Elettrotecnica forze elettromagnetiche

Elettrotecnica forze elettromagnetiche

 

 

 

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Elettrotecnica forze elettromagnetiche

Tratto da "Biografia della Fisica", di G. Gamow

L’ERA DELL’ELETTRICITA’

Le prime scoperte

I fenomeni di elettricità e di magnetismo erano noti agli antichi Greci e, probabilmente, al resto del mondo antico, ma i primi studi sistematici di questi ­fenomeni furono intrapresi soltanto all’inizio della rinascita delle arti e delle scienze. Sir William Gilbert, medico personale della re­gina Elisabetta I e contemporaneo di Galileo, eseguì accurate ri­cerche sulle interazioni magnetiche, e ne pubblicò i risultatiin un libro, i1 De magnete, che contiene una descrizione qualitativa delle principali. proprietà dei magneti. Gilbert, sostenitore entusiasta del sistema copernicano, sperava di spiegare le forze attrattive planetarie come un effetto di attrazione magnetica tra i pianeti e il Sole.
Per studiare più da vicino questi problemi costruì delle sfere di magnetite, un minerale di ferro magnetico, e studiò il campo magnetico da esse generato disponendo piccolissimi aghi magnetici nella re­gione attorno alle sfere: scoprì così che un estremo dell'ago era at­tratto con la massima forza verso una regione molto piccola della sfera, mentre l'altro estremo era attratto con la massima intensità verso la regione diametralmente opposta. Nei vari punti della su­perficie della sfera l'ago si orientava in una posizione definita lungo un grande cerchio che conteneva i punti di massima attrazione - o poli magnetici - della sfera. Poiché il fenomeno era identico a quello che si verificava per gli aghi magnetici nei vari punti della su­perficie terrestre, Gilbert concluse che il nostro globo può conside­rarsi come un enorme magnete i cui poli sono posti vicino ai poli Nord e Sud geografici. Questa ipotesi, sopravvissuta attraverso i secoli e precisata in termini matematici dal tedesco Karl Friedrich Gauss, costituisce oggi il concetto su cui si basa la teoria del magneti­smo terrestre. Invece, i tentativi di Gilbert di ritenere le forze magne­tiche responsabili del moto dei pianeti attorno al Sole fallirono mise­ramente e circa mezzo secolo dopo Newton spiegò questo moto mediante le forze di gravitazione universale, che nulla hanno a che vedere col magnetismo.
Mentre Newton teneva segrete le sue idee sulla gravitazione uni­versale il fisico tedesco Otto von Guericke, meglio noto per i suoi esperimenti con i cosiddetti “emisferi di Magdeburgo” (due emisferi metallici, i quali, una volta messi a contatto e vuotati d'aria, non si possono staccare nemmeno con la forza di due pariglie di cavalli), tentò di spiegare l'attrazione tra il Sole e i pianeti mediante interazioni di natura elettrica. Anche se non raggiunse il suo obiettivo, Von Guericke riuscì a rivelare alcune notevoli proprietà delle cariche elet­triche. Tra l'altro scoprì che, se una bacchetta di ambra strofinata attirava e sollevava piccoli frammenti di carta, così due oggetti leg­geri posti successivamente a contatto con la bacchetta d'ambra stro­finata si respingevano; similmente una carica elettrica può passare da un corpo a un altro non solo per contatto diretto, ma anche me­diante una corda umida o un filo metallico tesi fra i due corpi.
Altre ricerche sui fenomeni elettrici, eseguite da Charles du Fay all'inizio del XVIII secolo, portarono alla scoperta, dell'esistenza di due tipi di elettricità: quella prodotta dallo strofinio dell'ambra, della gomma dura, della ceralacca e di altre sostanze resinose; e quella prodotta dallo strofinio di sostanze vetrose, come il vetro e la mica. Questi due tipi di fluidi elettrici furono chiamati ‘resinoso’ e ‘vetroso’ e si scoprì che cariche elettriche dello stesso tipo si respingono, men­tre cariche di tipo diverso si attraggono. Si supponeva che i corpi elettricamente neutri contenessero uguali quantità dei due fluidi e che i corpi elettricamente carichi avessero un eccesso dell'uno o del­l’altro tipo di elettricità. I fenomeni osservati da Otto von Guericke molto tempo prima furono interpretati come interazioni tra i due tipi di fluidi elettrici.
Supponiamo di strofinare una sferetta di gomma piena, in modo da caricarla di elettricità resinosa: se ora disponiamo nelle vicinanze un piccolo corpo scarico, contenente cioèle due qualità di elettricità ugualmente distribuite, l'elettricità resinosa verrà respinta fino alla zona del corpo più lontana dalla sfera, mentre l'elettricità vetrosa verrà attirata verso l'estremo più vicino a essa. Poiché le interazioni elettriche diminuiscono di intensità con la distanza, la forza d'attra­zione agente sulle cariche vetrose sarà più sensibile di quella repulsiva agente sulle cariche resinose e l'effetto totale sarà una attrazione tra i due corpi. Se invece di una sferetta di gomma piena prendiamo una pallina di vetro si avrà un risultato identico, benché nel discorso si debbano scambiare le locuzioni ‘cariche vetrose’ e ‘cariche resinose’. In tal modo un corpo neutro sarà attirato da uno carico; il fenomeno della separazione delle cariche in un corpo originariamente scarico prende il nome di ‘polarizzazione’ o ‘induzione’ elettrica. Se ora met­tiamo due piccoli oggetti a contatto con un grosso corpo carico, essi si caricheranno dello stesso tipo di elettricità e quindi si respinge­ranno fra loro quando li allontaneremo dal corpo carico.
