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La tecnica dello slip casting, per quanto apparentemente semplice, rappresenta un’evoluzione di una tecnica risalente al XVIII secolo.
Una barbottina ceramica era colata all’interno di uno stampo di gesso, poi il materiale asciugava e consolidava. Oggi questa tecnica ha un’importanza strategica soprattutto nella lavorazione dei ceramici tradizionali (sanitari, bomboniere e vari oggetti di forma complessa), anche nel campo dei ceramici avanzati la tecnica dello slip casting ha molti vantaggi.
Il colaggio dello slip (lo slip è una sospensione di liquido e polvere ceramica) consiste nel riempire uno stampo poroso, tipicamente in gesso, con uno slurry ceramico.
L’acqua è rimossa dalla sospensione attraverso l’azione capillare esercitata dallo stampo poroso. Per azione di questa rimozione dell’acqua le particelle ceramiche sono compattate sulla superficie dello stampo per formare un oggetto solido. Lo spessore di questa superficie dipende da tanti parametri. Uno dei parametri che si può controllare meglio è il tempo, anche se lo spessore non è una funzione lineare del tempo. Si potrebbe accelerare il processo di drenaggio da parte dello stampo aumentando la temperatura dello stesso. Industrialmente per aumentare la capacità di drenaggio si applica il vuoto dalla parte dello stampo.
Aspettando il tempo opportuno, magari calcolato attraverso una curva di calibrazione, si realizza lo spessore voluto.
Se si vuole realizzare un oggetto pieno è necessario rabboccare lo slip nello stampo, man mano che l’acqua è drenata, fino ad ottenere il completo riempimento dello stesso con un materiale che è tutto solido e pieno.
Il green, cioè l’oggetto ceramico formato ma non ancora trattato termicamente, durante l’essiccazione subisce un piccolo ritiro che lo rende facilmente staccabile dallo stampo.
Sul green essiccato si esegue in genere un primo trattamento termico, detto presinterizzazione, cioè un trattamento termico al di sotto della temperatura di sinterizzazione durante la quale si raggiunge una resistenza meccanica tale da permettere lavorazioni di finitura superficiali e dimensionali.
NOTA: un materiale ceramico si può considerare green anche dopo la presinterizzazione, nella quale si formano dei colletti di giunzione tra i grani della polvere ceramica.
In seguito il green ceramico sarà sinterizzato.
La parte più difficile nel processo di slip casting è, come si può facilmente notare, la realizzazione degli stampi. Sarà importante prendersi cura dello stampo, infatti, dopo l’utilizzo questo deve essere pulito e asciugato per essere riutilizzato.
Questa slide dà un’idea della complessità del processo di slip casting (le parti in grassetto sono le più importanti).
Per realizzare un oggetto ceramico tecnico si devono tenere sotto controllo molti fattori.Un capitolo molto importante riguarda il materiale di partenza (le polveri ceramiche).Queste polveri, una volta amalgamate con un solvente e dopo aver controllato il contenuto solido, la quantità di leganti agenti bagnanti, deflocculanti, additivi di sinterizzazione, serviranno a realizzare lo slip.
Una volta preparato lo slip sarà necessario valutare la viscosità ed eventualmente agire opportunamente per abbassarla.
Un altro parametro molto importante è “pattern end mold preparation” vale a dire la preparazione dello stampo. Durante lo slip casting si deve poi controllare la viscosità, la temperatura ed il grado di riempimento dello stampo (spesso per aumentare la capacità di drenaggio si applica il vuoto dall’altra parte dello stampo).
A livello industriale è comune il così detto random destructive inspection, questa pratica consiste nel distruggere un pezzo prodotto ogni tanto per un controllo interno della qualità.
Di notevole importanza è la cura dello stampo, infatti, dopo l’utilizzo, questo deve essere pulito e asciugato per un successivo riutilizzo.
In seguito l’oggetto ceramico rimosso dallo stampo sarà sinterizzato.
Vantaggi: è sufficiente un piccolo investimento di capitale per iniziare la produzione. Una volta che s’impara a manipolare lo slip ceramico è facile ottenere sospensioni di buona qualità , omogenee e adatte per il colaggio.
A differenza dello slip casting, ad esempio in un processo di formatura a secco, è necessario adottare tecniche molto complesse di granulazione e tutta una serie d’accessori costosi.
Svantaggi: c’è un minore controllo nell’accuratezza dimensionale, che in ogni è caso presente poiché la sinterizzazione comporta una riduzione dei vuoti nel materiale che densifica. Densificazione che può variare in conseguenza del fatto che le polveri si possono impacchettare più o meno bene.
Una volta che si è ottenuto un oggetto presinterizzato si deve ulteriormente lavorarlo oppure, se le specifiche dimensionali (richieste dal cliente) sono molto stringenti, ad esempio il centesimo di millimetro, l’unica cosa da fare è un processo di finitura con paste diamantate dopo la sinterizzazione, che però aumenta in maniera esponenziale i costi.
Un altro inconveniente dello slip casting è la velocità di produzione, molto più bassa di un processo di stampaggio. L’utilizzo di uno slip di bassa qualità può causare differenze di ritiro nel pezzo finito perché le polveri, impacchettandosi in maniera non omogenea, hanno un ritiro non uniforme.
Lo stampo, essendo in gesso, è estremamente deperibile (poiché solubile in acqua), sarà quindi necessario riprodurre gli stampi.
NOTA: un pezzo si può considerare green ceramico anche dopo una prima sinterizzazione in seguito alla quale, grazie alla formazione di colletti tra i grani, può essere lavorato meccanicamente.
Il gesso è un legante aereoidraulico . Il materiale di partenza è il solfato di calcio biidrato CaSO4-2H2O che in natura si trova sotto forma di Selenite o Saccaroide.
Per ottenere il gesso utilizzato come legante è necessario disidratarlo attraverso un trattamento termico di poco superiore ai 100 °C (120-140°C). A questa temperatura avviene il processo di rimozione di una mole e mezzo d’acqua per mole di gesso e questo diventa emiidrato.
Un’ulteriore trasformazione si ottiene portando il gesso emiidrato sopra i 160°C.A questa temperatura il gesso perde un’ulteriore mezza mole d’acqua diventando anidro. In questa forma il materiale è molto meno reattivo ed inutilizzabile come legante.
Il gesso che si produce dal primo trattamento termico si suddivide in a e b .
La forma più diretta con cui si ottiene il gesso a Tamb è la b che è formata da microcristalli .Questa forma è anche quella che assorbe di più acqua perché più porosa .
Il gesso a si ottiene solo ad alta pressione e temperatura ed è costituito da granuli più grossi. In questo modo ha migliori caratteristiche di resistenza meccanica ma una minore capacità di drenare l’acqua per via del migliore impacchettamento.
I tipi di gesso a e b hanno essenzialmente la stessa struttura cristallina, si differenziano esclusivamente per le dimensioni dei grani e la porosità che riescono a produrre.
Il grano del gesso b ha una forma aciculare e s’impacchetta molto male, se si vogliono regolare le proprietà di uno stampo (resistenza meccanica e porosità) si devono controllare le percentuali di gesso a e b oltre alla quantità d’acqua per impastarlo.
Il gesso impastato con acqua indurisce in pochi minuti.
Il processo d’indurimento è la reazione inversa a quella del passaggio da gesso biidrato ad emiidrato. (La forma di emiidrato ottenuta ad alta temperatura è instabile a bassa temperatura ed alla presenza d’acqua è portata a convertirsi in biidrato). Il gesso emiidrato solubilizza molto velocemente in acqua e siccome la forma biidrato è molto più stabile risolidifica precipitando sotto forma aciculare assumendo una certa resistenza meccanica.
Poiché tra i cristalli del gesso non c’è un forte legame chimico (si tratta di particelle incastrate e con un leggero legame chimico) questo è molto fragile. La fragilità del gesso può essere un vantaggio perché lo rende uno dei pochi materiali inorganici lavorabili con macchine utensili.
Durante la solidificazione il gesso subisce un leggero aumento di volume che lo rende adatto come stucco per muratura.
In base alla granulometria (gesso a o b) il gesso si presta a diverse applicazioni.
Il gesso può essere poi impastato con acceleranti o ritardanti la presa (se è impastato con potassio o sodio aumenta il tempo di presa).
Il gesso può comunque essere utilizzato ad alta temperatura se è impastato con materiali inerti che ad alta temperatura non si ritirano come la sabbia silicea.
La resistenza meccanica e la porosità sono qualità concorrenti. Gli stampi per lo slip casting hanno una bassa resistenza meccanica perché devono essere porosi. E’ necessario raggiungere un compromesso.
Nella slide si osserva che in funzione del rapporto acqua gesso aumentano o diminuiscono le caratteristiche meccaniche o di assorbimento. Più aumenta il quantitativo dell’acqua nell’impasto più aumentano i vuoti e diminuiscono le caratteristiche di resistenza meccanica.
Lo spessore che raggiunge il materiale nello slip casting non è funzione lineare del tempo ma dipende da molti parametri. Esso è funzione del volume del materiale colato rispetto al volume del liquido rimasto ed è inversamente proporzionale al fattore di impacchettamento delle polveri.
Un altro parametro importante è la resistenza al trasporto del liquido nel gesso e nel materiale ceramico.
Inizialmente ciò che determina la quantità di acqua rimossa è la porosità del gesso ma, non appena si forma il primo strato di materiale, è la sua porosità che determina la quantità di acqua rimossa sugli stati successivi. Nel gesso questo parametro rimane quasi costante,nel materiale ceramico dipende dal fattore di impacchettamento delle polveri. Se le polveri s’impacchettano molto bene la capacità di drenare l’acqua diminuisce notevolmente.(A livello industriale per tener conto di tutti questi fattori si costruisce una curva di calibrazione).
Nello slip casting in generale si vuole un green ceramico che sinterizza a basse temperature per risparmiare tempo ed energia. Per ottenere questo risultato è necessario scegliere attentamente le dimensioni delle polveri.
Per ottenere il max dell’impacchettamento (circa il 75%) è necessario scegliere una polvere con una distribuzione bimodale in modo che il rapporto tra le particelle piccole e quelle grandi sia di 7 : 3 .
Nella formulazione di uno slip ceramico si devono utilizzare il 70% in peso di particelle grosse ( 2 mm) ed il 30% in peso di particelle piccole ( 0.5- 0.7 mm ).Inoltre il rapporto tra i diametri delle particelle grosse e piccole deve essere almeno 7 : 1 .
Questi valori portano al max valore dell’impacchettamento dopo il colaggio. L’alto impacchettamento che si ottiene in sistemi bimodali dipende dal fatto che le particelle piccole occupano gli interstizi formati da quelle grosse. Se si vuole ottenere una più alta densità si può utilizzare una distribuzione di polveri trimodale che rispetti quanto appena detto per le distribuzioni bimodali .
Il fattore di impacchettamento massimo “packing factor max PFmax ” è calcola calcolabile come:
Pfparicelle grossre + ( 1- Pfparicelle grossre ) * Pf particelle intermedie + ( 1- Pfparicelle grossre ) * (1- Pf particelle intermedie ) * Pf particelle fini
Il miglior rapporto aqua-polvere, che garantisce da una parte un buon impacchettamento e dall’altra una buona fluidità, è quello che prevede il 40-50% in volume di contenuto solido .Se il contenuto di polvere ceramica è superiore a questi valori si rischia di realizzare un impasto troppo denso e difficile da colare, se il contenuto in solido è più basso si rischia di avere un green body troppo poroso e delicato da maneggiare.
Quando le dimensioni delle particelle nella soluzione diventano molto piccole (in questo caso si parla di sospensioni colloidali) le interazioni di tipo elettrostatico ,di Van Der Waals, dipolo-dipolo sono tali che le proprietà reologiche (scorrimento) mutano completamente.
Soluzioni di particelle colloidali già per contenuti di solido del 3-4% gelificano (la fase solida e liquida si permeano completamente).
Questo tipo di materiali ,non essendo legati chimicamente ma tramite incastri fisici e deboli forze, se sottoposti ad un adeguato shear rate (scuotendoli energicamente) tornano fluidi , se invece sono lasciati in quiete riassumono la forma di gel .I fluidi con queste caratteristiche sono detti di Bingham.
Consideriamo un fluido contenuto tra due piastre, se una delle due piastre è messa in movimento rispetto all’altra, il fluido avrà una serie di regioni di flusso di velocità, la parte più vicina alla piastra in movimento seguirà la velocità di quest’ultima mente lo strato di fluido vicino all’altra piastra sarà fermo. Si viene quindi a stabilire un gradiente di velocità tra le piastre con un moto del fluido laminare.
Quando il gradiente di velocità è proporzionale allo stress applicato si dice che il fluido è Newtoniano ed è possibile applicare la relazione :
t = h(-dV/dt) = hg’
t = shear stess
g’= shear rate
La costante che lega lo shear rate allo shear stress è la viscosità del materiale. Questa relazione vale solo per fluidi Newtoniani, in tutta una serie di fluidi non Newtoniani c’è un andamento più irregolare ,che può essere una legge esponenziale con una costante qualsiasi.
Per esprimere nuovamente la viscosità in termini lineari rispetto allo shear stress si definisce come viscosità del materiale l’esponente n-1 (anche se effettivamente non è una viscosità in qualche modo si può assimilare alla resistenza totale offerta dal liquido).
Quando n <1 il fluido è detto pseudoplastico,questo comporta che man mano che cresce lo stess la viscosità tende a diminuire. Un fluido di questo tipo è costituito da molecole che non sono inizialmente allineate ma che lo diventano per effetto dello stess diminuendo in questo modo la viscosità.
Quando n >1 il fluido è detto dilatante .In questo caso se il fluido è soggetto a basse sollecitazioni scorre liberamente ma sollecitato con forti stess comincia a generare attriti.
Come detto precedentemente una sospensione colloidale ,essendo un fluido di Bingham ,per essere messa in movimento necessita di uno stress aggiuntivo oltre a quello necessario allo scorrimento .
Lo stress iniziale da dare ad una soluzione di questo tipo è ty (Yield stress) e corrisponde ad una soglia iniziale di sollecitazione per renderla liquida.
Solo la differenza dello stress rispetto allo stress iniziale mette in movimento il fluido :
t - ty = hp g’
hp è la viscosità plastica e si può legare alla viscosità apparente tramite un termine aggiuntivo legato allo Yield stress :
ha = hp +ty / g’
Un liquido è tissotropico quando la sua viscosità apparente diminuisce col tempo. La tissotropia si verifica in fluidi pseudoplastici e di Bingham dove le sollecitazioni meccaniche sono tali da far diminuire la viscosità. La tissotropia è un fenomeno reversibile.
Un fluido Newtoniano , avendo una proporzionalità diretta tra s. rate e s. stress, ha un comportamento lineare.
In un fluido pseudoplastico la curva subisce un abbassamento e la viscosità diminuisce all’aumentare dello shear rate
Un fluido è dilatante quando all’aumentare dello shear rate la viscosità subisce un impennata rispetto al comportamento lineare.
Nella tabella in basso (della slide) sono riportati i valori tipici di shear rate per vari processi tecnologici .
Un’azione molto debole ,che può essere quella di livellamento per gravità,
ha un valore di shear rate pari a 10-1 sec-1 .L’intervallo di shear rate nel processo di colaggio (pouring) è tra 100 e 10 1.
Quando si prepara uno slip ceramico quello che si deve ottenere e che, dopo averlo agitato un po’, questo sia poco viscoso.
L’azione di spennellata e di spray corrispondono a grossi shear rate nel fluido.
In conclusione una sospensione ceramica , o più in generale un fluido non Newtoniano, è caratterizzata da un intervallo di parametri di viscosità che varia con lo shear rate.
Per stabilire la viscosità di una sospensione è necessario valutare inizialmente la viscosità del liquido che non contiene la polvere.
Il rapporto tra la viscosità della soluzione e la viscosità del liquido è detta viscosità relativa hr .Questo parametro è funzione della frazione volumetrica di solido nel liquido:
hr = 1+kh *f vp
f vp è la frazione volumetrica di particelle nel liquido
Maggiore è il contenuto solido maggiore è la viscosità relativa.
Per caratterizzare la viscosità è necessario tener conto di un altro parametro il fattore di forma idrodinamico kh che contraddistingue a parità di frazione volumetrica di solido due sistemi in cui la forma delle particelle cambia.
Esiste comunque una legge generica ricavata empiricamente che fa variare tramite un esponente la viscosità relativa :
hr = ( 1- f vp )- k f
L’andamento tipico della viscosità in una sospensione ceramica con l’aumentare della frazione volumetrica di solido nel liquido fino a 30-40% e per forme sferiche di particelle e quasi uguale a quella del liquido non caricato.
A secondo del fattore idrodinamico interviene una soglia limite per cui, dopo un certo volume di solido, si ha un’impennata del valore di viscosità passando da 4-5 mPa/sec a diversi Pa/sec (l’acqua ha una viscosità di 1mPa/sec il dentifricio 4-5 Pa/sec.
Nella formulazione di uno slip ceramico si deve utilizzare la max frazione volumetrica di solido nel liquido per evitare un’alta porosità nel green e nello stesso tempo non si deve oltrepassare un certo valore limite per non compromettere le proprietà reologiche e la colabilità.
-caricamento delle particelle di argilla
La viscosità delle sospensioni ceramiche è una proprietà che oltre a dipendere dalla forma geometrica delle particelle dipende molto dalle interazioni tra esse .
Le argille come visto nel corso del 4° anno sono dei fillosilicati che naturalmente si caricano elettrostaticamente grazie al fenomeno dello swelling (gli strati di argilla si staccano perdendo gli ioni intrappolati)
In questo modo l’aggregazione delle particelle è impedita.
2a Lezione 12-03-2003
I ceramici avanzati sono dei materiali altamente ingegnerizzati ,dalle alte prestazioni ,predominantemente non metallici ed inorganici con attributi funzionzionali speciali (questa def . è molto generale).
Un ceramico tradizionale invece ha degli attributi più specifici perché ,nella definizione ISO, si parla di materiale non organico e non metallico.
Quando si parla di ceramici avanzati bisogna pensare a dei materiali pensati, voluti fortemente e quindi altamente ingegnerizzati . (Ingegnerizzare un materiale significa pensarlo progettarlo e realizzare le opportune tecnologie per crearlo).
Perché un materiale sia avanzato bisogna che serva a qualcosa di speciale e quindi deve avere speciali attributi funzionali. La tecnologia dei ceramici è un “enabling technology “ cioè una tecnologia che permette di realizzare qualcosa e rappresenta una discriminazione tra uno stato ricco ed uno povero.
L’approccio moderno parte dalla funzione, vale a dire da cosa è necessario per realizzare un dato progetto (mercato demand pull in pratica tirato dalla domanda). I materiali in se non hanno valore ma ne acquistano molto se servono qualcosa.
I materiali ceramici servono a molte applicazioni in particolare, sulla parte più esterna della figura, si può notare un elemento ricorrente l’allumina che ha applicazioni interessanti nei più svariati settori grazie anche al suo basso costo. Questo ceramico è utilizzato per la sua alta resistenza meccanica, agli agenti chimici e alla temperatura (se è pura fonde a 2050 °C ). Tipicamente anche se si lavora con allumina pura le condizioni massime di utilizzo difficilmente superano i 1850 °C e ciò deriva dal fatto che a temperature vicine a quelle di fusione avvengono fenomeni di creep e ricristallizzazione che riducono drasticamente le proprietà meccaniche .
Un grosso problema dell’allumina è la bassa resistenza agli shock termici dovuta all’alta espansione termica.
Dal punto di vista ottico l’allumina può essere traslucente e ciò deriva oltre che dal processo produttivo anche dal materiale di partenza.
Per quanto riguarda le proprietà elettriche è il più venduto materiale tra i ceramici grazie al suo elevato potere dielettrico. Non è inoltre da trascurare l’utilizzo in campo medico essendo questo materiale bioinerte ( le cellule umane non lo riconoscono né come affine né come pericoloso).
Il materiale di partenza è la bauxite (minerale molto abbondante nella crosta terrestre ) .
La bauxite, allo stato naturale, contiene, oltre all’Al(OH)3, dei contaminanti ed in particolare una gran quantità di ferro (Il ferro è sostituibile all’alluminio in termini di raggio cationico, valenza ecc. ecco perché la bauxite allo stato naturale è rossa).
Il materiale una volta prelevato dalle cave è macinato (grinding) ed immesso in un reattore chimico (digester) nel quale applicando temperature e pressioni piuttosto elevate, alla presenza di soda, si permette all’Al(OH)3 di formare un composto anionico Al(OH)4- che va in soluzione.
I contaminanti possono così essere separati dal composto che a temperatura ambiente riprecipita come idrossido.
(Un problema che riguarda il processo Bayer e che il sodio non può essere eliminato completamente).
Dopo il digester c’è il setting tank che permette di separare la soluzione di Al(OH)- dai contaminanti “RED MUD ”. La soluzione così purificata è fatta raffreddare nel cooler e fatta precipitare nel precipitator.
Una volta lavato e classificato l’Al(OH)3 può essere venduto così com’è col nome di Higlite.
Questo materiale è molto importante dal punto di vista industriale perché, essendo inerte (fino ad una certa temperatura) ed avendo un basso costo, può essere utilizzato come riempitivo (filler) di materiali plastici ( si lega molto bene con questi). L’Al(OH)3 in polvere è un ottimo protettivo termico perché, riscaldato ad alta temperatura, ha una fortissima entalpia di reazione per convertirsi in allumina (assorbe molta energia).
Una volta convertito in allumina è un materiale estremamente inerte, resistente e se proviene da una reazione veloce è anche molto poroso, isolante e protettivo termico attivo.
La trasformazione da idrossido d’alluminio in allumina è un processo che comincia a temperature superiori a 100 °C evolvendo acqua e ha termine, con una completa disidratazione dell’idrossido, intorno ai 500 °C (è un processo lungo che richiede molta energia)
Industrialmente se si vuole ottenere allumina si prende l’idrossido, ottenuto per precipitazione, è s’immette in un forno rotativo leggermente inclinato (rotari klin), in questo modo si ottenere un processo continuo.
Le polveri d’idrossido entrano nell’estremità più alta del forno e grazie al gradiente termico (la temperatura è più bassa alle estremità e più alta al centro) subiscono un trattamento termico che le converte in allumina.
Esistono vari tipi d’allumina, quella che ci interessa più da vicino è l’allumina a che si ottiene portando l’idrossido ad una temperatura superiore ai 1100 °C.La forma cristallina di tipo a è anche chiamata Corindone e nella forma perfetta è detta Zaffiro.
Le polveri ottenute sia da un processo termico (come il Bayer), sia dal materiale fuso e poi raffreddato devono essere trattate, la prima cosa da fare,essendo in presenza d’agglomerati, è quella di ridurre la granulometria attraverso i mulini (mill) per ceramici.
Esistono vari tipi di mulini :rotary crusher (funzionano come un macinino da caffè) ,hammermill (a martello), crushing rollers (con rulli) .
Più le polveri sono fini maggiori sono i costi di produzione sia perché il materiale macinante si consuma sia perché l’energia richiesta è elevata .
Per ottenere granulati delle dimensioni di mm la tecnologia che si usa è quella dei rotary crusher o hammermill. Se le dimensioni che si vogliono ottenere sono molto inferiori la tecnologia usata quella de mulino a palle.
Questo mulino è costituito da un cilindro che contiene al suo interno delle biglie ceramiche molto dure a base d’allumina. Una volta messo in rotazione le biglie all’interno, raggiunta un certa altezza, ricadono schiacciando e frantumando i granuli ceramici che si trovano in mezzo. Con questa tecnica si possono ottenere polveri ceramiche fini delle dimensioni della frazione del mm.
Nello scema della slide si può vedere che in funzione delle dimensioni d’alimentazione (feed size) e di quelle che si vogliono ottenere (product size) si devono utilizzare diverse tecnologie di macinazione.
I mulini a palle possono lavorare a secco e in umido. La macinazione più efficace è quella in umido, lo svantaggio e che le polveri devono essere essiccate.
Le polveri ceramiche possono essere suddivise in base alle dimensioni.
La polvere propriamente detta (powder) ha dimensioni che vanno dal mm al centinaio di mm e si presenta come agglomerati di grani di polvere per questo motivo è detto granulato. Ciò che si trova al di sotto del mm è detto colloide perché le dimensioni di queste polveri sono tali che immesse in un solvente non riescono a sedimentare ma restano in sospensione.
Questo dipende dal fatto che la forza necessaria alla sedimentazione che dipende dal proprio peso non riesce prevalere su tutta una serie di altre forze (elettrostatiche , dipolo-dipolo ecc.).
Un sistema per separare un colloide da una soluzione è la centrifugazione.
Una volta ottenute le polveri queste devono essere controllate per stabilire la granulometria e miscelarle in modo opportuno. La miscelazione è un fattore molto importante nella formulazione di uno slip. Se utilizzassimo polveri tutte delle stesse dimensioni l’impacchettamento ottenibile sarebbe molto basso. Questo si verifica se le polveri oltre ad essere tutte delle stesse dimensioni hanno anche forma irregolare (la forma sferica assicura un migliore impacchettamento).
Nel 1° grafico della slide si nota che per avere una riduzione del volume specifico di impacchettamento, in un sistema costituito da polveri fini e grosse, è necessario miscelare il 70% di polveri grosse (coarse) con il 30% di polveri fini.
Il 2° grafico rappresenta delle curve cumulative utili per stabilire le dimensioni delle polveri. Queste curve esprimono la quantità delle polveri suddivise in base alle dimensioni. Sulle ascisse c’è la dimensione delle particelle e sulle ordinate la massa cumulativa (quella che si somma). Per determinare la quantità di massa di particelle che hanno una dimensione inferiore ad una data basta considerare l’intercetta sul grafico della curva cumulativa. La curva designata con D=64% rappresenta una possibile distribuzione monomodale di particelle fini , cioè una distribuzione di tipo gaussiano centrata in un certo punto.
Se si esegue la derivata della curva cumulativa si ottiene la distribuzione in frequenza .
Quando una curva si porta da un valore 0 % ad uno 100% senza gradini la distribuzione è di tipo monomodale , questo vuol dire che le particelle hanno tutte una certa dimensione che oscilla intorno ad una dimensione media. Quando si ha un profilo a gradini (es. D=77% a due gradini) significa che una certa quantità di polvere ha una dimensione che varia intorno ad una media, la restante ha un’altra dimensione che oscilla sempre intorno alla stessa dimensione media. Nel caso della D=77% si ha che il 20% è sotto i 2 mm e l’80% ha una dimensione superiore.
Una distribuzione di questo tipo è ideale per un buon impacchettamento.
Una volta asciugate le polveri sono setacciate attraverso dei setacci (messi in vibrazione e in cascata) a partire dal setaccio a maglie (mesh) più grosse ,che è posto più in alto, fino a quello a maglie più piccole ,posto alla fine. Le polveri a secondo delle dimensioni rimangono intrappolate nei vari setacci e si ottiene una separazione per classi granulometriche.
Questo tipo di separazione non può essere utilizzato per separare polveri più piccole di qualche decina di mm perché non si possono utilizzare maglie più sottili di queste dimensioni.
La tecnologia che si utilizza per polveri di dimensioni inferiori è quella a base elettrica e a base ottica.
Un esempio di misura elettrica è il granulometro a capillare che sfrutta la variazione di corrente che circola tra due elettrodi in una soluzione durante il passaggio di un granulo di polvere attraverso un capillare.
Un esempio di misura ottica è quella della diffrazione del raggio laser che sfrutta la legge di Mye. Quando un raggio laser colpisce una particella o è rimandato indietro o è deviato (scatterato) di un certo angolo che è tanto maggiore quanto minore è la dimensione della particella. Queste tecniche consentono di misurare particelle di frazioni di mm fino ad 1mm.
C’è in ogni caso un problema di lettura di questi dati perché una misura che da una distribuzione bimodale potrebbe essere causata da una forte asimmetria delle polveri, in questo caso è necessaria qualche informazione preliminare (la struttura delle particelle dipende oltre che dal tipo di macinazione anche dalla struttura cristallina, una struttura lamellare tende a formare granuli piatti).
Se si vogliono effettuare misure su particelle colloidali si utilizza la fotocorrelazione ottica che permette di individuare particelle submicroniche. Questo sistema si può spiegare partendo dai principi del moto Browniano . I sol colloidali vibrano nella soluzione hanno un moto termico. Questo moto diventa collettivo e dipende dalle dimensioni, misurando lo scattering ottico dovuto al moto collettivo e sfruttando la fotocorrelazione ottica si possono misurare le dimensioni delle particelle colloidali.
Ovviamente dal punto di vista visivo già può essere fatta una prima stima di quello che c’è in una soluzione. Il principio fondamentale e che interferiscono con la luce le particelle che hanno dimensioni almeno dell’ordine di grandezza della luce ( 400-700 nm) per cui iniziano ad interferire con la luce particelle che hanno dimensioni superiori ai 50 nm .
Ciò che ha dimensioni molto inferiori ( 3-10 nm) non scattera la luce e quindi una sospensione colloidale con particelle così piccole appare trasparente (se una soluzione appare torbida significa che le particelle sono dell’ordine di 20-40 nm, se appare lattiginosa le dimensioni degli aggregati sono 100-400 nm).
La tabella nella slide mostra l’applicazione più o meno adatta in funzione del tipo di allumina (cioè in funzione delle dimensioni e della purezza) .
La slide mostra un grafico in cui in ordinata è riportato il grado di purezza dell’allumina ( più ci si allontana dallo zero maggiore è il contenuto di soda Na2O), in ascissa è riportata la dimensione del grano cristallino.
Quello che conta dal punto di vista della reattività e della sinterizzabilità è la dimensione del grano cristallino che compone il grano di polvere .
In alcuni casi il grano cristallino coincide col grano di polvere in altri casi il grano di polvere è un aggregato di grani cristallini .
La ripartizione in ultimate crystal size va da un grano molto fine che è ottenuto trattando le polveri di idrossido ( Boemite ) solo alla temperatura che gli consente di trasformarsi in allumina a o quasi ma che non gli consente di crescere ( più aumenta la temperatura più aumentano i fenomeni di aggregazione e crescita delle particelle ).
Le particelle vengono classificate dal punto di vista granulometrico- composizionale standard e coarse quando ci sono particelle dell’ordine del mm. quando le dimensioni cristalline sono tali da dare un’allumina tabulare o sferica (dimensioni grosse) queste polveri hanno una reattività bassa.
Diminuendo il contenuto di soda e tenendo basse le dimensioni cristalline si ricade nell’ambito delle termaly reactive ( sono delle polveri molto reattive che cominciano a sinterizzare a 1500 ° C ).
Quando le particelle sono grosse per la sinterizzazione occorrono temperature alte (1700 °C) e non è detto che sinterizzino bene ( se all’interno includono un poro difficilmente riescono ad espellerlo)
Grafico sintering properties.
L’allumina ha una densità teorica di 3,96-3,98 g / cm3 questo nel caso di cristallo ideale.
A secondo dell’ultimate crystal size si nota che utilizzando grani grossi (spherical) la densità del sinterizzato scende drasticamente.
