complementari intendendo per colore complementare il colore secondario che si ottiene mescolando gli altri due (un colore complementare ad un altro non deve contenere nessuna traccia dello stesso!).
Si riportano alcuni esempi: un pomodoro appare rosso perché assorbe le componenti verde e blu della luce e riflette quelle rosse; un limone appare giallo perché assorbe la componente blu della luce e riflette la rossa e la verde, che combinate insieme danno il giallo (Fig.20).
Ma cosa accadrebbe se osservassimo il limone in una stanza illuminata con luce blu? Lo vedremo a mala pena perché apparirebbe nero: tutta la luce che arriva su di esso viene assorbita!
E perché, se scriviamo con una biro blu su di un foglio giallo, la scritta appare nera? Stesso motivo: il foglio giallo assorbe la componente blu dell’inchiostro che appare perciò nero.
Ancora, un corpo opaco appare giallo in tre casi diversi (Fig.21):
se, illuminato da luce bianca, riflette le componenti verde e rossa;
se, illuminato da due radiazioni monocromatiche corrispondenti al verde ed al rosso, le riflette;
se, illuminato da una radiazione monocromatica gialla, la riflette.
Tutto ciò per sottolineare la grande importanza che la composizione spettrale della sorgente di luce gioca nella definizione del colore di una qualsiasi sostanza.
Sintesi additiva e sintesi sottrattiva
Come già visto, secondo T. Young, si possono individuare tre colori fondamentali della luce, detti colori primari perché non si possono ottenere per sovrapposizione degli altri colori: il rosso, il verde ed il blu. Sovrapposti due a due questi colori forniscono i colori secondari: magenta (rosso + blu), giallo (verde + rosso) e ciano (verde + blu). Sovrapponendo i fasci di luce dei tre colori primari o dei tre colori secondari si ottiene la luce bianca.
Questo sistema si definisce additivo perché sovrapponendo fasci di luce colorata si ottengono colori sempre più chiari fino al bianco: l’assenza dei tre colori primari o secondari genera il nero.
Il sistema additivo è impiegato nella definizione e visualizzazione dei colori in informatica e nelle immagini televisive, ma non può essere impiegato nell’arte poiché la mescolanza di pigmenti e coloranti in qualsiasi modo non produrrà mai il bianco.
I colori – pigmento sono ottenuti con un sistema sottrattivo che sottrae chiarezza, scurendo il colore, fino ad arrivare al nero. I colori primari del sistema sottrattivo sono esattamente i primari di quello additivo: giallo, magenta e ciano. Dalla sovrapposizione di questi si ottengono i colori secondari che equivalgono ai primari del sistema additivo: rosso, verde e blu.
La sovrapposizione dei colori primari nel sistema sottrattivo conduce al nero.
Quindi due colori complementari (o i tre primari) danno sempre un risultato acromatico: bianco in mescolanza additiva e nero in mescolanza sottrattiva. Daranno colorazioni intermedie in mescolanza sottrattiva non completa (Fig.22).
La colorazione delle cose comporta, soprattutto in trasparenza, meccanismi sottrattivi perché basata sulla capacità di assorbire componenti cromatiche (il colore è dato da ciò che non viene assorbito); ad esempio, nell’acqua limpida nessuna delle componenti della luce bianca viene eliminata, ma se si introducono più coloranti diversi, ognuno contribuisce a ridurre in qualche modo la luce trasmessa (Fig.23).
La terna dei colori primari sottrattivi [giallo (Y), ciano (C) e magenta (M)] è quella impiegata nella stampa in tricromia (CMY), che diviene in quadricromia (CMYK) con l’aggiunta del nero (K).
Cerchiamo ora di capire perché nelle arti grafiche e figurative non si utilizza la trena di colori primari RGB scelta da T. Young coerentemente con la fisiologia della retina e riportata nel cerchio di Goethe (ad ogni colore primario è opposto il suo complementare, Fig. 24), ma quella composta da blu, rosso e giallo come evidente nel cerchio di J. Itten (all’interno ci sono i colori primari, poi i colori secondari che si ottengono per mescolanza dei primari; infine, nel cerchio esterno sono riportati i colori terziari ottenuti per mescolanza dei primari con i secondari, Fig.25).
La scelta è dettata esclusivamente da motivi di convenienza pratica: in mescolanza sottrattiva è impossibile ottenere il giallo! Al massimo si ottiene il marrone perché, a differenza della sintesi additiva, il mescolamento dei pigmenti colorati opera in sintesi sottrattiva che man mano riduce la luminosità del colore (un oggetto appare marrone perché è basso il potere riflettente della sua superficie, a differenza del giallo). Infatti, una superficie gialla, arancione o marrone possono restituire al nostro occhio una miscela spettrale avente medesima lunghezza d’onda.
Si riporta l’esempio della cioccolata: la lunghezza d’onda dominante che perviene ai nostri occhi è 586 nm che corrisponde ad un arancione (come quello dell’arancia!), ma noi la vediamo marrone scuro perché la
% di luce riflessa rispetto alla luce bianca illuminante, è solo del 5% (Fig.26). Analoghe considerazioni si possono fare riguardo i colori impiegati in arte per cui un verde oliva è tale perché, pur avendo una lunghezza d’onda dominante che corrisponde ad un giallo citrino, riemette solo il 14% di luce.
Nella seguente tabella (Tab.1) sono riportati i principali colori di un oggetto e le proprietà di assorbimento della luce del materiale che lo compone.
LUCE ASSORBITA LUCE TRASMESSA O DIFFUSA COLORE OSSERVATO
Rossa, verde e blu Nessuna Nero
Verde e blu Rossa Rosso
Rossa e blu Verde Verde
Rossa e verde Blu Blu
Rossa Verde e blu Ciano (turchese)
Verde Rossa e blu Magenta (viola)
Blu Verde e rossa Giallo (marrone)
Nessuna Rossa, verde e blu Bianco
COLORIMETRIA
Generalità
Come finora dimostrato, il colore non è un dato oggettivo, ma un’interpretazione psico-fisiologica di dati trasportati dalla radiazione incidente sull’occhio.