Durante queste interessanti ricerche furono inventati due importanti congegni elettrici: l’elettroscopio a foglio e  la bottiglia di Leyda. L'elettroscopio è uno strumento in grado di ri­velare la presenza di cariche elettriche e fu costruito nel 1705 da Haukesbee; esso consiste di due pagliuzze fissate all'estremità in­feriore di un'asticciola metallica: quando l'asticciola è posta a con­tatto di un corpo carico di elettricità resinosa o vetrosa tutte due le pagliuzze si caricano allo stesso modo e divergono. E’ uno strumento che si usa tuttora ma, al posto delle pagliuzze, si usano due foglio­line d'oro che hanno il pregio di essere molto più leggere e quindi più sensibili alle piccole quantità di elettricità.
La bottiglia di Leyda, costruita nel 1745 da un gruppo di scienziati dell'Università di Leyda, fu progettata allo scopo di raccogliere una grande quantità di cariche elettriche ed era formata da un cilindro di vetro le cui pareti interne ed esterne erano ricoperte da sottili lamine d'argento. Se si collega la parete interna a un corpo carico e quella esterna a terra, o viceversa, l'elettricità (vetrosa o resinosa che sia) tende a sfuggire verso il suolo, ma viene bloccata dallo strato di vetro: in questo modo è possibile raccogliere nella bottiglia notevoli quantità di elettricità e si possono ottenere impressionanti scintille collegando con un filo metallico la parete interna con quella esterna. La vecchia bottiglia di Leyda è oggi superata e il suo posto è stato preso dai più vari tipi di condensatori, oggetti formati da un rilevante numero di lamine metalliche separate da sottili strati di aria, vetro o mica. Questa struttura li rende adatti a immagazzinare enormi quantità di elettricità, com'è richiesto in moltissimi casi, in tutti i campi della fisica e dell'elettrotecnica. In particolare il primo acceleratore di particelle, costruito nel 1930 all'Università di Cambridge da John Cockroft e da E. T. S. Walton, era costituito da una batteria di condensatori che poteva essere caricata fino a un milione di volt. Scaricando i condensatori attraverso un tubo di vetro contenente idrogeno si producono ‘proiettili atomici’ di energia tanto elevata che, colpendo gli atomi di un bersaglio di litio posto a una estremità del tubo, li spezzano in due parti.
Allo stesso periodo appartiene, il lavoro del grande statista e scrit­tore americano Benjamin Franklin, che cominciò ad înteréssarsi di fisica alla matura età di quarant’anni. Egli non era soddisfatto delle piccole scintille che si ottenevano strofinando una caloscia contro una pelliccia e desiderava divertirsi con scintille molto più intense, del tipo di quelle che Giove scaglia dalle nubi durante i temporali e così decise di inviare degli aquiloni sulle nuvole per raccogliere elet­tricità. Servendosi della corda umida che reggeva gli aquiloni e che fungeva come perfetto -conduttore di elettricità egli riuscì a caricare  le bottiglie di Leyda e ad ottenere successivamente violente scariche elettriche., I risultati delle sue ricerche, raccolti nel libro Esperimenti e osservazioni sull’elettricità eseguiti a Filadelfia, in America (1753), gli valsero l’assegnazione di una borsa di studio presso la Royal So­ciety di Londra e il titolo di membro associato dell’Accademia Reale delle Scienze di Parigi. Tuttavia, dopo aver sfidato Giove con i suoi esperimenti Franklin non fu tanto abile nell’interpretazione teorica dei risultati ottenuti. Egli introdusse l’ipotesi dell’esistenza di un solo tipo di fluido elettrico che chiamò elettricità ‘vetrosa’, affermando che i due diversi tipi di elettrizzazione osservati sperimen­talmente corrispondevano all’abbondanza o alla scarsità di quel fluido imponderabile, e chiamò carichi positivamente i corpi con eccesso di elettricità vetrosa (come una bacchetta di vetro strofinata) e ca­richi negativamente i corpi con scarsità dl elettricità vetrosa (come una bacchetta di ambra strofinata). Quando due corpi, contenenti l’uno un eccesso e l’altro un difetto di fluido elettrico vetroso, ven­gono a contatto, la corrente elettrica deve fluire dal primo corpo, sul quale è in eccesso, al secondo, sul quale è in difetto.