La migliore densificazione si ottiene con allumine fini e più pure (UA).
Nella slide sono riportati i principali tipi di impurezze : ossido di ferro , ossido di silicio , ossido di sodio , ossido di magnesio.
L’impurezza che caratterizza maggiormente le polveri di allumina è l’ossido di sodio perché ,essendo un materiale alcalino ,è quello più perturbante dal punto di vista delle temperature .
La gravità specifica è quella che riguarda la densità del singolo grano ( come si può notare è 3,96 g / cm3 .
Un altro parametro molto importante è il mean particle size ,cioè la dimensione media delle particelle, questo valore è messo a confronto con l’ultimate crystal size ,cioè con le dimensioni del grano cristallino.
La bulk density è suddivisa in loosed ,taped , pressed ( polveri sciolte compattate pressate ). Questa suddivisione nasce dal fatto che più le polveri sono fino più in aria tendono a stare separate (la densità arriva a 2,6 g / cm3) con un conseguente problema nel trasporto ( sacchi molto ingombranti ma con poca polvere).
I due parametri più importanti per i ceramisti sono il ritiro lineare linear strench e la fire density cioè la densità raggiungibile in determinate condizioni.
Il ritiro lineare è specificato sotto certe condizioni particolari fornite dal costruttore (con o senza agente flussante MgO).
3a lezione 14-03-2003
Consideriamo ora le polveri nel solvente. Più le dimensioni delle polveri decrescono più le interazioni reciproche diventano sempre più probabili anche per piccole frazioni volumetriche di solido.
La flocculazione è il fenomeno di aggregazione delle particelle di polvere nel liquido che può portare anche alla gelificazione dello slip.
Esistono diversi meccanismi di gelificazione :
le polveri hanno una certa carica e siccome nel liquido ci sono degli elettroliti questi tendono in qualche modo a far attrarre elettrostaticamente le polveri .
se si usano miscele di polveri di natura diversa con potenziale zeta differente queste si attrarranno reciprocamente.
Se le polveri hanno forme particolari per cui una zona è caricata in un certo modo ed un’altra nel segno opposto queste zone si attrarranno .
Attrazione dovuta alla presenza sulle polveri di polimeri o colloidi bridge.
Questi fenomeni sono molto dannosi perché trasformano uno slip colabile in una massa solida inutilizzabile.
Quello che si utilizza per disperdere una soluzione di polveri ceramiche tecniche, che non si stabilizzano naturalmente come fa un’argilla in una barbottina, è l’aggiunta di surfattanti o polielettroliti anionici.
I surfattanti sono delle molecole organiche che hanno una terminazione polare ed una non polare .
Questa struttura è tipica dei tensioattivi del sapone che con la parte non polare si legano allo sporco e con la parte polare all’acqua lavando via lo sporco stesso.
Le particelle di sporco precedentemente non polari sono rese polari dalle micelle dei tensioattivi e solubili in acqua.
Queste stesse molecole tensioattive possono avere la funzione di deflocculare (specialmente quando si usano polveri ceramiche a base di ossidi ceramici ed in generale materiali ceramici di tipo ionico).
Gli ossidi ceramici solubili in acqua attrarranno la parte polare dei tensioattivi la coda di queste molecole ,che è non polare,rappresenterà un ingombro sterico impedendo ,per quanto forti siano i meccanismi di attrazione , di far flocculare le particelle.
Un meccanismo alternativo prevede l’utilizzo di polielettroliti anionici. Questi ,essenzialmente dei polimeri a base acrilica che contengono delle cariche (contengono dei gruppi OH- che si caricano negativamente).
I polielettroliti anionici in soluzione hanno una grossa probabilità di attorcigliarsi intorno alle particelle di polvere contribuendo a caricarle maggiormente o comunque a cambiare il loro stato di carica.
le soluzioni ben deflocculate sedimentano compattandosi bene perché , non formando degli aggregati , non possono lasciare degli interstizi ( caso a). Le sospensioni flocculare (caso b ) nella sedimentazione lasciano molti vuoti e questo fa sì che il green ceramico abbia una consistenza molto porosa , dando problemi di fragilità e di rottura a causa del grande ritiro durante la sinterizzazione.
Alcuni autori raccomandano comunque una deflocculazione non perfetta ,per non impedire il processo di drenaggio da parte dello stampo a causa di uno strato di green troppo denso.
Come si è detto c’è una naturale tendenza delle particelle ceramiche , se non sono caricate, ad incontrarsi nella soluzione e a flocculare. Consideriamo ora delle particelle colloidali. La teoria per cui queste particelle rimangono sospese è quella per cui la loro energia cinetica deve essere comunque inferiore alle forze repulsive che si vengono creare tra le particelle. Tipicamente l’energia cinetica delle particelle colloidali viene assunta pari a 10 volte la costante di Bolzman per la temperatura.
Due particelle che hanno questa energia cinetica e che si muovono l’una verso l’altra devono avere un potenziale elettrostatico negativo tale da permettergli di non scontrarsi. La carica sulle particelle viene chiamato potenziale x (si tratta del potenziale netto efficace che la particella possiede in una soluzione). In generale una buona azione di separazione si ottiene per un potenziale x di 25 mV anche se potenziali inferiori possono già stabilizzare le particelle.
Naturalmente una particella può essere carica ma non è detto che in soluzione quella particella abbia la stessa carica ,infatti, nel momento in cui viene immersa in un solvente di carattere polare ci saranno tutta una serie di controioni (cioè ioni opposti alla carica iniziale) che si legheranno elettrostaticamente alla particella. Insieme alle cariche legate si formano tutta una nuvola di particelle con un regresso della concentrazione di carica.
Se all’interno della soluzione si genera un campo elettrico le particelle cominceranno a muoversi secondo l’effetto complessivo di tutte le cariche assorbite. Quando si mette in moto una particella questa trascinerà solo le cariche che interagiscono più efficacemente con lei. In questo modo si genera un piano di scorrimento localizzato oltre il primo strato delle cariche fortemente legate. Si può pensare che il concetto di potenziale x sia legato al potenziale che c’è ad una certa distanza dal centro della particella, cioè quella distanza ,superata la quale, gli ioni vengono lasciati dalla particella in movimento sotto effetto del campo elettrico.
Al di là della carica netta dalla particella quello che conta è il bilanciamento di carica fra la carica della particella e quella assorbita fortemente. Quindi in prossimità del piano di scorrimento si può definire il potenziale x come il potenziale efficace che serve a trascinare la particella.
Il potenziale x definito in questo modo si può misurare sperimentalmente perché è collegato al moto della stessa particella. Se si mette in movimento una particella si andrà a misurare una certa velocità ne che dipenderà dalla viscosità della soluzione e sarà in qualche modo proporzionale al potenziale x . misurando la velocità e conoscendo le costanti dielettriche ,il campo ,la costante di Henry si può risalire al potenziale x.
In figura si può vedere la particella caricata negativamente ed il primo strato di controioni positivo. Oltre il primo strato può venire attratta un’altra serie di cariche. In prossimità di tutte le particelle che sono attratte in maniera forte si può andare definire quello che si chiama il doppio strato ,cioè la distanza shear rate in corrispondenza del quale si definito il potenziale x .
Il potenziale x dipende dal pH della soluzione nel senso che la quantità di ioni e controioni assorbiti dalla particella dipendono dalla quantità e dal tipo. Il pH non è altro che l’espressione della concentrazione degli ioni H+ o OH-. A secondo del numero di ioni presenti nella soluzione si possono avere valori differenti del potenziale x . Ad esempio per valori molto alti dell’acidità (vicini ad 1) il potenziale x deve essere molto probabilmente positivo.
Se partendo da una soluzione molto acida cominciamo ad aggiungere una base ( NH4OH ) si fa virare il potenziale x da valori molto positivi a valori meno positivi e si arriverà al punto in cui il potenziale x sarà nullo. Continuando ad aumentare il pH ( aggiungendo come faremo noi polielettroliti anionici ) dallo zero si passerà a valori meno negativi del potenziale x. Il punto in cui potenziale x è zero si chiama punto isoelettrico (I E P) che è il punto di massimo rischio di flocculazione per polveri ceramiche. Nel caso in figura l’I E P coincide con un valore di pH = 7 ci possono essere polveri anche con due I E P ( sostanze anfotere come l’allumina ). Il I E P non è sempre a pH = 7 dipende dal tipo di polvere utilizzata.
Se ad esempio le particelle hanno natura acida come SiO2 in soluzione tenderanno ad avere natura acida e per potarla al punto isoelettrico ci vorranno molti più controioni di quanti sarebbero necessari per una soluzione di carattere basico.
Il grafico nella slide spiega come controllare la viscosità della soluzione che è intimamente legata al potenziale x . Andando ad aumentare la quantità di polielettroliti non si fa altro che aumentare in termini assoluti il potenziale x . in realtà come si può vedere anche andando ad aumentare in maniera indefinita il la quantità di polielettroliti alla fine si perde la sua efficacia ( esiste un valore ottimale di polielettroliti da utilizzare ) .
E ‘ riportato l’andamento della concentrazione in peso del disperdente in funzione della viscosità.
L’aspetto delle polveri sinterizzate è quello di grani tutti legati fra di loro. L’aspetto traslucente è dovuto alla perfetta saldatura e adesione dei grani.
Sintering properties of high purity alluminas
La capacità di sinterizzazione valutata come la tendenza di raggiungere la densità teorica ( 3.96) varia a secondo delle polveri e della temperatura e ci sono dei valori limite per cui una certa polvere ,a meno che non si scaldi ,molto non riesce a superare.
Quando si aiuta il sistema con MgO , anche in piccole quantità ( inferiori allo 0,01 % ), i valori teorici di densità si raggiungono già a 1550 °C.
4a lezione 24-03-2003
Le variabili in gioco nella densificazione sono il tempo,la temperatura,l’atmosfera e dal punto della validità del test che dobbiamo fare, importante è la misura della densità.Solitamente si fa riferimento ai grafici tempo –temperatura –pressione; la pressione è molto utilizzata nelle tecniche di formatura a freddo. I processi di formatura a freddo in pressione possono essere di due tipi. Se la pressione viene applicata uniassialmente, premendo all’interno di uno stampo con un pistone uniassiale, nel caso si utilizzino delle polveri impastate al legante il processo prende il nome di cold uniaxial pressing; se invece la pressione viene applicata in tutte le direzioni il processo prende il nome di isostatic pressing. Questo secondo caso si realizza andando a mettere il campione ceramico in un contenitore metallico; se è a freddo si aggiunge anche un silicone che ha la capacità di contrarsi. Dopo si mette il green investito con il silicone in un autoclave e si applica una pressione utilizzando, ad esempio, del gas. La pressione del gas può arrivare intorno ai 200-300bar ed è tale pressione che compatta e che densifica il materiale.Comunque i processi appena citati sono processi di stampaggio a freddo; nel caso di formatura a caldo si parla di hot uniaxial pressing o hot isostatic pressing.
Questi processi fanno un uso combinato di pressione e temperatura ed il vantaggio rispetto alla messa, fisicamente, in forno risiede nel fatto che l’applicazione di forti pressioni anche di centinaia di bar fa si che ci sia un'aggiunta in più alla variazione di energia libera di Gibbs. Questo significa che il termine Pdv di riduzione di volume del materiale risulta in volume del materiale risulta in ffinché densifichi bene chiudendo tutti i pori anche dove c’è aria che tenderebbe a non densificare. In questo modo si può densificare bene il materiale anche a più basse temperature. Quindi con queste tecniche si ottengono materiali di qualità migliore in termini di porosità, di crescita non abnorme dei grani. Il problema di questa tecnica è che è molto costosa; basti pensare ai grossi forni che si utilizzano dove si raggiungono pressioni elevatissime che possono renderlo una bomba.
Facciamo ora un richiamo sulle tecniche di formatura a freddo dei materiali ceramici avanzati per quanto li dovremmo chiamare cementi. In realtà senza applicare la temperatura bensì facendo avvenire delle reazioni chimiche anche a basse temperature possiamo pensare di consolidare un materiale ceramico. Questa è la tecnica più utilizzata per realizzare i mattoni refrattari dei grossi forni, elementi di cui fare le camice interne dei forni, etc.
Un celebre legante idraulico, oltre al gesso è l’alluminato tricalcico. Questo per reazione con l’acqua forma un composto, un idrossido di calcio alluminio che è una sorta di gel, un materiale che solidifica in soluzione diventando una struttura microporosa. Questa struttura consente di fare presa. Una cosa che spesso si fa è utilizzare l’alluminato tricalcico in piccole quantità di 4-5% -10% mischiato poi all’allumina di grosse dimensioni che ha difficoltà a sintetizzare. Un impasto di 80-90% di grossi grani di allumina e cemento alluminoso costituisce un materiale refrattario che può arrivare a temperature di 1800° senza bisogno di sintetizzarlo ma semplicemente facendogli fare presa grazie alla reazione a bassa temperatura.
Per quanto poi i gruppi OH che si formano, quando il mattone refrattario verrà utilizzato, si decomporranno e comunque si formeranno ossidi di calcio alluminio sufficienti a tenere compatto il materiale. Naturalmente, essendo refrattari e avendo una certa capacità di isolamento termico, hanno performance non elevatissime come quelle dei materiali sinterizzati.
Un’altra reazione tipica è quella che si ottiene facendo reagire l’allumina con l’acido fosforico. Questa reazione è molto utilizzata dagli odontotecnici quando fanno gli stampi in cui fare la colata dei metalli. In altre parole gli odontotecnici non sinterizzano gli stampi ma utilizzano questi cementi a base di acido fosforico allumina, silice per fare uno stampo ceramico refrattario.
Un altro sistema è il sodium silicate cement. Si tratta di un cemento ottenuto per impasto di sodio silicato che in alcune concentrazioni può essere addirittura liquido: infatti prende anche il nome di water glass. Questo composto a seconda della quantità di sodio, può essere liquido ed essere considerato una sorte di legante liquido che reagisce dopo che è essiccata tutta l’acqua che lo impasta nel materiale refrattario.
La reazione del silicato di sodio con la sabbia, ad esempio, è quella che si utilizza in fonderia nei processi in cera persa. Si impasta il silicato di sodio liquido e lo si essicca semplicemente mettendoci dentro degli additivi, dei catalizzatori. Il silicato, durante l’essiccazione, fa presa e consolida la forma; ovviamente il consolidamento è molto relativo nel senso che in fonderia, una volta colato il metallo, la forma possa essere rotta facilmente.
Supponiamo di voler conoscere la composizione del punto tracciato nel centro del diagramma. La regola da seguire prevede, nel caso si volesse conoscere la percentuale di SiO2, di tracciare un segmento passante per il punto di cui si vuole conoscere la composizione e parallelo al lato del triangolo opposto al vertice su cui si trova SiO2 pura. Applicando la regola della leva si ricava che la quantità di silice è data dal rapporto AB/BD. Analogamente si ricavano la quantità di CaO come rapporto EC/BC e quella di Al2O3 come rapporto BF/BC. La cosa che semplifica di circa il 50% l’operazione di calcolo è quella di poter fare la lettura su un unico segmento. Ragioniamo ad esempio sul segmento BC e consideriamolo unitario. Sappiamo già che la frazione BF rispetto a BC rappresenta Al2O3 mentre EC rispetto a BC rappresenta CaO quindi automaticamente la quantità di silice è il terzo segmento restante.
La posizione dei principali refrattari a base di silice o dei cementi si può leggere in un unico diagramma. Infatti questi materiali sono accomunati dallo stare dentro lo stesso diagramma ternario. I cementi silicatici stanno sul segmento CaO-SiO2 mentre i cementi alluminati stanno sul segmento CaO-Al2O3. Una combinazione di tutti e 3 porta alla formazione di una fase liquida cioè ad un prodotto che trovandosi vicino all’eutettico può dare origine ad una fase vetrosa. Molto più strategico ed importante per i ceramisti è però il segmento che si trova fra SiO2 e Al2O3.
Nel diagramma c’è una piccola zona vuota perché c’è l’eutettico che è basso fondente. Continuando poi su questo lato troviamo fire brick, mullite cioè tutti materiali silicatici refrattari per i forni con temperatura di utilizzo fino ai 1400°.Più alto è il contenuto di Al2O3 e più alta è la temperatura di esercizio. La continuità di SiO2 e Al2O3 è interrotta dal fatto che esiste un composto intermedio che si chiama mullite e che cade in una piccola regione tra il 72% di Al2O3 ed il restante SiO2. Tutto ciò che sta a sinistra del composto mullitico è una miscela di silice e mullite, ciò che sta invece a destra è una miscela di mullite ed allumina. L’allumina è un bellissimo materiale dal punto di vista della resistenza termica quello che però le manca è la resistenza agli shock termici che ha invece la mullite che presenta un coefficiente di espansione termica pari alla metà di quella dell’allumina. Grazie alla sua forma cristallina più complessa, ha maggiore resistenza a creep dell’allumina e inoltre, sottocarico, un composto mullitico sui 1500° si deformerà meno di quanto si deforma un composto di pura allumina. L’allumina da sola è estremamente refrattaria, fonde a 2050°, ha un’inerzia chimica elevatissima e miscelata può avere proprietà meccaniche che normalmente non ha.
L’argilla ed l’acqua impastate formano l’oggetto, il green; l’aria può essere pensata come l’elemento essiccante dell’argilla mentre il fuoco come l’elemento che lo consolida.
Vediamo ora cosa succede ai materiali ceramici quando li mettiamo nel forno. Prendendo sempre l’allumina come punto di riferimento esaminiamo il diagramma delle proprietà termomeccaniche a carico libero(senza carico). Andiamo, cioè, a vedere come varia l’espansione o la contrazione ∆l/l al variare della temperatura in un green ceramico ottenuto con uno slip casting o in un green con dentro un legante organico come il polivinalcool, cera o altri materiali che lo tengono unito. Se cominciamo a scaldare il green nell’intervallo di temperatura che va da 0° a 500° soprattutto quando contiene un materiale che lo lega come una fase plastica si comporta in maniera strana. La curva sale e scende ed inoltre ci sono dei picchi non ben identificati. Questa è la regione più critica del trattamento termico di un materiale che contiene elementi plastici perché è la regione in cui avviene l’eliminazione termica del materiale organico. In altre parole ciò che brucia si decompone e non è più una fase legante quindi il materiale risulta delicatissimo. Se poi la fase organica brucia troppo velocemente, evolve del gas che crea delle tensioni interne che possono portare alla rottura del materiale. Lo stessa situazione si può pensare avvenga quando sulla superficie delle particelle sono presenti gruppi idrossidi OH o dell’acqua assorbita fisicamente o chimicamente all’interno del materiale. In particolare quando si parla di ceramici tradizionali come l’argilla l’acqua è proprio parte integrante della struttura cristallina cioè si sa già dall’inizio che l’argilla contiene oltre all’acqua dell’impasto anche un’acqua di cristallizzazione che deve essere eliminata. Anche in questo si deve fare molta attenzione perché questa acqua creando vapore, bolle rende il trattamento termico di un materiale ceramico a basse temperature, all’inizio, un evento molto critico. Tipicamente il grosso della sostanza organica e dell’ acqua vengono persi dal materiale nell’intervallo che va da 0° a 500°. Al di sopra dei 500° la sostanza organica e l’acqua sono quasi del tutto assenti. La combustione avviene in aria perché, se così non fosse, il materiale organico darebbe un residuo carbonioso che potrebbe rimanere così come è oppure potrebbe reagire con gli ossidi formando degli ossicarburi.
nota: molto importante sull’effetto finale della sinterizzazione è il tipo di atmosfera che si utilizza. Nel caso ad esempio dell’allumina i pori contengono aria che è 80% azoto,20% ossigeno,idrogeno, etc. Il poro chiuso contiene dell’ aria intrappolata che rimanendo dentro per quanto la si compatti costituisce un difetto insormontabile. Quindi se è presente questa aria sarà difficile chiudere e sinterizzare alla densità teorica un’allumina soprattutto perché l’azoto contenuto nell’aria è insolubile nell’allumina per cui rimane dentro i pori chiusi. Naturalmente se non è presente aria nei pori questi possono collassare. Se non ci si può permettere un forno da vuoto una soluzione potrebbe essere quella di creare un’atmosfera di sinterizzazione alternativa all’aria, un’atmosfera tipo l’ossigeno. La solubilità dell’ossigeno nell’allumina essendo l’allumina stessa fatta di ossigeno è elevata per cui se un poro, alla fine del processo di sinterizzazione, contiene inclusioni di ossigeno è facile che queste vengano trasportate via dal reticolo stesso del materiale. Anche l’idrogeno ha una certa mobilità nell’allumina.
Tra 0° e 500° si ha anche un piccolo ritiro dovuto semplicemente al fatto che il materiale organico decomponendosi fa spazio e quindi la polvere può ritirarsi leggermente. Tra i 500° e la temperatura precedente all’inizio della sinterizzazione cioè la temperatura alla quale i fenomeni di sinterizzazione incominciano a diventare prevalenti, il materiale in se per sé risulta inerte cioè rimane fermo e l’unica cosa che fa è quella di espandersi seguendo la legge di espansione termica intrinseca. Dopo, quando si supera una certa temperatura, si ha l’innesco di fase di ritiro. L’innecso di questa fase dipende dalla pressione,dall’atmosfera gassosa,dagli additivi di sinterizzazione; ad esempio il materiale sinterizzato con 0.2% di magnesio a 1100° risulta già molto duro e si fa fatica a levigarlo. Una volta iniziata la sinterizzazione si innesca questa caduta libera a valori negativi del ritiro per via della compattazione e densificazione del materiale. Informazioni utili alla sinterizzazione si possono ottenere con le tecniche termoanalitiche come ad esempio, la DSC o la termogravimetria. Il primo tratto di cui si capisce ben poco, può essere analizzato con la tecnica termogravimetrica. La curva che si ottiene con tale tecnica è contraddistinta dal fatto che tra 300° - 500° presenta una grossa variazione in termini di percentuale di peso. Quindi le curve termogravimetriche confermano il fatto che la fase critica è la fase che arriva a 500° cioè è la fase in cui avviene la combustione. Ovviamente non si può pensare che a 501° tutto sia stato bruciato perché c’è un’inerzia del processo. Una soluzione potrebbe essere quella di mantenere il materiale a quella temperatura per un certo lasso di tempo fino a quando la combustione degli organici non è completata oppure si potrebbe procedere riscaldando lentamente. La termogravimetria è una tecnica importante perché fornisce informazioni sulla durata della fase critica di rimozione degli elementi in più presenti nel materiale ceramico. La DSC è invece molto utile perché indica eventuali trasformazioni di fase. Se si registrano dei picchi di calore vuol dire che si sta nel mezzo di una trasformazione.
Un oggetto più grosso senza aggiunta di resine a tenerlo in mano con il suo peso si rompe. La resina, il legante che si aggiunge allo slip è necessario per dare un’iniziale coesione al materiale. Nel caso dello slip casting bastano piccole quantità di polivinilalcool per migliorare di molto le proprietà meccaniche a bassa T.
Ci sono processi come quelli di formatura a secco che non si fanno con acqua in cui si gioca tutto sulla compattazione delle polveri. Se queste non si compattano bene come appunto nello slip casting devono essere tenute insieme da un legante che in genere è un materiale polimerico termoplastico. Nell’estrusore il materiale termoplastico viene fuso e poi raffreddandosi consolida il green ceramico.
Nota ( i leganti organici ) : Il polivinilalcool rappresenta un polimero lineare ed idrosolubile anche se lo si disperde in acqua con difficoltà e va aggiunto in piccole quantità perché già il 5-10% rende l’acqua molto viscosa e deteriora la caratteristica di viscosità dello slip. Il polivinialcool quando asciuga, ritorna polimero duro e se è circondato da polvere ceramica contribuisce a compattarla ed a tenerla insieme. Si tratta di lunghe catene che agiscono come se fossero dei lacci.
Oltre al polivinilalcool altro polimero idrosolubile che non polimerizza è la cera. Le cere sono delle paraffine piuttosto corte come dimensione e già a bassa temperatura fondono. E’ possibile miscelare alle polveri anche i classici polimeri termoplastici come il polipropilene, il polietilene e poi iniziare dei processi di stampaggio a caldo. Questi materiali fondono ad una certa temperatura insieme con le polveri, vengono inclusi in uno stampo, in un estrusore e raffreddando solidificano facendo solidificare anche il green ceramico.
Se non si è riusciti ad eliminare tutta la massa organica a 500° e si è saliti fino a raggiungere la temperatura di 800° accade che a 800° un’argilla normale comincia a formare una fase vetrosa. Questa fase comincia ad imrosa. Questa fase comincia ad imchiuderlo, sigillarlo per cui il materiale organico o l’acqua che non sono stati ancora eliminati, premono. Si tratta di gas che sta dentro il materiale e che vorrebbe uscire per effetto dell’espansione ma se il materiale è rigido, per via dell’espansione questo si rompe. Se è per esempio un vetro, questo schiuma cioè l’acqua per uscire forma delle bolle sulla superficie.
Questo è un processo che si può utilizzare se si vogliono realizzare oggetti ceramici porosi. La protezione dello shuttle a base di materiale coibentante e poroso è fatta, però, di fibre di silicio e non da un materiale schiumato perchè le fibre sono più resistenti dal punto di vista degli shock termici rispetto ad un materiale schiumato. Solo che quest’ultimo può raggiungere proprietà coibentanti elevatissime ed una grossa refrattarietà.
Materiali che funzionano sul principio della schiumatura sono le porte REI 60 cosiddette taglia fuoco perché contengono i vetri taglia fuoco. In queste porte tra due lamine di metallo sono inseriti i materiali refrattari. I vetri taglia fuoco sono costituiti da una serie di strati di vetro vero e proprio e da silicati alcalini idrati che a partire da 120°C incominciano a schiumare quindi evolve acqua. Se scoppia un incendio il fenomeno dello schiumaggio rende i vetri materiale refrattari, si espandano fino a 40 volte le dimensioni iniziali, non sono più trasparenti ma isolano. Il fuoco inizialmente rompe i primi strati, gli altri, superata la Tg diventano plastici e iniziano a sciogliersi. Quando la T è molto alta, rimangono però gli starti refrattari porosi.
La curva di riscaldamento disegnata è tipica di un ciclo di cottura della ceramica tradizionale, di una terracotta.
Tra 0° e 500°C la pendenza della curva non è eccessiva ciò vuol dire che il materiale si sta riscaldando lentamente ( questa fase dura circa 3h ). Per essere sicuri che tutte le evoluzioni gassose non lo rompano lo si tiene a 500°C per circa mezz’ora ( più è grosso il materiale e più lo si deve fare stazionare a tale T ). Successivamente può iniziare una fase di riscaldamento più veloce seguita però da un rallentamento quando si sta entrando nella zona di sinterizzazione ed una volta entrati in tale fase, si deve stazionare.
Il fenomeno della sinterizzazione da stato solido è un fenomeno in cui intervengono essenzialmente processi diffusivi. Tali processi sono caratterizzati da tempi molto lunghi quindi a seconda della composizione chimica, della dimensione del materiale si ha un tempo di ritenzione variabile che comunque non scende al di sotto di 1h, 2h. Più si aspetta e meglio è anche se non si deve esagerare perché altrimenti si rischia di avere crescite abnormi dei grani cristallini.
La sinterizzazione vera e propria può essere schematizzata grossolanamente come un processo di trasformazione della geometria, delle dimensioni del materiale che parte dalla sua forma di polvere. Le polveri pur avendo un alto numero di coordinazione non è detto che siano sempre molto impacchettate. In tal caso si deve fare in modo di accrescere il numero di coordinazione e di risistemare i grani per far si che la superficie di contatto tra i grani sia massimizzata e che sia ridotta la superficie libera. Questo è il processo di sinterizzazione che può avvenire con una moltitudine di meccanismi diversi tra loro.
Si possono distinguere tre categorie:
sinterizzazione che si accompagna con una vetrificazione: si ha la formazione di una fase all’interno del materiale che fonde e che si trova allo stato liquido. Questa fase liquida che circonda le particelle refrattarie che stanno nel mezzo non fa altro che compattare meglio i grani. Quello che accade è che i grani cristallini, nella fase liquida possono riarrangiarsi meglio di quanto possano fare a secco o nello slip e quindi possono ridurre il più possibile la fase porosa ed aumentare il numero di coordinazione.
sinterizzazione con fase liquida: la si può intendere come una sinterizzazione in cui la fase liquida non è tale da riempire totalmente gli interstizi della fase refrattaria. Nel casi di materiali ceramici tecnici quello che si tende a fare è formare una fase liquida che per reazioni chimiche e trasformazioni di fase si elimina. La porcellana delle giare è un esempio di sinterizzazione con fase liquida.
sinterizzazione senza fase liquida: in questo caso non c’è nessuna formazione di fase liquida. La T è al disotto di quella di fusione di ciascuna delle fasi ed i meccanismi di trasporto di massa e di diffusione sono altri.
In questo diagramma esiste una serie di materiali ceramici interessanti a cominciare dall’allumina pura continuando con la silice pura fino ad arrivare a materiali ceramici tecnici ed interessanti come la cordierite ottenuti aggiungendo del magnesio. Le marmitte catalitiche sono di cordierite. E’ un composto di silice magnesio ed allumina con la caratteristica di avere espansione termica praticamente nulla. Quindi quando dalla marmitta catalitica fuoriescono i gas caldi a 1000°C questi non provocano shock termico e la marmitta non si stanca. L’allumina non sarebbe adatta perchè spaccherebbe. L’allumina, a meno che non sia estremamente reattiva, di grana molto fine sinterizza al di sopra dei 1700°C ( un’allumina super macinata può sintetizzare a 1500°C soprattutto utilizzando degli additivi ). Una cosa che si fa quando si deve sintetizzare un’allumina normale di dimensioni non spinte è quella di additivarle un composto che possa avere composizione vicina all’eutettico.
Il diagramma di fase ternario presenta delle linee tratteggiate che sono delle linee di livello, sono le isoterme in corrispondenza delle quali coesistono la fase solida e liquida mentre le linee più grosse sono le zone di confine delle diverse fasi. Se prendo ad esempio il 90% di allumina e gli metto il 10% di cordierite o di talco o di caolinite, un materiale tipo l’argilla che contiene magnesio, alluminio e silicio, questo materiale ha la caratteristica di fondere a bassa T. Fondendo a bassa T (1350°C ) continuando a scaldare il materiale si porterà in equilibrio con l’allumina che è solida. Questa allumina solida tenderà in qualche modo a reagire e a dissolversi secondo il diagramma di stato per cui la composizione chimica del materiale si sposterà lungo la curva arricchendosi di allumina. Più salgo in T e più l’allumina che sta intorno tende a reagire. Questo potrebbe essere un fatto negativo ma in realtà non lo è perché man mano che l’allumina reagisce combinandosi con la cordierite , con il talco fuso si porta tutto l’insieme in una regione molto refrattaria che è quella di esistenza del corindone. Innanzitutto il materiale per quanto adesso non è più puro si trova in una fase cristallina molto dura, una sorta di soluzione solida di magnesio-silicio-allumina per cui partendo da una sinterizzazione con fase liquida si è avuta una fase liquida che legasse il materiale, che facesse da agente di trasporto. La cordierite ed il talco sono due forme cristalline: la cordierite è un composto ceramico, il talco è un fillosilicato. Entrambi però contengono magnesio, silicio ed allumina e comunque sia il talco che la cordierite sono gia fusi a quelle T.