Per definire qualsiasi colore in modo univoco e ripetibile si ricorre alla colorimetria, scienza che attribuisce ai vari colori dati e riferimenti precisi, a prescindere dalla risposta dell’osservatore. Tale scienza riveste notevole importanza nell’industria, nell’artigianato e nelle arti grafiche nelle quali qualsiasi colore deve essere riproducibile alla perfezione.
Per parlare di colore di un corpo è necessario innanzitutto considerare con quale luce esso viene illuminato: immaginiamo di dover acquistare un abito o un rossetto in un negozio illuminato con luci al neon… l’istinto ci guida ad uscire e verificare alla luce del Sole!
Ancora… che dire della percezione del colore dei corpi in un parcheggio illuminato dalle arancioni lampade al sodio?
Il colore di un qualsiasi oggetto cambia a seconda della composizione della luce che lo colpisce. Per questo motivo la CIE (Commissione Internazionale dell’Illuminazione) ha assunto come riferimento per la determinazione delle coordinate cromatiche (tinta, saturazione e luminosità) di un preciso colore la composizione spettrale della luce diurna media in condizioni di sereno.
Tristimolo e coordinate di cromaticità
Ogni colore viene etichettato con una tripletta di numeri in analogia al comportamento dell’occhio umano. Riferendosi alla sintesi additiva, si tratta di stabilire in quale misura sono presenti in un preciso colore i tre colori primari della luce: rosso, verde e blu. In tal modo, ad ogni colore spettrale o non spettrale è associato un tristimolo ovvero una tripletta di stimoli.
Per stabilire questa tripletta di valori si opera sperimentalmente impiegando un colorimetro che fornisce, per confronto diretto con il colore da analizzare, i valori della luminosità dei primari che lo compongono. La somma di questi tre stimoli (R + V + B) rappresenta la luminosità totale.
Per motivi di convenienza che saranno esposti più avanti, si ricorre alle coordinate di cromaticità che rappresentano la percentuale di ogni colore primario rispetto al totale. Detti x = rosso, y = verde e z = blu:
x= x/(x+y+z) grado di rosso
y= y/(x+y+z) grado di verde
z= z/(x+y+z) grado di blu
La somma delle coordinate di cromaticità è sempre uguale ad 1:
x + y + z = 1.
In tal modo, basta conoscere due delle coordinate per trovare la terza per differenza: z = 1 – x – y.
Si consideri ad esempio che il colore giallo sgargiante della vernice di un’automobile può essere univocamente identificato dal tristimolo (0,44; 0, 47; 70) ove l’ultimo termine rappresenta la luminosità (la luce riflessa totale espressa come percentuale della luce bianca incidente).
Da questa tripletta si risale facilmente a come comporre il colore voluto: essendo il rosso di 0,44 (44%) ed il verde di 0,47 (47%) ne segue che il blu è 1 – 0,44 – 0,47 = 0,09 (9%), ovvero occorrono rosso e verde in parti circa uguali con un pizzico di blu.
Da sottolineare che uguali coordinate di cromaticità definiscono tinta e saturazione, ma due colori sono indistinguibili solo se sono ugualmente luminosi (ricordare l’esempio della cioccolata!)
Il diagramma CIE di cromaticità
La CIE, dopo vari e validi tentativi effettuati da vari studiosi, tra i quali J.C. Maxwell con il suo triangolo di cromaticità, che non hanno però permesso di ottenere tutte le possibili varietà cromatiche a partire dai tre colori primari reali della luce, ha “inventato” tre primati immaginari, colori che non esistono in natura e non possono essere prodotti artificialmente, caratterizzati dall’andamento spettrale riportato in Fig.27.
Elaborando tutte le componenti cromatiche, a prescindere dalla luminosità, e riportando il tutto graficamente si ottiene il diagramma di cromaticità (da sottolineare che si ottiene una rappresentazione bidimensionale delle sole componenti x e y, poiché la z è determinabile per differenza, anziché uno spazio di colori tridimensionale di più difficile interpretazione!)
Nel diagramma riportato in Fig.28 si evidenzia un punto caratteristico, detto punto C, avente coordinate
(x,y,z) = (0,33;0,33;0,33), che corrisponde alla luce bianca diurna (il bianco perfetto che funge da riferimento).
Lungo il margine esterno si trovano i colori più saturi. Addizionando due colori se ne ottiene un terzo saturo se le due componenti si trovano sulla linea a ferro di cavallo, uno meno saturo se le componenti originarie si trovano all’interno del diagramma; infine, se le radiazioni sono alle estremità opposte rispetto al punto C si ottiene il bianco (colori complementari).
La line base tra i 380 ed i 700 nm rappresenta la linea dei viola che sono colori non spettrali, non identificati da una lunghezza d’onda.
Prendendo due tinte qualsiasi, il segmento che le unisce rappresenta tutte le possibili mescolanze additive dei colori scelti e la posizione lungo tale segmento di congiunzione indica la percentuale di mescolanza delle tinte: nel punto del centrale del segmento la tinta è formata dal 50% dei colori di partenza; spostandosi ai ¾ del segmento, la tinta corrisponde alla somma del 75% del primo colore e del 25% del secondo.
Per ogni colore è quindi possibile stabilire le tre coordinate cromatiche (x,y,z) = (R,G,B).
Lunghezza d’onda dominante e purezza
Nell’industria, in alternativa al tristimolo, si preferisce definire la cromaticità di un colore dandone, oltre alla luminosità, la lunghezza d’onda dominante e la saturazione, cioè la purezza, sempre riferendosi per confronto al colore di una superficie riflettente perfettamente bianca illuminata da luce diurna media
(punto C).