Queste idee di Benjamin Franklin condussero alla moderna ter­minologia, secondo la quale la corrente elettrica fluisce dall’elettrodo positivo (anodo) a quello negativo (catodo). Oggi sappiamo che l’idea di Du Fay sull’esistenza di due fluidi elettrici diversi è molto più vicina al vero di quella di Franklin, sebbene si possa dire che la si­tuazione sia stata più complicata che chiarita da parte di entrambi. Esistono particelle cariche sia positivamente sia negativamente e, per ogni particella che trasporta normalmente una carica positiva o negativa, esiste una corrispondente ‘antiparticella’ con carica di segno contrario. Franklin si era avvicinato molto alla esatta inter­pretazione dei fatti nel caso della corrente nei cavi metallici, nei quali la corrente è dovuta esclusivamente al movimento degli elettroni, che però sono carichi di elettricità resinosa e non vetrosa. Si sente spesso parlare della proposta di scambiare tra loro i nomi dell’elet­tricità positiva e negativa, in modo che la direzione convenzionale della corrente dall’elettrodo positivo a quello negativo coincida con la direzione di movimento degli elettroni, ma in questo modo si creerebbero delle complicazioni nel caso degli acceleratori di parti­celle che inviano sui bersagli atomici protoni di alta energia: invece di uscire dalla bocca del disintegratore la corrente elettrica vi entre­rebbe. Non solo, ma anche nel caso dei liquidi, nei quali l’elettricità è trasportata sia dagli ioni positivi sia dagli ioni negativi mobili in direzioni opposte, un tale cambio di terminologia non porterebbe ad alcun vantaggio pratico.
La legge delle forze elettriche e magnetiche
Nella seconda metà del XVIII secolo, i fisici di molti Paesi si dedi­carono agli studi quantitativi delle forze elettriche e delle forze ma­gnetiche. Una delle più importanti, scoperte in questo campo fu opera del francese Charles Augustin_de Coulomb, che inventò la cosid­detta bilancia di torsione per la misura di forze di debole intensità. La bilancia di torsione è costituita da una leggera sbar­retta sospesa a un lungo e sottile filo e recante alle estremità due sferette metalliche identiche. Quando sulle sferette non agisce alcuna forza, la sbarretta assume una certa posizione di equilibrio, ma se una delle due sferette viene caricata elettricamente, per esempio avvicinando a essa un’altra sferetta carica, la forza di origine elet­trica agente sulla sferetta mobile farà rotare la sbarretta attorno al punto di sospensione fino a quando la torsione del filo equilibrerà la forza agente. Essendo il filo molto sottile sarà sufficiente una debole forza sulla sferetta mobile per produrre una notevole deviazione della sbarretta dalla posizione originaria e l’angolo di rotazione sarà pro­porzionale a tale forza. Coulomb, caricando le sferette fisse e quella mobile con diverse quantità di elettricità e variando la distanza fra quelle e questa, ar­rivò a formulare la legge che oggi porta il suo nome, secondo la quale le forze di attrazione e repulsione elettrica sono direttamente propor­zionali al prodotto delle due cariche e inversamente proporzionali al quadrato della loro distanza. Si può conseguentemente de­finire l’unità elettrostatica di carica come la carica che agis-ce   con la forza di 1 dina, su una carica uguale posta, ne1  vuoto, alla distanza di 1 centimetro. Nella pratica, tuttavia si preferisce usare una unità di carica elettrica molto più grande, il coulomb, pari a 3 x 109 unità elettrostatiche. Con la stessa bilancia di torsione, so­spendendo un magnete al filo e disponendo verticalmente un altro magnete attraverso il coperchio dello strumento, Coulomb estese la validità della sua legge anche alle interazioni magnetiche. In quell’epoca viveva in Inghilterra  Henry _Cavendish, uomo dal carattere molto chiuso,egli non aveva amici, aveva paura delle donne e le cameriere della sua casa erano costrette a tenersi lontano dalla sua presenza e ricevevano gli ordini di ciò che deside­rava a pranzo mediante appunti che egli lasciava ogni mattina sulla tavola della sala. Cavendish non aveva passione alcuna, né per la musica, né per l’arte in genere e dedicava tutto il suo tempo ad espe­rimenti di fisica e di chimica nel laboratorio privato che aveva alle­stito nella sua grande casa signorile. Il suo lavoro era solo interrotto saltuariamente da qualche passeggiata o dalla partecipazione ai pranzi della Royal Society, durante i quali Cavendish aveva modo di scambiare informazioni con altri chimici e fisici. Durante la sua lunga vita (mori a 79 anni) egli pubblicò solo qualche articolo di scarsa risonanza, ma dopo la sua morte furono scoperti un milione di sterline sul suo conto in banca e venti pacchi di appunti preziosis­simi nel suo laboratorio. Questi appunti restarono in mano ai suoi parenti per molto tempo, ma quando finalmente  circa cent’ anni dopo, essi furono pubblicati, apparve chiaro che Cavendish era stato uno dei più grandi fisici sperimentali mai vissuti. Egli scopri infatti tutte le leggi delle interazioni elettriche e magnetiche contemporaneamente a Coulomb.  Cavendish costruì inoltre una bilancia per lo studio di forze gravitazionali estremamente deboli tra piccoli oggetti e, sulla base di questi esperimenti, calcolò esattamente il valore della massa della Terra.