Tra i prodotti ceramici abbiamo terrecotte, faenze e terraglie che hanno una T di sinterizzazione piuttosto bassa, non supera generalmente i 1000°C. A queste T non evolve una quantità di fase vetrosa sufficiente a fare una sinterizzazione vetrosa vera e propria per cui è una sinterizzazione con eventualmente fase vetrosa. Nelle faenze si hanno processi di mullitizzazione cioè si ha la formazione di mullite dall’argilla che contiene il silicio e l’alluminio. Comunque nelle argille quando ci sono degli altri composti si deve sempre tener presente il digramma di fase ternario. L’argilla che è un fillosilicato piuttosto termolabile è il primo a decomporsi anzi prima ancor di lui si decompone il feldspato. Le T della faenza e delle terrecotte sono tali da comportare la creazione di una fase liquida cospicua all’interno che lo compatti, lo cementiti. Quindi la pasta che compone il biscotto, la terracotta, la faenza è un materiale ceramico tendenzialmente poroso che quindi ha bisogno per diventare impermeabile di essere sigillato con invetriatura, con uno smalto vetroso. La cristallina è vetrosa. Gli smalti vetrosi sono dei materiali che hanno la caratteristica di fondere ad una T a cui il biscotto non fonde, si tratta di materiali a più basso punto di fusione. I materiali a più basso punto di fusione si ottengono in una serie diversa di modi. Fino a poco tempo fa una tecnica molto utilizzata era quella che usava come fondente il piombo per cui le vetrine di materiale ceramico tipo le faenze, il coccio erano smaltati con colori di silicati in cui la presenza di piombo fino al 30% ha l’effetto di rendere fusa la massa gia a 500°C. Nella fase dell’invetriatura il biscotto cioè il materiale ceramico poroso viene inzuppato in una sospensione di vetro ed acqua, si ricopre di uno strato e viene posto nel forno dove lo strato si livella creando uno rivestimento impermeabile. Si è pensato di sostituire il piombo e di utilizzare altri additivi che abbassino la T di fusione come ad esempio elementi alcalino terrosi tipo il calcio, il magnesio, il potassio, il sodio. Lo stagno come metallo è basso fondente. Esso a 100°C fonde ma come ossido è estremamente refrattario. L’ossido di stagno è quell’ingrediente che viene chiamato cristallina. Si devono distinguere due tipi di smalto per le ceramiche tradizionali: uno smalto vetroso coprente, trasparente o colorato che però lascia vedere il coccio posto sotto ed uno smalto che diventa opaco, bianco. Il primo in genere è un vetro che fonde, il secondo è opaco e ciò significa che tiene al suo interno dei materiali cristallini che non sono fusi mentre tutto il resto della pasta vetrosa lo è. E’ una sorta di sinterizzazione vetrosa al contrario cioè invece di avere il 20% di fase vetrosa e l’80% di materiale refrattario si ha in una cristallina una grande quantità di fase vetrosa. La faenza e la maiolica sono praticamente delle ceramiche cotte porose rivestite da uno smalto cristallino opaco bianco su cui poi si applica la decorazione (soprasmalto). Si tratta di colori che si spennellano sul fondo bianco che è il fondo naturale delle faenze. L’insieme di polvere vetrosa bianca ed ossido di stagno si presenta come un foglio di carta bianca su cui scrivere. L’ossido di stagno rappresenta in questo caso la parte refrattaria della vetrina. Gres e porcellane si contraddistinguono per avere un alta T di cottura che può arrivare a 1200° - 1300°C e questo fa si che gres e porcellane si possano ritenere sinterizzate con un processo di sinterizzazione con fase vetrosa. La fase vetrosa si ottiene perché si stanno utilizzando più alte T ma anche perché la ceramica che abbiamo utilizzato ha degli ingredienti controllati molto speciali. Quindi il gres e le porcellane ottenute con sinterizzazione con fase vetrosa in cui la fusione di alcuni elementi contribuisce a renderli materiali estremamente compatti sono usati per pavimenti che risultano così più pregiati di quelli realizzati in terracotta perché più resistenti meccanicamente. Se un pavimento in gres è ben densificato anche quando si invecchia, si scalfisce o si riga, levigandolo, potrebbe ritornare allo stato originale di lucentezza mentre se si riga un pavimento in terracotta la parte vetrosa viene meno e rimane la parte marrone dell’argilla. Quindi la porcellana ed il gres sono materiali ceramici che al di la della loro compattezza ed alta T, alla quale sono stati ottenuti, sono molto resistenti anche agli attacchi chimici.
Non tutti i materiali argillosi danno porcellane e gres solo perché vengono cotti ad alta T ma ci vuole una miscela sapiente di ingredienti in modo da modulare il contenuto di materiale refrattario, inerte, plasticizzante, fondente. Al fine di controllare gli ingredienti per ottenere porcellane e gres viene in aiuto il diagramma ternario.
Fig.1(lucido precedente): ai vertici del diagramma ternario ci sono gli elementi puri che in questo caso sono la silice che fa da parte inerte; il clay anche se nelle porcellane e nei gres più di valore si parla di caolino che è un’argilla primaria particolarmente pura con poche contaminazioni alcaline, alcalino-terrose; i feldespati che sono silicati ad impalcatura, silicati silico alluminati che oltre alla silice e all’allumina che fanno l’impalcatura attraverso i tetraedri nello spazio, contengono una gran quantità di spazi vuoti riempiti da cationi grossi che sono sia alcali che alcalino terrosi come sodio, potassio, magnesio. Ciò che essenzialmente conferisce al feldspato la caratteristica di fondente è una gran quantità di sodio e potassio che quindi ne determinano a T già molto basse la fusione. Il lato del silica-clay rappresenta il lato più refrattario. Le porcellane dure essendo costituite principalmente da caolino e silice sono molte refrattarie. Aumentando il contenuto di felpato si ottengono le ceramiche dentali con cui l’odontotecnico ricostruisce una scheggia di dente o realizza le capsule. Le porcellane cinesi hanno invece il 25% di silice, il 25% di feldspato ed il 50% di caolino. Questa è una tipica ricetta cinise, giapponese per fare una porcellana tralucente e di qualità.
Questo diagramma si riferisce sempre ad una sinterizzazione con fase vetrosa. Il composto B è il composto base che si vuole sinterizzare che se fosse tutto puro sarebbe ideale mentre A e l’additivo di cui si ha bisogno per facilitare la sinterizzazione Quello che si vuole è che l’additivo formi un eutettico il più possibile basso fondente rispetto alla T di fusione del composto base per avere a T abbastanza al di sotto della T del composto una fase liquida che faccia da impasto. La solubilità dell’additivo nel composto deve essere bassa mentre quella del composto B deve essere buona sia nel liquido che nel solido. Se B è molto sciolto nella fase liquida, questa agisce come agente di trasporto del materiale e quindi contribuisce alla trasformazione dei grani in modo che questi si compattino bene e riducano la superficie di contatto.
5a lezione 26-03-2003
Continuiamo a parlare di sinterizzazione con fase liquida e senza fase liquida.
Nello stadio iniziale della sinterizzazione il materiale è abbastanza compatto e può essere lavorato con utensili perché, pur non avendo subito ritiro, sulle polveri è avvenuto un incollaggio a punti.
Quindi strategicamente si arresta la sinterizzazione a questo punto per eseguire lavorazioni e poi proseguire con la sinterizzazione.
Lo stadio intermedio della sinterizzazione si classifica in base ai valori della densità che si può raggiungere (fino al 92 % della densità teorica). A questo livello i grani di polvere si sono riarrangiati abbastanza bene ,rimangono in ogni modo una serie di pori ( che non sono interconnessi ed estesi come prima ).
Lo stadio finale della relazione è quello che prevede la completa eliminazione di tutti i pori nel materiale.
Nello stadio iniziale ed intermedio della sinterizzazione i pori sono abbastanza continui tra loro , quando si raggiunge il 92-95%della densità teorica questi formano una fase discontinua e molto critica da eliminare. Si utilizza per questo motivo MgO per cercare di eliminare la porosità cercando di non indurre una grossa crescita dei grani.
Queste considerazioni valgono sia per una sinterizzazione da fase solida sia per una sinterizzazione con una piccola quantità di fase liquida.
Anche queste considerazioni di tipo termodinamico sono abbastanza generali. La sinterizzazione, dal punto concettuale, va pensata come la tendenza de materiale a portarsi verso il minimo di energia. Dal punto di vista termodinamico tutto ciò che può portare ad una diminuzione di energia può determinare una compattazione.
La variazione dell’energia libera di Gibs è la ragione energetica che spiega la sinterizzazione ed è la ragione per cui un materiale molto poroso e debolmente impacchettato aumenta la sua densità.
In maniera del tutto generale la variazione dell’energia libera di Gibs si può decomporre in tre contributi :
Variazione di energia libera di volume.
Variazione di energia libera dovuta al rimodellamento dei bordi di grano.
Variazione di energia libera dovuta alla variazione della superficie.
( In realtà questa suddivisione vale solo per una sinterizzazione da fase solida che non coinvolge reazioni. Se ci sono delle reazioni chimiche è necessario aggiungere i potenziali termochimica, inoltre è da ricordare che la variazione di energia libera è anche dovuta alle transizioni di fase).
Il contributo principale dal punto di vista energetico è il lavoro svolto dal sistema per ridurre la sua area specifica che si traduce in un ÑG pari alla tensione superficiale per la variazione di superficie. Quindi la riduzione di superficie per il sistema è un guadagno energetico che dà la possibilità di cambiare forma alla materia.
L’area specifica del materiale, cioè la somma delle superfici di ciascuna particella che lo compone,inizialmente è molto elevata ( stiamo considerando la polvere ). La conoscenza dell’area specifica dopo la sinterizzazione è indice di quanto è stato efficace il processo di sinterizzazione. Se in un sinterizzato si misura ancora un’alta area specifica il materiale presenterà una gran quantità di pori interconnessi aperti.
Se si parla di sinterizzazione dallo stato solido quello che si assume e che ci sia trasporto di massa ,in questo modo il materiale può cambiare forma.
Il trasporto di massa può avvenire in tutte le fasi : nel bulk , nel liquido e nel gas. Ovviamente il trasporto di massa nel bulk non può avvenire nelle prime fasi della sinterizzazione in cui c’è solo un contatto puntuale tra i grani quindi, nelle prime fasi , ciò che contribuisce maggiormente è il trasporto nel gas e sulla superficie delle particelle. Nei meccanismi di sinterizzazione viscosa ciò che entra in gioco nelle prime fasi della sinterizzazione è il trasporto nella fase liquida.
In figura si può vedere il modello a due particelle che propose Frenkel per spiegare la sinterizzazione viscosa.
Due particelle di vetro o metallo ,che hanno una viscosità non infinita, poste a contatto ,col procedere della sinterizzazione, tendono ad aumentare la superficie di contatto saldandosi sempre più. Il punto di contatto si chiama colletto e rappresenta , a differenza di tutte le altre parti della sfera ,l’unica zona di concavità. Man mano che passa il tempo il colletto aumenta le sue dimensioni diventando dello stesso ordine di grandezza della sfera e attivando sempre di più i meccanismi di trasporto di massa.
Perché la sinterizzazione sia viscosa almeno il 20% della fase solida deve trasformarsi in liquido. Quello che ci si aspetta è la risolidificazione del vetro che, come si è visto per i ceramici tecnici, si può convertire tutto in una fase che non è né amorfa né bassofondente.
Frenkel riuscì a trovare una formula analitica per valutare il ritiro volumetrico (ÑV/V) esprimendolo in funzione di parametri fisici che fanno parte del processo di sinterizzazione. Il coefficiente 9/4 deriva dalla geometria sferica considerata mentre i termini energia superficiale, tempo, viscosità e dimensioni delle particelle intervengono in qualsiasi geometria che si vuole considerare.
Il risultato principale è che attraverso il modello di Frenkel si può esprimere il ritiro volumetrico di un materiale ,che sta sinterizzando per sinterizzazione viscosa, in funzione dell’energia superficiale , del tempo di sinterizzazione ,delle dimensioni delle particelle e dalla viscosità.
Più sono piccole le particelle più è alto il ritiro volumetrico così come alti valori della viscosità limitano il ritiro.
Il tempo è la variabile più facilmente controllabile ,infatti si può supporre che per tempi sufficientemente lunghi il materiale sia completamente compattato.
Rivedere appunti tecnologia materiali e chimica applicata.
La sinterizzazione con fase liquida interviene quando si ha una quantità in volume in volume di fase liquida minore del 20%.
Questo meccanismo si può spiegare in due stadi successivi.
Nel 1° stadio il particolato solido refrattario che non si è sciolto è ricoperto da un sottile strato di fluido che si è creato e che agisce da lubrificante tra le particelle. Nel 2° stadio la fase fluida che si è formata consente, in presenza di una buona solubilità della fase refrattaria nel liquido, un buon trasporto di massa.
La possibilità di avere un fluido, all’interno del quale il trasporto di massa è molto più veloce che in una fase gassosa o volumica, è un accelerante del processo di sinterizzazione.
-meccanismi di trasporto
Il meccanismo trainante, dal punto di vista cinetico, è un processo diffusivo ( in qualsiasi modo esso avvenga: nel gas, nel volume o nella fase liquida).
Quindi indipendentemente dal mezzo, il meccanismo di trasporto di massa, segue una legge Fickiana di diffusione Je = -D*dc /dx .
Se consideriamo due sfere a contatto quello che si assume nella fase iniziale è un meccanismo di trasporto nella fase gassosa con un’evaporazione di materia dalle zone convesse e una ricondensazione nelle zone concave. Questo meccanismo è quello responsabile della crescita del colletto. Il meccanismo d’evaporazione e trasporto nella fase gassosa è utile soprattutto nella fase iniziale della sinterizzazione. Quello che si attiva successivamente è un trasporto dovuto alla presenza dei difetti puntuali ( interstiziali o costituzionali ) che si spostano nel materiale. Precedentemente si è affermato che il trasporto di massa avviene a causa di un gradiente di concentrazione, ciò che determina questo gradiente, nel trasporto in fase gassosa ed in fase solida, è la presenza di superfici curve.
Se ad es. si ha un liquido in equilibrio col suo gas ( acqua che ha una certa tensione di vapore dipendente dalla temperatura ) ,man mano che la temperatura aumenta, aumenterà anche la concentrazione di vapore nell’aria. La tensione di vapore ,presente anche nei solidi, oltre che dalla temperatura dipende anche dalla curvatura delle superfici.
Ad una superficie convessa corrisponde una tensione di vapore maggiore che ad una superficie concava. Quindi la presenza delle superfici curve spiega perché nella fase gassosa c’è un gradiente di concentrazione e nel materiale c’è un gradiente di vacanze.
La presenza delle vacanze favorisce la sinterizzazione infatti spesso nell’allumina si utilizzano degli additivi di sinterizzazione che si comportano come sostituti aliovalenti dell’alluminio (l’alluminio ha valenza 3 un sostituto aliovalente a basse concentrazioni è il Titanio).
L’effetto di queste impurezze con valenza superiore determinano delle vacanze d’alluminio per compensare le cariche.
Le vacanze rappresentano il sistema ideale per trasportare la massa nel materiale attraverso un meccanismo di salto nei vuoti, l’effetto netto è lo spostamento della lacuna .
Ritorniamo alla schematizzazione delle sfere quello che succede, nel momento in cui sono a contatto, si forma una zona concava ( il colletto ) ed una convessa ( il resto delle sfere ). Ci sono diversi meccanismi di trasporto dalla parte convessa alla parte concava. Come si è detto i meccanismi che si attivano per primi sono quelli che sfruttano la fase gassosa e le superfici perché il contatto è solo puntuale.
Nel momento in cui il colletto si è formato il trasporto può avvenire nella massa con il meccanismo descritto precedentemente descritto delle vacanze. La densificazione può avvenire solo se c’è il trasporto di massa.
I primi meccanismi ,cioè quelli superficiali , non determinano la densificazione ma spiegano perché nella fase iniziale della sinterizzazione c’è un ingrossamento del colletto. Una volta che i colletti hanno raggiunto una dimensione adeguata entrano in gioco altri meccanismi di trasporto che hanno, per esempio, come sito d’inizio i bordi di grano ( vicini ai colletti ). Queste regioni di difettosità sono una sorgente di concentrazione di vacanze e quindi una ragione di trasporto di materia. Grazie ai bordi di grano ,alle dislocazioni ecc… si può spiegare il fenomeno di trasporto di materia che implica la densificazione.
I meccanismi appena descritti ci dicono tutto sul 1° e 2° stadio della sinterizzazione , rimane da descrivere ciò che succede nello stadio finale. In questa fase i pori non sono più interconnessi e rappresentano un grosso problema per il materiale.
In questa fase i grani del materiale vedono i pori come delle piccole inclusioni sui bordi. Un grosso grano ,a causa della sua geometria, è concavo rispetto ad un piccolo grano, ciò comporta che il piccolo grano ha una tensione di vapore più alta. In questo modo un piccolo grano tende disperdere materia ed un grosso grano a guadagnarla. Questo fenomeno ,denominato coarseling, può causare un ingrossamento eccessivo dei grani (specialmente in presenza di una distribuzione granulometrica delle polveri). Il fenomeno del coarseling è molto pericoloso nei materiali ceramici e deve essere contrastato. La scomparsa dei piccoli grani tende ad unire ed ingrossare i piccoli pori che su di essi risiedevano, in questo modo si creano grossi pori difficilmente eliminabili.
Un altro motivo della pericolosità del coarseling è che con l’aumentare dei grani aumentano i bordi di grano ,la difettosità e la rugosità superficiale. A causa di tutto questo, alla luce della legge di Griffit, il materiale diventa più fragile.
Una strategia per evitare la crescita eccessiva dei grani è di adottare degli additivi insolubili che si posizionano sui bordi di grano rallentando la scomparsa dei piccoli grani (es. zirconia in allumina o titanio in allumina che a grosse concentrazioni è insolubile ).
Nella slide si può vedere un grafico in cui in ascisse c’è il rapporto tra la temperatura attuale del materiale e la temperatura di fusione ( i valori vanno da 0 a 1 in ogni modo nella sinterizzazione non si deve arrivare a fusione ma a 2/3 – 3 /4 la Tf ) ed in ordinate il log del del rapporto tra le dimensioni del colletto e quelle della particella ( quando log =0 colletto e particella hanno le stesse dimensioni ).
Un materiale che sinterizza si può pensare che compia un percorso nel diagramma. Ovviamente si parte da una situazione in cui c’è bassa temperatura e piccoli punti di contatto. Nelle diverse zone del diagramma sono classificati i meccanismi di diffusione predominanti ( superficiale, di volume, sui bordi ecc…).
A basse temperature e per piccoli punti di contatto prevalgono meccanismi d’evaporazione , trasporto sulle superfici e sui bordi di grano.
Si può pensare di scaldare lentamente il materiale fino alla formazione dei colletti per poi effettuare un viraggio verso una regione dominata dal trasporto nel volume. Evidentemente potrebbe essere ideale una soluzione in cui si possa arrivare a bassa temperatura in una zona di diffusione di volume ,ma ciò è difficilmente realizzabile perché sarebbe un processo molto lento. In ogni caso è più conveniente che la sinterizzazione avvenga a bassa temperatura con un meccanismo di trasporto nel volume.
Partiamo da una situazione semplice con tre elementi A, B e C insolubili nella fase solida e solubili in quella liquida. Sul diagramma consideriamo una composizione h alla quale, ad una temperatura superiore ai1400 °C, si ha tutto liquido e vediamo l’evoluzione durante il raffreddamento.
Non appena la temperatura scende sotto i 1400 °C comincia a condensarsi il solido C (siamo nel dominio di C). A questo punto la fase liquida diventa più povera in C e si allontana da C lungo il segmento che congiunge C ad h. La composizione si sposta ad es. fino al punto k ad una temperatura di 1300 °C (lo spostamento avviene lungo C-h perché in ogni caso la composizione deve rimanere costante per una questione riguardante la similitudine dei triangoli).
Arrivati in k la composizione del liquido e del solido si possono ricavare con la regola della leva applicata al segmento C-k (C-h / k-C = % della fase liquida ). Continuando a raffreddare fino ad l a 1250 °C il materiale ha tre fasi ed una sola varianza. A questo punto anche A comincia a solidificare è la composizione si sposta sulla linea di confine tra le fasi per cui il materiale comincia a diventare più povero anche in A. Arrivati in m la quantità di fase liquida rispetto alla solida è m-h/m-n e nella fase solida la quantità di A rispetto a C si trova applicando la regola della leva al segmento AC (per sapere quanto solido di C c’è rispetto ad A si esegue il rapporto nA / AC).
Continuandosi a spostare sulla curva limite ad un certo punto si raggiunge l’eutettico (presenza simultanea di quattro fasi) in cui si assiste al blocco della temperatura e alla solidificazione delle tre fasi liquide rimaste.
Vediamo ora il comportamento di un composto solido nelle condizioni q (non a 1300 °C ma a Tamb) durante il riscaldamento.
Quando si raggiunge la temperatura di 1140 °C , pari alla temperatura dell’eutettico, si assiste alla formazione delle prime gocce di liquido con composizione eutettica g. Man mano che liquefa g la composizione può essere letta lungo il segmento continuo passante per q (ancora una volta, sfruttando la regola delle leva, possiamo calcolare la composizione di solido e di liquido).
Continuando con il riscaldamento il liquido si arricchisce in B e la composizione si muove sulla linea di confine delle fasi dove è intercettata dal prolungamento del segmento B-q. Quando si arriva in q a 1300 °C si ha tutto liquido.
Se tra A, B e C c’è la formazione di composti intermedi ,es. d , per ricondurci alla situazione precedente si suddivide semplicemente il diagramma.
6a Lezione 31-03-2003
LUCIDI SU CD (Forni)
Nel momento in cui si progetta un forno i dati in imput essenziali sono: le dimensioni della zona utile di lavoro e la temperatura max raggiungibile ( in questi caso è la scelta della combinazione di materiali che determina la temperatura di max esercizio).
Ci sono poi una serie di dati che riguardano il dimensionamento dei parametri di potenza. Un dato importante da conoscere è la velocità di riscaldamento e raffreddamento che dipende dall’inerzia termica del forno ,dalla quantità e dal tipo di materiale da trattare. Se ad es. si vogliono trattare materiali plastici, che hanno una grossa capacità termica, si ha a disposizione molta più potenza rispetto al caso in cui si vogliono trattare materiali ferrosi o ceramici.
Altri dati riguardano le condizioni operative del forno se cioè deve lavorare in atmosfere controllate, nel vuoto o in pressione.
Acquisite queste specifiche si può passare alla progettazione del forno. Essenzialmente si tratta di scegliere il materiale per la coibentazione, il sistema di riscaldamento, il sistema di controllo della temperatura e come il sistema di controllo della temperatura vada a controllare il sistema di riscaldamento.
Se il forno è molto grande ed opera ad alta temperatura si deve controllare che tutti gli elementi all’interno di esso abbiano le necessarie caratteristiche termostrutturali in modo da evitare il creep ed il collasso.
Seguono ora delle slide con una serie di fotografie dei forni.
Esistono forni che si caricano dall’alto e dal basso top e bottom loading o con sportello laterale.
I forni bottom loading permetto un estrazione più sicura del materiale contenuto.
Dal punto di vista dell’economicità quello che si preferisce è un riscaldamento a gas. Il riscaldamento avviene attraverso dei bruciatori che convogliano nel forno quantità controllate di combustibile e comburente.
Il problema del riscaldamento a gas riguarda la scarsa controllabilità del sistema poiché ,essendo la fiamma una concentrazione di energia, si genera una discontinuità ti temperature nel forno.
In figura e presente un forno per altissima temperatura sottovuoto (in questo modo sono annullati i meccanismi conduttivi e convettivi di trasporto del calore).
Gli elementi riscaldanti sono delle resistenze in tungsteno (metallo refrattario che fonde intorno ai 3000 °C.
Per coibentare il forno, che essendo sottovuoto dissipa essenzialmente per irraggiamento, si usano degli schermi metallici. Questo tipo di forni sono utilizzati se si desidera un ambiente interno privo di contaminanti esterni.
Si tratta di un forno ad induzione in cui l’elemento riscaldante è un tubo in rame cavo avvolto a spirale intorno un cilindro di allumina. Il tubo è cavo perché all’interno e attraversato da un liquido di raffreddamento. Questo tubo è percorso da una corrente elettrica alternata ad alta intensità che induce una radiofrequenza. Poiché le radiofrequenze sono assorbite dai metalli questo tipo di forni sono utilizzati per fondere i metalli, in alternativa è possibile utilizzare un crogiuolo in metallo nel quale è possibile inserire il materiale da trattare. In questi forni l’elemento riscaldante non è necessariamente refrattario.
Un materiale in grado di sopportare altissime temperature, purché non sia esposta all’ossigeno, è la grafite. Se la grafite si trova ad una temperatura superiore ai 400 °C in presenza di ossigeno brucia. Quindi se sono previsti trattamenti termici in atmosfera inerte o sottovuoto la grafite è una soluzione molto conveniente per realizzare elementi riscaldanti.
In generale, nei forni con questo tipo di elementi riscaldanti, la coibentazione è costituita da fibre di carbonio chopped in cui la quantità di fibre rispetto al vuoto è il 10% (una struttura molto leggera e porosa).
Ovviamente questi forni non permettono di realizzare un processo così pulito come quelli ad induzione o a tungsteno ma sono spesso l’unica soluzione quando si vogliono realizzare trattamenti termici in atmosfera aggressiva (es. infiltrazione chimica da fase vapore) perché in questi casi la fibra di carbonio è molto più resistente dei metalli (es. vapori di cloro).
Nel dimensionare un forno si deve tenere presente che la potenza totale necessaria si va a ripartire in diversi contributi. Un primo contributo, come si può facilmente intuire, è necessario per riscaldare l’oggetto interno al forno (ciò dipende dalla massa e dalla capacità termica dell’oggetto).
Il prodotto della massa per la capacità termica per la differenza di temperatura danno l’energia necessaria e dividendo questa energia per il tempo di riscaldamento si ottiene la potenza termica.
Si devono poi considerare una serie di altri contributi dovuti alle dispersioni che devono essere attentamente dimensionate specie nel caso di altissime temperature. Per avere un’idea di ciò che succede alle alte temperature basta pensare alla potenza dispersa per irraggiamento, che segue la legge di Boltzman e che è direttamente proporzionale a T4.
Esistono potenze dissipate per conduzione attraverso gli elementi isolanti (la conducibilità aumenta con la temperatura in questi materiali a causa dell’irraggiamento tra i pori ), attraverso i ponti termici e per convezione dei gas all’interno del forno (è da notare che solo nel caso di vuoti estremi si riesce ad annullare il contributo convettivo).
Il contributo conduttivo è valutabile attraverso la legge di diffusione del calore: Q = KA (Thot-Tcold) / d (Questa legge vale per superfici piane per superfici cilindriche o sferiche va modificata).
Questa prima approssimazione ci fa vedere che le variabili in gioco nella conduzione sono: la conducibilità termica, l’area di scambio, la differenza di temperatura e lo spessore.
Secondo la legge di Boltzman la quantità di energia irradiata per unità di superficie è nel caso di un corpo nero : P / A = sT4 . Se invece del corpo nero si considera un materiale reale la legge deve essere corretta con un fattore e ( remissività del corpo ): P / A = esT4.
Nel realizzare gli scudi termici spesso si utilizzano metalli perché hanno una bassa emissività ( anche se l’emissività dipende da tanti altri fattori quali: la rugosità superficiale, la lunghezza d’onda incidente e l’assorbimento).
Un materiale ceramico a base di ossidi spesso è trasparente, ciò significa che non assorbe molta luce nel visibile e nel lontano infrarosso. Remissività nei ceramici comincia a diventare un fenomeno rilevante nel momento in cui intervengono fenomeni di assorbimento. Questi meccanismi sono collegati ai moti vibrazionali e rotazionale delle molecole e avvengono nel lontano infrarosso per lunghezze d’onda di 3-5 mm.
Se si vuole calcolare l’emissività di un forno si deve considerare l’emissività spettrale e la sua incidenza alle diverse temperature di esercizio e tenere presente che non vale la legge di emissione di corpo nero ma quella di scambio tra un corpo ad alta ed uno a bassa temperatura.
Il calore specifico rappresenta la quantità di energia per elevare la temperatura di una massa unitaria di 1K. Questo parametro dipende essenzialmente dalla quantità di energia che il materiale è in grado di assorbire. In un gas ideale, in cui non ci sono moti vibrazionali, l’energia ceduta è tutta utilizzata per aumentare l’energia cinetica delle molecole. In questo caso il calore specifico per ogni grado di libertà è pari a K / 2 ( la capacità termica totale del gas è 3K / 2, essendo tre i gradi di libertà per una molecola di gas). Quando si considera un gas non ideale, ad es. biatomico, la situazione si complica notevolmente a causa dell’energia associata allo stretching e alla rotazione molecolare. Questi meccanismi che si innescano ad alta temperatura fanno aumentare la capacità termica del gas aumentando l’assorbimento di energia. Per un materiale solido oltre ai tre gradi di libertà, associati ad una molecola libera di vagare, è necessario addizionarne tre altri, dovuti ai vincoli.
Per un generico materiale solido il calore specifico e dato dal: cv = ¶(3KTNa )/ ¶T.
In questa equazione non è presente la massa del materiale ma il n° di moli, questo ci fa capire perché materiali pesantissimi come il tungsteno o il plutonio hanno un calore specifico bassissimo a causa del basso n° di atomi. Un materiale leggero come il carbonio ha un alto calore specifico perché ha un alto n° di atomi al suo interno.
Se confrontiamo due materiali come il rame ed il piombo si trova che il calore specifico del rame è molto maggiore di quello del piombo. Se questi valori vengono normalizzati rispetto alle moli (si utilizza la legge di Dulong and Petit) si ottengono valori dei calori specifici molto prossimi.
Quindi il calore specifico non è collegato al peso atomico del materiale ma alle moli perché è influenzato dall’energia cinetica rotazionale e vibrazionali del cristallo. A bassa temperatura il calore specifico è approssimabile a 3K ma quando si è ad alta temperatura il calore specifico aumenta perché si innescano meccanismi che aumentano la quantità di energia per scaldare il materiale. Se si vuole fondere il materiale è necessario inoltre un contributo addizionale dovuto all’entalpia di fusione.
Lo studio del fattore correttivo è importante sia per dimensionare i meccanismi di diffusione sia per facilitare il raffreddamento del forno.