Ad eccezione della luminosità, questi dati si ricavano direttamente dal diagramma di cromaticità che fornisce anche la tinta complementare (Fig.29).
Vediamo l’esempio relativo alla vernice gialla dell’automobile di tristimolo (0,47; 0,44, 70). Il punto G di coordinate x = 0,47 ed y = 0,44 corrisponde a questo particolare colore sul diagramma di cromaticità.
La lunghezza d’onda dominante si trova prolungando il segmento che unisce i punti C e G fino a toccare il limite esterno della campana dalla stessa parte del punto G (575 nm). Allo stesso modo, ma cercando l’intersezione con l’estremo opposto, si trova la tinta complementare (473 nm).
La saturazione o purezza si trova facendo il rapporto tra i segmenti CG e CA. Infatti, essa è zero quando tale rapporto è nullo (si ha il bianco puro) e pari al 100% quando il rapporto è unitario (CG/CA = 1 che corrisponde al giallo puro). Nel caso in esame (CG/CA) x 100 = 75% che corrisponde ad una diluizione con il 25% di bianco.
Considerazione particolare va fatta per i colori non spettrali (viola e porpore) dei quali non è possibile determinare la lunghezza d’onda dominante, non esistendo per loro. Questi si identificano attraverso la lunghezza d’onda complementare (nell’esempio del punto H, 498c nm) che si determina come visto per i colori spettrali passando per il punto C.
Spezzettando il diagramma di cromaticità si ottengono tutte le gamme dei colori più comuni (Fig.30).
Ultima considerazione sulla luminosità, che non viene riportata sul diagramma di cromaticità (si avrebbe altrimenti un grafico tridimensionale con un massimo nel punto C e tanti pendii di diverse pendenze fino al contorno esterno), ce la fornisce il diagramma dei contorni di luminosità di D. MacAdam: ogni contorno di luminosità racchiude i colori che possono raggiungere il grado di luminosità indicato (Fig.31).
Una superficie che riflette più del 90% può variare solo dal bianco al giallo verdastro; tutta la gamma dei gialli, anche saturi, può avere luminosità del 70%. Luminosità ancora piuttosto elevate, superiori al 50% si hanno anche con l’arancio, il celeste ed il verde non troppo saturo. Il verde, il blu, il viola ed il rosso saturi mostrano sempre luminosità inferiori al 10%.
APPENDICI
Appendice 1 Approccio storico alla definizione di luce e colore
La luce è l’agente fisico che rende possibile la visione dei corpi. Attualmente viene definita come radiazione elettromagnetica visibile, ma la sua natura ha suscitato discussioni fin dai tempi più antichi e la formulazione di teorie di ogni genere. Solo nel XVIII sec si affermarono due teorie basate su indagini sperimentali: la teoria corpuscolare di I. Newton e la teoria ondulatoria di C. Huygens.
Secondo I. Newton la luce era un aggregato di corpuscoli di varia specie (il che giustifica le diversità di colore) proiettati con velocità costante dai corpi luminosi.
Al contrario, C. Huygens riteneva che la luce fosse dovuta, similmente al suono, alla vibrazione meccanica di un mezzo speciale, l’etere cosmico, che riempie l’Universo.
Prima di continuare, è bene soffermarsi sul concetto di onde sonore ed onde elettromagnetiche. Le onde sonore sono onde meccaniche ovvero piccole oscillazioni delle particelle (atomi e molecole) contenute nell’aria che, a partire dal punto in cui è posta la sorgente, si trasmettono sempre più lontano fino all’orecchio dell’ascoltatore. Più precisamente sono onde di pressione longitudinali: le particelle dell’aria oscillano avanti e indietro lungo la stessa direzione in cui si propaga l’onda, per cui si tratta di un avanzamento di energia che si propaga attraverso la materia ad una velocità di 1.200 Km/h (Match 1).
Le onde elettromagnetiche sono invece onde trasversali che oscillano in modo perpendicolare alla direzione di propagazione e sono capaci di propagarsi anche nel vuoto con velocità c = 3 108 m/s (velocità della luce).
Un esempio calzante di onda trasversale è il moto ondoso generato da un sasso lanciato in acqua.
Entrambe le teorie stabilivano un nesso tra l’ipotesi fondamentale concernente la natura della luce e le sue proprietà indagate sperimentalmente: mancava però l’anello di congiunzione.
La teoria corpuscolare di I. Newton incontrò a lungo molti favori, ma all’inizio del XIX sec T. Young e
A.J. Fresnel, grazie ad osservazioni sperimentali molto precise, diedero una forte spinta alla teoria ondulatoria secondo la quale, nel caso ideale di una luce monocromatica, ad una particella di etere (l’etere è il mezzo che riempie lo spazio) si può attribuire una vibrazione sinusoidale, cioè un’onda definita da parametri ben precisi come lunghezza d’onda, frequenza e velocità. Lunghezza d’onda e frequenza, inversamente proporzionali tra loro, caratterizzano la luce dal punto di vista del colore: passando dal rosso al violetto, la lunghezza d’onda varia da 800 a 400 nm e la frequenza delle vibrazioni luminose è elevatissima rispetto alle onde sonore. Per l’interpretazione di molti fenomeni era indifferente ammettere che le vibrazioni fossero longitudinali o trasversali, ma i fenomeni di polarizzazione ottica, per essere spiegati, richiedevano la trasversalità delle vibrazioni.
Una ulteriore conferma della teoria ondulatoria venne fornita dalla determinazione della velocità della luce ad opera di O. Romer il quale, studiando il moto dei satelliti di Giove, dimostrò che la luce ha una velocità finita. Nella metà del XIX sec J.L. Foucault e A.H.L. Fizeau determinarono con precisione estrema la velocità della luce e la confrontarono in mezzi diversi al fine di spiegare il fenomeno della rifrazione, punto dolente che divideva i sostenitori delle due teorie: secondo la teoria corpuscolare, la luce si propagava più rapidamente nei mezzi aventi indice di rifrazione più elevato (ad esempio, più rapidamente nel vetro che nell’aria o nell’acqua), mentre la teoria ondulatoria riteneva esattamente il contrario. Si osservò sperimentalmente che nei mezzi più rifrangenti la velocità è minore secondo la relazione n = c/v ove n è l’indice di rifrazione del mezzo, c la velocità della luce nel vuoto e v la velocità della luce nel mezzo.