La scarica elettrica prodotta da un’anguilla

Gli abitanti dell’Africa e del Sud America hanno una certa familiarità con un interessante pesce dei fiumi tropicali, che colpisce con intense scariche elettriche chiunque tenti di catturarlo. Nel 1750 una nave inglese trasportò à Londra mola esemplari di questo pesce e i biologi cominciarono a studiarne la natura, scoprendo in breve che la scarica elettrica si aveva soltanto se si toccavano contemporanea­mente con una mano l’estremità della testa del pesce e con l’altra l’estremità della coda. Questi fatti ricordavano l’effetto della bottiglia di Leyda, da poco inventata a quell’epoca, e, il pesce fu chiamato Sirius electronicus o anguilla elettrica e, quando finalmente si dimo­strò che poteva essere usato per caricare la bottiglia di Leyda, non vi fu più alcun dubbio, se non quello della natura della scarica elet­trica che in esso si verificava.
L’elettricità prodotta dal Sirius electronicus attirò l’attenzione del fisiologo italiano., Luigi Galvani, che in quell’epoca stava studiando il fenomeno della contrazione dei muscoli delle zampe delle rane, un piatto prelibato per molti buongustai. Galvani osservò - come dice la leggenda – che le zampe di una rana appesa a un gancio di rame sulla ringhiera di ferro del suo balcone, saltellavano come se  fossero animate da soffio vitale allorché venivano a contatto col ferro della ringhiera. Per ripetere 1’esperimento in condizioni più sicure, Gal­vani, come annota in data 20 settembre 1786, si servì di una specie di compasso con un dente di ferro e uno di rame per collegare il nervo e il muscolo di una zampa di rana e osservò che la zampa si con­traeva rapidamente ad ogni contatto; avveniva cioè qualcosa di analogo alla scarica dell’anguilla elettrica.
Tuttavia c’era qualcosa di diverso nei due fenomeni e un suo ami­co, il fisico Alessandro Volta, dimostrò che la corrente elettrica che causava la contrazione della zampa della rana era dovuta a un fe­nomeno  del tutto inorganico, che è sempre possibile osservare quando gli estremi di un filo metallico fatto saldando insieme due fili di metalli diversi sono immersi in una soluzione acquosa di determinati sali. Volta chiamò questo fenomeno galvanismo, in onore del suo amico e realizzò poco dopo il dispositivo ora noto come pila di Volta usando un gran numero di dischi di ferro e zinco alternati e separati  da strati di panno inzuppato in soluzione salina. La pila di Volta fu il prototipo delle moderne batterie elettriche, quelle stesse che usiamo oggi nelle torce elettriche e in vari altri dispositivi.
Nel marzo del 1800 Volta inviò un manoscritto illustrante le sue scoperte alla Royal Society di Londra (in quell’epoca il principale centro interna­zionale di scambio di  informazioni scientifiche), nel quale scrive:
“Si, il dispositivo del quale mi accingo a parlarvi e che, senza dubbio, vi mera­viglierà non è altro che un insieme di buoni conduttori di diverso tipo, disposti in un certo modo. Si tratta di 30, 40, 60 o più pezzi di rame, o meglio di argento, appoggiati ciascuno su un pezzo di stagno, o meglio di zinco, e un ugual numero di strati d’acqua o di qualche altro liquido più conduttore dell’acqua pura, come acqua salata, ranno, ecc. o pezzi di cartone o di cuoio ben impregnati di questi liquidi. Tali strati, interposti tra i due componenti di ogni coppia di metalli di­versi, disposti alternativamente sempre nello stesso ordine, sono tutto ciò che costituisce il mio nuovo strumento, che imita, come ho già detto, gli effetti della bottiglia di Leyda o di batterie elettriche per quanto riguarda la produzione delle scariche elettriche; però le sue prestazioni sono molto inferiori per quanto ri­guarda la violenza ed il rumore delle esplosioni, l’intensità della scarica e la di­stanza alla quale questa può aver luogo; esso insomma uguaglia solo l’effetto di una di tali batterie caricate molto poco, cioè con una capacità molto grande; tuttavia il mio strumento supera di gran lunga la potenza e la versatilità di tali batterie, in quanto esso non richiede di essere caricato prima dell’uso, cioè non necessita di una fonte esterna di elettricità, non solo, ma esso è in grado di pro­durre una scarica tutte le volte che viene toccato per quanto frequentemente questo fatto si verifichi.”
Purtroppo accadde un fatto veramente spiacevole: Mr. Carlisle e Mr. Nicholson, incaricati delle pubblicazioni della Royal Society, nascosero il manoscritto, ripeterono gli esperimenti di Volta e pub­blicarono i risultati ottenuti a loro nome, ma l’imbroglio non riuscì: i risultati delle ricerche di Volta furono ben presto divulgati da altre fonti; Carlisle e Nicholson furono accusati di plagio e presto scom­parvero nell’ombra. Oggi la pila di Volta e il volt, unità di potenziale elettrico, ricordano il nome del geniale scienziato italiano.
L’elettromagnetismo                          
Probabilmente i primi studiosi di fenomeni elettrici e magnetici avevano intuito l’esistenza di qualche profonda relazione tra i due, ma non riuscirono a scoprirla. Le cariche elettriche non avevano alcuna influenza sui magneti come del resto i magneti sulle cariche elettriche. Il grande onore della scoperta della connessione tra l’elet­tricità e il magnetismo toccò al fisico danese Hans Christian Oersted il quale, venuto a conoscenza delle ricerche di Volta sulla pila si costruì un proprio tipo di pila e iniziò vari esperimenti con essa.
Un giorno del lontano 1820 recandosi all’Univèrsità di Copenhagen per tenere una lezione, Oersted ebbe un’idea brillante: se l’elet­tricità statica non influenza in alcun modo i magneti, può darsi che le cose vadano diversamente se si collegano i due poli di una pila di Volta con un conduttore e si lascia fluire corrente nel circuito. Giun­to nell’aula stipata di giovani studenti Oersted posò sul tavolo la sua pila voltaica, ne collegò i poli con un filo di platino e avvicinò ad essa un ago magnetico: questo, che avrebbe dovuto orientarsi nella direzione nord-sud, fece invece un mezzo giro su sé stesso e si fermò in direzione perpendicolare a quella del filo. Il pub­blico degli uditori non fu molto sorpreso, ma Oersted, dopo la le­zione, si fermò nell’aula con la speranza di individuare l’origine del­l’insolito fenomeno. Dapprima egli pensò che il moto dell’ago fosse dovuto alle cor­renti d’aria prodotte dal filo riscaldato per il passaggio della corrente e, per confermare questa sua supposizione, egli interpose tra l’ago e il filo di platino un pezzo di cartone con l’intenzione di arrestare le eventuali correnti d’aria, ma non notò alcuna differenza. Allora ruotò la pila di 180 gradi, invertendo le polarità, in modo da far fluire la corrente in direzione opposta nel filo di platino, ma anche l’ago ruotò di 180 gradi e il polo nord si orientò nella direzione in cui prima era orientato il polo sud: era evidente che doveva esserci una interazione tra i magneti e le cariche elettriche in movimento e che la direzione nella quale la corrente elettrica fluiva nel filo in­fluenzava l’orientamento dell’ago magnetico. Oersted prese nota di tutte le osservazioni relative alla sua scoperta e le mandò alla rivista francese Annales de chimie et de physique perché fossero pubbli­cate. L’articolo apparve verso la fine del 1820, corredato dalla se­guente annotazione fatta dalla direzione:
I lettori degli Annales dovrebbero aver notato che per principio noi non siamoportati a sostenere troppo caldamente annunci di straordinarie scoperte* e finora non possiamo davvero lamentarci di questa nostra politica. Ma riguardo all’ar­ticolo di Mr. Oersted, i suoi risultati, per quanto singolari possano sembrare, sono corredati da troppi particolari per far sospettare un qualsiasi errore.