Per il calcolo della potenza, nel caso della convezione, si sfrutta una legge simile a quella della conducibilità termica: Pc = hS(T2-T1) dove h è il coefficiente di scambio termico convettivo. Il coefficiente h dipende da molti fattori ma in maniera qualitativa si può affermare che dipenda essenzialmente dal flusso di fluido intorno al forno e dalla conducibilità di questo flusso ( come si può notare dalla tabella della slide l’acqua in convezione forzata ha un alto valore di h)
Da un punto di vista “esperenziale” si associa la temperatura a quanto può essere caldo o freddo un corpo. La temperatura è quindi collegata ad una nostra sensazione che peraltro è molto relativa ,infatti se si prende in mano un pezzo di metallo a 100 °C ci si brucia ma se si prende un pezzo di legno alla stessa temperatura questo non accade. La spiegazione sta nel fatto che la mano è un sensore che valuta l’energia assorbita, il legno a 100 °C avendo una bassissima conducibilità termica trasferisce solo una piccola quantità di calore e non ci brucia.
La temperatura può essere definita come quel qualcosa che si stabilisce tra due corpi a contatto dopo un certo periodo. Le definizioni classiche di temperatura sono collegate a considerazioni di tipo termodinamico che valgono in condizioni di equilibrio. Due corpi in equilibrio termico hanno la stessa temperatura. Se di un corpo si riescono a misurare determinate proprietà che dipendono dalla temperatura mentre di un altro corpo non si riescono a misurare se i due corpi sono in equilibrio termico hanno la stessa temperatura. In questo modo la temperatura del corpo ignoto si può stabilire valutando le proprietà che dipendono dalla temperatura del primo corpo.
Dal punto di vista teorico la temperatura assoluta si definisce come uno stato di equilibrio termodinamico tra due corpi. Per semplificare le cose consideriamo un sistema di particelle indistinguibili che obbediscono alla statistica di Boltzman. Ovviamente non tutte le particelle del sistema avranno la stessa energia ma ci sarà comunque una popolazione di particelle allo stesso stato energetico. Utilizzando la distribuzione di Boltzman si può scrivere la quantità di particelle che si trovano in un certo stato energetico:
ni = N ×gi× e-bEi
N = n° di particelle
gi e b = coefficienti moltiplicativi
Ei = energia delle particelle
In questo sistema statistico è utile introdurre la funzione di partizione :
Z = å gi× e-bEi
Questa funzione ci dice come si distribuiscono le particelle al di là del loro n°.
L’energia media del sistema si può assumere come l’energia media di ciascuna particella :
U = N Eaverage
L’energia media delle particelle dipende da una funzione di partizione e dal coefficiente b :
Eaverage = -d (lnZ)/db
b =KT
A livello teorico quindi la temperatura è b/K.
I sensori per la misura della temperatura si dividono in a contatto e senza contatto. I sensori a contatto (come una termocoppia in un forno) misurano essenzialmente la propria temperatura. L’assunzione che si fa e che sensore e corpo siano in equilibrio termico tra di loro. Poiché in un grosso forno la temperatura può variare molto da punto a punto possono esistere molti errori di misura.
I sensori non a contatto per le alte temperature sfruttano altre proprietà quali la quantità di radiazione emessa e la sua lunghezza d’onda. Quindi tramite la legge di Boltzman, sapendo che l’energia emessa dipende da T4, si può stabilire la temperatura.
I sensori non a contatto migliori vanno riconoscere, potendo campionare in più zone dello spettro, la quantità di radiazione emessa dal corpo.
Per un comportamento di emissività vicino a quello di corpo nero vale la legge di Vien (opportunamente mediata dalla costante di emissività) . Se si costruisce lo spettro di emissività di un corpo in funzione della lunghezza d’onda si trova che l’energia irradiata varia enormemente all’aumentare della temperatura ma avviene anche che lo spettro a cui avviene il max dell’irraggiamento si sposta verso le lunghezze d’onda inferiori. Questo comportamento è predetto dalla legge di Vien :
lmax = 2900 / T
lmax è la lunghezza d’onda a cui avviene il massimo dell’irraggiamento.
A bassa temperatura (37-38 °C) l’emissività è max intorno ai 9-10 mm.
Un corpo a 2000 °C non può essere neppure guardato perché l’intensità dell’emissione è molto grande e la lunghezza d’onda di max emissione ricade tutta nel visibile (400-700 mm).
7a Lezione 2-04-2003
I sensori a contatto più diffusi sono le termocoppie. Altri sensori a contatto sono i termistori, costituiti da materiali che cambiano la loro resistenza con la temperatura in modo esagerato e molto predicabile.
Ci sono poi i classici termometri a liquido e quelli bimetallici che sfruttano la diversa espansione termica di due metalli.
La termocoppia è costituita dalla giunzione di due metalli differenti. La giunzione porta alla generazione di una differenza di potenziale ai capi dei due conduttori. Ogni metallo ha un suo potenziale di estrazione di elettroni, quando due metalli sono a contatto una parte di elettroni migrano nel metallo con capacità di estrazione maggiore generando così una differenza di potenziale. La quantità di elettroni che migrano dipende dalla temperatura. La scelta della termocoppia, o meglio dell’accoppiamento, dipende dalla temperatura max di esercizio, dalla resistenza all’ossidazione e al creep dei due metalli.
La termocoppia più nota è quella di tipo K basata su leghe di cromo-nichel-alluminio, questa resiste a 1300 °C, non si ossida ( perché si passiva da sola), ed è molto economica. La termocoppia K e la soluzione ideale se accoppiata a forni che utilizza no elementi riscaldanti metallici.
Per temperature più alte si utilizzano le termocoppie di tipo R,S e B ,realizzate con metalli nobili ( platino-rodio). Le termocoppie di tipo C ( tungsteno-renio) possono sopportare 2300 °C ma solo in atmosfera non ossidante. Spesso le termocoppie, per essere utilizzate a più alta temperatura (2000-2100 °C), sono protette con una guaina in allumina, che però può creare errori di misura alle basse temperature dominate da scambi di tipo convettivo e conduttivo. Ad alte temperature (1000 °C) predominano scambi termici radiativi ed anche se la termocoppia e incamiciata e raggiunta da moltissimo calore che la porta subito alla temperatura del forno (ricordiamo che l’allumina pur essendo refrattaria non ha una bassa conducibilità termica che si aggira intorno ai 30-40 W/mK).
Esiste una classificazione delle termocoppie in base al colore dei fili ma si deve stare attenti alla convenzione che si sta utilizzando americana o inglese.
Più piccola è la termocoppia minore è la sua inerzia termica, ma se si lavora ad alte temperature maggiori sono i rischi di rottura.
La coibentazione nei forni ad alta temperatura viene realizzata con materiali refrattari ed isolanti. Sui cataloghi commerciali questi materiali vengono classificati in base alla temperatura limite max ed alla temperatura limite d’uso continuo. La temperatura limite d’uso continuo è quella temperatura alla quale il materiale non si danneggia anche se viene lasciato per molto tempo.
E’ importante conoscere la composizione chimica e morfologica del materiale coibente e del materiale che si vuole trattare nel forno. Può succedere infatti che se il materiale da trattare e coibentantie vengono a contatto possono formare un eutettico e fondere a temperature più basse (ad es. silice e magnesio sono estremamente refrattari ma se vengono a contatto possono dare origine ad un eutettico che fonde a 1400 °C).
Nei cataloghi sono riportati la densità geometrica , conducibilità termica ed il calore specifico, tutte grandezze utili a dimensionare il forno.
Un altro dato importante è il ritiro lineare permanente, dovuto al fatto che il coibentante spesso è venduto sotto forma di cuscinetti di fibra bagnati in una soluzione di acqua e legante. Questi cuscinetti a contatto con l’aria, per evaporazione, induriscono e presentano, anche se minimo, un qualche ritiro.
Le fibre ceramiche sono i materiali più efficaci per l’isolamento termico perché hanno una bassa capacità termica ed una bassissima conducibilità termica. Questi materiali hanno lo svantaggio di essere molto costosi e potenzialmente cancerogeni (a causa delle loro dimensioni).
In generale gli elementi riscaldanti al di sotto dei 1250 °C sono metallici (leghe nichel-ferro-cromo). Questi sono i più economici, meno fragili e più facili da utilizzare. Un problema che può insorgere utilizzando gli elementi riscaldamenti metallici e che alla temperatura di max esercizio avvengono fenomeni di ricristallizzazione e infragilimento.
Un grosso problema che riguarda sia gli elemento riscaldamenti metallici sia i ceramici (molto più refrattari) è che la resistenza varia con la temperatura. Questo succede perché gli elettroni (i portatori della carica) con l’aumentare della temperatura riducono il loro cammino medio e la resistenza aumenta. Quando si dimensiona la potenza in un forno si deve richiedere che l’elemento riscaldante abbia la resistenza da noi richiesta alla temperatura di max esercizio (a basse temperature la resistenza non deve essere troppo bassa per evitare un cortocircuito).
Un parametro importantissimo per dimensionare gli elementi riscaldanti è il carico max raccomandato per unità di superficie. Se la resistenza elettrica disperde un quantitativo superiore di W×cm2 il rischi è l’evaporazione del metallo stesso. Per ottenere un’alta potenza da una resistenza filiforme è necessario un grosso diametro (bassa resistenza) ed una grande lunghezza quindi per ridurre gli ingombri spesso il filo è avvolto a spirale.
Gli elementi riscaldanti in disiliciuro di molibdeno hanno la caratteristica di essere molto fragili ad alta temperatura e di riacquistare plasticità e poter essere piegati ad alta temperatura (1200°C).
Questi elementi sono altamente refrattari perché a contatto con l’ossigeno si forma ossido di silicio e la superficie si autopassiva mentre in atmosfera riducente (ad es. sottovuoto) il silicio evapora lasciando scoperto il molibdeno. Come si può vedere nella slide la zona riscaldante di questi elementi ha un diametro inferiore per aumentare la potenza irraggiata (RI2)
mentre la zona che fa da conduttore ha un diametro maggiore. La parte che fa da conduttore è isolata dal forno con elementi ceramici e collegata agli elettrodi con fascette fatte di alluminio. Poiché su queste fascette si raggiungono temperature molto alte generalmente sono molto ampi per facilitare il raffreddamento.
Gli elementi resistivi in carburo di silicio sono utilizzati sotto forma di barre ed avendo la resistenza di diversi Ohm possono essere collegati direttamente alla rete elettrica.
Nella tabella sono indicate le temperature max di utilizzo di elementi riscaldanti ferritici in carburo di silicio e disiliciuro di molibdeno in atmosfere ossidanti o riducenti.
Si può notare che il disiliciuro di molibdeno si può usare in aria a 1800 °C ma solo a 1100 °C sottovuoto. Gli elementi ferritici possono raggiungere i 1400 °C sia in aria sia in atmosfera di idrogeno.
Gli elementi grafitici in aria sono utilizzati ad una temperatura interna di 1400 °C, in realtà la temperatura esterna max è di 50 °C inferiore.
Anche il carburo di silicio come il disiliciuro di molibdeno deve essere utilizzato in ambienti ossidanti in modo da reagire con l’ossigeno ed autopassivarsi.
Nella slide sono riportate delle formule pratiche per dimensionare gli elementi riscaldanti.
Se ad es. è nota la tensione max e la potenza la resistenza è: RTmax=V2/Pt
Come si è detto precedentemente : RTmax =Rc(1+aTmax)
Rc = resistenza a T amb
a= coefficiente di resistenza
Conoscendo la resistività di un materiale si può ricavare la resistività lineare: Rl = r/f
r = resistività
f = diametro del conduttore
Dalla resistività lineare è possibile ricavare la lunghezza dell’elemento riscaldante: L = Rc / Rl
Nota la lunghezza dell’elemento riscaldante si può risalire alla sua superficie radiante e alla potenza radiante per cm2: L = Pt / S.
Se si ottiene che il materiale irraggia più di 10-20 W / cm2 (valore inaccettabile) è necessario imporre una sezione maggiore del filo e rifare i calcoli.
Un altro parametro importante che il fornitore di elementi riscaldanti deve rilasciare è una curva di carico, che mostra il carico necessario in funzione della temperatura. Come si vede chiaramente in figura ad alte temperature il carico deve essere minore ( per evitare la volatilità del metallo). A temperature al di sotto dei 1000 °C il materiale può essere caricato anche a 30 W / cm2 mentre a 1500 °C non si possono oltrepassare i 2 W / cm2 .
Si tratta di dispositivi elettronici che elaborano il segnale proveniente dalla termocoppia. Se il valore in ingresso è molto lontano da quello settato danno molta corrente all’elemento riscaldante se è vicino al valore settato poca. Controllare la temperatura non è così facile come si può pensare. Se ad esempio usassimo un termostato settato su una data temperatura questo si limiterebbe a dare la massima potenza fino alla temperatura settata e poi si interromperebbe. Questo sistema a causa dell’inerzia termica del forno causerebbe un oscillazione intorno alla temperatura desiderata.
I controller utilizzano un sistema più intelligente per dare potenza, e lo fanno attraverso una risposta mediata che può essere: derivativa, integrativa o proporzionale.
La risposta proporzionale dà sempre meno potenza più ci si avvicina al valore settato. Le risposte derivativa ed integrativa sono simili ed in base a come varia la temperatura in funzione del tempo in output viene fornita una risposta proporzionale alla derivata o all’integrale di questa variazione.
Una volta che in un controller si è scelto che tipo di risposta utilizzare la potenza può essere fornita in due modi: attraverso un relè dà o non dà potenza ed il controller stabilisce il tempo di apertura e chiusura del circuito o attraverso il controllo della fase tramite diodi, con questo ultimo sistema il controllo è molto più dolce.
La grafite ha una resistenza molto bassa, è un materiale molto economico e sottovuoto può superare i 2500 °C. Per lavorare in ambiente ossidante si può ricoprire con mullite (che ha un espansione termica molto bassa) la resistenza in modo che nell’intercapedine possa scorrere un gas inerte.
Le più note fibre sono quelle di carbonio, anche se si utilizzano altre di nuova concezione. Tutti i tipi di materiale che saranno ingegnerizzati (guardando al costo) si basano sulle grandi proprietà dalle fibre in generale, ed in particolare sulle fibre ceramiche (dove entra in gioco la temperatura).
Le fibre di carbonio (rinforzo) hanno un grosso impiego nei materiali compositi con matrice polimerica. Per progettare la fusoliera del Boeing si realizza un guscio in composito con fibre di Allumina (Nextel).
Per impieghi aerospaziali spinti si cerca l’estrema resistenza al fuoco delle fibre ceramiche attraverso un test detto Firewall Test.
La fiamma incide su un pannello di materiale refrattario e non deve penetrare, mantenuta per 15 min., dentro il pannello. Così il pannello ha grande resistenza agli shock termici. In realtà le fibre sono buone per resistere a temperature di 1050-1200 °C, invece noi il tubo lo porteremo a 1350 °C e in più il seguente test sottopone il composito ad una criticità, ovvero, non soo si ha alta temperatura ma anche concentrata in un solo punto.
Qualsiasi altro materiale ceramico a base di ossido con coefficiente di espansione termico (5-6)*10-6 K-1 ha un punto di rottura.
Con le fibre di Nextel si possono anche realizzare delle guaine per isolare le termocoppie.
Fibre di vetro e aramidiche sono utilizzate per compositi a matrice polimerica.
Sul grafico si possono notare i valori elevatissimi di tenacità e l’allungamento max consentito.
Tenacità e allungamento non vanno d’accordo, anzi valori grandi di tenacità può implicare valori bassi di allungamento.
La fibra di vetro è eccezionale per la resistenza meccanica, però ad alte temperature (già prossime alle temp. di transizione vetrosa) perde ogni suo pregio.
Si può pensare di suddividere le fibre in:
carbonio;
aramidiche;
vetro.
ceramiche.
Le fibre di carbonio a prescindere se sono ad Alto modulo o ad Alta resistenza si caratterizzano per avere (ad alta resistenza) resistenza tensile di 5 Mpa e più, di contro modulo e densità bassi.
Quelle ad alto modulo invece, hanno minore resistenza e densità più alta.
Le fibre di vetro hanno resistenza confrontabile con quelle di carbonio o superiore; ma hanno modulo molto diverso. La differenza sostanziale tra le due è il costo.le fibre si vendono a peso o a metratura.
Di fibre ceramiche ve ne sono pochi produttori, quindi si capisce bene ché il prezzo è alto.
Questo grafico mette in relazione: spessore della fibra contro resistenza. Più una fibra è sottile più la sua resistenza è alta, perché per la legge di Griffth la resistenza è proporzionale all’inverso della radice quadrata della dimensione del difetto.
E’ la tecnologia di produzione della fibra ceramica che durante la manifattura della stessa introduce i difetti stessi a livello di finitura superficiale. Quindi quanto più si perfeziona tale processo tanto più resistenti sono le fibre che presentano spessori sempre più piccoli.
Le fibre di allumina hanno resistenza di 2-3 GPa pari a 10 volte la resistenza dell’allumina pari a 200-300 MPa.
Le fibre rispetto i materiali bulk hanno resistenze più alte di 1-2 ordini di grandezza e inoltre grandi proprietà a flessione.
Le fibre non si possono gestire al di sotto del micron, oltretutto divengono anche cancerogene. Al minimo avremo fibre di 3 micron.
La produzione delle fibre di vetro è sostanzialmente simile a quello dello zucchero filato. Le fibre si catalogano nelle lettere E, C, S a seconda della composizione:
Electrical; hanno capacità di isolare elettricamente
Corrosion; resistenti alla corrosione
Silica
Le fibre non protette di tipo E sono facilmente attaccabili dalla corrosione. Le fibre E hanno tutto sommato una composizione tipica (si noti che vi è una bassa percentuale di Na) e da essa si ricavano gli altri tipi di vetro (quello corrosion con una più alta % di silica).
Le fibre con più alta presenza di silica sono anche più difficili da lavorare perché la presenza di silice innalza il punto di transizione vetrosa e quindi devo aumentare la temperatura alla quale le divo tirare.
L’aggiunta di elementi modificatori di reticolo mi crea un network siliceo meno interconnesso, che ha una temperatura di transizione vetrosa più basso e quindi meglio lavorabile.
La più alta presenza di silice nelle fibre C-glass mi giustifica il più alto costo insieme al fatto della più alta resistenza alle alte temperature, perché di fatto il materiale è più refrattario. Con i ceramici Claybounded dove vi è un alto contenuto di silice vogliamo avere proprio alta refrattarietà del materiale.
L’elemento calcio nei vetri comuni come modificatore di reticolo mi rende insolubile il vetro nell’acqua.
Questo schema illustra le due tipologie di fibre quelle lunghe e tessute e quelle corte, chopped.
Nel primo caso abbiamo un bagno di vetro fuso e poi c’è una testa d’estrusione refrattaria con ugelli di 1-2 mm da cui il vetro viene fuori, si assottiglia e si raffredda.
Lo yarn (tipico ciuffetto) di fibre di vetro è composto da 200 fibre estruse , passano all’interno di una resina che le ripara da danni superficiali e le rende maneggevoli.
Nel secondo caso, invece abbiamo un mandrino che ruota in materiale refrattario, corredato da fori. Si cola la massa fusa nel suo interno e grazie alla forza centrifuga dagli ugellini vengono estruse le fibre (tale processo viene utilizzato nello zucchero filato).
Dopo tale fase le fibre vengono spruzzate con resina protettiva e successivamente tagliuzzate in fibre corte che vengono confezionate in pannelli di prepreg
La testa rotante in platino-rodio fa da elemento riscaldante e da estrusore, infatti è riscaldato elettricamente sino a 1500 °C senza essere corroso.
La viscosità richiesta è pari a 10-100 Pa*sec (paragonabile con una pasta dentifricia).
Vediamo i parametri che caratterizzano la restrizione delle fibre. Prendiamo un cilindro di vetro fuso che si comporta come un fluido newtoniano. Esso ha la temperatura maggiore di quella di transizione vetrosa. Dall’equazione s=he ricavo i parametri che mi regolano lo spessore della fibra in funzione del suo allungamento.
L’assottigliamento è proporzionale non alla s, ma alla forza (cioè a quanto tiriamo). Le sezioni più sottili e più spesse a parità di temperatura hanno la stessa velocità di riduzione della sezione. Però all’abbassarsi della temperatura ossia all’aumentare della viscosità (rimanendo costante la forza) si riduce l’assottigliamento.
L’aumento della viscosità è un andamento esponenziale con la temperatura e questo fatto assicura che quando si tira la fibra non si crea un colletto che si assottiglia e poi si spacca, ma è una riduzione progressiva e graduale.
Le sezioni più sottili solidificano più velocemente, man mano che la fibra si assottiglia e si raffredda la fibra si deforma sempre di meno.
Il meccanismo di estrusione è controllato dalla forza con cui si estrude, dalla viscosità e dal gradiente termico che si crea.
Le fibre ottiche sono sostanzialmente fatte con un “core” con più alto indice di rifrazione ed un rivestimento esterno con un indice più basso.
Questa presenta un alto modulo. Resistenza e modulo elevati si raggiungono con i nanotubi di carbonio che sono ottenuti da un singolo foglietto di grafite avvolto a comporre uno o più strati di grafite.
Questa struttura di nanotubi è caratterizzata da una resistenza molto elevata che non può essere misurata alla macchina tensile, perché è una struttura enormemente piccola, ma la si calcola teoricamente. La loro resistenza è dell’ordine delle decine di GPa, inoltre è un materiale superconduttivo.
Una fibra di acciaio ha una resistenza a pressione pari a 1.5 GPa, mentre una fibra di carbonio ha una resistenza doppia o tripla. La resistenza specifica, ovvero resistenza per unità di peso è molto importante per questi materiali. Se 1 è la resistenza specifica dell’acciaio, quella della fibra di carbonio è 10, da qui l’utilizzo nello spazio di fibre leggere ma resistenti.
Le fibre di carbonio sono un materiale ceramico per eccellenza sicuramente covalente.
Hanno il gruppo poliacrilonitrile. Si prende il polimero e lo si tira quando è ancora allo stato rigido e lo si forma come fibra.
Esso è allo stato resinoso, che se non è trattato per ossidarlo, reagisce con altre fibre e s’incolla. L’ossidazione si fa in ambiente d’ossigeno alla temperatura di 30-40 °C.
La fibra è considerat nella sua forma organica e poi avviene la fase di carbonizzazione, dove tutto ciò che non è carbone viene volatilizzato e si ottiene la fibra di carbonio.
Fibra di carbonio: struttura cristallina non del tutto ordinata come quella granitica.
Fibra di grafite: è un sottoinsieme della fibra di carbonio, in quanto la struttura cristallina granitica deriva da quella del carbonio.
Quello che differenzia i due tipi è la struttura cristallina.
Dal punto di vista del processo invece, le distingue la diversa temperatura a cui spingiamo il trattamento termico. Di fatto le catene di PAN ordinate nello spazio in maniera random, vengono estruse e tirate al fine di orientarle, dopodiché vengono ossidate per consolidarle, ovvero reticolandole tra di loro. Allora la fibra si forma per tiraggio e consolidamento delle diverse catene di carbonio o grafite.
Il rayon è un materiale meno pregiato del PAN, infatti, il primo presenta solo il 25-28% di massa in carbonio contro il 50-55% del PAN.
Per ottenere solo delle fibre di carbonio basta giungere a 2000 °C, partendo dal materiale organico rayon o PAN. Mentre se si vogliono fibre di grafite, bisogna avere un forno adatto a ciò che raggiunge una temperatura anche di 3000 °C.
Il processo di grafitizzazione è quello per cui il carbonio da una forma vagamente granitica, ma per lo più amorfa si trasforma in grafite grazie all’alta temperatura in cui la struttura si riarrangia in maniera più ordinata.
PAN=catene di carbonio con gruppi nitrile abbastanza polari.
Un primo stadio di consolidamento avviene quando il gruppo nitrile reagisce per formare una specie di scaletta q pioli che assomiglia ad un gruppo benzenico, in cui vi sono carbonio, azoto ed idrogeno.
Ad alta temperatura di carbonizzazione si ha la pirolisi dell’idrogeno che si rompe dal carbonio ed evolve gas lasciando solo carbonio.
Questo grafico mostra come varia la resistenza in funzione della temperatura di trattamento, ossia la resistenza ha un massimo non per temperature crescenti.
Il modulo invece cresce al crescere della temperatura di trattamento, infatti, carbonizzando e grafitizzando, la struttura si compatta e otteniamo la formazione di un cristallo perfetto con una maggiore rigidità e un più alto modulo.
Ciò comporta di contro una sorta di crescita dei difetti critici che compromettono la resistenza meccanica delle fibre.
Precursore = è un qualcosa che alla fine si trasforma nel materiale finale, ma inizialmente non è detto che lo sia.
Con tale processo si producono le fibre di carburo di silicio. Un loro precursore è il diclorometilsilano, ovvero un materiale metallo-organico (quale il silicio parte metallica e i gruppi metilici parte organica).
Una prima reazione che si fa avvenire attraverso l’aggiunta di sodio è la declorinazione, ovvero, il Na si combina con il Cl per formare sale e tali molecole restanti vanno incontro ad una polimerizzazione, cioè formano un polimero organico.
Tale polimero sottoposto a particolari trattamenti termici, in particolari condizioni di temperatura e pressione, viene convertito in policarbosilano, dove vi è una alternanza di Si e C.
Attraverso questa decomposizione si può tirare il preceramico come nel caso delle fibre di vetro. Quindi lo yarn del Nicalon è composto da 500 filamenti di fibra di policarbosilano, che attraverso un processo di pirolisi si trasforma in carburo di silicio. Quindi la temperatura è qualcosa che purifica da tutto ciò che è tremolabile e organico. Nella fase di ossidazione l’ossigeno serve a crosslinkare filamenti di policarbosilano in modo che ogni filamento diventi una fibra. Essendo che tale ossigeno resta intrappolato, si hanno di fatto non fibre di carburo di silicio puro, ma fibre di ossicarburo di silicio.
Avere minor ossigeno significa avere maggiori proprietà refrattarie e resistenza meccanica alle alte temperature. Questo è lo sforzo che fanno oggi i produttori di fibre di carburo di silicio.
Tutto ciò che può essere un polimero o un metallo-organico che si può legare in questo modo può costituire una fibra ceramica.
Altri elementi oltre al Si sono il Ti, ovvero titanati che hanno maggiore refrattarietà.
Un’altro processo è il sol-gel and polymer pyrolisis, questi sono dei metodi bagnati da liquido per cui si utilizzano degli alcossidi, delle polveri o dei sali. Combinando in soluzione alcossidi, polveri o sali metallici (precursori) il processo sol-gel in soluzione acquosa forma dei polimeri inorganici. Questa è la base per formare le fibre Nextel (fibre di ossido di alluminio).
Un’altro metodo per fare fibre ceramiche è il CVD; attraverso una fase gassosa reattiva ad alta temperatura forma una fase ceramica solida condensandosi su più strati.
Questo metodo si utilizza per fare rivestimenti e materiali compositi.
Quando i vapori reagiscono anche chimicamente il metodo è detto CVD (chemical vapor depositation). Esempio classico è la deposizione su vetri per formare gli specchi.
Vediamo la manifattura di una fibra SCS textron a base di carburo di silicio. Si parte da un “core” di fibra di tungsteno (si può partire con una fibra di boro(ceramico)) che viene fatta passare in un forno ad alta temperatura dove ci sono vapori di metiltriclorosilano che si decompone, a contatto col tungsteno che fa da catodo e si deposita il cloruro di silicio sul filamento stesso di tungsteno. Tale deposito è ordinato e compattato in modo più spinto che per sinterizzazione o nel liquido.
Il deposito fatto dal vapore ha performance di compattazione migliori, che sono conferite alle fibre.
Sono dette fibre monocristalline. Si parte da bagno fuso in cui s’intinge un piccolo grano. Girando e tirando, su di esso cresce la fibra, costituita appunto da un unico cristallo. Con questo metodo si ottengono le fibre monocristalline di allumina.
Il vantaggio di una fibra monocristallina sta nelle performance di refrattarietà e resistenza alle alte temperature, perché il creep si spiega con la debolezza del materiale lungo i bordi di grano e questi nel monocristallo mancano, quindi la resistenza è nettamente migliorata.
9a lezione 09/04/03
Ceramici porosi: sono costituiti da carburi di silicio, ma anche da mullite. Tali ceramici sono utilizzati sia per la filtrazione che per la combustione catalitica e non.devono avere buona resistenza agli shock termici e devono essere poco costosi.
Il combustore è una specie di caldaia fatto di materiale ceramico poroso. Esso deve presentare dei pori ben connessi in modo che la struttura dei pori deve garantirmi un trasporto d’aria senza che ci sia una caduta di pressione. Il combustore di fatto è un elemento riscaldante a infrarosso, in cui non si utilizza la corrente elettrica, ma una fiamma.
Tale fiamma riscalda il materiale poroso dal suo interno sino a renderlo infrarosso (incandescente) tanto da farlo irradiare.
Affrontiamo il problema di come fare il rinforzo, ovvero di come combinare le fibreperchè esse costituiscano una preforma da riempire con matrice ceramica.
Il rinforzo più semplice è: particelle affogate dentro una matrice continua, come l’allumina rinforzata con zirconia, in cui le particelle mantengono una loro individualità e non si confondono sin dal principio della formatura.
L’altro tipo di rinforzo è costituito da fibre corte chopped o whiskers, che sono dei cristallini, cioè cristalli allungati, come il carburo di silicio, amianto (piccolo e pericoloso).
Sono dei cristalli nucleati in modo che il diametro sia molto minore della lunghezza. Quando c’è questo tipo di rinforzo vi è un aumento di resistenza e di modulo del materiale che rinforzano. Poi abbiamo dei compositi che sono fatti con fibre continue lunghe, disposte in maniera unidirezionale oppure compositi fatti con fibre sovrapposte in diverse direzioni affinché esercitano la loro resistenza lungo più direzioni interessate dagli stress.
Le fibre continue vengono tessute in geometrie bi o tri-dimensionali. Quando si usano fibre continue unidirezionali sono disponibili in commercio prepreg di fibre di carbonio, che non sono tessute ma sono semplicemente incollate a formare uno strato bi-dimensionale con fibre tutte con la stessa direzione tenute insieme dalla resina.
Combinando tra loro questi prepreg si ottengono diverse geometrie di rinforzo quali: type x, type y, ect.
Il sistema più utilizzato è quello dei fabrics, dei tessuti. Le tessiture possibili sono:
Questo tipo di modalità di ottenere tale stabilità tridimensionale è abbastanza utilizzata anche con le fibre chopped strand mat (tagliuzzate) tanto da ottenere i cosiddetti non tessuti. Questo tipo di rinforzo è più economico e un modo per aumentare la stabilità è di trapuntarli, ovvero si orientano una serie di fibre nella direzione trasversale del tappetino che aumenta la sua stabilità. Fare tutti questi tipi di lavorazione è costoso però il tutto giova all’isotropia delle proprietà meccaniche del composito.
Una tecnica classica per fare i materiali compositi a matrice polimerica è quella di utilizzare un prepregs. Cioè i tessuti sono preimpregnati sotto calore e pressione con una resina precatalizzata. Un classico tipo di prepreg è fatto da fibre di carbonio impregnato con resine epossidiche catalizzate che reagiscono a 120 °C (punto gelo) in cui passano da viscose a rigide (termoindurenti).