La teoria meccanica di A.J. Fresnel spiegava bene tutti i fenomeni di propagazione della luce come interferenza e diffrazione, ma aveva un punto debole proprio nella presunta esistenza dell’etere inteso come fluido sottilissimo che permea l’Universo permettendo il moto dei corpi celesti senza che essi risentano di alcuna resistenza. Un fluido, però, è incapace di trasmettere solo vibrazioni trasversali e l’etere, per fare questo, dovrebbe essere un corpo solido elastico con grande rigidità: conclusione, l’etere non esiste e nell’Universo regna il vuoto!
Verso la metà del XIX sec. J.C. Maxwell risolve il problema introducendo una profonda ed essenziale modifica: dato che il campo elettromagnetico si propaga per onde nel vuoto alla stessa velocità della luce, allora la luce deve consistere in vibrazioni rapidissime del campo elettromagnetico. Le vibrazioni luminose non sono più meccaniche come il suono e le vibrazioni dei campi elettrico e magnetico devono essere ortogonali tra loro ed alla direzione di propagazione, quindi trasversali.
Questa teoria elettromagnetica della luce, universalmente accettata già alla fine del XIX sec., era però ancora inadeguata per spiegare i fenomeni derivanti dall’interazione tra radiazione e materia, quali l’emissione del corpo nero (M. Planck) e l’effetto fotoelettrico (A. Einstein) che non si potevano spiegare con il concetto di continuità legato al concetto di onda come perturbazione prodotta dall’accelerazione di cariche elettriche che originano un sistema di campi elettrici e magnetici variabili il quale si muove nello spazio con andamento periodico e velocità definita a partire dal punto in cui si è prodotta l’accelerazione.
È necessario quindi pensare la luce come un aggregato di singole unità dette fotoni di energia E = h ove h è la costante di Planck. Si ritorna apparentemente alla teoria corpuscolare, ma i fotoni non possono essere identificati con dei corpuscoli, anche se per molti aspetti si comportano come particelle; tale teoria inoltre non spiega in modo ottimale i fenomeni di propagazione della luce nello spazio (diffrazione, interferenza, polarizzazione).
Concludendo, le due concezioni ondulatoria e corpuscolare non sono compatibili se si vuole attribuire alle parole un significato troppo letterale, ma lo divengono solo se si rinuncia a localizzare meccanicamente il fotone ed a concepire le onde come vibrazioni di un ente fisico continuo: come dire che le onde sono uno strumento concettuale utile a determinare la distribuzione dei fotoni che colpiscono un corpo in determinate condizioni.
Una tale sintesi delle due teorie è necessaria non solo per la luce, ma anche per spiegare il comportamento della materia, ad esempio il dualismo onda – particella di L. V. De Broglie che nasce dall’evidenza sperimentale che un fascio di elettroni veloci che incide su un cristallo mostra fenomeni di interferenza e di diffrazione tipici delle onde elettromagnetiche.
Appendice 2 I fenomeni ottici
Di seguito sono riportati in modo sintetico i principali fenomeni ottici spiegati attraverso la teoria ondulatoria della luce.
RIFLESSIONE e RIFRAZIONE
Un raggio luminoso che incide sulla superficie di separazione di due sostanze che presentano proprietà ottiche diverse (aria ed acqua, vetro ed olio…) può ritornare nello stesso mezzo dal quale era partito (fenomeno della riflessione) oppure può passare nel secondo mezzo attraverso il quale continua a propagarsi, ma modificando la sua direzione (fenomeno della rifrazione). I due fenomeni si verificano generalmente in modo contemporaneo, ovvero il raggio incidente in parte viene riflesso ed in parte rifratto.
Dalla Fig.3 si nota che l’angolo di incidenza i e l’angolo di riflessione s sono uguali e complanari, invece il raggio rifratto è più vicino alla normale condotta alla superficie di separazione dei due mezzi. Quindi, l’angolo di rifrazione r è diverso dall’angolo di incidenza i e, nel caso specifico, r < i. Questo si verifica sempre quando la luce passa da un mezzo otticamente meno denso (aria) ad un altro mezzo più denso (acqua); nel caso opposto, si verifica il fenomeno contrario, r > i.
Per una determinata radiazione luminosa si definisce indice di rifrazione relativo n = sini/sinr dei due mezzi considerati. Se si assume invece che la luce passi dal vuoto ad una certa sostanza, il precedente rapporto indica l’indice di rifrazione assoluto della sostanza.
Nei mezzi materiali trasparenti la velocità di propagazione diminuisce all’aumentare della densità. Quindi, un raggio luminoso che passa da un mezzo ad un altro acquista o perde velocità: questo è il motivo per cui il raggio devia dalla sua direzione di propagazione avvicinandosi o allontanandosi dalla normale alla superficie di separazione.
In termini di rapporti tra velocità, l’indice di rifrazione assoluto diviene n = v / c ove v è la velocità della luce nel mezzo considerato e c la velocità della luce. In modo analogo, l’indice di rifrazione relativo non è altro che il rapporto tra le velocità di propagazione di un raggio luminoso attraverso due mezzi 1 e 2, n2,1 = v1/v2. Si può dimostrare che n2,1 = n2 / n1 cioè l’indice di rifrazione relativo di una sostanza 2 rispetto alla sostanza 1 è il rapporto dei loro indici di rifrazione assoluti.