Così l’elettromagnetismo come lo, chiamò Oersted, divenne una realtà. Quando la notizia della, sensazionale scoperta di Oersted giunse a Parigi, attirò l’attenzione del fisico e matematico francese André­ Marie Ampere, i1 quale, nel corso di poche settimane scoprì che non solo una corrente elettrica agisce su un ago magnetico, ma che anche due correnti elettriche agiscono l’una sull’altra: ‘infatti due fili paralleli percorsi da correnti concordi si attraggono, mentre, se la corrente li percorrono in sensi opposti, i due fili si re­spingono. Ampere inoltre dimostrò che una spira di rame percorsa da corrente e libera di ruotare attorno a un asse verticale si orienta nella direzione nord-sud come avviene per l’ago magnetico e due di tali spire interagiscono come due sbarrette magnetiche. Queste scoperte fecero pensare ad Ampère che il magnetismo na­turale fosse dovuto a particolari correnti elettriche interne ai corpi magnetizzati. Secondo Ampère ogni molecola delle sostanze magne­tiche è percorsa internamente da una corrente elettrica circolare che la rende simile a un microscopico elettromagnete; quando il ma­teriale non è magnetizzato, gli elettromagneti individuali molecolari sono orientati casualmente in tutte le direzioni e l’effetto complessivo è nullo, mentre nei corpi magnetizzati i magneti molecolari sono orientati, almeno in parte, in una sola direzione e l’effetto complessivo si manifesta con azioni di repulsione o attrazione magnetica. Le ve­dute di Ampère sono pienamente confermate dai fisici moderni, i quali attribuiscono le proprietà magnetiche degli atomi e delle mo­lecole alla rotazione degli elettroni attorno ai nuclei o sul proprio asse. Poiché Ampère fu il primo a concepire con chiarezza le cor­renti elettriche come moto di cariche elettriche nei conduttori, l’uni­tà di intensità di corrente porta il suo nome. Si dice che in un con­duttore passa la corrente di 1 ampere quando attraverso una sezione del conduttore passa la carica elettrica di 1 coulomb al secondo.
Ampère, pur essendo un grande scienziato, fu il classico esempio del professore distratto; si dice che durante le sue lezioni egli usasse spesso il cancellino della lavagna per soffiarsi il naso e un’altra sto­riella dice che un giorno, mentre passeggiava per Parigi, egli scambiò la porta di una carrozza ferma presso un marciapiede per una lava­gna e cominciò a riempirla di formule matematiche: quando la car­rozza si mosse egli la inseguì a piedi deciso a terminare i suoi calcoli. Un giorno Napoleone visitò l’Accademia di Parigi e Ampère non lo riconobbe. Napoleone, sorridendo, gli fece notare: « Vedete, signore, quanto sia poco piacevole vedersi raramente tra noi colleghi. Non vi ho mai visto alle Tuileries, ma so come obbligarvi a venire là o almeno a dirmi buongiorno! » e lo invitò a pranzo per il giorno dopo. Ma il giorno dopo, alla tavola nella sala da pranzo di Napoleone c’era una sedia vuota: quella riservata ad Ampère, che si era dimenticato dell’importante invito.

Le Leggi Dei Circuiti Elettrici
Mentre, Ampere era completamente assorto nei suoi studi sugli ef­fetti magnetici associati alle correnti elettriche, il fisico tedesco Georg Simon Ohm, in quel tempo insegnante in una scuola di Colonia, svolgeva ricerche sulla dipendenza di una corrente elettrica che at­traversa un conduttore dalle caratteristiche del materiale del condut­tore e dalla differenza di potenziale elettrico esistente ai suoi estremi. A tale scopo, Ohm collegò in serie un buon numero di pile voltaiche per ottenere tensioni elettriche piuttosto elevate e un galvanometro, strumento - costruito per la prima volta da Ampère - che consente di misurare le correnti elettriche mediante la deviazione prodotta su un ago magnetico: usando conduttori di diverse lunghezze e di diverse sezioni, fatti di materiali diversi, Ohm trovò che l’intensità della cor­rente è proporzionale alla sezione del filo, inversamente proporzionale alla lunghezza e dipende dalla natura del materiale di cui è fatto il filo; l’intensità di corrente è inoltre, per un dato materiale, propor­zionale alla differenza di potenziale elettrico esistente fra gli estremi della serie di pile voltaiche usate quali generatori di corrente. La si­tuazione è analoga a quella che si verifica allorché si pompa acqua attraverso un tubo entro il quale sia sistemato del materiale poroso che si oppone al passaggio del liquido. In questo caso l’intensità della corrente d’acqua aumenta con la pressione esercitata dalla pompa e con la sezione trasversale del tubo, diminuisce con la lun­ghezza del tubo e dipende dalla natura e dalla quantità del materiale poroso in esso contenuto. Così Ohm introdusse il concetto di resistenza elettrica dei diversi conduttori, affermando che l’intensità di corrente è direttamente pro­porzionale alla differenza di potenziale elettrico che la genera e in­versamente proporzionale alla resistenza del conduttore il quale, a sua volta, è direttamente proporzionale alla lunghezza e inversa­mente proporzionale alla sezione, secondo una costante di proporzio­nalità C dipendente dalla natura del materiale del conduttore. Egli pubblicò i risultati delle sue ricerche nel 1827 in un articolo intitolato L’analisi matematica dei circuiti galvanici, che costituì la base di tutti i successivi studi sui circuiti elettrici. L’unità di resistenza elettrica è chiamata ohm dal nome del suo sco­pritore; 1 ohm è la resistenza che consente il passaggio di una cor­rente di 1 ampere sotto una differenza di potenziale elettrico di 1 volt. Talvolta, invece della resistenza elettrica, si parla della conduttività elettrica, che ne è l’inverso. Con una certa proprietà l’unità di condut­tività si chiama mho, cioè l’inverso dell’ohm.
Le scoperte di Faraday