Il problema è che il catalizzatore anche se debolmente reattivo a tamb. alla lunga reagisce tanto da far buttare il preimpregnato, a meno che non si conservano in frigo.
Questi prepreg vengono stratificati su una superficie piana o curva e vengono “insaccati” in contenitori (pellicole termoresistenti) in cui si fa il vuoto e successivamente il trattamento in temperatura e pressione. Da notare il nastro a tenuta e il tessuto che consente di fare il vuoto uniforme (breather/absorption fabric). Questo è il processo più utilizzato attualmente ed è detto processo in autoclave.
In assenza di aria con l’applicazione della temperatura la resina fonde e lascia un materiale compatto privo di pori.
Questo metodo è utilizzato anche nella costruzione dei vetri di sicurezza. Se bisogna fare dei tessuti con fibre ceramiche si utilizzano dei prepreg che sono lavorati e formati in un certo modo, in qualsiasi geometria.
Dopo aver fatto il PMC si brucia la matrice, tenendola ferma nello stampo e poi si infiltra il tutto con matrice ceramica. Inoltre, se si sostituisce la resina epox o acrilica con una resina preceramica allora posso giungere ad una matrice ceramica.
Nei carbon-carbon posso infiltrare la preforma con resine fenoliche che tramite pirolisi mi dà una resina ceramica (grafitica o carboniosa). Vi è un problema però, dovuto alla pirolisi:
Dopo la pirolisi quindi mi ritrovo con un materiale poroso dovuto proprio ai due problemi visti prima.
Allora la tecnica è quella di reinfiltrare il materiale in modo che la porosità diminuisca e il materiale composito ceramico si ripresenti senza pori.
Un’altra tecnica utilizzata per compositi ceramici è il filament winding, che è un processo utilizzato soprattutto per oggetti cavi (tubi o recipienti che devono sopportare grandi pressioni all’interno). Le fibre passando da un recipiente pieno di resina si bagnano e si avvolgono attorno al mandrino in rotazione con un certo orientamento.
Questi processi sono di fatto di tipo manuali. In laboratorio, abbiamo utilizzato una sospensione che abbiamo colato, il trucco è quello di ottenere la compattazione più spinta e quindi abbiamo drenato l’acqua continuando a colare la sospensione necessaria.
Questo caso è utilizzato, per chi ha la necessità di andare veloce e nello stesso tempo richiede grandi performance.
Nella pistola, avviene il taglio delle fibre e la mescola con la resina, che successivamente viene spruzzata a formare il composito.
Qui i tessuti sono sovrapposti per formare uno stack di materiale. Si utilizzano uno stampo e controstampo in cui si inietta in pressione la resina che andrà a riempire tutti i vuoti tra le fibre. E’ ideale creare il vuoto tra stampo e controstampo in modo che non rimanga nessun vuoto nel materiale.
Le fibre che si srotolano entrano in un materiale (stampo riscaldato) in cui avviene l’infiltrazione del polimero e la sua fusione, quindi le fibre si caricano di matrice che le impregna a fare il composito.
Si sfrutta il fatto che le fibre sono tirabili e quindi da tale contenitore viene fuori il materiale composito che successivamente viene tagliato.
Significa legare per reazione. Si sfrutta una reazione chimica per consolidare il materiale composito ceramico precompattato. Inoltre, questa tecnica non induce a ritiro che è molto dannoso ed è caratteristico della sinterizzazione .
In figura si vede un antico Reaction bonding in cui si forma il composito ceramico attraverso il Lay-up, ovvero tramite la sovrapposizione di diversi ceramic tape che vengono spruzzati (per migliorare l’adesione).
Il ceramic tape è un impasto fatto di fibre e resina fenolica a dare un prepreg ceramico. Questi nastri ceramici che possono o non contenere le fibre ceramiche si mettono uno sull’altro.
Attraverso la prototipizzazione rapida possiamo andare a tagliare i fogli di tessuto nelle dimensioni target per poi impilarli e compattarli a formare il composito ceramico.
Questo materiale viene poi portato ad alta temperatura in cui viene il reaction bonding, cioè la reazione chimica tra Si e C.
Il reaction bonding si fa avvenire impastando resine fenoliche, carbonio e SiC e quindi impastando certe quantità di precursori di carbonio o carbonio stesso sotto forma di polvere con del silicio in polvere e si fa uno slurry. Alle alte temperature le resine fenoliche si trasformano in carbonio (800 °C). a più alte temperature (1380-1410 °C) il silicio diventa liquido e attacca il carbonio con una reazione esotermica a formare il materiale composito. A tale temperatura però nessuna fibra ceramica può resistere tranne la fibra di carbonio, infatti le nextel al di sopra di 1300 °C perdono le loro proprietà meccaniche.
Qui vediamo che impilando i diversi nastri che contengono resina, silicio metallico e carburo di silicio formiamo il composito. La reazione tra Si e C è violenta e implica un aumento di volume, allora si aggiungono degli inerti, ovvero una parte che non è interessata alla reazione. Con il reaction bonding si fanno i materiali ceramici per i dischi frenanti.
Si utilizzano i materiali ceramici invece che metallici, per tre motivi:
Di contro però il ceramico (monolitico) per i motivi della fragilità non può essere utilizzato a tale scopo. Mentre il materiale ceramico composito è ideale (è come se presentasse una certa duttilità, ovvero non si rompe di colpo).
Si tratta di fatto di una sinterizzazione oltre che ad alta temperatura anche ad alta pressione. Questo consente di non giungere alle alte temperature dove potremmo danneggiare irreversibilmente le fibre che non resistono.
Un modo è quello di srotolare le fibre ceramiche da una bobina, impregnarle in una sospensione preceramica e la si riavvolge su un mandrino più grande che tagliato mi fornisce una piastra. Queste piastre impilate saranno consolidate e le resine vengono mandate via intorno ai 500 °C. A questo punto si ha la pressione a 1700 °C che mi da la compattazione finale del composito.
Tale pressione sulla preforma può essere esercitata in una sola direzione o in maniera isostatica lungo tutte le direzioni.
Questa è la tecnica più performante. Attraverso le note fasi si giunge alla preforma che in un forno viene impregnata nella sua parte vuota (60%) da una fase gassosa. Le molecole del gas che contiene precursori ceramici sono assorbite dai pori del materiale e qui pirolizzano lasciando un deposito solido che va a riempire i vuoti.
E’ un processo che avviene a T relativamente basse, minori di 1000 °C e quindi si possono trattare anche fibre che non resistono alle alte temperature. Tale processo crea un materiale perfetto dal punto di vista cristallino, perché il materiale cresce da una fase gassosa e quindi non si hanno tensioni sulle fibre ceramiche.
Il processo è molto lento e molto costoso. Una piastra di 6 mm è stata ottenuta con questo metodo sino ad un pieno del 90% dopo 240-250 ore.
MTS = metiltriclorosilano è un precursore ceramico che non è gassoso ma ha una lata tensione di vapore, cioè a tamb. evapora.
Esso viene inserito nel forno attraverso un gorgogliatore in cui entra un gas di trasporto che porta via con sé saturandosi la fase di vapore del MTS.
Ar = è un gas neutrale che non prende parte alla reazione nel forno, ma serve a lavare il forno dalla contaminazione dei gas interni alla camera di reazione.
La decomposizione e la deposizione sono controllate da una legge di tipo Arrhenius. Quello che deve auspicarsi è che i gas non si decompongano immediatamente sulla superficie della preforma, ma possano diffondere all’interno e successivamente decomporsi lentamente. Questo si ottiene mantenendo la temperatura più bassa in modo che il processo sia controllato cineticamente dalla diffusione molecolare e una pressione bassa perché il materiale possa avere un libero cammino medio più alto e si decomponga uniformemente.
Se temperatura e pressione sono alte invece di avere CVI si ha CVD, avendo una crosta esterna e le parti più interne vuote.
Si può notare che lo spessore di materiale che si deposita sulla superficie di un poro cilindrico dipende dai parametri fisici del processo.
10a lezione 14-04-2003
Le proprietà più interessanti di un composito ceramico sono quelle termostrutturali.
Le proprietà di un composito si dividono in additive e non additive.
Una proprietà del composito, che può essere il suo modulo Ec, si esprimerà come una funzione delle proprietà dei materiali che lo compongono (combinazione del modulo delle fibre e della matrice)
Quando si esprime una proprietà generale di un composito questo è fatto in funzione della quantità delle fasi che lo compongono e delle proprietà di ciascuna di queste fasi. Non è detto, in ogni modo che il rapporto sia additivo. La proprietà è additiva quando si può esprimere come: Ec = å Ei×Vi (ci sono una serie di proprietà intensive come densità e conducibilità termica, che sono additive).
Rispetto ad una sollecitazione meccanica distingueremo tra fasi in parallelo ed in serie.
Il modulo di Young nel composito varia a secondo che si abbia una sollecitazione in serie o in parallelo. Se si applica uno stress in un composito con fibre in parallelo alla sollecitazione, assumendo che fibra e matrice siano solidali tra loro (almeno in una regione elastica), possiamo applicare la condizione d’isostrain (quando si deforma tanto la fibra quanto la matrice) ec=ef =em.
Il carico applicato sulla sezione del materiale si ripartisce tra fibra e matrice (cioè sulla frazione di superficie di fibre e sulla frazione di superficie di matrice). Dal carico si può risalire alla forza applicata:
sc =sfAf + smAm , poiché si ha la condizione di isostrain possiamo legare le s alle e attraverso i moduli =>E= s / e =>Ec = Ef Vf +Em Vm
sc =sf Vf +sm Vm (Vc=1)
(il modulo ed il s sono in questo caso due proprietà additive).
Per quanto riguarda i compositi ceramici, il modulo della fibra ceramica è confrontabile con quello della matrice, ciò che varia è il s, infatti, la resistenza a trazione di una fibra ceramica è almeno un ordine di grandezza superiore a quello della matrice.
In questo caso si è in condizioni d’isostress (c’è lo stesso stress sul composito, sulla matrice e sulle fibre).
In questa condizione la deformazione totale del materiale è la somma delle deformazioni di ciascun componente:
ec =ef +em.
In questo caso l’assunzione che si fa è che se chiamiamo Tm lo spessore delle fibre e della matrice posto:
Spessore della matrice /Spessore della fibra = Vm
applicando la legge di Hooke:
s/Ec = sVf / Ef = sVm / Em => 1/ Ec = Vf / Ef + Vm / Em
In questo caso è la fase più debole (meno rigida) che influenza in maniera prevalente il comportamento globale.
I compositi a matrice tenace sono i PMC (a matrice polim.) e i MMC (a matrice metallica).
Consideriamo come riferimento il composito a fibra unidirezionale e una trazione parallela alla fibra (modulo di young longitudinale).
Il diagramma sforzo deformazione (1), per una matrice tenace, ci mostra che la matrice cede a strain molto maggiori della fibra, anche se a stress più bassi.
Vogliamo vedere ora al variare della frazione volumetrica di una fase e dell’altra come si comporta il composito in termini di resistenza meccanica.
Il diagramma (2) ci mostra il valore del s al variare della frazione di fibre nel composito.
Il s inizialmente all’aumentare delle fibre diminuisce, poi, arrivati ad una certa frazione di fibre, che in qualche modo esercitano una funzione tenacizzante, ricomincia a risalire. Intuitivamente si può pensare che nella fase iniziale le fibre sono così poche da non dare un contributo alla resistenza del composito e, nel momento in cui si raggiunge una deformazione tale da rompere le fibre, la matrice ha una resistenza inferiore a quella di una matrice tutta piena, si riducono così le sue proprietà di resistenza meccanica.
Si deve quindi avere un contenuto minimo di fibra in modo che esso si converta poi in un incremento di resistenza nel composito.
Ovviamente c’è un limite geometrico e d’aderenza delle fibre nella matrice che limita la quantità di fibre in un composito.
Nei compositi a matrice fragile la fibra ha generalmente una s ed una e ultime superiori a quelle della matrice (fig1).
Se si va a graficare la resistenza ultima del composito in funzione della frazione volumica di fibre (fig2) si può notare che comunque anche una minima quantità di fibre conferisce un aumento della resistenza meccanica.
Nel grafico si può vedere una variazione di pendenza della curva in corrispondenza di un valore di fibre Vmin. Quando le fibre sono al di sotto di questa Vmin il composito non guadagna in tenacità e anche se la sua resistenza è leggermente superiore la sua rottura ha comunque carattere fragile (si ha una regione a frattura singola). Al di sopra della Vmin nel composito avviene una sorta di rottura multipla della matrice con una resistenza ultima del materiale proporzionale al contenuto di fibre. In questo caso la matrice, meno rigida, sollecitata a valori di carico superiori a quelli da lei sostenibili comincia a rompersi gradualmente perché le fibre fanno da ponte tra i vari punti.
Se consideriamo un composito 1D (ipotesi più semplificata) sottoposto ad un carico assiale la matrice, più fragile, comincia a cedere a valori di carico che superano la sua resistenza e la sua deformazione. Quando la frazione volumica di fibre, moltiplicata per la resistenza delle fibre, è maggiore della resistenza ultima della matrice meno il valore del carico sulla fibra cui la matrice comincia a rompersi moltiplicato per la frazione di fibre, si è in condizioni di microcrack.
sfuVf > smu-sf’Vf
Quindi la linea di demarcazione tra un comportamento fragile ed uno tenace è:
Vcrit = smu / (sf’ +sfu)
Per Vf > Vcrit la matrice subirà microcrack ad un valore di stress pari a:
s = sf’Vf + smu (1- Vf)
e la rottura del composito si avrà a: scu=sfuVf
A questo punto la matrice completamente microfratturata non contribuisce più alla resistenza finale del composito.
I meccanismi sono essenzialmente due: deflessione della cricca e pullout della fibra. In particolare il pullout è responsabile della resistenza residua del composito conferendogli un comportamento simile ad un metallo che ha superato lo snervamento (aumenta l’affidabilità).
Se il composito damage tollerant è sollecitato a valori del carico via via crescenti possiamo suddividere il comportamento del materiale in tre zone. A bassi valori del carico il composito mostra un comportamento elastico. A valori crescenti del carico la matrice comincia a microfratturarsi. Se il materiale è monolitico (privo di rinforzo fibroso), quando il difetto raggiunge una dimensione critica (secondo la legge di Griffit), questo si rompe in maniera catastrofica. Ciò non avviene nei ceramici compositi perché la cricca, invece di allargarsi è deflessa l’ungo l’asse della fibra. In questo modo da una sollecitazione modo 1 (cricca trasversale al carico applicato) si passa ad una sollecitazione modo 2 (cricca parallela al carico applicato). In questo modo il danneggiamento sulla matrice è minimo e le fibre sono ancora legate tra di loro grazie all’azione di ponte della matrice stessa. Quando il carico applicato supera il carico max per la fibra il materiale si rompe e l’azione di rottura avviene per scorrimento della fibra nel materiale della matrice.
La rottura della fibra non avviene necessariamente nel punto in cui la matrice si rompe, in questo modo il materiale continua ad offrire una resistenza residua anche dopo la rottura della fibra perché lo scorrimento della fibra nella matrice richiede una certa forza.
Differenza di comportamento in una prova sforzo-deformazione tra un provino realizzato in carburo di silicio ed uno sempre in carburo di silicio ma rinforzato con fibre di SiC.
Il monolitico, superata la soglia di resistenza, subito si rompe (dal grafico non si direbbe ma spesso il composito ha una s ultima confrontabile e spesso superiore al monolitico).
Il materiale composito pur avendo valori di stress massimi confrontabili col monolitico in realtà è molto più tenace perché è molto più deformabile.
Il composito dopo una prima zona in cui ha un comportamento elastico subisce una deviazione in un’altra regione a comportamento quasi plastico (condizione di microfratturazione), e anche superato il valore critico, dettato dalla frazione volumetrica di fibre presenti, il materiale non si scompone del tutto continuando ad avere una certa resistenza e deformabilità.
L’interfaccia nel composito ceramico gioca un ruolo critico. Precedentemente si è parlato di deflessione della cricca e passaggio della sollecitazione da modo 1 a modo 2.
In realtà ciò è possibile a condizione che non ci sia un forte legame tra fibre e matrice. Se fibre e matrice sono legate da un forte legame di tipo chimico (reaction bonding) ciò non permette la deflessione della cricca, lasciando il materiale fragile. L’interfaccia fibra matrice deve avere un’adesione di natura meccanica non troppo forte da determinare rottura fragile e non troppo debole perché è necessaria la trasmissione del carico dalla fibra alla matrice. Queste condizioni si ottengono andando a creare un’interfaccia sulla fibra incapace di legarsi chimicamente possibilmente con entrambe le fasi e che con delle caratteristiche ideali di scorrimento.
L’interfaccia ideale sul composito precedentemente visto potrebbe essere quella di un carbonio pirolitico, cioè un carbonio grafitico per deposizione da fase vapore che cresce orientato sotto forma di tanti foglietti che si dipartono dalla fibra centrale (questa è una condizione ideale).
Purtroppo per quanto riguarda applicazioni termostrutturali in ambienti ossidanti questo sistema ha degli inconvenienti poiché il carbonio può bruciare e se l’interfaccia non è isolata dall’ambiente esterno le microcricche indotte da sollecitazioni possono veicolare i gas all’interno del materiale. Spesso si utilizza come interfaccia il nitruro di boro che è più resistente.
Esempio di sezione di fibra d’allumina con interfaccia di un ossido insolubile nelle due fasi, in questo caso si tratta d’ossido di stagno (è ottimo anche l’ossido di zirconia).
Nei compositi da noi realizzati non ci siamo preoccupati molto delle interfacce, ma abbiamo utilizzato una matrice non fortemente compattata in modo che il contatto fibra matrice non sia completo ma a punti. Ciò si ottiene sinterizzando il materiale ad una temperatura più bassa di quella della piena densificazione. In questo modo si possono ottenere materiali a comportamento tenace.
Provino di composito sottoposto a flessione (5 mm di larghezza).La sezione di frattura mostra una serie di ciuffetti di fibre che sono uscite dalla matrice. Questo è indice di un buon comportamento del materiale perché c’è stato scorrimento tra fibre e matrice.
Si è raggiunto il valore di 500 Mpa (molto elevato).
Ci sono molte proprietà macroscopiche prevedibili attraverso lo studio di proprietà microscopiche. Il valore di stress e attrito tra fibre e matrice possono influenzare il comportamento macroscopico del materiale. Il valore d’attrito è misurato con il push in test. Una fibra appartenente ad una fetta sottile del composito è spinta da una punta con un carico crescente, quello che si osserva è che la fibra esce dalla parte opposta del materiale.
La fibra esce solo nella fase finale dell’esperimento, infatti, prima c’è una regione a comportamento elastico e poi una fase di scollamento della fibra dalla matrice. Queste tre regioni sono assimilabili a quelle osservate nel composito ceramico durante un test di flessione o trazione monoassiale.
Consideriamo una porzione di materiale che ha inglobato un tratto di fibre per una lunghezza l.
Tirando fuori la fibra dalla matrice si possono verificare diverse condizioni, funzione del valore di resistenza della fibra rapportata allo stess interfacciale tra fibra e matrice. Si vuole quindi valutare lo stess interfacciale sulla matrice. Se il valore di tale stess è molto elevato la fibra si rompe altrimenti si ha una condizione d’estrazione della stessa. La condizione di rottura è:
pr2sfu < 2prlti
2prl = superficie della fibra a contatto con la matrice
ti = stress interfacciale
Si ha pullout se: pr2sfu > 2prlti (anche se la fibra si rompe nella matrice si ha pullout).
Il lavoro svolto dallo scorrimento della fibra nella matrice rappresenta la tenacità del materiale.
Il lavoro speso per estrarre la fibra (che si è rotta) è pari allo stress interfacciale moltiplicato per la superficie a contatto. Ovviamente la superficie a contatto diminuisce con l’estrazione della fibra:
W = ti pd k2/2 (1/2 deriva dall’integrazione)
Il valore di ti regola la distanza critica cui si rompe la fibra ed il valore di resistenza finale. Si deve quindi regolare ilti in modo che la fibra si rompa abbastanza dentro la matrice e ci sia scorrimento.
11a lezione 16/04/03
Vediamo l’evoluzione storica delle performance dei materiali ceramici. Nel secolo XX vi è stato il maggior impulso ad aumentare le proprietà meccaniche dei materiali ceramici. Infatti, prima del XX secolo una porcellana, una terracotta avevano proprietà meccaniche scadenti al di sotto di 100 MPa di resistenza a flessione.
L’introduzione dell’allumina e dei materiali ceramici non ossidi sino a giungere alla zirconia parzialmente stabilizzata, ha portato la resistenza a flessione anche a più di 1000 MPa, oltre tale valore abbiamo il cavo d’acciaio.
Le fibre, hanno resistenza meccanica superiore sia ai materiali metallici che ai materiali monolitici; allora combinandole con materiali ceramici, ovvero formando i materiali compositi, quest’ultimi diventano materiali strutturali.
A dare qualità ai materiali ceramici, oltre alla resistenza specifica, vi è la resistenza nei termostrutturali alla temperatura.
I carbon-carbon essendo molto leggeri e molto resistenti sono i materiali ceramici più performanti.
I freni carbon-carbon stando in contatto con l’ossigeno hanno un problema di usura e di ossidazione, localizzato nella parte più calda degli stessi. Ci sono degli additivi che riducono la loro degradabilità, come bisiliciuro di molibdeno, materiali metà ferrosi ma molto ceramici che ossidandosi sigillano il resto di carbon-carbon e lo preservano dall’ulteriore ossidazione.
I carbon-carbon lavorano anche a temperatura di 800 °C e comunque non tutto il freno è a tale temperatura, quindi solo la parte più esterna, più esposta ad alta temperatura è ricoperta dagli additivi. Anche perché pur consumandosi, vedi il Boeing o la Formula 1 si ricambiano frequentemente e quindi sono sempre efficienti.
I composito MMC che contengono un articolato ceramico, sono utilizzati per i freni delle moto. Essi contengono fibre chopped di allumina, che sono sciolte in alluminio e il tutto si cola a formare i freni. Gli MMC sarebbero dei compositi con matrice duttile e non tenace, perché altrimenti il composito risulterebbe irrigidito.
Un problema più sentito è quello di resistenza agli shock termici tra fibra e matrice, infatti un materiale non ferroso si espande molto di più della fibra e così dopo n cicli di riscaldamento e raffreddamento si giunge al punto che si ha un distacco tra fibra e matrice.
Un provino si è rotto proprio dove presentava una bolla più grossa, ovvero dove il difetto è più grande. I materiali che hanno un legame ionico e covalente (fortemente energetici nella loro formazione) si presentano come forti e rigidi, perché è richiesta grande energia per rompere tali legami.
Pensando ad una rottura ideale, la resistenza teorica data, risulterebbe molto elevata, basti pensare ad a0 dell’ordine degli Angstron per avere dall’equazione resistenze notevolissime, ciò non avviene in pratica perché ogni materiale è caratterizzato da difetti e da irregolarità più grandi dello spazio interatomico. Ciò è tenuto in conto dalla legge di Griffith, in cui invece di avere la distanza interatomica, ho la lunghezza del difetto più grosso, al quale lego la s di frattura. La differenza tra i due approcci sta in 2-3 ordini di grandezza.
I difetti sono:
(le fibre di vetro sono quelle che presentano superfici più liscie in assoluto e che quindi dovrebbero avere rispetto alla porosità in superficie resistenza più alta).
Per quanto riguarda lo studio dei materiali bisogna dire che i materiali ceramici hanno buona resistenza a compressione, buona durezza Vichers e resistenza minore a trazione o flessione. La parte critica è lo studio della resistenza a trazione, perché risulta difficoltoso già farsi il provino con forma a osso di cane e poi ammorsarlo nella macchina, in quanto una piccola deformazione rompe il provino che è molto fragile.
Una procedura molto utilizzata è quella di fare prove a flessione a tre o quattro punti. Da tali prove si risale alla resistenza del materiale tramite la conoscenza dell’inerzia del provino. L’unica cosa è quella di tener presente le differenze tra valori con una prova rispetto all’altra.
La resistenza ricavata con una prova a flessione è maggiore che quella ricavata con una prova a trazione (per una questione di probabilità).
In un materiale metallico, con comportamento omogeneo, ci ritroviamo con gli stessi valori di resistenza tra una prova ed un’altra; invece per un materiale ceramico in cui entrano in gioco anche i difetti, vi è una certa probabilità che questi ultimi ricadano proprio nella zona caricata maggiormente oppure nelle vicinanze, allora con la stessa probabilità si possono avere valori diversi di resistenza.
Detto ciò possiamo capire come le prove a tre punti diamo valori minori rispetto a quelle a quattro punti, proprio perché bisogna tener conto della probabilità che hanno i difetti di cadere in una zona più caricata o no. Questo implica, allora che ogni valore di resistenza per noi ha anche un significato probabilistico, ovvero tale materiale resiste a 100 MPa col 90 % di probabilità.
Questo è un approccio che cerca di considerare le proprietà del materiale ceramico indipendentemente dalla dimesione del difetto.
K misura la proprietà del materiale in modo intrinseco, ovvero non tenendo conto delle difettosità esterne del materiale.
Quindi k1 è la resistenza a frattura che va affiancata ai valori della resistenza a flessione (ceramico con difetti).
Per stabilire la resistenza intrinseca dei materiali ceramici, si utilizza un approccio della meccanica della frattura, tale da creare un difetto di dimensioni note e sollecitando il pezzo si studia la sua rottura attraverso la propagazione della frattura, che può avvenire attraverso tre modi, a seconda se il carico è applicato perpendicolarmente al crack oppure no.
Per la claybounded silica abbiamo una resistenza meccanica bassa, minore di 110 MPa, infatti, noi la studiamo per la sua proprietà di resistere agli shock termici.
Materiali interessanti sono i carburi, anche la mullite derivata dalla decomposizione di caolino ha una resistenza meccanica bassa, così come la grafite che però presenta un aumento di resistenza con l’aumentare della temperatura.
L’allumina ha solo 0.2% di porosità, allora ci aspettiamo valori alti di resistenza meccanica. Già col 5% di porosità, abbiamo una allumina poco resistente. I nitruri hanno una resistenza accettabile. Per il SiC si ha una resistenza che varia anche col metodo di fabbricazione. Per quello pressato a caldo ho una resistenza meccanica più elevata dovuta al fatto che diminuiscono i pori ed inoltre potendo sinterizzare a caldo diminuisce il coarsing, insieme al fatto che diminuiscono anche le dimensioni dei pori e dei difetti.
Quando abbiamo davanti un materiale fragile, come i materiali ceramici, che approccio dobbiamo intraprendere?
Il concetto di probabilità significa che se io vado a sollecitare un ceramico ad una serie di sforzi di diverso tipo, io ho un’alta probabilità che il ceramico si rompa ad alti sforzi e bassa probabilità che lo faccia a bassi sforzi.
Questa probabilità si esprime con una relazione esponenziale in cui la probabilità dipende dal valore dello sforzo applicato. Nella relazione, è importante ricavare il modulo b legato alla qualità del materiale:
b = 100 Þ materiale metallico Þ alta affidabilità;
b = 2,3 Þ materiale ceramico Þ bassa affidabilità.
b basso significa bassa conoscenza del valore di rottura del materiale.
Dai grafici si evince che con b crescenti si ha un transiente molto più stretto, andando così ad individuare con migliore precisione il punto di rottura del materiale.
Noi possiamo scegliere il nostro valore di sicurezza in base a questa probabilità. Consideriamo i grafici log p/log s: quando b aumenta, la pendenza della curva aumenta per traslare b devo considerare una migliore compattazione delle bolle, ovvero un metodo di fabbricazione diverso.
La b la posso aumentare passando da slip a hot pressing. Da notare che se b aumenta, di fatto risulta che la probabilità varia molto per piccoli range di resistenza meccanica, cioè la probabilità che un ceramico ha di resistere a certi valori di carico varia in modo elevato per piccole variazioni di s, questo comporta che l’indice di qualità è elevato, cioè il materiale è affidabile.
Questi meccanismi riguardano i materiali monolitici e sono quelli di:
Con la Zr possiamo sfruttare la tenacizzazione per trasformazione di fase come la trasformazione tetragonale-monoclino.
Tale trasformazione essendo di tipo espansivo è l’autrice della compressione superficiale, infatti in superficie ci sarà un’espansione dovuta alla trasformazione, mentre all’interno dove il materiale, non risente dell’abrasione superficiale e quindi non si trasforma, induce la compressione in superficie, che di fatto tenacizza. L’abrasione di fatto fa avvenire la trasformazione a tamb. della fase tetragonale metastabile in fase monoclina.
Anche questo meccanismo si basa sulla legge di griffith, cioè noi in maniera voluta introduciamo nel materiale piccoli difetti, attraverso l’espansione di ossido di zirconia da tetragonale a monoclino otteniamo delle piccole rotture, microfessurazioni, che sono tali da non degradare il materiale, ma sono tali da tenacizzarlo nella fa se di raffreddamento. Infatti, quando nel materiale si sta propagando una cricca di modo I, ovvero una rottura critica, noi abbiamo una rottura drammatica se si supera la legge di griffith.
Mentre se la cricca incontra le microfessure e si ripartisce in più parti, noi avremo una rottura duttile (ovvero abbiamo un aumento di resistenza) e non più drammatica.
Tale tenacizzazione dipende fortemente dalla frazione volumetrica di ZrO2 in matrice di allumina, facendo attenzione a non superare quella soglia critica che indebolisce troppo il materiale.
12a lezione 23/04/03
Fuell Cell
13a lezione 30/04/03
Presenta un polimorfismo distorsivo, ovvero al variare della temperatura presenta una stabilità in delle fasi strutturali che sono:
Il materiale si trasforma strutturalmente non per rottura dei legami, ma per deformazione della cella elementare. Per cui la cella elementare cubica stabile ad alta temperatura si allunga passando a tetragonale e si distorce passando a monoclina a temperatura ambiente.
Tali trasformazioni si spiegano dal fatto che il volume atomico dell’ossigeno e della zirconia variano con la temperatura, questo implica che nella struttura ionica dell’ ZrO2 , si cerca di avere il più alto impacchettamento, ovvero il minor spazio vuoto tra gli interstizi e, questo dipende da come si dispongono gli atomi più piccoli (cationi) negli interstizi di quelli più grossi (anioni). Ad alta temperatura il migliore impacchettamento per una zirconia è quello cubico.
Il fatto che tale materiale si contrae ad alta temperatura e si espande raffreddandosi provoca il nascere di tensioni interne, che rompono il materiale e pertanto provocano la “morte” della zirconia pura, che è inutilizzabile in quanto bastano escursioni molto piccole di temperatura perché si rompa.
Basta però, una piccola aggiunta di cationi alla zirconia pura perché sia stabilizzata e tale trasformazione sia meno cruenta.
La zirconia è un polimorfo di tipo distorsivo, cioè passando da monoclino a tetragonale riscaldandola si contrae in maniera vistosa invece che espandersi.