Da sottolineare che l’indice di rifrazione di una sostanza è diverso per le differenti frequenze della radiazione incidente; questo spiega il fenomeno della dispersione della luce ad opera di un prisma che vede le componenti con lunghezza d’onda minore subire una deviazione maggiore.
Quando un raggio di luce monocromatica passa da un mezzo più denso ad un altro meno denso, l’angolo di rifrazione è maggiore di quello di incidenza ed il raggio rifratto si allontana dalla normale. Se si fa aumentare gradatamente l’inclinazione del raggio incidente, per un certo valore di i = l si ha un angolo di rifrazione r di 90°: non vi è più un raggio emergente che si propaga attraverso il secondo mezzo, anzi un minimo aumento oltre il valore l produce una riflessione totale per cui i = s. L’angolo di incidenza l al quale corrisponde l’angolo di rifrazione di 90° è detto angolo limite che rappresenta il massimo di incidenza superato il quale non si verifica più la rifrazione e la sua misura fornisce direttamente l’indice di rifrazione relativo del mezzo meno denso rispetto a quello più denso (Fig.4).
Se la superficie di separazione tra i due mezzi non è liscia si verifica il fenomeno della diffusione ne quale sia la luce riflessa sia la luce rifratta viene deviata in tutte le direzioni.
I tre fenomeni sono rappresentati in Fig.5.
DIFFRAZIONE
Tale fenomeno si manifesta quando una radiazione incontra ostacoli di dimensioni simili alla sua lunghezza d’onda. Sperimentalmente si può evidenziare esaminando la propagazione della luce ai bordi di uno schermo opaco o di una fenditura: si nota che il raggio luminoso penetra leggermente nella zona d’ombra, cioè la propagazione della luce non è perfettamente rettilinea (Fig.6).
Una analogia molto intuitiva è quella delle onde marine che, arrivando contro un molo che ha un’apertura stretta (di dimensione simile alla distanza tra le creste dell’onda), proseguono incurvandosi.
INTERFERENZA
Quando un fascio di onde parallele viene fatto passare attraverso due fenditure, ognuna diviene un centro di perturbazione che può essere considerato come una sorgente indipendente: le onde che ne fuoriescono possono interagire tra loro causando interferenza (Fig.7).
L’interferenza tra onde può essere costrittiva o distruttiva a seconda che le stesse siano in concordanza o discordanza di fase, parziale o totale, per cui avviene un graduale rinforzo o una graduale estinzione dell’intensità risultante: se le onde sono in concordanza di fase si ha un aumento di intensità (interferenza costruttiva), viceversa se le stesse sono in opposizione di fase (interferenza distruttiva). Su uno schermo questo si evidenzia con bande chiare (piena concordanza di fase), bande scure (completa opposizione di fase) e bande grigie (parziale concordanza di fase).
POLARIZZAZIONE
Un raggio si dice polarizzato quando vibra in una direzione preferenziale (orizzontale, verticale, circolare…) in seguito al passaggio in appositi dispositivi naturali (spato d’Islanda) o artificiali (polarizzatori) che ne limitano le vibrazioni in tutti i piani dello spazio (Fig.9).
Classico esempio sono gli occhiali Polaroid che permettono di escludere le componenti luminose orizzontali, polarizzando la luce verticalmente.
Appendice 3 Colore delle sostanze e loro struttura particellare
Il colore di un materiale è dovuto all’interazione della radiazione elettromagnetica con gli elettroni degli atomi che lo costituiscono. La maggior parte delle sostanze interagisce con la luce in ampi intervalli di frequenza, alternando zone in cui avviene l’assorbimento e finestre di trasmissione o riflessione. Tale comportamento deriva dal fatto che gli atomi dei materiali solidi e liquidi sono abbastanza vicini da influenzarsi reciprocamente ed interagire con fotoni di diverse frequenze, a differenza degli atomi isolati e liberi dei gas che interagiscono solo con fotoni di determinata energia. Questo è confermato dalle analisi spettroscopiche: gli spettri di emissione di atomi gassosi a bassa pressione sono caratterizzati dalla presenza di righe a determinate lunghezze d’onda che divengono bande se si aumenta la pressione e bande sempre più estese per sostanze liquide e solide (Fig. 10).
Con particolare riferimento ai materiali impiegati nell’arte, esistono notevoli differenze nelle loro proprietà ottiche: i metalli sono lucidi con colori variabili; gli isolanti come il vetro, il quarzo ed il diamante sono scarsamente riflettenti, ma trasmettono ottimamente la luce visibile a differenza della ceramica, della carta, delle pietre più o meno preziose che diffondono la luce incidente.
Da dove derivano tutte queste differenze di colori, trasparenza ed opacità?
METALLI
La lucentezza che li caratterizza può essere spiegata solo entrando nella loro intima struttura. In un metallo gli atomi sono talmente vicini che i loro nuclei non riescono a trattenere gli elettroni più esterni che sono così liberi di muoversi continuamente senza essere vincolati ad assumere solo determinati valori fissi di energia, a differenza di quanto avviene nei non conduttori nei quali gli elettroni sono vincolati ad assumere i valori di energia associati ai vari orbitali. Questa grande libertà di movimento degli elettroni più esterni è infatti dovuta al legame metallico.
Tali elettroni hanno una energia cinetica che varia da un minimo ad un massimo permesso, detto livello di Fermi.
Sono possibili un elevato numero di transizioni ottiche, anche quelle che portano l’assorbimento di luce a bassissima energia, perché ci sono moltissimi livelli di energia vuoti sopra il livello di Fermi: tutti i fotoni incidenti possono essere assorbiti ed immediatamente riemessi su tutte le lunghezze d’onda originando la particolare lucentezza dei metalli (Fig. 11).