Michael Faraday, che portò all’apoteosi la ricerca classica sui fenomeni elettrici e magnetici e col quale ebbe inizio 1’era della fisica moderna, nacque nel 1791 vicino a Londra; suo padre era ma­niscalco. La famiglia era troppo povera per mantenerlo agli studi e a tredici anni egli divenne garzone nella libreria di un certo Mr. Ribeau; l’anno successivo Mr. Ribeau lo assunse in qualità di ap­prendista rilegatore di libri per un periodo di sette anni. Faraday però non si limitava a rilegare i libri dei clienti, ma ne leggeva molti dalla prima all’ultima pagina, aumentando in tal modo il suo baga­glio culturale e il suo ardente desiderio di potersi dedicare alla ri­cerca scientifica. Faraday così racconta della sua gioventù:
“Mentre lavoravo in qualità di apprendista sfogliavo tutti i libri scientifici che mi capitavano tra le mani e fra tutti mi interessavano particolarmente le Conver­sazioni di chimica di Marcet e le trattazioni di elettricità dell’Enciclopledia bri­tannica. Ho eseguito qualche esperimento piuttosto semplice e poco costoso, non più di qualche penny la settimana, e ho anche costruito una macchina elettrica prima con una ampolla di vetro e poi con un cilindro e altri apparati elettrici dello stesso tipo.”
Durante gli ultimi anni del suo apprendistato, quando aveva poco più di 20 anni (quando cioè le scoperte di Volta e di Galvani erano ancora all’ordine del giorno) egli scrisse all’amico Benjamin Abbot:
“Ultimamente ho eseguito un semplice esperimento galvanico allo scopo di chiarire a me stesso i principi fondamentali di tale scienza. Mi sono recato dal Conte per avere del nichel, ma mi dissero di avere solo dello zinco malleabile: decisi di acquistarne un poco. Ne hai mai visto? La prima porzione che ottenni era in sottilissime strisce, nota bene, appiattite, ma mi è stato detto che era suf­ficientemente sottile per il bastone elettrico, o, come io lo avevo chiamato, la co­lonna elettrica di De Luc. Ne volevo fare dei dischi per costruirmi, insieme ad altri dischi di rame, una piccola batteria. La prima che riuscii a costruire conteneva l’enorme numero di 7 coppie di lastre!!! ciascuna delle enormi dimensioni della moneta da mezzo penny!Iio stesso ho tagliato 7 dischi della grandezza della moneta da mezzo penny ciascuno, li ho coperti con 7 monete da mezzo penny e tra l’uno e l’altro di essi ho interposto dei pezzetti di cartone imbevuti di una soluzione di muriato di soda!!! Ma non ridere, caro A.; piuttosto meravigliati della potenza sviluppata da questo strumento. Esso era già capace di decomporre il solfato di magnesio e, sinceramente, questo fatto mi ha stupito, sebbene non fossi in grado di indivi­duare l’agente responsabile dell’effetto. Allora mi venne un’idea. Senti un po’: ho collegato entrambi i poli di una pila con una soluzione di solfato di magnesio mediante un filo di rame. Ci crederesti che fu il rame a decomporre il solfato, o perlomeno la parte di rame immersa nella soluzione? Che si trattasse di un ef­fetto galvanico sono certo, poiché entrambi i fili si coprirono in breve tempo di bolle di gas e un getto continuo di minutissime bollicine, dall’aspetto di particelle, usciva dalla soluzione lungo il filo negativo. La prova che il solfato venisse decom­posto l’ebbi dopo un paio d’ore: la soluzione diventò torbida, prova evidente che il magnesio era disciolto in essa.
In questo modo Faraday aveva scoperto la decomposizione chimica mediante corrente elettrica, o come egli stesso la chia­mò, 1’elettrolisi. Scoperta 1’elettrolisi, Faraday dovette cercarsi un lavoro, poiché la sua posizione nella libreria si faceva sempre più preoccupante. La sua massima aspirazione era quella di lavorare con Sir Humphry Davy, il famoso chimico le cui lezioni Faraday aveva seguito durante il suo apprendistato; egli decise allora di ricopiare gli appunti presi durante le lezioni di Davy in stile calligrafico, di corredarli con di­segni eseguiti alla perfezione e di inviare l’elegante volumetto a Sir Humphry, accompagnandolo con una richiesta di lavoro nel laboratorio. Quando Davy chiese il parere di uno dei direttori dell’Istituto Reale di Gran Bretagna, di cui egli era il presidente, di un’eventuale assunzione di un giovane rilegatore, costui gli suggerì: “ Fategli lavare le provette! Se è un tipo in gamba accetterà il se è un buono a nulla lo rifiuterà “Faraday accettò e rimase all’Istituto Reale per i rimanenti 45anni della sua vita, dapprima come assistente di Davy, poi come suo col­laboratore e infine, dopo la sua morte, come suosuccessore. Oltre alle sue numerose pubblicazioni suriviste scientifiche, il do­cumento più interessante relativo alle sue ricerche è il Diario, scritto dal 1820 al 1862e pubblicato dall’Istituto Reale nel 1932in sette grossi volumi, per un totale di 3236pagine e qualche migliaio di di­segni. Nelle pagine del Diario è contenuta la descrizione di quella che, a detta di tutti i fisici, fu la sua più importante scoperta: il passaggio di corrente in una spira può indurre una cor­rente in un’altra spira posta nelle vicinanze della prima, nello stesso modo come un conduttore carico induce una carica di polarizzazione elettrica su un corpo posto nelle vicinanze. Mentre però, nel caso della polarizzazione elettrica, l’effetto è statico e dura fintantoché i due corpi restano uno vicino all’altro, l’induzione della corrente elettri­ca è un processo dinamico e la corrente nella seconda spira si ha solo quando la corrente nella prima passa da zero al valore massimo o viceversa
Faraday, convinto dell’esistenza di profondi legami reciproci fra, tutti i fenomeni esistenti in natura, aveva tentato di trovare una re­lazione tra le forze elettromagnetiche e le forze di gravità di Newton. Nel suo Diario di laboratorio nel 1849 è scritto
Gravità. Certamente questa forza deve avere qualche connessione sperimentale con l’elettricità, il magnetismo e altre forze, in modo da interagire con esse con azioni reciproche ed effetti identici. Pensiamo un poco al modo di organizzare una raccolta di prove concrete e di esperienze in questo senso.
Ma i numerosi esperimenti eseguiti alla ricerca della suddetta re­lazione furono tutti infruttuosi e lo stesso Faraday conclude così quella parte del suo Diario:
Qui finisce per il momento la mia fatica: i risultati sono negativi, ma essi non scuotono minimamente la mia profonda convinzione dell’esistenza di una rela­zione tra la gravità e l’elettricità, anche se non sono riuscito a dimostrarla.
Un secolo più tardi un altro genio riprenderà il problema nel dif­ficilissimo tentativo di sviluppare la cosiddetta ‘teoria unificata dei campi’, che avrebbe dovuto riunire in un unico assetto tutti i fe­nomeni gravitazionali e quelli elettromagnetici; ma, come Faraday, anche Albert Einstein mori senza avere raggiunto il suo scopo.