Quello che succede quando abbiamo dei sostituti aliovalenti, tipo sostituzionali, nella struttura cristallina della Zr è un diagramma di fase di questo tipo.
All’aumentare di tale % si aprono regioni in cui il composto si trova in forma metastabile e questo è dovuto al fatto che i cationi di ittrio, Mg e Ca sono componenti sostitutivi di quello di Zr e non interstiziali (ciò è dovuto alla loro dimensione: circa 101 pm contro 84 pm della Zr).
Quando ognuno di questi cationi prende il posto, nel reticolo, di un atomo di Zr si forma una struttura che ha grande incapacità a arrangiarsi, pertanto in base alla quantità che noi aggiungiamo di questi cationi aliovalenti, abbiamo una struttura con un grado più spinto a non trasformarsi rispetto alla Zr pura.
Per cui al variare della quantità di cationi sostituzionali abbiamo solo in parte, una regione trasformabile, inoltre delle regioni in cui coesistono regione cubica e tetragonale.
Aliovalenti significa che hanno pressoché valenza minore rispetto alla Zr.(Y=3, Mg e Ca =2). Quindi il fatto che noi introduciamo un catione aliovalente con difetto di carica positiva significa che per la neutralità elettrica del materiale noi dobbiamo introdurre delle lacune di ossigeno per impoverirlo di cariche negative.
Ad alta temperatura, queste lacune di ossigeno si muovano e rendono il materiale interessante tecnicamente perché lo rendono una resistenza a tutti gli effetti. La Zr diventa pertanto un conduttore solido ionico (l’ossigeno) e quindi avremo di fatto un ossido refrattario che conduce elettricamente (attraverso gli ioni ossigeno e non gli elettroni). Tali compositi sono utilizzati frequentemente nelle FUEL CELL.
Vediamo quali sono le composizioni miste tra Zr e Y in modo da avere una fase cubica ed una tetragonale (calcolata secondo la regola della leva). Scendendo giù, al di sopra di un certo contenuto di Y, abbiamo una soluzione solida cubica e monoclina.
In realtà, con dei trattamenti termici si possono migliorare le performance del composto. Per stabilizzare la Zr si utilizza spesso il Mg, sotto forma di ossido, perché costa meno che le terre rare.
Analizziamo due composizioni differenti, facendo il caso di aver formato l’oggetto di Zr per slip casting e dobbiamo scegliere la temperatura a cui sinterizzarla. Prendiamo una composizione con l’8 % di MgO. Partiamo da una temperatura di 1700 °C di sinterizzazione e abbiamo una forma cristallina cubica, quando poi lo raffreddiamo possiamo indurre una trasformazione martensitica (come negli acciai) se lo abbiamo raffreddato ad una temperatura minore di quella in cui è stabile la fase cubica.
Dal diagramma si evince che, stando in una zona in cui è stabile la soluzione solida con fasi tetragonale e cubica, avendo bisogno di una certa frazione volumetrica di fase tetragonale attraverso la regola della leva, stabiliamo la temperatura. Scendendo dalla zona cubica a quella sottostante il materiale comincerà a far crescere dall’interno della fase cubica la fase tetragonale (come nella trasformazione martensitica). Ovvero la distorsione del cristallo tetragonale genera questi cristalliti allungati all’interno della fase cubica.
Un materiale che ha questa forma è più resistente, cioè quando lo raffreddiamo, parte della Zr tetragonale, cerca di trasformarsi in monoclina stabile a Tamb, un’altra parte si trasforma martensiticamente, ma alla fine la struttura martensitica mi fortifica il materiale.
Un altro modo per rafforzare il materiale è quello di prendere il 6 % di MgO e quindi diminuendo la %, la fase cubica è stabile a più alte temperature. Questo fa si che sinterizzi il campione in una zona in cui ho fase cubica e tetragonale separate. Quando abbasso la temperatura, nella fase cubica può avvenire la trasformazione martensitica e poi la fase tetragonale si trasforma in monoclina separatamente. Questo materiale così complesso rappresenta una curva d’espansione ondulatoria perché sottoposto a riscaldamento la fase monoclina diventa tetragonale. Ciò implica contrazione, quindi il materiale invece di espandersi in maniera indefinita ad una certa temperatura si contrae; in definitiva ho un buon controllo modulato sull’espansione del materiale che resiste bene agli shock termici.
Questa curva dimostra come al variare dell’MgO ho un diverso mor. Da notare che se ci metto troppo, degrado il materiale. Questo è un modo per migliorare le proprietà del materiale, ovvero nucleando una fase tetragonale che può diventare monoclina o meno.
Consideriamo una Zr parzialmente stabilizzata in cui esistono due fasi una tetragonale e una cubica. La fase tetragonale (dispersa in piccoli grani)vuole trasformarsi in monoclina generando compressione in un materiale che si sta contraendo (mentre raffreddo) e allora tale trasformazione non è detto che avvenga. Alla fine è come se avessimo una fase tetragonale meno stabile che vuole trasformarsi, ma non ha la forza.
L’espansione può avvenire quando nel materiale si forma una cricca e allora la fase tetragonale si trasforma in monoclina espandendosi e quindi è come se mi ricucisse la cricca conferendomi tenacità alla Zr.
La Zr viene ricavata da una pietra naturale detta zircone (1 mole di Zr e 1 mole di Si). Il processo di produzione è simile a quello Bayern, cioè con un attacco in soda si produce il cloruro della Zr che sotto forma idrato si sospende nella soluzione mentre la parte della Zr e le altre impurezze restano sotto. Alla soluzione dei cloruri si aggiungono a livello molecolare gli stabilizzanti (Mg,Y), dopodiché il cloruro con l’aggiunta di soda lo si fa diventare idrossido che precipitato (variando il pH della soluzione) lo si tira fuori sotto forma di polvere.
L’idrossido calcinato ad alta temperatura si deidrata e otteniamo la polvere di Zr.
In un ugello viene fatto passare la soluzione con le polveri con un fortissimo flusso di aria calda che asciuga le polveri spruzzandole. Le polveri molto fini quindi s’asciugano senza aggregarsi.
La Zr stabilizzata con 3 moli di Y è quella che dà le performance meccaniche migliori. Si lega la Zr al legante idraulico che sarà allontanato attraverso il trattamento termico (a 150-500 °C) per aumentare l’efficienza della fase di granulazione.
Quando si utilizza il binder si ha il green machine, ovvero si lavorano le polveri con il legante. Notate che nel trattamento termico tra 150-500 °C bisogna andare molto piano tra 5-10 °C/h. Avendo polveri fini con legante e non essendoci canali o pori di scappamento nel campione, se si brucia velocemente, il gas di combustione che si genera nel materiale provoca tensioni interne che rompono il campione.
Superati i 500 °C si può aumentare un po’ la velocità di riscaldamento. Dopo il trattamento di presinterizzazione, vi è un ulteriore lavorazione (che è quella che facciamo noi a 1000 °C) e poi si rimanda a sinterizzare per 1-2 ore a temperatura più alta (1500 °C).
Vediamo la relazione tra la dimensione dei grani e il tempo di invecchiamento. Al fine di avere una zirconia stabilizzata performante nel tempo, cerchiamo di non avere la struttura monoclina stabile a Tamb., altrimenti il meccanismo di tenacizzazione non funziona più, allora il costruttore ci dice se rimane oppure no monoclina a lungo.
Questo di fatto dipende dal grano: se è grande ha la forza di espandersi, altrimenti se è piccolo è inibito dalla matrice intorno che è cubica (il campo di forze non fanno avvenire la trasformazione).
Se i grani sono abbastanza piccoli ci resta la fase tetragonale stabilizzata e solo una piccola parte in fase monoclina anche quando trattiamo termicamente il materiale sino ad una certa temperatura critica. Sul grafico si nota che a 230 °C col passare del tempo, se i grani sono di 1 mm (grossi) si convertono in struttura monoclina, assai facilmente, infatti dopo poco tempo aumenta di molto il contenuto di fase monoclina.
Notate che più i provini sono piccoli più i valori sono alti perché diminuisce la probabilità di trovare difetti. Ad alta temperatura l’effetto benefico della tenacizzazione non avviene perché abbiamo solo fase tetragonale e quindi la resistenza a flessione è paragonabile a quella dell’allumina, 350 Mpa, visto che non c’è possibilità di avere trasformazione monoclina che tenacizza.
La prova agli shock termici sono eseguite con 2 metodi: o tenendo l’acqua in ebollizione o facendo cadere il provino in un bagno di Al fuso(in questo secondo caso il DT è più alto).
E’ una combinazione tra quantità fisiche del materiale; ovvero è il rapporto tra: conduttività, quanta energia riesce a condurre e, quanta energia riesce ad immagazzinare, cioè è una capacità x densità = energia per unità di volume.
Il DT interno che si crea in un ciclo di riscaldamento e raffreddamento è inversamente proporzionale alla diffusività termica della stesso materiale.
La conducibilità termica si definisce come flusso di calore che attraversa il materiale. In maniera intuitiva leghiamo la capacità termica a chi conduce il calore. Quindi la conducibilità termica dipende dal numero e dall’efficacia dei portatori di calore, il libero cammino medio invece legato alla T è la misura di come questo trasporto è inibito.
Di un materiale solido, ci aspettiamo che aumentando la temperatura diminuisce la conducibilità termica perché aumentando gli urti tra le molecole diminuisce il libero cammino medio dei trasportatori di calore. Questi nei materiali ceramici, in cui prevale il legame covalente non sono certo gli elettroni. Però il calore inteso come trasporto di energia cinetica avviene attraverso la vibrazione del reticolo, ovvero i fononi, cioè vibrazione collettiva nel materiale, come le onde del mare.
Il trasporto fononico è tanto migliore quanto più il materiale è ordinato, ovvero tanto più ha una forma cristallina, infatti il diamante ha ottima conducibilità termica. Nel caso di materiali composti il fonone è dato dalla vibrazione collettiva di più reticoli, i quali se non sono sincronizzati non trasferiscono calore da una parte all’altra.
Elementi atomici con massa confrontabile allora possono costituire reticoli anche diversi, ma con vibrazioni in fase che trasmettono, mentre se la massa è molto diversa si ha interferenza e quindi non conduzione. Allora l’ossido di berilio è un buon conduttore di calore, mentre l’ossido di alluminio meno buono e l’ossido di zirconia è cattivo; proprio perché vi è differenza sostanziale tra le masse degli atomi.
Con l’aumento della temperatura la conducibilità termica diminuisce. Alcuni materiali (mattoni refrattari) hanno una bassa conducibilità termica, però con l’aumentare della temperatura essa aumenta non perché il materiale conduce di più attraverso il proprio reticolo, ma perché conduce in maniera diversa, ovvero in maniera radiativa.
Si spiega facendo riferimento ai legami chimici dei materiali. Dobbiamo distinguere se il materiale è prevalentemente ionico o covalente e quindi secondo la sua natura si espande molto o poco.
Un ceramico ionico si può assimilare ad un materiale metallico (fortemente impacchettato) e quindi con l'aumentare della temperatura e l’aumento delle vibrazioni atomiche si espande molto, hanno tale comportamento gli ossidi.
Di contro un materiale covalente non fortemente impacchettato non si espande molto per il fatto stesso che presenta un volume libero nella cella elementare, è come se assorbisse meglio le vibrazioni atomiche, si comportano così la grafite, SiC, ect.
L’espansione termica può assumere anisotropia quando l’impacchettamento è più spinto lungo una direzione piuttosto che in un’altra, quindi di fatto l’espansione avviene maggiormente lungo le direzioni con più alto impacchettamento.
Un ceramico policristallino di fatto può presentare isotropia, perché ha una distribuzione di grani in maniera casuale e quindi nel complesso è come se subisse un ‘espansione del tutto uniforme. Col carbonio invece avremo l’espansione più alta tra i piani (legame di Van der Wals) che nei piani in cui abbiamo i legami covalenti.
Un’altra osservazione è quando abbiamo anisotropia a livello della cella elementare, in cui l’espansione lungo una direzione causa il ritiro nell’altra direzione causando, in una distribuzione casuale delle celle una piccola espansione media del materiale nel suo complesso.
Sono ceramici ionici e quindi hanno alta espansione termica: MgO, Al2O3,ZrO2.
Sono ceramici covalenti e quindi hanno bassa espansione termica: SiC, mullite, grafite, carbonio.
Cordierite è anisotropica policristallina compensa l’espansione termica ed ha un elevata resistenza agli shock termici.
Il vetro di pura silica è quello tra i materiali ceramici che ha la più bassa espansione termica. Questo dipende dal fatto che è amorfo e poco impacchettato con molti spazi vuoti che assorbono l’espansione.
14a lezione 05/05/03
Il vetro piano visto come materiale essenziale per l’edilizia e l’autotrasporto è un materiale tecnologicamente molto importante. Esso non ha un elevato valore aggiunto,però, sottoposto ad una serie di trattamenti, può raggiungere un valore di due ordini di grandezza superiori a quello del vetro soda-lime come materia prima. Il vetro soda-lime è un vetro piano in cui è presente il 70-72% di ossido si silicio, il 14% di ossido di sodio, il 10% di ossido di calcio ed il 4-5% di materiale alcalino, alcalino terrosi come il magnesio e l’alluminio. Il vetro soda-lime fa parte della vita di tutti i giorni; basti pensare alle finestre, ai piatti, ai bicchieri. Esso viene, in genere, sottoposto ad una serie di trattamenti come nel caso ad esempio dei vetri usati nell’architettura di interni dove subisce un trattamento termico o chimico come la satinatura,cambiando così le propietà ottiche superficiali.
Già forse ai tempi dei romani ma soprattutto, poi, nel medioevo si incominciarono a produrre vetri appiattiti. La lavorazione del vetro non è una operazione semplice . Essa ha subito un lungo processo evolutivo che parte da una tecnologia manuale, tradizionale, di piccola serie ed arriva quasi ad un progetto semindustriale. Il processo di soffiatura del vetro è stato scoperto nel Medio Oriente e poi fatto proprio dai romani che lo hanno diffuso dappertutto, dalla Spagna alla Francia, in tutte le parti dell’impero romano ed in particolar modo in Egitto ed in Italia. Nel processo di soffiatura, all’interno di un crogiuolo dove si trova la massa di vetro fuso si inserisce una canna metallica. Questa viene fatta ruotare in modo che su di essa si vada a depositare la massa fusa detta bolo e si soffia dentro la canna così il bolo si gonfia e va ad assumere la forma dello stampo cavo in cui è stato riposto. Gli stampi possono essere di legno, metallici ecc.
Per quanto riguarda il vetro piano una prima tecnica usata per produrlo, consisteva nel tirare fuori l’oggetto cavo, molto allungato,nell’aprirlo, allargarlo, tagliarlo con una forbice lungo l’asse tutto intorno ad un lato e stenderlo su un piano . Il vetro così ottenuto presentava una forma vagamente piana , per niente regolare, non proprio liscia e soprattutto molto costosa.
La tecnica che si diffuse dopo questa fu la tecnica di tiratura della fornace. Nell’immagine del lucido sono raffigurati degli artigiani francesi al lavoro. Essi devono molto ai veneziani esperti vetrai che scapparono da Venezia ed andarono in Francia dove erano ben pagati. Il vetro veniva tirato dalla fornace, si appiattiva facendolo passare attraverso un rullo e poi successivamente si realizzavano dei poteri di tiratura dall’alto verso il basso. E’ facile riconoscere un vetro antico. Infatti basta verificare che esso non sia completamente piano ma presenti delle ondulazioni dovuto al fatto che i processi con cui era stato realizzato non erano perfetti.
Il punto di discontinuità tra le due tecniche è offerto dall’introduzione del processo Pilkington a partire dagli inizi degli anni 60.
Tale processo segna un punto di passaggio nella tecnologia di produzione del vetro. Il vetro è un prodotto a bassissimo costo perché è costituito da materie prime come la sabbia, la borace, la soda che sono comunque abbastanza economiche. Il fattore che incide maggiormente sul costo è l’utilizzo di vetro usato perché bisogna andarlo a prendere dalle case. Però la sua presenza è fondamentale perché abbassa la temperatura di fusione. Il vetro riciclato fondendo a più bassa temperatura fa si che i processi di diffusione, di trasporto che dalla silice portano al vetro soda-lime avvengano a temperature più basse. La presenza di una fase liquida in genere velocizza i processi di trasporto. Le fornaci utilizzate sono di grosse dimensioni 9m di altezza e 45m di lunghezza e contengono 1200t di massa fusa. Tipicamente la lastra che vieni fuori è in formato 6m*3.12m. Questa viene poi successivamente tagliata in formati più piccoli. Le grandi vetrerie lavorano direttamente su lastre grandi mentre quelle piccole su lastre di 3m*2.40m. Il vetro piano quindi può essere tirato fuori da questa enorme fornace a 1000°C avendo ancora una certa consistenza. Essendo viscoso, quando scorre attraverso il bagno fuso di stagno, non si mescola con esso e si raffredda. Questo letto fuso assicura che la superficie del vetro sia perfettamente liscia. Successivamente il vetro passa in un altro forno dove avviene l’annealing termico cioè il processo per cui gli stress di consolidamento vengono rilasciati piano, piano ad una temperatura vicina all’annealing point superiore. In questa fase la temperatura è tenuta ancora un pò al di sopra della T di transizione vetrosa ed il vetro può ancora rilasciare gli stress che sono dovuti al suo raffreddamento.
Durante il processo float è possibile ottenere il cosiddetto vetro basso emissivo ( low-E ) spruzzando e nebulizzando sulla lastra di vetro che sta scorrendo, cloruri metallici come il cloruro di stagno o di indio o una loro miscela. In questo modo, data l’alta temperatura, i cloruri subiscono un processo di rottura cioè si stacca il cloro dallo stagno ed il metallo ossidandosi va a depositarsi sulla superficie del vetro che è ancora calda legandosi in maniera abbastanza salda. Tale tipo di prodotto in paesi come la Germania viene fatto installare per legge per ridurre le dispersioni interne di calore. Il principio su cui infatti si base il vetro low-E è quello di ridurre l’emissività del vetro. L’emissività è quel coefficiente numerico che mi dice di quanto differisce l’emissione di un corpo rispetto a quella del corpo nero. Per la legge di Boltzman un corpo nero irradia un’energia pari a σT4 mentre nel caso di un corpo qualunque si deve moltiplicare la precedente quantità per una costante che nel caso di un vetro normale è 0.8 – 0.9 che è abbastanza alta .Ricoprendo la superficie del vetro però con un materiale che emette poco è possibile portare l’emissività al di sotto di 0.1 .
Il calore in genere viene trasmesso per conduzione, irraggiamento , convezione ed è la trasmittanza del vetro espressa dai produttori che tiene conto della somma di questi tre contributi. Un vetro normale ha una trasmittanza pari a 6 W/m2K che è un valore piuttosto alto ed al quale contribuiscono notevolmente soprattutto i contributi convettivi. Il coefficiente convettivo dipende dai moti dell’aria. La convezione è asimmetrica nel senso che ci sono dei valori medi più bassi all’interno e più alti verso l’esterno. Il coefficiente di scambio termico convettivo del vetro con l’esterno è 18 W7m2K mentre con l’interno è 6 – 7 W/m2K. Con il vetro camera si riesce ad abbattere questo coefficiente perché non c’è scambio convettivo direttamente tra il vetro e l’ambiente esterno ed il vetro e l’ambiente interno. Nei vetro camera, dato il limitato spessore dell’intercapedine (12 – 13 mm ) non si riescono a creare moti convettivi. Per ridurre ulteriormente il trasporto attraverso i moti convettivi si introduce nell’intercapedine un gas a minore conducibilità termica come per esempio l’argon . Si potrebbe creare il vuoto ma la pressione che si verrebbe a creare schiaccerebbe il vetro. Se si creasse il vuoto in una lastra di 1 m2 si genererebbe una pressione di 10 ton.
Nel vetro camera è inserita una fascia metallica, di alluminio che presenta tanti forellini che mettono in comunicazione la parte interna del profilato di Al che è riempita di zeoliti con la parte esterna. Le zeoliti assorbono l’umidità in continuazione anche se dopo un certo numero di anni, qualora la tenuta dovesse presentare dei fori risultando sature d’acqua non sarebbero più in grado di assorbire.
All’interno del nucleo del sole avvengono, a decine di migliaia di gradi, delle reazioni nucleari. La superficie del sole quindi risulta molto calda. Naturalmente si trova ad una T inferiore di quella alla quale avvengono le reazione; in genere si aggira intorno ai 6000°C. Questo significa che il sole irradia una quantità di luce da corpo nero che però è filtrata intorno al visibile. Osservando la curva di emissione si può vedere che essa non ha la forma a campana ma presenta dei picchi di assorbimento che sono dovuti ai gas dell’atmosfera tipo il vapore acqueo o l’ozono. Grazie all’ozono si eliminano parte delle radiazioni ultraviolette che sarebbero dannose per la vita dell’uomo. Poiché l’assorbimento dell’ozono permette di ridurre gli UVA e gli UVB del 100% di radiazione totale che giunge a terra, solo il 3% è rappresentato dagli UV, il 55% da energia infrarossa (800 – 900 ηm ) ed il 42% da energia elettromagnetica. Il vetro è un materiale ideale per proteggersi da questa enorme quantità di energia che piove dal sole. L’uomo come corpo riscaldato a 35°C ha un’emissione tra 9 – 10 μm mentre la radiazione solare si trova tutta tra 0 – 0.2 μm. L’uomo ha una emissione da corpo nero. Il vetro si trova nella condizione ideale di fare da finestra di trasmissione dell’energia solare. Tutta la luce del sole può essere trasmessa dal vetro che però al di sopra dei 6 μm di lunghezza d’onda comincia ad assorbire: su questo si basa l’effetto serra. In una serra la luce del sole entra, colpisce le cose che vi stanno dentro e queste a loro volta la riemettono per portarsi alla T circostante se non fosse per il vetro che non lascia passare nulla. Quindi attraverso il vetro è possibile controllare in maniera passiva o attiva i flussi energetici che vengo dalla fonte principale ossia dal sole.
15a lezione 07/05/03
Ci sono 1 o 2 strati di vetro che fanno la casa. C’è un sistema controllabile di apertura. In Germania tutti gli edifici sono di vetro: il vetro immagazzina energia. Le pareti si scaldano con il sole attraverso moti convettivi e si trasferisce aria calda in casa in inverno.
inverno giorno:il sistema è tenuto isolato verso l’esterno. Il sole incide sul vetro e riscalda aria e muro (effetto serra dei vetri ). Si chiude la finestra esterna.
inverno notte: si chiude tutto.
estate giorno: si apre la finestra esterna. Per effetto di trascinamento si creano moti convettivi che generano ventilazione in tutta la casa.
estate notte: l’aria fredda entra nell’edificio, circola e poi esce da sopra.
La radiazione elettromagnetica incide sul vetro. Il flusso incidente Æl è ripartito in tre contributi:
Æl = Ær + Æd + Æa
Il vetro come tutti i materiali trasparenti e lisci ha una frazione di luce riflessa:
R = [(n-1)/(n+1)]2
All’aumentare dell’indice di rifrazione n aumenta il contributo della luce riflessa. Nel vetro comune che ha n = 1.42, si ha riflessione totale dell’8%. La luce riflessa è 10 volte maggiore di quella che c’è dentro;ecco perché non si vede dentro gli edifici. La trasmittanza spettrale è il rapporto tra la luce incidente e quella riflessa.
Il fattore solare è il rapporto tra la quantità di energia trasmessa e la quantità di energia che incide. Per via dei moti convettivi dell’aria che sono maggiori fuori che dentro, il vetro, se è colorato, assorbe parte dell’energia luminosa; si assume che la quantità di energia assorbita per effetto ottico si ripartisce in una parte che è rimasta fuori per i moti convettivi dell’aria ed una che entra dentro. Il fattore solare tiene conto di quanto si guadagna anche dalla luce assorbita dal vetro. Il fattore solare è una frazione dell’assorbimento.
Possiamo distinguere tre tipi di vetro:
Il vetro chiaro riflette l’8%, ha un assorbimento del 9%. L’85% di energia totale viene trasmessa, il 15% riflessa.
Il vetro colorato nella massa assorbe il 45% di luce incidente di cui rimanda il 34% fuori e l’11% dentro.
Il vetro riflettente ha una riflessione del 26% e di quello che rimanda una parte è assorbita e una parte è trasmessa.
Una combinazione opportuna di vetri può aumentare la riflessione di colore ed ottenere isolamento termico.
La trasmittanza termica del vetro comune èdi 5 W/m2K. Nel caso del vetro basso emissivo la dispersione si abbatte di 5 volte. Una bassa trasmittanza isola dal caldo e dal freddo.
Il bilancio energetico è dato da: BE = S(-U*Gh + It*Fs)
Gh è la differenza media che si ha in un giorno tra interno ed esterno.
Finestre a controllo intelligente: sono finestre che controllano la quantità di energia assorbita e riflessa. Sono sistemi elettrici, tipo i cristalli liquidi che fanno oscurare o schiarire la finestra e sono legati alla polarizzazione della luce.
Queste finestre sono strutture multistrato che contengono strati elettricamente attivi. Si ha una lastra di vetro su cui si sovrappone una struttura di 5 strati. Come film trasparente si usa l’ossido di stagno puro che è un materiale abbastanza isolante; se invece c’è una piccolissima percentuale di antimonio il composto detto ATO diventa conduttore; questo perché l’antimonio è pentavalente mentre lo stagno è tetravalente quindi si introducono elettroni. Il vetro elettrocromico è una specie di pila che funziona al contrario. Si applica all’interno una differenza di potenziale tra i vari strati; polarizzando gli strati sovrapposti i protoni che hanno mobilità nell’elettrolita solido si spostano verso il polo negativo. Uno dei più usati è l’ossido di tungsteno che permette di avere un effetto reversibile. Il fatto di spostare i protoni nello strato elettrocromico fa si che il vetro diventi colorato. Se si polarizza nella direzione favorevole il vetro si colora; se si inverte la polarizzazione il catione è attratto nella direzione inversa e può tornare nell’elettrolita solido o immagazzinarsi al controelettrodo. In questo caso il materiale diventa trasparente.
L’ossido di titanio si classifica come semiconduttore ad alta energy gap: può assorbire l’energia elettromagnetica che sta nell’ultravioletto. Esso ha una proprietà super idrofilica. Una superficie idrofilica riduce l’angolo di contatto. Per irradiazione l’ossigeno si distacca dal titanio e si attacca ad un protone: la superficie risulta così ricca di ossidrili che la rendono idrofilica.
Il vetro si colora quando al suo interno ci sono specie che assorbono la luce cioè mettendo nella massa del vetro sottoforma di microcristalli dei metalli di transizione è possibile ottenere la colorazione. Nei metalli di transizione gli orbitali di tipo d sono degeneri. Se la radiazione ha sufficiente energia tale da far passare l’elettrone al livello successivo allora si ha l’assorbimento di luce ossia la colorazione. Quando un metallo di transizione è messo in una struttura cristallina si ha la degenerazione e gli orbitali d non hanno più la stessa energia.
Se non ci fossero gli anioni sia gli orbitali x y che x2y2 avrebbero la stessa energia. Gli orbitali non direttamente puntati verso gli anioni sono più agevolati perché a minore energia rispetto a quelli che sono direttamente puntati. Questo effetto del campo dei leganti determina il colore del materiale. Altro meccanismo di colorazione è il trasferimento di carica.
Dovuto al trasferimento dell’elettrone dal catione all’anione, questa transizione richiede molta energia quindi avviene nell’UV. Si possono utilizzare metalli nobili (oro, argento,ecc). in particolare si utilizzano gli ossidi di questi metalli che vengono ridotti e messi sottoforma di cristalli nella matrice di vetro. Se nel vetro ci sono cristalli di oro esso risulta fortemente rosso per via della nuvola elettronica intorno ai cristalli di oro che assorbe luce.
Vetro giallo colorato dalla presenza di Cr4 e Cr3+ . Il Cr determina trasmissione nulla tra 0 e 300 ηm cioè toglie il blu e si ottiene il giallo ed una spalla tra 300 e 500 ηm;
Azione dell’oro che assorbe abbastanza tutte le radiazioni che vanno dal visibile al verde: quello che rimane è il rosso cioè fa passare solo il rosso;
Vetro che ha forte assorbimento nel rosso e nel giallo e lascia passare il blu;
Vetro grigio assorbe tutte le lunghezze d’onda a noi visibili. Viene fuori dalla compresenza di tanti metalli di transizione nel vetro.
16a lezione 09/05/03
SEMINARIO SUI CERAMICI PIEZOELETTRICI
I piezoelettrici sono una famiglia di materiali che include anche i polimeri e altri tipi di metalli. Già la parola piezoelettrico è indicativa di quello che è il fenomeno che avviene in determinati tipi di materiali. E’ una parola che deriva da due parole greche piezei che vuol dire premere da cui è derivata la parola pressione e la parola electron che significa ambra e che ha dato origine alla parola elettricità. La piezoelettricità consiste nella conversione dell’energia da una forma meccanica ad una elettrica ,una conversione che può essere chiamata bilaterale o reversibile in quanto i materiali piezoelettrici sono dotati di un effetto piezoelettrico diretto ed un effetto inverso.
Guardando la prima figura si vede il materiale detto PZT, uno dei ceramici più diffusi sul mercato, a cui viene applicata una pressione. Questo materiale comincia così a vibrare sviluppando sulla sua superficie una certa carica elettrica per cui se viene posto tra due elettrodi, collegati ad un circuito,dal circuito è possibile misurare una tensione elettrica .Quindi se si volesse dare una definizione di effetto piezoelettrico diretto si potrebbe dire che è l’effetto che si riscontra in alcuni materiali che soggetti ad una pressione sviluppano una carica elettrica sulla loro superficie .Nella seconda figura invece si può osservare l’effetto inverso .Esso si presenta negli stessi materiali quando si applica però una tensione elettrica e quello che si osserva in uscita è una risposta di tipo meccanico cioè una deformazione meccanica che poi si traduce in uno spostamento .In altre parole il PZT sottoposto a questa differenza di tensione applicata dal circuito incomincia a vibrare.
In questa figura sono schematizzati l’effetto diretto e quello inverso .Quello diretto viene usato nei sensori. I sensori non fanno altro che captare una variazione che avviene in una grandezza fisica e tradurla in un segnale elettrico. Supponiamo che il materiale abbia una forma a parallelepipedo e che sia sottoposto ad una deformazione,, ad esempio una forza di trazione .Quello che succede è che si sviluppa una carica sulle superfici per cui collegandole con degli elettrodi si riesce a misurare la tensione diversa da zero .Quindi ad un input di deformazione meccanica corrisponde un output elettrico .Viceversa un effetto inverso viene utilizzato negli attuatori. .E’ l’effetto per cui applicando una deformazione elettrica si riesce ad avere un allungamento o un accorciamento. Questi accorciamenti sono nell’ambito degli Å quindi sono molto piccoli anche riuscendo a dimensionare opportunamente il materiale si riescono ad avere degli spostamenti anche nel campo micrometrico e non solo monometrico. In realtà gli spostamenti piccoli sono voluti per quei dispositivi di microelettricità come i laser o le microvalvole in cui si ha un allineamento perfetto. Un materiale piezoelettrico è in sé un trasduttore cioè un dispositivo che riesce a convertire l’ energia da una forma ad un’altra ed in particolare è un sensore o un attuatore a seconda dello stimolo con cui lo si eccita.