Il fatto che i metalli abbiano colori diversi è dovuto alla diversa disposizione energetica degli elettroni negli atomi la quale è responsabile dell’assorbimento/ riemissione dei fotoni in determinati intervalli di frequenza (Fig. 12). Ad esempio, l’oro colpito da luce bianca assorbe preferenzialmente le componenti verdi e blu e riemette le componenti giallo rosse. Nel rame questo comportamento è ancora più accentuato, mentre argento, platino, alluminio hanno un potere riflettente uguale per tutte le componenti della luce visibile ed assumono un aspetto a specchio (uno specchio si dice perfetto quando la luce che riflette ha lo stesso contenuto spettrale della luce incidente).
MATERIALI ISOLANTI
Negli isolanti come il vetro gli elettroni sono legati ai rispettivi nuclei atomici, occupando completamente una banda di energie al di sopra della quale non esistono ulteriori possibili livelli; ad energie maggiori comincia una nuova banda permessa e vuota e così via in modo alternato. Poiché una transizione ottica richiede un livello di partenza pieno ed un livello di arrivo vuoto, non sono possibili salti di energia minori della larghezza dell’interruzione, detta banda proibita: per far muovere gli elettroni nel solido è necessaria un’energia minima dei fotoni al di sotto della quale l’assorbimento non avviene. Se la luce incidente non ha la corretta frequenza, detta soglia di assorbimento ottico, essa viene totalmente trasmessa; la banda proibita pertanto delimita la regione di trasparenza del materiale (Fig. 13).
Se la soglia di assorbimento cade nell’infrarosso (banda proibita molto piccola), la radiazione visibile viene tutta assorbita ed il materiale presenta un aspetto simile a quello dei metalli.
Se la banda proibita è più ampia, il materiale agisce come un filtro facendo passare le componenti cromatiche con frequenza più bassa: il materiale assume il colore complementare alle componenti luminose assorbite (materiali idiocromatici).
Man mano che la banda proibita aumenta, la radiazione visibile attraversa in percentuale crescente il materiale fino al limite di soglia nell’ultravioletto: la radiazione incidente non viene assorbita ed esce con tutte le componenti cromatiche inalterate per cui il materiale appare incolore e trasparente. Un esempio di tale comportamento è relativo al vetro che comincia ad assorbire a circa 350 nm, quindi assorbe gli ultravioletti ma è trasparente alla luce visibile. I vetri colorati, più o meno trasparenti, si ottengono mescolando alla massa vetrosa ancora non solidificata sostanze estranee che ne modificano le caratteristiche ottiche, permettendo l’assorbimento preferenziale a certe lunghezza d’onda (Fig. 14). Questo inserimento di “sostanze estranee” avviene in natura nelle gemme.
GEMME
Le gemme sono minerali impiegati in arte orafa perché hanno particolari caratteristiche quali colore, trasparenza, rifrazione, diffusione, resistenza chimica…
Un minerale che presenta molteplici colorazioni è il quarzo, biossido di silicio [SiO2] in forma cristallina (gli atomi sono perfettamente ordinati in una struttura ben definita detta reticolo cristallino), fratello maggiore del vetro che consiste in silice amorfa. Il quarzo mostra una soglia di assorbimento a 190 nm, quindi è trasparente al visibile ed agli ultravioletti (le lampade al quarzo sono utilizzate nei centri estetici per l’abbronzatura artificiale!), ma presenta svariate colorazioni, dette allocromatiche (Fig.15).
Al momento della formazione del minerale, al suo interno rimangono incorporate impurezze (atomi di diversi metalli) oppure si creano difetti strutturali (diffusa mancanza di atomi di silicio o di ossigeno) che originano i cosiddetti centri di colore o centri F che sono spazi vuoti che agiscono come trappole di elettroni: in tali centri gli elettroni sono legati con energie minori, quindi capaci di assorbire anche fotoni di bassa frequenza e di modificare la trasparenza del cristallo. I centri di colore si possono assimilare ad atomi di gas dispersi e bloccati entro la struttura del cristallo che alterano le proprietà ottiche del minerale.
Ogni possibile colorazione del quarzo è dovuta proprio alla presenza di impurezze e/o di centri di colore.
Ad esempio, se alcuni atomi di silicio sono sostituiti da atomi di alluminio si ha il quarzo fumé; se gli stessi sono sostituiti da atomi di ferro, si ha il quarzo viola o ametista (Fig. 16). Quest’ultimo ha la caratteristica di cambiare colore in seguito a riscaldamento, divenendo giallo o verde: gli atomi di ferro sono sempre presenti, ma l’aumento di temperatura distrugge i centri di colore tipo ametista, originando il topazio nelle sue varie colorazioni (Fig. 17). La tecnica del riscaldamento del minerale è ampiamente impiegata per modificare il colore dei minerali, aumentandone il valore.
Altro esempio è il corindone, ossido di alluminio [Al2O3] incolore allo stato puro, ma variamente colorato in presenza di impurezze come nelle varietà zaffiro e rubino (Fig.18).
La presenza di atomi di ferro e titanio conferisce varie tonalità allo zaffiro, dal comune azzurro al giallo, al rosa, al verde e al violetto; la presenza di atomi di cromo al posto di quelli di alluminio origina il rosso rubino poiché il cromo assorbe efficacemente le radiazioni gialle e verdi. Il rubino artificiale si ottiene per riscaldamento del cristallo originario.
Lo smeraldo invece è berillo [Be3Al2Si6O18] che allo stato puro risulta essere incolore: la presenza di atomi di cromo che sostituiscono quelli di alluminio conferisce il caratteristico colore verde in quanto gli atomi di cromo generano centri di colore che trattengono elettroni con energia minore, capaci quindi di assorbire le lunghezze d’onda del rosso e di trasmettere/riflettere nel blu e nel verde. Altra varietà di berillo è l’acquamarina il cui colore è dovuto alla sostituzione di alcuni atomi di alluminio con atomi di ferro (Fig. 19).