Il campo elettromagnetico

I più che notevoli risultati sperimentali di Faraday non erano so­stenuti da una altrettanto valida enunciazione teorica: avendo rice­vuto una scarsa istruzione e non conoscendo quasi nulla della ma­tematica, Faraday non poteva certo essere quello che si chiama oggi un fisico teorico. Tuttavia non va dimenticato che spesso, per in­quadrare teoricamente un fenomeno fisico, una troppo profonda conoscenza della matematica si rivela inutile o addirittura dannosa; il ricercatore può facilmente smarrirsi nella giungla delle formule complicate e, per dirla con un proverbio russo, non vede la foresta perché ci sono gli alberi.
Prima di Faraday si pensava che le forze elettriche, magnetiche e gravitazionali agissero solo nel vuoto che separava gli oggetti inte­ragenti. Alla sua mente semplice, tuttavia, una tale azione a distanza non pareva avere un chiaro significato fisico e anche noi, se vediamo un carico che si muove da un luogo all’altro, desideriamo scorgere la fune che lo trascina o la leva che lo solleva. Per poter dunque vi­sualizzare le forze agenti tra le cariche elettriche e i magneti, Fa­raday dovette pensare a ‘qualche cosa’ che riempisse lo spazio inter­medio e che trasmettesse le forze: a tale proposito egli parlò­ di qualcosa di simile a tubi di gomma che congiungono due cariche elettriche o due poli magnetici opposti e li attirano. Nel caso di cariche o di poli dello stesso segno, questi tubi funzionano in modo opposto e tendono ad allontanarli. La direzione dei tubi di Faraday_ può essere messa praticamente in evidenza spargendo un po’ di limatura di ferro su una lastra di vetro, appoggiata su un magnete. I frammenti di limatura si magnetizzeranno e si orien­teranno nella direzione delle linee di forza magnetica ché agiscono tangenzialmente ai tubi.
Una visualizzazione dei tubi di Faraday nel campo elettrico è più complessa e difficile da realizzare. Secondo Faraday i tubi elettrici e magnetici erano responsabili anche dei vari fenomeni elettromagne­tici: quando una corrente elettrica attraversa un conduttore, questo vien circondato da tubi circolari  che esercitano una certa azione su un ago magnetico, orientandolo in modo opportuno. Quan­do un conduttore si muove rispetto a un magnete (o viceversa) esso attraversa i tubi magnetici e, come risultato, nel suo inter­no nasce una corrente indotta.
Le idee di Faraday erano, in un certo senso, piuttosto sempli­cistiche e solo qualitative, ma si può dire che esse abbiano aperto una nuova era nello sviluppo della fisica. Le forze misteriose agenti a grandi distanze tra i corpi furono sostituite nella teoria con ‘qual­che cosa’ distribuito in modo continuo e uniforme in tutto lo spazio circostante, un ‘qualche cosa’ cui si poteva attribuire un valore ben definito in ogni punto. Così si introdusse nella fisica il concetto di ‘campo di forze’ o semplicemente di ‘campo’, sia esso elettrico, ma­gnetico o gravitazionale. Le forze agenti tra oggetti materiali posti nel vuoto possono ora considerarsi il risultato di interazioni a breve distanza tra i ‘campi’ circostanti.
Il compito di tradurre in termini matematici queste brillanti idee di Faraday toccò a un famoso matematico scozzese, James Clerk Maxwell, nato a Edimburgo un paio di mesi dopo che_ Fa­raday aveva annunciato al mondo la scoperta dell’induzione elettromagnetica. Maxwell, contrariamente a Faraday, fu un brillante ma­tematico; all’età di dieci anni frequentò una scuola dell’Accademia di Edimburgo, dove fu costretto a dedicare molto del suo tempo allo studio dei verbi irregolari greci e di altri rami delle discipline umanisti­che, mentre egli avrebbe preferito studiare la matematica. In questo campo i suoi primi successi furono, secondo le sue stesse parole, “l’es­sere riuscito a costruire un tetraedro, un dodecaedro e altri due edri di cui non ricordo il nome “. Quattordicenne ricevette dall’Accademia una medaglia per un saggio in cui si spiegava il modo di disegnare un ovale perfetto servendosi solo di spilli e di spago. Qualche anno dopo Maxwell presentò alla Royal Societydue lavori, uno Sulla teoria delle curve di rotolamento e l’altro Sull’equilibrio dei corpi elastici. Entrambi i lavori furono letti da qualcun altro ai membri della Royal Society, poiché « non era opportuno che un ragazzino in giac­chetta rigonfia salisse sul podio in quell’aula ».