L’origine del fenomeno piezoelettrico da un punto di vista cristallino va ricercata nell’assenza di simmetria,di centro di simmetria in alcuni cristalli. L’assenza di questo centro fa sì che il cristallo non sia perfettamente neutro ma che presenti un momento di dipolo. Tra i materiali piezoelettrici esistono quelli naturali che sono stati scoperti alla fine del secolo scorso. Infatti possiamo dire che tale fenomeno è relativamente recente:è stato scoperto da Curie nel 1880. Successivamente, a partire dalla seconda guerra mondiale in poi, sono stati ottenuti una seria di materiali la cui natura piezoelettrica è conseguente al fenomeno di polarizzazione che altro non è che un’orientazione dei dipoli elettrici all’interno del materiale. Tra questi materiali che sono usati sul mercato nelle varie applicazioni moderne è possibile distinguere i piezoceramici che sono in genere materiali policristallini (es:titanato di bario,titanato di piombo etc),i piezocompositi che non sono altro che dei compositi in cui barrette vetroceramiche sono incluse in una matrice polimerica ed infine i piezopolimeri che sono proprio dei polimeri con un momento di dipolo totale diverso da zero e che, se vengono opportunamente orientati, acquisiscono proprietà piezoelettriche.
I piezoceramici sono materiali policristallini cioè costituiti da un gran numero di grani cristallini che sono orientati casualmente. Nella figura di sinistra si vede infatti come sono orientati random i dipoli elettrici all’interno della struttura. Poichè l’orientazione è random si dice che sono complessivamente neutri. Se però si applica un forte campo elettrico per alcuni minuti ad elevata temperatura si ha la situazione mostrata nella figura centrale cioè succede che tutti i momenti di dipolo all’interno del materiale sono orientati in un’unica direzione quindi è possibile che la struttura sviluppi una carica elettrica complessiva diversa da zero. Rimuovendo il campo elettrico di polarizzazione accade quello mostrato nella figura di destra e cioè che i momenti di dipolo rimangono allineati nella direzione di polarizzazione. I piezoceramici hanno trovato notevole utilizzo sul mercato perché hanno un’elevata efficienza di trasformazione, si potrebbe dire un elevato rendimento di trasformazione dell’energia da elettrica a meccanica. Essi sono anche facilmente lavorabili .Infatti è possibile ottenere una serie di forme diverse ed è possibile produrli anche in serie e questo li rende più vantaggiosi economicamente rispetto ai cristalli tradizionali.
Il problema fondamentale è che, così come vengono polarizzati durante l’esercizio, possono cominciare a depolarizzarsi e possono danneggiarsi per invecchiamento che non è altro che un decadimento delle proprietà piezoelettriche di questi materiali. Quello che si può dire è che le cause maggiori di questa depolarizzazione sono proprio l’esercizio di questi materiali in condizioni limite che possono essere alte temperature o alte pressioni meccaniche o alti campi elettrici sia statici che alternati. Esiste poi un limite obiettivo di questi materiali che è rappresentato dalla temperatura di Curie che è la temperatura alla quale si ha una transizione di fase. Quindi questi materiali cambiano completamente le loro proprietà piezoelettriche perché la loro struttura da asimmetrica comincia a diventare simmetrica. In genere la temperatura di esercizio è la metà di quella di Curie perché già a temperature prossime a quelle di Curie l’invecchiamento strutturale comincia a farsi sentire.
In questa figura è mostrata la struttura cristallina della perovskite che è una delle strutture cristalline più abbondante nei ceramici piezoelettrici. La prima immagine raffigura un piezoceramico che può essere un PZT o un titanato di bario prima che diventi piezoelettrico. Agli spigoli di questa cella elementare cubica ci sono gli atomi di piombo,al centro delle facce ci sono gli atomi blu dell’ossigeno ed al centro della cella c’è un atomo che nel caso del PZT è titanio o zirconio, nel caso del titanato di bario è bario. Per temperature superiori a quella di Curie la struttura è perfettamente simmetrica quindi è neutra cioè non ha proprietà piezoelettriche per cui, pressato il cristallo, non si misura alcuna carica elettrica. A temperature inferiori a quella di Curie ( immagine 2) l’atomo centrale si sposta con spostamenti molto piccoli pari a un decimo di Å. Questi spostamenti però sono tali da consentire di avere una certa carica ossia una carica totale complessivamente diversa da zero.
La curva che nel diagramma separa la regione di colore rosso da quella di colore giallo è la curva della temperatura di Curie a seconda delle diverse composizioni percentuali di titanato di piombo e di zirconato di piombo. Se si prende una composizione intorno allo 0,5 %, si è a temperature inferiori ai 350° e si è all’interno del campo rosso cioè all’interno del campo della struttura tetragonale. Quindi, quello che succede è che il materiale piezoelettrico riscaldato a temperatura maggiore di quella di Curie, si viene a trovare nella regione della struttura cubica dove non è più piezoelettrico. Questo vale però per i materiali che hanno già subito il processo di polarizzazione perché tutti questi piezoceramici non posseggono proprietà piezoelettriche prima di essere polarizzati.
Come si può ben vedere i coefficienti piezoelettrici hanno due pedici che indicano le direzioni elettriche e meccaniche dal momento che le proprietà di questi materiali confinano nel campo elettrico e meccanico. Considerando la terna destrorsa mostrata in figura si può dire che i pedici 1,2,3 si riferiscono agli assi X,Y,Z mentre 4,5,6 alle rotazioni intorno agli assi. Per convezione si assume l’asse Z come l’asse della direzione di polarizzazione.
I coefficienti più utilizzati per definire la bontà del materiale sono:
1) il coefficiente d detto di deformazione o carica che non è altro che la deformazione che si sviluppa per effetto di un campo elettrico applicato.
2) il coefficiente g di tensione che non è altro che la tensione che si riesce a misurare sulla superficie del materiale piezoelettrico per effetto di una deformazione meccanica che viene applicata.
Elevati valori del coefficiente d servono se si vuole realizzare un attuatore cioè un microposizionatore e stanno ad indicare che si deve sollecitare poco per avere una grossa risposta in uscita mentre elevati valori del coefficiente g stanno ad indicare che in uscita si ottiene un segnale elettrico molto elevato anche per stimoli esterni molto bassi e questo ancora vuol dire che se il materiale deve funzionare da sensore, riesce a captare molto bene gli stimoli dell’ambiente esterno e a dare un segnale molto elevato che si differenzia dal rumore di fondo. Quindi il rapporto segnale rumore è abbastanza buono.
A seconda di come viene sollecitato meccanicamente ed elettricamente il cristallo piezoelettrico può vibrare nel senso dello spessore oppure con oscillazioni di taglio. Tutto dipende dalla posizione relativa della deformazione rispetto alla direzione indicata dalla freccia che è la direzione di polarizzazione.
Altro coefficiente è quello di accoppiamento elettromeccanico che è una sorta di rendimento in quanto è la radice quadrata del rapporto tra due energie quella di output e quella di input. Se si sfrutta l’effetto piezoelettrico diretto in input si ha energia meccanica ed in output quella elettrica mentre accade il contrario se si considera l’effetto inverso. E’ possibile avere un vasto range di valori a seconda del materiale che si utilizza.
Due altri fattori che spesso vengono menzionati sono tan δ che non è altro che un fattore proporzionale alle perdite dissipative del materiale ed il fattore di merito Qm che è invece proporzionale alla banda del materiale .Quanto più un materiale ha Qm elevato,tanto più la sua banda di frequenza è ristretta. Qm può variare, a seconda del materiale che si sceglie,da 50 ad un milione. Un milione è un valore tipico della Qm nel caso del quarzo che ha una frequenza di risonanza precisa,esatta cioè una piccata sul quel valore di frequenza.
Nonostante esistano materiali piezoelettrici naturali, eccetto poche applicazioni, quelli che si utilizzano sono i materiali piezoelettrici polarizzati. Questo è stato il fulcro della ricerca le cui linee guide sono state : la necessità di avere un’elevata risoluzione,cioè di avere dei segnali che avessero breve durata ma che fossero spaziati molto bene nel tempo; la necessità di avere un’elevata conversione di energia da una forma ad un’altra che significa anche un segnale molto ampio ed un rapporto segnale rumore molto elevato; la necessità di avere materiali che potessero essere lavorati molto bene ed essere stabili sia a temperature elevate che a condizioni di umidità non proprio standard ed infine la possibilità di avere una buona lavorabilità e di avere più forme possibili. Sono state queste linee guida a spingere l’affermarsi dei piezoceramici piuttosto che dei monocristalli cresciuti con il metodo Cvokraski o con altri metodi che non consentono di realizzare un anello o un cilindro cavo.
E’ possibile fare ora una panoramica sui tipi di cristalli piezoelettrici più diffusi a cominciare da quelli naturali per arrivare ai piezoceramici e a tutti gli altri.
Il quarzo è stato uno dei primi materiali su cui si è scoperta la piezoelettricità. Ha una temperatura di Curie di 573° ed è molto stabile ad alte temperature. Sia i suoi coefficienti piezoelettrici che d e g non sono molto elevati però è ancora utilizzato per applicazioni come accelerometri ,detonatori (anche il quarzo dell’orologio funziona in questo modo)perché ha una banda piccata su una sola frequenza condizionando così il dispositivo su quella frequenza di lavoro. Un altro materiale è il nimbato di litio che è molto utilizzato in ottica perché ha buone proprietà elettro-ottiche . Pur avendo un’elevata Tc non può essere utilizzato ad alte temperature perché le sue ottime proprietà a cominciare da 50° degradano quindi alla fine viene utilizzato solo in applicazioni a temperature ambiente.
Solo a partire dagli anni 40 si è capito che il titanato di bario se veniva polarizzato poteva diventare piezoelettrico. Durante la guerra, prima gli americani e poi subito dopo i giapponesi cominciarono a fare ricerche scoprendo che anche altri ceramici come il titanato di piombo ed il metaniobato di piombo potevano diventare piezoelettrici dopo polarizzazione. Il titanato di piombo è molto interessante perché ha una Tc alta e la sua temperatura di attività è di 200-250°. Può essere usato anche in dispositivi picometrici o nanometrici quindi può trovare applicazione nelle nanosonde. Il metaniobato di piombo viene utilizzato per le sonde sonar invece a livello medico nelle sonde che si usano nelle ecografie.
Il materiale che però si è maggiormente diffuso sul mercato, anche perché è molto facile variarne le proprietà, è il PZT che è il nome commerciale usato per indicare la soluzione solida di titanato di piombo e zirconato di piombo con le percentuali indicate in figura. In corrispondenza più o meno del 50% di composizione di entrambe le sostanze, proprietà come la costante dielettrica ed il coefficiente di accoppiamento tendono quasi all’infinito. Non esiste una Tc ma un range perché questi materiali oltre a variare le loro proprietà con un piccolo spostamento della composizione in un senso o nell’altro, vengono drogati con altri elementi e quindi piccolissime percentuali di questi possono agire sulle loro proprietà. Per la presenza di questi elementi, i PZT si possono suddividere in due gruppi:
hard PZT o PZT ad alta potenza;
soft PZT o PZT ad alta sensibilità.
Gli hard PZT resistono bene alle elevate temperature ed hanno una Tc più elevata mentre i soft PZT hanno proprietà piezoelettriche migliori ma sono più inclini all’invecchiamento. Per quanto riguarda la produzione del PZT, ma questo vale per tutti i ceramici piezoelettrici, si parte sempre dalla polvere per poi arrivare alle forme complesse che non sono solo dischi pieni o cavi ma possono essere cilindri ed emisfere.
Uno dei processi più usati è quello di miscelare la polvere con un legante in modo tale da poterle dare un’opportuna forma,pressarla e poi sottoporla a combustione cosicché il legante va via ma la forma rimane consolidata. Successivamente con la sinterizzazione il materiale assume la forma ceramica desiderata. Dopo la produzione il materiale oltre ad essere soggetto a taglio, lucidatura, pulitura per migliorarne le caratteristiche di superficie viene elettrodizzato ed infine polarizzato.
In questo lucido è illustrata la tecnica dello stampaggio ad iniezione. Si miscela la polvere ceramica con un legante , il mix termoplastico ottenuto viene iniettato in un stampo e quando il materiale è consolidato viene estratto, bruciato per togliere il legante, sinterizzato ed infine sottoposto ad un forte campo elettrico.
I compositi piezoelettrici sono dei compositi in cui delle barrette piezoceramiche vengono immerse in una matrice polimerica. Un’alternativa a questa situazione può essere quella di mettere al posto delle barrette forme diverse (anche una specie di polvere ceramica ) scelte a secondo del tipo di applicazione. La configurazione con le barrette dà proprietà migliori rispetto a quelle dei piccoli granelli di polveri ceramiche. I compositi vengono soprattutto usati nei sonar o idrofoni perché hanno un’impedenza acustica simile a quella dell’acqua o del corpo umano. L’impedenza acustica èil rapporto tra la velocità del suono nel mezzo e la densità del mezzo stesso quindi diciamo che è una misura della resistenza che il mezzo oppone alla propagazione del suono. Poiché le onde acustiche, quando raggiungono l’interfaccia tra due mezzi, vengono in parte riflesse, se i due mezzi vengono ad avere impedenze simili le onde riescono a passare venendo riflesse minimamente. Nel caso dei sonar ad esempio si cerca di mecciare quanto più possibile l’impedenza del trasduttore con quella dell’acqua che è il mezzo che deve essere realmente diagnosticato per vedere se sono presenti degli ostacoli.
In questo lucido sono riportati i diagrammi che indicano come variano le propietà piezoelettriche al variare della frequenza e della frazione in volume di ceramico. Nel primo diagramma la linea bianca esprime la banda di frequenza dei piezocompositi che è molto più ampia rispetto a quella dei PZT convenzionali. Il secondo diagramma mostra invece come il coefficiente di accoppiamento rimanga costante per una frazione di ceramico che va dal 20% al 90%.
Nel grafico illustrato è riportato l’andamento dell’impedenza acustica in funzione della frazione di ceramico.
Il limite più grosso per un materiale piezoelettrico è rappresentato dal fatto che con la temperatura di Curie si ha una transizione di fase ed anche la depolarizzazione. Una serie di ricerche sono state effettuate per riuscire a trovare materiali piezoelettrici per elevate temperature e fino ad ora gli unici materiali trovati in grado di resistere a T veramente spinte intorno ai 1000°C (dai 500°C in poi ) sono dei monocristalli naturali.
Tutti i dispositivi piezoelettrici sono in genere mostrati nelle foto con un righello di riferimento proprio per dare un’idea delle dimensioni. Per i materiali indicati nel lucido non sono riportate le loro Tc ma le loro T di fusione ( Tm ) perché essi sono piezoelettrici fino alla fusione quindi non presentano una transizione di fase.
Ultimo tipo di materiali sono i copolimeri piezoelettrici. Essi sono usati ad elevate frequenze laddove i piezoceramici risultano troppo fragili e si rompono. Essendo polimeri sono comunque dotati di una certa duttilità quindi non si infragiliscono come i ceramici, presentano un range di frequenza elevato che può andare dai KHz ai GHz ed infine hanno una bassa impedenza acustica.
Questo lucido mostra come, prendendo in riferimento l’attività piezoelettrica, i PZT sia soft che hard facciano la parte da leone. Ciò si verifica perché i PZT hanno un range di Tc che va da 180°C a 250°C quindi con essi si può lavorare fini a 150°-160°C ed inoltre hanno un range dell’attività piezoelettrica che va da 600 a 180 C/N.
E’ stato già detto che a seconda che si utilizzi l’effetto piezoelettrico diretto o inverso un materiale lavora come sensore o come attuatore. L’effetto diretto prende anche il nome di effetto piezogeneratore quello inverso piezomotore.
Gran parte delle applicazioni si basano sugli ultrasuoni che sono delle onde acustiche. Il materiale piezoelettrico viene eccitato con una tensione elettrica alternata ad una certa frequenza, il cristallo si deforma ed inizia ad oscillare a quella frequenza producendo delle onde acustiche che vanno nel campo degli ultrasuoni essendo la frequenza elevata.
Nota: un cristallo vibra alle stesse frequenze dell’impulso che gli viene dato ma c’è un limite. Ogni materiale infatti ha una frequenza di risonanza alla quale vibra (la si può misurare mettendo il materiale in un circuito ) per cui la tensione alternata che si applica deve essere a quella frequenza o comunque ad una frequenza contenuta in una banda centrata sulla frequenza di risonanza. Se si applica una tensione ad una frequenza esagerata quello che si verifica è simile a ciò che accade quando ad un materiale viene applicata una pressione elevata meccanicamente.
I sonar sono un esempio di applicazione che si basa sugli ultrasuoni. Essi inviano queste onde sonore che si propagano fino a che non incontrano un ostacolo da cui vengono poi riflesse e fatte tornare indietro. Per risalire alla distanza alla quale si trova l’oggetto, conoscendo la velocità del suono nel mezzo, si calcola la differenza tra il tempo del picco di ritorno (2° picco) e quello del picco di andata (1° picco) e si sfrutta poi la formula d= v/t.
Ci sono applicazioni in aria cioè vengono usati industrialmente come contatori o per vedere semplicemente se un oggetto c’è o non c’è.
Nella seconda figura si può vedere che sfruttando l’effetto doppler si può misurare la frequenza di spostamento delle onde riflesse dalle particelle di liquido in movimento.
Due applicazioni interessanti dal punto di vista industriale sono la saldatura e la pulitura ultrasonora. La saldatura consiste nell’applicare una forte potenza ultrasonora su dei giunti che sono molto sottili ed in genere fatti di materiali termoplastici. Questi giunti ricevendo queste onde ultrasonore cominciano a vibrare, si spostano e si fondono perché si riscaldano per attrito. Naturalmente le temperature che si raggiungono non sono molto elevate per cui non viene usata al posto della saldatura dei metalli ma solo per saldare materiali termoplastici.
I pulitori sono abbastanza diffusi. Essi sono costituiti da vaschette che contengono all’interno dei trasduttori i quali emanano delle onde ultrasonore che generano cavitazione nel liquido assicurando così la pulitura di superfici anche complesse.
Tra le applicazioni elettroniche molto importante è quella dei filtri ad onde acustiche di superficie. Nella prima figura sono illustrati due filtri posti accanto ad un righello per sottolineare quanto sono piccoli. Questi possono essere usati nei nostri cellulari dove convertono il segnale elettrico in meccanico e poi nuovamente in elettrico con un fattore di conversione molto elevato e con un filtraggio molto pulito.
Un’applicazione curiosa è rappresentata dai sensori di retromarcia. Essi funzionano come i sonar anche se le onde acustiche che in questo caso viaggiano in aria si propagano molto male perché la velocità del suono in aria è di 240 ncontro i 6000 che si hanno in un acciaio, in un pezzo di alluminio.
Nella seconda figura è riportato un iniettore piezoelettrico non ancora commercializzato anche se molto studiato perché presenta delle proprietà che sono migliori di quelle degli iniettori tradizionali. Un iniettore può essere pensato come un cilindro cavo al cui interno vi è il combustibile ( benzina o diesel ). La parte finale, che è conica, è aperta e viene chiusa dall’asta bianca chiamata needle (ago o spina ). A seconda del comando elettrico inviato dalla centralina dell’auto il needle si alza e si abbassa. Si alza in corrispondenza del punto morto superiore o poco prima per consentire l’iniezione. Questi iniettori però non durano molto , al massimo 20 mila ore a causa dell’invecchiamento a fatica.
Tra le applicazioni di consumo si può citare l’accendino. Si applica una forte pressione meccanica sui due cilindri piezoelettrici che sono collegati, come mostrato in figura. Nell’arco di emissione o spartiacque si sviluppa una certa tensione ed infine si genera la scintilla. Altra applicazione sono i cavi piezoelettrici spesso usati come sensori nei sistemi di sicurezza. Sono costituiti da un polo centrale su cui è avvolta una pellicola , un piezopolimero e quindi poi un cavo coassiale che ha la sua guaina esterna di materiale plastico. Possono infine essere inseriti in dispositivi.
Altra applicazione è quella dei controlli non distruttivi che si eseguono con opportune sonde ( la sonda è la parte nera mentre la restante parte è la connessione elettrica ). Con queste sonde si manda un fascio di onde ultrasonore in un materiale e si vede l’eco di risposta. Se si conosce già lo spessore del materiale si sa anche più o meno a che posizione dovrebbe comparire il secondo eco.
Se l’eco non compare nella posizione prevista ma in una intermedia vuol dire che all’interno del materiale è presente un difetto perché alla prima discontinuità incontrata l’onda viene riflessa.
L’ultima applicazione è quella degli attuatori piezoelettrici cioè degli attuatori di spostamento. Sempre per il problema della fragilità del materiale non si utilizza un unico ceramico piezoelettrico che si deforma dello spostamento ma si utilizza una struttura multistrato con un impilaggio di cristalli che vengono collegati in parallelo e che riescono ad avere lo spostamento desiderato. A volte questi materiali vengono collegati con un sistema di leve che amplifica lo spostamento in fila. Quindi lo spostamento finale altro non è che la somma dello spostamento formato dall’attuatore più quello amplificato dato dal sistema di leve.
In questo lucido sono raffigurati un altro tipo di attuatori che anziché spostarsi linearmente deflettono perché sono due strati di materiali diversi che si muovono a frequenze diverse.
Questa applicazione è stata sviluppata nel laboratorio di materiali polimerici. Sono state costruite due sonde indicate dalle frecce rosse che hanno all’interno un cristallo piezoelettrico. Le sonde sono inserite sui rulli del reometro e mandano delle onde ultrasonore che attraversano il materiale e vengono poi captate dall’altro ricevitore. Ad ogni interfaccia si ha un’onda di ritorno , ma se il materiale è bene accoppiato la frazione che ritorna è minima. Il secondo eco viene sempre rappresentato più piccolo perché l’onda nel suo percorso attraverso il mezzo si attenua. Da una prova ultrasonora è possibile ottenere due parametri, la velocità e l’attenuazione che è il logaritmo del rapporto tra le due ampiezza di picco. Dal valore dell’attenuazione si può capire il tipo di materiale e quello che gli sta accadendo. In genere poiché i valori di velocità sono tabulati per i diversi materiali è possibile risalire al tipo di materiale sempre che sia puro e che l’accoppiamento fatto sia perfetto. Poiché la lunghezza d’onda che si da è al di sotto dei μm, se non si pone un gel accoppiante, la rugosità del materiale potrebbe essere confrontabile con la lunghezza d’onda. Senza accoppiante si possono avere dei solchi preferenziali e delle zone di aria che l’onda incontra scatterando e tornando indietro prima ancora di essere captata.
17a lezione 12/05/03
Qualsiasi oggetto ha bisogno per essere realizzato di qualcosa intorno il niente che lo circondi quindi la forma e il vuoto sono intimamente legati cioè senza uno ci sarebbe l’altro. La forma è vuoto ed il vuoto è gia forma. La forma non è diversa dal vuoto ed il vuoto non è diverso dalla forma. Quando dobbiamo costruire un oggetto in cui la forma originale è un cavo dentro lo stampo pieno e viceversa quindi la forma ed il vuoto che gli sta intorno è molto importante per disegnare sia gli oggetti grossi che quelli piccoli cioè la microporosità nella materia. Solo a livello convenzionale esiste una linea di demarcazione tra ciò che possiamo considerare materia piena e materia vuota. Se si prende una struttura che abbia 1000 ? cubi di volume cioè se si prende un cubetto di materia che abbia 10 ? di lato, quando è che si può dire che è pieno e compatto e quando è poroso? Si può ritenere vuoto o poroso quando andando a contare tutti i piccoli tetraedri che ci sono dentro al cubetto contiamo al massimo 20 – 21 tetraedri. Quindi quando si verifica questo abbiamo un materiale poroso in particolare se i tetraedri sono ben distribuiti in questo spazio in modo da lasciare piccoli vuoti il materiale è microporoso.
Quando il materiale è microporoso vale la legge di assorbimento di Langmuir che afferma che l’adsorbimento cioè le molecole di aria che vengono ad attaccarsi sulla superficie del solido si crea un equilibrio tra la superficie condensata del solido e le molecole d’aria che si vanno ad attaccare che a media pressione ricoprono interamente la superficie del materiale ed all’aumentare della pressione possono addirittura formare più strati adsorbite. Questo è quello che tipicamente si verifica infatti ogni corpo assorbe negli strati molecolari molecole gassose che stanno nell’aria ma quando il materiale è poroso queste quantità d’aria cominciano a diventare consistenti volumi.
Microporoso non vuol dire poro dell’ordine del micron ma poro la cui dimensione massima sono 20Ǻ; mesoporoso quando da 20 a 50 Ǻ e macroporoso da 500 a 1000 Ǻ. In questo ultimo caso a seconda della dimensione si può avere una porosità microcapillare, capillare e macrocapillare. Quando un materiale è microporoso quindi ha una dimensione del vuoto interno che può essere dai 7-10 ai 15 Ǻ quando lo riempite di azoto che ha 5 Ǻ di diametro della molecola si può al più farne uno strato molecolare cioè non si riescono a mettere due strati molecolari. Per i materiali microporosi, mesoporosi in cui il limite di assorbimento è un solo strato molecolare d’aria può valere la legge di Langmuir che mette in relazione, equilibrio la frazione di superficie del solido microporoso occupato con la pressione . All’aumentare della pressione questa frazione tende ad 1 quindi tutta la superficie di un solido microporoso a pressione ambiente si può pensare irpida di uno strato di aria. Man mano che il materiale aumenta la grandezza dei pori può ammettere l’assorbimento di più strati molecolari e quindi la legge di Langmuir non vale più.
Questa si può immaginare come la struttura di un materiale microporoso di natura neolitica che ha i tetraedri a formare dei canali la cui apertura, la finestra di accesso di questi pori è data dal numero di tetraedri del siliciche formano la struttura ciclica che vanno da un minimo di 6 ad un massimo di 12. I materiali microporosi di natura cristallina come le zeoliti la distribuzione dei pori è monomodale. Se si vanno a prendere 10 Ǻ di lato nella struttura delle zeoliti ci si accorge che il numero di tetraedri è piuttosto basso perché si tratta di un materiale microporoso. Ad una struttura di questo tipo si contrappone la struttura del gel di silice. Il gel di silice anzicchè avere tutti belli ordinati i tetraedri li ha in maniera del tutto disordinata per cui diventa più difficile parlare di una distribuzione monomodale dei pori. Questa distribuzione disordinata accomuna il gel di silice anche ai carboni attivi.
E’ uno dei parametri principali che caratterizza la porosità. Si definisce come quantità di superficie per unità di materia quindi è espressa in m2/g e si misura proprio in considerazione della proprietà del materiale di assorbire aria. Il metodo principale di misura è il metodo BET che si basa proprio sulla proprietà che ha il materiale di adsorbire.
L’assorbimento è il concetto generale per cui un gas viene dentro un materiale. L’assorbimento a sua volta si può distinguere in tre grosse tipologie:
adsorbimento che avviene sulla superficie del materiale;
absorbimento che è una proprietà del corpo del materiale perché l’assorbimento avviene nel volume e non sulla superficie dei pori;
chemisorbito.
Facendo adsorbire ad un materiale una quantità di aria a diverse pressioni si può misurare un certo andamento. Quello che si fa è svuotare un materiale microporoso dell’aria quindi portarlo sottovuoto all’interno di un’ampolla tenuta anche a bassa T e si cerca di imporre in questo ambiente una pressione che da bassa aumenta. Per fare in modo che all’interno dell’ampolla ci sia una certa pressione si deve riempire il materiale di azoto. Quello che succede è che con lo strumento che misura l’area superficiale si ha la possibilità di misurare esattamente la quantità in volume di aria introdotta nell’ampolla alle varie pressioni. Nel caso dei materiali microporosi dove l’ampolla anzi ha bisogno di decine e centinaia di volte la quantità d’aria perché questa aria è adsorbita sulla superficie. Nei materiali meso e macroporosi la teoria di BET che è più completa di quella di Langmuir praticamente dice che può essere assorbito un numero di strati molecolari variabili che aumentano all’aumentare della pressione e quindi aumenta il volume di gas assorbito secondo l’equazione di BET. Quindi pressione e volume vengono messi in relazione. Se il poro è più grande si assorbono più strati. Vm che compare nell’equazione di BET è il volume assorbito solo da questo monostrato. Dividendo tale volume ottenuto appunto con l’equazione di BET per lo spessore di uno strato molecolare che è il dimetro della molecola si ottiene la superficie specifica. Bastano 5 g di zeoliti per coprire un campo di calcio ed in questo risiede l’importanza della superficie specifica d’altra parte le zeoliti hanno una superficie piena di pori.
A secondo delle curve di assorbimento e di desorbimento di un gas possiamo capire come in qualche modo è fatto un materiale nella sua microstruttura dei pori. Quando un materiale è microporoso osserviamo tutto il contrario di quello che è l’assorbimento lineare. Nei materiali microporosi si ha solo adsorbimento quindi il termine assorbimento è in realtà l’adsorbimento. Un metodo diagnostico che abbiamo per studiare la caratteristica microstrutturale dei pori di un materiale è quello di vedere come viene assorbita l’aria.. A bassa pressione è possibile inzuppare una quantità enorme di gas ma non va mai all’equilibrio perché la superficie chiede sempre gas fino a quando non si riempe l’ultimo strato. Appena si aumenta un po’ la pressione vediamo che la quantità di gas assorbito fa un salto enorme. Se un materiale è però microporoso basta già un monostrato per riempirlo per cui a bassi valori di pressione va alla saturazione. Viceversa un materiale che è mesoporoso, può permettersi di essere riempito non solo con uno strato molecolare, ma consente ad alte pressioni che uno strato molecolare venga sovrapposto ad un altro strato e così via. Inizialmente la sua superficie è più bassa e quello si può riempire di una quantità di gas limitata a bassa pressione potendosi però poi riempire di più strati la pressione aumenata. Possiamo avere una quantità di volume che sale indefinitamente con l’aumentare della pressione e difficilmente raggiunge una saturazione.
nota: i gel possono essere definiti come una parte continua di materia compenetrata da una parte continua di gas o di liquido. A seconda di come viene fatto e del materiale che contiene può essere idrogel quando la fase continua è acqua, alcolgel quando è alcol, poi quando gli togliamo la fase liquida questo materiale può diventare aerogel o xerogel. Quando si fa un idrogel in genere si ottiene un materiale molto lasco per cui man mano che va via il solvente comincia a compattarsi quasi a collassare. Uno xerogel è un idrogel che evaporato del solvente si è debolmente compattato. Partendo da una situazione di bassa T e bassa p a cui abbiamo per esempio o l’acqua liquida o la CO2 liquida ed aumentando la T il materiale si espande e si aumenta la pressione arrivando così al punto critico (punto in cui non c’è più differenza tra liquido e gas). Una volta superato tale punto si comincia, mantenendo la T costante, a rilassare la p quindi a svuotare il materiale. Si porta così il materiale da un punto in cui è tutto immerso nel liquido ad un punto in cui è pieno tutto di gas e di gas a bassa pressione. Se facciamo compiere ad un idrogel questo cammino lo possiamo trasformare in un aerogel. E’ importante sapere che quando un materiale ha un menisco liquido dentro e questo sta evaporando per effetto della pressione e della tensione superficiale il menisco tenderà a far collassare il poro. Quindi se c’è in una fase liquida ed una fase gassosa l’evaporazione della fase liquida fa sì che man mano che essa evapora per effetto del menisco si ha una compressione, un collassamento della struttura porosa. Quando invece non c’è liquido né gas ma sono tutti e due la stessa cosa il liquido si può liberare sublimando lasciando intatta la struttura macro, micro porosa.