L’alessandrite è una gemma molto particolare che mostra un comportamento intermedio tra smeraldo e rubino, assumendo i relativi colori tipici a seconda della sorgente con la quale è illuminata. Essa consiste in alluminato di berillio [BeAl2O3] nel quale atomi di cromo si sostituiscono a quelli di alluminio. Questo porta alla presenza di centri di colore con energia intermedia tra quelli che caratterizzano lo smeraldo ed il rubino, i quali originano due finestre di trasmissione, rispettivamente nel blu – verde e nel rosso: alla luce solare la gemma appare verde, alla luce di una fiamma, appare rossa! (Fig. 20)
Il posto principale tra le gemme lo detiene ovviamente il diamante che consiste in atomi di carbonio puro disposti in una struttura tridimensionale molto compatta ed estremamente dura. Il suo valore però è tanto maggiore quanto esso è incolore (Fig.21): presenta una soglia di assorbimento a 220 nm e la presenza di impurezze, meglio definite come impurezze droganti, agiscono in modo analogo ai centri di colore; ad esempio la sostituzione di atomi di carbonio con quelli di azoto conferisce ad esso una colorazione verde o gialla.
VETRO
La tecnica di riscaldare i cristalli minerali al fine di ottenere pietre preziose si osserva naturalmente anche nel vetro contenente ferro e manganese che, se esposto al sole per lunghi periodi, assume una colorazione violacea in seguito alla formazione di centri di colore tipo ametista.
Il vetro è la versione amorfa del quarzo, composto da circa il 70% di silice [SiO2] in presenza di quantità variabili di soda [Na2CO3], carbonato di calcio [CaCO3] e magnesia [MgCO3]. Quindi, aggiungendo ad esso diversi minerali contenenti differenti metalli di transizione se ne può variare la colorazione a piacere: vetro azzurro con rame e cobalto, vetro verde con cromo, vetro ambra con ferro e vetro fumé con nichel.
Appendice 4 Pigmenti e coloranti usati nell’arte
I pigmenti sono minuscole particelle insolubili disperse all’interno di un liquido o di un solido che agiscono come diffusori di luce rendendo opaco un materiale originariamente trasparente; il loro uso prevalente è nella formulazione di vernici, inchiostri, lacche, smalti e materie plastiche. I pigmenti differiscono dai coloranti per tessuti, carta, legno che sono solubili in un opportuno solvente, almeno in una fase del processo di colorazione.
Generalmente i pigmenti sono di natura inorganica (ossidi, idrossidi e sali), naturali o artificiali, e presentano nella loro struttura un metallo di transizione che, avendo orbitali interni non completamente occupati da elettroni, mostra una forte banda di assorbimento nel visibile originando così intense colorazioni.
I pigmenti di natura organica, naturali o sintetici, mostrano diversi colori a causa del comportamento degli elettroni presenti nei numerosi legami che tengono uniti atomi di carbonio, azoto e ossigeno a formare strutture molecolari di estese dimensioni. Nelle molecole organiche l’instaurazione, cioè la presenza di doppi o tripli legami coniugati, e di particolari gruppi detti cromofori, contenenti eteroatomi ricchi di elettroni, è essenziale per l’assorbimento selettivo della luce. La presenza di un solo cromoforo provoca generalmente un assorbimento della luce a specifiche lunghezze d’onda non molto intenso, ma la coniugazione e la cumulazione di legami multipli genera un effetto batocromo che sposta l’assorbimento a lunghezze d’onda maggiori, verso il rosso. Grande influenza sul colore della sostanza hanno anche i gruppi auxocromi che aumentano l’intensità del colore (Fig. 21).
Entrando più nello specifico, I coloranti organici derivano da idrocarburi aromatici semplici o policiclici dotati di gruppi funzionali specifici. I gruppi cromofori “apportatori di colore” sono tipicamente il nitrogruppo – NO2, il gruppo nitroso – NO, l’azogruppo – N≡N, il gruppo vinile –CH=CH2; la loro combinazione con il radicale aromatico genera il cromogeno che non sempre è colorato o lo è debolmente, quindi è necessaria la contemporanea presenza di u gruppo auxocromo come – SO3H, - OH, - NH2 o – COOH.
La funzione del cromoforo si esplica grazie alla presenza degli elettroni dei legami multipli che assorbono facilmente le radiazioni luminose: quelle non assorbite vengono riflesse, determinando il colore della sostanza. La funzione del gruppo auxocromo è dovuta alla presenza di elettroni disponibili ed atomi di idrogeno facilmente spostabili (gruppi acidi o basici) che aumentano l’intensità del colore e permettono la fissazione del colorante sul supporto da colorare.
A differenza dei pigmenti inorganici, quelli organici presentano superiori potere coprente e colorante con tinte pulite è brillanti, sono molto stabili in presenza di acidi e di alcali e non contengono metalli pesanti, molto solidi alla luce. A differenza dei coloranti per tessuti sono insolubili sia acqua sia in oleoresine.
Vengono distinti a seconda della loro struttura chimica in:
PIGMENTI AZOICI: mostrano il caratteristico azogruppo -N≡N- che conferisce loro colori variabili dal giallo limone al rosso boerdeaux, utilizzabili ampiamente nell’industria delle vernici, degli inchiostri e delle materie plastiche;
FTALOCIANINE: il loro precursore di colore blu si ottiene da ftalonitrile e cloruro rameico, ha grande potere colorante ed è molto brillante e eccezionalmente stabile alla luce. La clorurazione di questa struttura base produce pigmenti blu verdastri (cyan), turchesi e verdi molto brillanti, i più utilizzati nell’industria delle vernici, degli inchiostri di stampa e delle materi plastiche;
PIGMENTI CHINACRIDRONICI: di struttura relativamente più semplice delle ftalocianine, deriva dal chinandrone che può cristallizzare in tre forme di diversi colori: la forma alfa è rosso bluastro, la forma beta è violetta e la forma gamma violetto rossastra. Avendo notevole potere coprente colorante, nonché elevata stabilità alla luce vengono impiegati negli inchiostri da stampa e nei colori acrilici in emulsione in massima parte nella verniciatura delle automobili ed in campo industriale;
LACCHE: si ottengono rendendo insolubili dei coloranti o precipitandoli come sali insolubili di cationi metallici o con poliacidi complessi (fosfomolibdati, fosfotungstenati o fosfotungstomolibdati) e sono quelli tradizionalmente impiegati nella pittura. Ne sono esempi la rossa lacca di garanza ottenuta dalla robbia (alizarina), la lacca gialla dallo zafferano (crocina) e dalla quercia tintoria (quercetina), il carminio ottenuto dal kermes (acido carminico). Non sono generalmente resistenti alla luce, ma i toni di colore particolarmente vivaci e trasparenti ne consigliano l’uso nei colori ad acquerello, colori e vernici per velature, inchiostri da stampa per policromie.