Nel 1850, a 19 anni, Maxwell si iscrisse all’Università di Cambridge, ove si laureò in quattro anni e, nel 1856, gli fu assegnata la cattedra di filosofia naturale del Collegio Marischal di Aberdeen, dove rimase fino al 1874, quando fu richiamato a Cambridge quale direttore del Laboratorio Cavendish, edificato da poco.
Sebbene l’interesse di Maxwell fosse quasi esclusivamente rivolto al campo della matematica pura, ben presto egli si dedicò all’appli­cazione dei metodi matematici a vari problemi di fisica. Davvero ­notevole fu il suo contributo alla teoria cinetica del calore, ma la sua opera di gran lunga più importante fu la for­mulazione matematica delle idee di Faraday sulla natura e le leggi del campo elettromagnetico. Generalizzando il fatto sperimentale che i campi magnetici variabili inducevano forze elettromotrici e corren­ti elettriche nei conduttori, mentre i campi elettrici variabili e le correnti elettriche in movimento generavano campi magnetici, egli fu capace di ricavare le famose equazioni che portano oggi il suo nome e che collegano la velocità di variazione del campo magneti­co con la distribuzione del campo elettrico nello spazio, e viceversa. Dalle equazioni di Maxwell, una volta nota la distribuzione di corpi magnetizzati, di cariche elettriche e di correnti elettriche in una certa regione dello .spazio, si può calcolare in ogni particolare l’andamento delle linee di forza del campo elettromagnetico in quella regione e dedurne le variazioni nel tempo. Maxwell inoltre dimostrò che, sebbene i campi elettrici e i campi magnetici siano solitamente ‘ancorati’ ai corpi elettricamente cari­chi o ai corpi magnetizzati, essi possono esistere e propagarsi nello spazio sotto forma di onde elettromagnetiche libere. Per chiarire quest’affermazione consideriamo due conduttori sferici, uno carico positivamente e l’altro negativamente. Nello spazio circo­stante esiste un campo elettrico statico che accumula l’energia delle cariche elettriche più o meno allo stesso modo come una molla forte­mente compressa accumula energia meccanica. Se colleghiamo tra di loro le due sfere con due fili metallici, si avrà un flusso di cariche dall’una all’altra e in breve tempo le loro cariche elettriche e il campo elettrico che le circonda diminuiranno, fino a scomparire. Tuttavia la corrente elettrica che fluisce nei due fili genera un campo magnetico e, all’istante in cui cessa il passaggio di tale cor­rente tra le due sfere, tutta l’energia del sistema è immagazzinata sotto forma di energia del campo magnetico.
Il processo però non si arresta così: la corrente elettrica continua a fluire nel filo con intensità minore e ricarica le due sfere con elettri­cità di segni opposti . L’energia del campo magnetico si trasforma dunque interamente in energia del campo elettrico e alla fine vi sarà un istante in cui non passa corrente nel circuito e le due sfere sono cariche come all’inizio dell’esperienza, ma con cariche elet­triche di segno opposto. A questo punto il processo ricomincia in direzione contraria: si hanno cioè le cosiddette oscillazioni elettriche che si trasmettono dall’una all’altra sfera perdendo gradualmente energia nel riscalda­mento del filo, fino a cessare del tutto.
La situazione è molto simile a quella di un pendolo, nel quale l’energia cinetica del movimento in ogni oscillazione si trasforma in energia potenziale ai due punti estremi raggiunti durante le oscillazioni. Maxwell fu in grado di dimostrare mediante le sue equazioni che il campo elettromagnetico oscillante del tipo sopra descritto si propaga nello spazio sotto forma di onde che trasportano energia. Poiché le linee di forza del campo elettrico stanno in un piano con­tenente il filo metallico, mentre le linee di forza magnetiche sono perpendicolari a esso, i vettori elettrico e magnetico sono perpendi­colari tra loro e alla direzione di propagazione dell’onda. L’esistenza di tali onde fu confermata sperimentalmente nel 1888 dal fisico tedesco Heinrich. Hertz poco dopo la pubblicazione dell’articolo di Maxwell: questo fatto portò allo sviluppo della tecnica delle comunicazioni radio, che rappresenta uno dei più importanti rami della civiltà industriale.

Fonte: http://www.liceomeda.it/new/documenti/0708/elettromagnetismo.doc

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