Per tingere le fibre tessili e la carta si impiegano i coloranti che non si depositano solo fisicamente sul supporto da colorare come i pigmenti, ma interagiscono chimicamente con la sostanza da colorare. I coloranti sono molecole organiche conosciute sin dall’antichità come l’indaco ricavato dalla pianta Indigofera tinctoria e la porpora ottenuta dai molluschi del genere Murex. Dalla seconda metà dell’ottocento i coloranti naturali furono progressivamente sostituiti da quelli sintetici grazie allo scoperta casuale dell’anilina ad opera di W. H. Perkin ed alla sintesi industriale dell’indaco ad opera di A. von Baeyer.
I coloranti naturali di origine animale, come la porpora o la cocciniglia ottenuta dall’insetto Coccus cacti che vive nell’America centrale, hanno scarsa stabilità ed un costo elevato. I coloranti vegetali sono più numerosi: la quercetina di colore giallo ottenuta dalla corteccia della Quercia tinctoria, la alizarina rossa ricavata dalla robbia (Rubia tinctoria) e l’henné bruno estratto dalla pianta asiatica Lawsonia inermis. Da questi si ricavano i pigmenti organici sopra citati.
I coloranti sintetici vengono classificati in base alla materia prima utilizzata per la loro sintesi che deriva generalmente dal catrame. Tra loro ci sono i coloranti all’anilina (moveina, fuxina…), i coloranti all’antracene, allo xilene…i quali colori si diversificano a seconda dei reagenti impiegati nella loro sintesi.
Riassumendo in modo molto schematico:
1) pigmenti inorganici: a) naturali; b) artificiali
2) pigmenti organici
Il primo gruppo è suddiviso in classi in base al colore e, ove ciò non fosse possibile in base a caratteristiche precipue; il secondo in base alla composizione chimica.
Pigmenti inorganici
pigmenti naturali: ocre gialle, rossi, bruni e neri naturali
b) pigmenti sintetici:
pigmenti bianchi: biacca, ossido di zinco, ossido di antimonio, solfuro di zinco, litopone, titanato di potassio, biossido di titanio
pigmenti gialli: giallo cromo, giallo cadmio, giallo ferro, giallo di nichel-titanio
pigmenti rossi: rosso ferro, rosso molibdeno, rosso cadmio
pigmenti verdi: verde cromo, ossido di cromo, verde di Guignet
pigmenti azzurri: blu di Prussia, blu di cobalto, azzurro oltremare
pigmenti neri e marroni: bruni e neri ferro, nero fumo
pigmenti anticorrosivi: minio, piombato di calcio, silicocromato, cromato di zinco, cromato di stronzio, cromato di bario, molibdato di zinco, fosfato di zinco
pigmenti antifouling ( antivegetativi che ostacolano o prevengono la crescita di alghe, batteri o molluschi) : ossido rameoso, metaborato di bario, ossido di mercurio
pigmenti metallici: povere di zinco, alluminio, leghe di rame
pigmenti micacei iridescenti e cangianti: ossidi di ferro
pigmenti luminescenti che si caricano quando sono esposti alla luce e la rilasciano al buio
pigmenti perlescenti cangianti o molto brillanti simili a colori floreali o a perle naturali o a conchiglie oppure a farfalle
Pigmenti organici
Nitrosoderivato: pigmento verde B
Nitro-derivato: lacca dell’acido giallo 1
Azoici: gialli e aranci Hansa; aranci ortonitro e dinitroanilina, rossi toluidina, para e cloronitroanilina, rossi e marroni naftolo, giallo nichel azoico, bordeaux BL, rosso lacca C, rosso litolo, lacca scarlatto 3B, rosso permanente 2B, giallo tartrazina, gialli e rossi benzimidazolone.
Diazoici: azoici di condensazione, aranci e rossi pirazolone, gialli e aranci benzidina
Derivati del trifenilmetano: da coloranti basici: metilvioletto, rodammina B, rosso magenta, blu di metilene, verde malachite, auraammina, etilvioletto, blu Vittoria, bruno di Bismarck, alcali blu, blu lacca
Xantenici: floxine
Antrachinonici: lacca di alizarina, giallo flavantrone, arancio pirantrone, arancio perinone, arancio antantrone, blu indantrone, violetto violantrone, rossi e marroni perilene
Chinacridonici:arancio, rosso, violetto chinacridone
Indigoidi: rosso, violetto e marrone tioindaco
Ftalocianinici: blu ftalocianina, verde ftalocianina
Organici naturali: rosso carminio
Tetracloroisoindolinonici: gialli e rossi irgazina
Per approfondire:
http://www.inforestauro.org/
https://www.youtube.com/watch?v=pGpwnALTCag
http://pigmenti.net/
BIBLIOGRAFIA
A. FOVRA “Luce Colore Visione” BUR Scienza
C. BUCARI, P. CASALI, A.M. LANARI “Chimica per l’arte” Ed. Calderini RCS
C. QUAGLIERINI, L. AMOROSI “ Chimica e tecnologia dei materiali per l’arte” ed. Zanichelli