Ritornando alle curve di assorbimento si può vedere che le curve di assorbimento e quelle di desorbimento sono diverse infatti è presente un’isteresi. Tale isteresi dipende dalla struttura del materiale stesso.
In questo lucido sono rappresentati due tipi di materiali.
La prima figura mostra un materiale che è fatto in modo che le aperture dei pori e le dimensioni dei pori coincidano. E’ una struttura a cilindri che si intersecano in cui l’apertura del poro e le dimensioni del poro sono quasi uguali. Nella seconda figura invece è raffigurato un materiale che è costituito da particelle che a loro volta sono dei micropori, che sono più o meno compattate, cioè connesse ed incastrate tra di loro e quindi distinguiamo una dimensione media del poro ed una dimensione media della finestra che c’è tra il poro. La prima dimensione è maggiore della seconda, quindi la finestra di accesso è molto più piccola della dimensione stessa del poro. Allora, bisogna immaginare, quando il materiale è tutto pieno di più starti molecolari di gas, quindi all’interno di questo grosso poro, abbiamo una situazione in cui è tutto riempito di molecole d’aria; secondo la legge di BET, se ci fosse una porosità aperta, l’adsorbimento dipenderebbe dal n° di strati per la pressione. In queste condizioni però c’è un fatto che alzerà l’adsorbimento e il desorbimento e cioè il fatto che vengono desorbiti gli strati più spessi, quelli più esterni, però in corrispondenza della finestra, ad esempio, noi non abbiamo 5 strati ma 2 e allora il materiale per quanto voglia perdere gli strati, ha un collo di bottiglia che determina la fuoriuscita che avviene solo quando abbiamo bassa pressione che consente di desorbire le molecole degli strati più interni; per cui succede che la curva presenta un’isteresi, ovvero sino ad una certa pressione non desorbe niente e poi comincia a desorbire tutto e una volta; all’inverso di quello che avviene quando si satura che lo fa in maniera graduale, passando da bassa ad alta pressione.
Quando desorbe, da alta a bassa pressione, invece che svuotarsi lentamente come si è riempito, visto che vi sono tali finestre chiuse, che fanno da strozzatura, avviene l’isteresi.
Sono formate da silicati alluminati idrati che hanno impalcatura tetraedrica (struttura spaziale) e formano strutture interconnesse che possono contenere acqua e cationi. La caratteristica tipica di ogni zeolite è quella di contenere un gran numero di ioni alcalini, che sono richiamati nella struttura per poter compensare il difetto (eccesso) di carica che si forma, a causa che comunque anche i cationi dell’alluminio si trovano in siti tetraedrici. Ed essendoci ossigeni in tutti i punti, e non avendo quindi vacanze di ossigeno, possiamo compensare l’eccesso di carica negativa non compensata dagli ossigeni che vanno a coordinarsi con i cationi dell’alluminio, attraverso una certa quantità di ioni alcalini che introducono una carica positiva.
Le quantità relativa di alluminio e silicio è quella che determina la quantità di ioni alcalini che dobbiamo richiamare nella struttura per compensare la carica.
Nella tabella, a fianco di ogni nome commerciale si può notare la caratteristica dei pori di ogni zeolite. Poi abbiamo il numero di tetraedri che formano la finestra, ovvero l’anello. Dalla dimensione dell’anello risaliamo alle dimensioni delle finestre.
Poi il rapporto stechiometrico SiO2/Al2O3 che caratterizza chimicamente le zeoliti (infatti da tale rapporto dipendono poi gli altri componenti).
Nel grafico sono riportate varie zeoliti in funzione dell’apertura delle finestre, confrontate con le varie sostanze che possono essere adsorbite oppure no.
Notate che acqua, ammoniaca e idrogeno sono molecole molto piccole.
L’adsorbimento può essere espresso anche in funzione della frazione molare degli atomi alcalini presenti nella zeolite.
Infatti, i cationi del potassio che ha un ingombro maggiore costringe la struttura a compressione e quindi tenderà ad occupare più volume e a chiudere leggermente, pertanto, le finestre. Per cui le finestre che non sono interessate dai cationi potassio regolano il tipo di gas che può essere assorbito dalla zeolite.
Dal grafico si nota che in funzione della frazione molare di potassio rispetto al sodio, i grammi di adsorbito diminuiscono per ogni specie chimica considerata, tranne che per l’acqua che essendo comunque piccola, non è influenzata (o lo è minimamente) da tale scambio cationico. Di contro, l’ossigeno ne risente molto di tale fenomeno e basta già il 25% di potassio al posto del Na per non far passare più l’ossigeno.
Setaccio molecolare significa che con le zeoliti ho la possibilità di separare anche molecole con diverso ingombro sterico come n-ottano o iso-ottano; facendole passare attraverso determinate finestre di zeoliti.
Vediamo come si possono far avvenire nelle zeoliti delle reazioni selettive e in questo caso come si può avere selettività su più livelli.
Un primo livello è quello di far entrare nelle zeoliti solo alcuni tipi di reagenti. Poi una volta che sono entrati nella zeolite, tali reagenti possono reagire per dare solo alcuni tipi di composti, ovvero:
Potendo avere massimo 12 tetraedri per ogni finestra, un trucco per fare di una zeolite un materiale mesoporoso, cioè con pori > di 20 å è quello di ricorrere ai materiali templanti (che danno forma).
Il templante è una specie di stampo che consente di dare forma, in genere è un materiale pieno; in questo caso è una micella ricavata dall’aggregazione di un solvente polare di molecole di tensioattivo (sapone) che hanno una coda apolare con una estremità polare, che formano in acqua o delle bolle o dei cilindri.
Quindi tali materiali di natura nanometrica vengono inglobati durante il processo di cristallizzazione della zeolite, che viene praticamente sintetizzata a partire dal processo di cristallizzazione ad alta pressione e temperatura a partire da precursori che contengono silicio, alluminio, sodio e successivamente attraverso un trattamento termico, bruciando tali micelle, otteniamo dalla forma e dal pieno iniziale una zeolite mesoporosa.
18a lezione 14/05/03
IL CARBONE ATTIVO.
VETRI CATALITICI.
19a lezione 19/05/03
VETROCERAMICI.
20a lezione 22/05/03
La superficie di un materiale, in genere, cambia del tutto le proprietà del materiale stesso e soprattutto quelle di tipo ottico, elettrico, ovvero proprietà intrinseche del materiale, funzionali.
Il rivestimento ceramico riguarda diversi campi: quello dei motori e turbine in cui il rivestimento è fatto per conferire al materiale maggior resistenza termica, coibentazione termica.
Industria.
Scambiatori.
Inserti ed utensili, infatti, si presentano con punte gialle, che implicano riporto di nitruro di titanio, ottenuto con deposizione fisica sottovuoto.
Quindi, ci sono tutta una serie di applicazioni che fanno variare le proprietà di un materiale attraverso un riporto, addirittura in Inghilterra è nata una associazione nazionale che studia la scienza delle superfici, soprattutto nel campo della corrosione e l’anodizzazione delle superfici.
Normalmente, quando si parla di riporti si classificano i films in spessi e sottili, ovvero:
< 1 mm sottili;
>10 mm spessi, anche se di fatto non esiste una linea di demarcazione netta.
Un’altra classificazione invece distingue i due casi, considerando un rivestimento sottile, quando esso cambia le proprietà funzionali del materiale, invece un rivestimento spesso cambia le proprietà strutturali.
A questo punto si possono avere dei films che sono fisicamente sottili ma ritenuti spessi perché variano le proprietà strutturali del materiale (vedi quando si vogliono indurire le punte dei trapani) e films più spessi fisicamente dei precedenti, anche più di alcune decine di micron, e solo perché variano le sole proprietà funzionali (vetri antiriflesso) sono ritenuti sottili.
A questo punto, le varie tecnologie sono:
Questa tabella mette in evidenza varie caratteristiche peculiari delle diverse tecnologiche, vedesi tra tutte lo spessore, la porosità dei depositi e la temperatura di trattamento.
Notate che con il plasma si ottengono spessori grossi ma riporti prettamente porosi, ciò è dovuto anche al fatto che nella fiamma si porta il materiale da riportare ad alta temperatura sino a farlo fondere, ovvero viene atomizzato nell’aria del getto e poi fuso per essere infine spruzzato sulla superficie da rivestire.
La temperatura di trattamento, anche se nella fiamma il materiale atomizzato fonde a ~ 2000 °C, si mantiene < 100 °C, perché il materiale impattando con una superficie fredda scambia calore portando, al massimo gli strati più interni della superficie a temperatura prossima ai 100 °C.
Pertanto, questa è una tecnica che può essere utilizzata con i metalli che hanno già subito un certo trattamento termico e che non possono essere ricotti.
Per quanto riguarda il CVD, anche con esso si fanno spessori grossi che superano i 10 micron della tecnica a plasma. Ma ciò che lo caratterizza dal plasma è che non si hanno limitazioni sullo spessore del rivestimento, in quanto con esso si danno le velocità di crescita del rivestimento, piuttosto che lo spessore; infatti, esso crescerà sempre compatto e con le stesse caratteristiche.
L’unica limitazione si può averla sul tempo e questa limitazione resta legata alla velocità di crescita del deposito. Essendo tale riporto ottenuto dalla fase vapore, in cui le molecole si compattano sul substrato ottimizzando la loro deposizione e compattandosi per bene, si hanno per tali films, porosità bassissime. Di contro una caratteristica negativa è l’alta temperatura di trattamento richiesta. Questo, perché il CVD è caratterizzato da una reazione chimica che deve avvenire da una fase vapore, ovvero, esiste una cinetica di processo di tipo Arrhenius che fa dipendere la velocità di rottura dei legami di deposizione dalla temperatura, per cui una condizione stringente è quella di avere caldo e di conseguenza un materiale ceramico che resiste ad alte temperature come materiale da rivestire.
Una categoria di tecniche di deposizione che qui chiamiamo ion beam, sono tecniche di tipo PVD, cioè abbiamo una deposizione che non sfrutta la chimica come nella CVD, ma la fisica.
Tali metodi avvengono sottovuoto, ovvero si raggiungono vuoti che vanno sino 10-7 mbar.
Questa condizione è necessaria affinché il materiale evapori facilmente e anche perché i fasci molecolari siano meglio indirizzati nell’evaporazione termica, infatti, se la pressione fosse alta, allora i fasci urterebbero con le molecole presenti nel reattore e andrebbero dispersi.
In queste tecniche si può tenere il substrato, su cui si vuol fare la deposizione, a temperature basse o addirittura lo si può raffreddare ulteriormente se necessario, tanto è solo il materiale, di solito metallico, che deve essere depositato che si deve far evaporare sino a temperature anche di 600 °C.
L’unica nota negativa è che questi sono processi lenti, infatti queste sono deposizioni che avvengono molecola su molecola e nel vuoto, anche se di contro ci ripagano con l’assoluta mancanza di pori.
In ultima riga si possono notare le condizioni di deposito. Risulta chiaro che per la tecnica CVD, ci debba essere la presenza dei gas reattivi, perché essi sono i precursori del materiale ceramico che si andrà a depositare.
Per quanto riguarda il plasma, invece dobbiamo avere aria neutra, ossia in assenza di ossigeno o comunque se si vuole ottenere un materiale con riporto plasma di Zr o tungsteno dobbiamo fare in modo che ci arrivi sul substrato l’elemento puro Zr o tungsteno; cioè deve mancare quel materiale reattivo che ad alta temperatura si combinerebbe con la Zr e mi farebbe avere ossido di Zr, per esempio se avessimo ossigeno nell’aria, e quindi depositeremmo un ossido.
Allora, aria neutra sta ad indicare che bisogna essere neutra rispetto a ciò che vogliamo depositare. Ad esempio, ad alta temperatura l’azoto non va bene, perché si avrebbe la nitrurazione. Gli unici da utilizzare sarebbero l’argo, l’elio ed altri veramente inerti, che di contro costano troppo.
Rappresenta una tecnica fisica a fascio elettronico in cui abbiamo una sorgente di elettroni (può essere un filamento di tungsteno portato ad alta temperatura).
Questi elettroni sono attratti da un campo elettromagnetico trasversale che li fa deviare. Pertanto queste forti correnti sono focalizzate sul materiale che noi vogliamo far evaporare. Questo fascio di elettroni quindi si presenta come una sorgente energetica molto concentrata che fa evaporare il materiale usato da riporto.
Il movable shutter, serve per controllare lo strato depositato, infatti togliendolo il materiale evaporato investe direttamente il materiale da ricoprire(substrate holder).
Sputtering=sputacchiare.
E’ un processo che avviene, a bassa pressione, dove un gas Ar ionizza attraverso una fortissima scarica elettrica e diventa una specie di plasma , ovvero, dissocia gli elettroni dalle molecole.
L’argon, ionizzato e carico positivamente, sbatte sul target caricato a radiofrequenza e produce la fuoriuscita delle specie dal target che , infine si vanno a depositare sul substrato. La caratteristica principale del target è quella di fornire il materiale che evapora e che deve essere depositato, quindi è soggetto ad usura ed inoltre deve essere metallico in quanto se non lo è e se non caricato in radiofrequenza, succederebbe che l’argon si depositerebbe su di esso avendo un catodo non conduttivo e lo isolerebbe , non consentendo la fuoriuscita delle specie interessate.
Il plasma è uno stato della materia, in cui per effetto dell’altissima temperatura e quindi dell’energia cinetica di uno stato gassoso, liquido gli elettroni non possono essere più contenuti nelle shell della materia, del gas o del liquido e quindi si delocalizzano rispetto all’atomo a cui appartengono, quindi quando ciò avviene si ha lo stato di plasma, che si verifica a temperature molto alte, anche più della temperatura di fusione e/o di vaporizzazione. Infatti è la temperatura alta che conferisce molta energia cinetica agli elettroni, i quali non riuscendo a stare più confinati nelle shell di partenza generano il plasma, delocalizzandosi.
Sul grafico si legge l’energia cinetica del gas in funzione della temperatura.
Notate che si passa allo stato di plasma sempre attraverso una dissociazione prima, della materia di partenza, in più poi, a più alte temperature si ha la scissione di ogni singolo atomo in protoni ed elettroni per arrivare ad avere il plasma. Si può saltare la fase di dissociazione solo per quei gas monoatomici come argon ed elio.
Sicuramente è molto più facile ottenere un plasma da una fase gassosa che da una fase solida, infatti bisogna tener presente che per ottenere lo stato di plasma bisogna raggiungere temperature molto alte, che sono più facilmente raggiungibili dai singoli atomi che non da un solido.
“FLAME SPRAY”=spruzzo attraverso una fiamma.
In figura si vedono due tecniche simili, ma diversificate solo per il materiale di apporto, ovvero, nella prima si ha il riporto da filo, nella seconda da polvere.
Si utilizzano degli attrezzi, forniti di ugelli nei quali passano i gas combustibili e comburenti che si incendiano in prossimità del becco, producendo elevatissime temperature.
Attraverso la zona ad alta temperatura in prossimità del becco si fa passare il filo di riporto che fonde e si disperde nel flusso d’aria che impatta a sua volta sul substrato su cui si fa il rivestimento.
Parallelo a tale metodo vi è quello che utilizza le polveri, in sostanza è del tutto uguale al primo tranne che per il fatto di avere un effetto Venturi tra i diversi condotti, in cui l’aria compressa o i gas aspirati, creando una depressione in prossimità della sezione del condotto delle polveri, si aspira e si porta via con se le particelle di quest’ultime che miscelate col flusso di gas combustibili e comburenti a 300 °C fondono e contemporaneamente vengono spruzzate sul substrato da rivestire.
Bisogna notare comunque che queste particelle fuse non impattano sul substrato a 3000 °C, ma a temperatura molto più bassa, in quanto parte di tale calore è servito a fonderle. Inoltre, la velocità delle particelle tra flame e plasma è molto minore infatti, pur avendo un sistema di aria compressa e ugelli non si raggiungono mai le accelerazioni che si hanno in campo elettrico.
Questi sono gli schemi di torcia al plasma in cui si hanno dei gas inerti come Ar e idrogeno che attraversano un ugello tenuto a differente potenziale rispetto al becco superiore da cui fuoriescono i gas.
Queste alte ddp generano la scarica intensissima che ionizza i gas e dà vita al plasma. Successivamente, tale plasma investe le particelle del materiale che vogliamo riportare, in modo che fondino e si depositano sul substrato da rivestire in cui solidificano velocemente.
La differenza di tale processo con lo sputtering, sta nel fatto che lo sputtering è un PVD, mentre qui abbiamo un plasma con polveri, il primo è molto lento e si tratta di una evaporazione a livello molecolare che ricompattandosi da bassi valori di porosità, qui invece abbiamo delle polveri che lasciano alla fine un’alta porosità.
Esempio di un impianto da vuoto, attraverso tante camere da “sputtering” avviene la deposizione su lastre di vetro, anche di diversi materiali, ognuno contenuto in una diversa camera.
Illustra gli spessori dei riporti in funzione delle tecnologie utilizzate. In particolare, l’impiantazione ionica è quella che in assoluto mi dà spessori più piccoli, anche perché tratta un atomo alla volta e pur avendo energie cinetiche elevate più di tanto non può penetrare nel substrato da rivestire.
La nitrurazione è già più spessa perché entrano in gioco anche effetti diffusivi dell’azoto dissociato che, danno spessori maggiori anche rispetto al plasma.
Infatti, col plasma si hanno oltre che specie gassose, anche il materiale da riportare; invece, con la nitrurazione il metallo si ha già, ciò che si fa diffondere è il solo azoto.
E’ un processo chimico, che quindi utilizza reagenti chimici che sono precursori di materiali ceramici i quali miscelati con un solvente mi danno una sospensione colloidale che deve essere attivata, attraverso H2O e catalizzatore, in modo tale che sia reattiva a dare il SOL.
Questo SOL che è reso stabile nel tempo è il punto di partenza per fare diverse cose: rivestimenti ceramici, ma anche fibre, facendo aumentare adeguatamente la viscosità.
Se il SOL non è invece stabilizzato e le reazioni che avvengono formano delle particelle che si uniscono tra di loro, abbiamo il GEL. In alternativa se la crescita delle particelle è incontrollata si arriva alla produzione di polveri ceramiche, e questo è il metodo quindi che si può utilizzare per farsi qualsiasi tipo di polvere il laboratorio, con qualsiasi caratteristica.
Una volta ottenuto ciò che si desidera si ha una fase di essiccazione e una successiva cura termica che a seconda del processo termico mi dà un diverso tipo di mnateriale ceramico.
Ciò che differenzia questi vetri per SOL-GEL con uno tradizionale, in cui si ha la solidificazione da liquido, è che qui si parte con una fase amorfa già nella formazione delle prime particelle nella soluzione e poi per sinterizzazione viscosa attraverso il collasso dei pori si ha il vetro.
Vediamo come la viscosità può darci diversi tipi di materiali in funzione del tempo.
Il GEL è un sistema che se non controlliamo per bene, è molto reattivo e col passare del tempo evolve naturalmente.(solidifica?)
Al crescere della viscosità, allora, possiamo fare diversi tipi di usi delle sospensioni colloidali. A bassa viscosità si possono fare films e colate all’interno dei forni. Addirittura facendo aumentare di molto la viscosità si possono tirare le fibre.
Gli alcossidi sono dei metalli o metalloidi legati a gruppi alcossidici (OR). Questo gruppo legato al Si dà l’alcossido del silicio che subisce due reazioni molto importanti in presenza di H2O.
Quella di idrolisi: al posto di un gruppo organico (alcossido) subentra un gruppo idrossido (OH) e questa reazione è facilitata da un punto di vista energetico perché OH è più elettronegativo di OR. Quindi c’è una tendenza piuttosto lenta, quando combiniamo un alcossido con H2O perché ci sia una reazione di idrolisi in cui l’alcossido iniziale subiscauna sostituzione parziale o totale dei suoi gruppi alcossidi con OH (gruppo idrossido).
Dopodiché la reazione importante di policondensazione è quella che porta due molecole già reagite a formare un legame a ponte dell’ossigeno, grazie alla presenza dei gruppi idrossido, con rispettiva espulsione di H2O.
Questo è un primo step della reazione di solidificazione, cioè da una molecola abbiamo un dimero. A differenza di un polimero organico che ha funzionalità due e quindi genera una lunga catena, qui ci troviamo con una funzionalità pari a quattro, per cui tutti e quattro i rami del Si possono reagire a formare un solido nello spazio.
Quindi, si può immaginare un solido ottenuto per Sol-Gel, attraverso miliardi e miliardi di reazioni di idrolisi e policondensazione che generano una struttura nello spazio lungo ognuno dei quattro rami reagenti del Si.
Potete immaginare come si possono sviluppare strutture di tipo a catena (polimerica) e strutture tipo a network a seconda che il numero medio di gruppi funzionali reagenti (gruppi che si sostituiscono o idrolizzano per ogni alcossido), sia due o sia quattro.
Così facendo noi possiamo controllare attraverso la funzionalità degli alcossidi, la reattività della molecola a idrolisi avvenuta. Per cui a seconda che si abbia un catalizzatore di tipo acido o basico, posso avere per il primo caso strutture, tipo lunghe catene intrecciate tra loro, contro strutture più compatte a network per il secondo caso.
In un ambiente acido si può pensare di avere in soluzione dei gruppi protonati (H3O) +. La reazione chimica avviene perché il protone è attratto dal gruppo OR. Cioè l’ossigeno dell’H2O con il Si, non si attraggono subito per motivi sterici, ma il gruppo carico si avvicina progressivamente al gruppo alcossido. Quindi, inizialmente si ha un attacco elettrofilo. Questo tipo di reazione elettrofila avviene a seconda del numero di OR attaccati al Si, cioè questo tipo di reazione è più probabile che avvenga su quelle molecole con più OR e allora abbiamo la tendenza di avere molecole con funzionalità due (due OH sostituiti a due OR).
Successivamente si scatena l’idrolisi, con il gruppo ossidrile al posto del gruppo alcossido e l’espulsione di alcool.
Quindi, in una condizione acida tale tipo di reazione farà in modo che si sostituiscano pochi OH con gli OR e quindi si ha una formazione di particolato a catena (polimerica).
Mentre in catalisi basica l’OH- (carico negativamente) è attratto dal nucleo, ovvero ho una reazione maggiormente nucleofila, cioè viene direttamente attratto dal silicio in maniera tanto più forte quanto più il Si ha carattere cationico (protonico).
Quanto più i gruppi OH- (fortemente elettronegativi) sono attaccati al Si più tale reazione è ionica e più il silicio è svuotato di elettroni, quindi tende ad essere più elettrofilo.
Quindi più ce ne sono di gruppi idrolizzati, più l’OH- tende ad essere attratto; quindi, le sostituzioni di OR con OH- sono più probabili nelle molecole che ne hanno già avute rispetto a quelle che non ne hanno (e questo perché quante più sostituzioni ci sono state tanto più cationico è diventato il Si). E quindi in questo sistema si tende ad avere una struttura con quattro funzionalità OH-, più compatta e reticolata.
Il concetto di frattale è collegato ad un oggetto, la cui massa non cresce come dovrebbe crescere in un materiale pieno.
Per un materiale che cresce ramificato come una foglia, la sua superficie cresce più velocemente che la sua massa. Nel caso della sfera, superficie e massa crescono entrambe con dimensione tre, mentre per un frattale la crescita della massa è minore di tre, ovvero cresce con una potenza minore rispetto alla potenza con cui cresce la superficie.
Il frattale quindi non è altro che un materiale che crescendo, vede aumentare la sua superficie, più velocemente che la sua massa.
Partendo dal quesito di come si originano le sfere, vediamo che siam partiti dall’alcossido e lo idrolizziamo, fornendo dimeri, oligomeri e particelle a seconda delle condizioni di pH, ovvero in condizioni acide o basiche, posiamo avere:
pH <7 (acida), cresce un frattale che si espande e può dar vita ad un gel;
pH >7 (basica), abbiamo la tendenza a formaregrosse particelle.
Quindi virtualmente possiamo creare particelle piccole, facendo crescere questi frattali e poi ad un certo punto bloccandone la crescita, oppure ottenendo la crescita di particelle sferiche facendo in modo che il materiale non gelifichi (basta agitare energeticamente) e allora per addensamento complessivo del materiale intorno a tali particelle in crescita si ottiene la generazione di microsfere che crescono di forma molto precisa.
Dopo aver formato le particelle piccolissime per (Sol-Gel?) si può immergere una lastra di vetro, che tirata su ne trascina uno spessore di liquido tale che, una parte di esso (il solvente) evapora per lasciar condensare e aggregare la parte di sol polimerico che si intreccia e gelifica e se il film è più polimerico collassa compattandosi, altrimenti se è più di tipo particolato, questo film rimane più poroso.
Si può notare la contrazione più la perdita di peso del materiale in funzione della temperatura. Inoltre, la perdita di peso è dovuta anche alla eliminazione di solvente o H2O durante le reazioni di policondensazione, che procedono sia nella soluzione che fuori dalla soluzione per effetto termico a secco. Questi importanti aspetti servono per lo studio degli aerogel.
21a lezione 26/05/03
I fillosilicati ed i tectosilicati sono i materiali più abbondanti sulla crosta terrestre. I tectosilicati sono della strutture formate da tetraedri di alluminio e silicio fatti ad anelli di quarzo e si replicano orizzontale,verticale, orizzontale,verticale. Si tratta di una struttura a 4 tetraedri, compatta rispetto a quella delle zeoliti che formano degli anelli a 8. Erodendosi formano delle strutture lamellari che sono le argille.
Le argille sono dei materiali tipicamente naturali che si sono formati per sedimentazione. I feldspati che sono silicoalluminati idrati contengono ioni alcalino, alcalino-terrosi e sono i materiali più comuni che vengono fuori dalle eruzioni dei vulcani e , quando solidificano, formano delle strutture tipo tectosilicati. Questi feldspati hanno quindi una struttura cristallina che deriva da una cristallizzazione a pressione atmosferica che li fa solidificare. Essi sono praticamente erodibili dall’acqua ed in seguito all’erosione si formano tanti silicati che poi andando nei fiumi si vanno a ricondensare, a collegare con altri strati in modo da formare le argille. La formazione degli strati lamellari di argilla avviene a bassa T. Le argille possono essere di due tipi: primarie o secondarie. Esse sono primarie quando il feldspato viene eroso e trasportato dall’acqua dove ricristallizza sottoforma di argilla. Un esempio di queste argille sono i caolini che sono molti duri proprio perché, data la poco distanza percorsa non si contaminano molto con un’altra serie di prodotti. Essi sono secondarie quando per effetto della lunga distanza percorsa dalla roccia erosa a dove si ricondensano, i sali alluminati praticamente si mischiano con un’altra serie di prodotti. In questa categoria può rientrare la montmarillonite che quindi è un’argilla secondaria in cui oltre al silicio ed alluminio ci sono tanti altri cationi tipo alcalino, alcalino-terrosi.
Le argille che quindi sono dei silicati idrati di alluminio o magnesio hanno come unità strutturali tetraedri di silicio al posto del quale si può sostituire l’alluminio ed ottaedri di alluminio o magnesio o ferro. Quando c’è l’alluminio c’è un problema di carica. L’alluminio ha valenza 3 il magnesio 2. L’alluminio forma delle argille che si chiamano diottaedriche mentre quando c’è il magnesio si hanno argille dette triottaedriche. Gli ottaedri sono di più quando c’è il magnesio rispetto a quando c’è l’alluminio. In qualche modo l’argilla può essere pensata come una sintesi di materiali inorganici realizzata a bassa T e quindi senza bisogno della fusione come nel caso delle rocce metamorfiche oppure di quelle che solidificano in seguito alle eruzioni vulcaniche. Le argille si formano a T e p ambiente. Quando due gruppi OH di uno strato tetraedrico tendono ad avvicinarsi questi condensano dando acqua. All’interno di uno strato per esempio ottaedrico, se si va a sostituire ad un catione allumino un catione magnesio, si crea un difetto di carica e l’ossigeno che non compensa la valenza dell’alluminio tende a caricare lo strato ottaedrico negativamente. Lo stesso avviene quando al posto del silicio dello strato tetraedrico si sostituisce l’alluminio. Il silicio ha valenza 4 l’alluminio 3 quindi dà all’ossigeno un eccesso di carica negativa. Allora possiamo vedere dell’argille cariche negativamente perché c’è stata una sostituzione nello strato ottaedrico o in un tetraedro e le propietà delle argille cambiano in modo radicale a seconda che è avvenuta l’una o l’altra cosa. Questo accade perché quando avviene la sostituzione nello strato tetraedrico l’ossigeno non compensato sta molto vicino alla parte esterna della lamella quindi quando intercetta il catione alcalino se lo tira forte a sé e lo lega mentre se la carica non compensata sta tra gli strati tetraedrici cioè su quello ottaedrico il catione risente di un effetto di attrazione negativa però è separato dall’ossigeno non compensato per cui sente un’attrazione ma delocalizzata e blanda. Questo è il motivo per cui materiali come le miche che sono anche dei fillosilicati sono totalmente diversi dalle argille. Nelle miche che pure contengono silicati, alluminati di ioni alcalino, alcalino-terrosi la sostituzione dell’alluminio negli strati tetraedrici fa si che gli ioni che fanno parte degli strati lamellari vengano legati molto fortemente quindi le miche non sono sfogliabili, lavorabili come le argille. Esse sono isolanti e resistono bene alle alte T.
Tra i materiali micacei abbiamo la muscovite. In mezzo alla muscovite troviamo solo alluminio quindi è una struttura che non ha difetti di sostituzione mentre negli strati tetraedrici abbiamo il simbolo del cerchio con il punto dentro che sta a significare che può essere o silicio o alluminio. Se c’è alluminio questo tende ad attrarre, a legare in maniera ionica ed abbastanza intensa lo ione alcalino e questo forma la mica che è refrattaria. Invece nel caso della montmarillonite ( che ha struttura TOT ), nello strato tetraedrico, si ha solo una trascurabile sostituzione di silicio con alluminio quindi gli strati tetraedrici non sono responsabile della carica se non in maniera trascurabile. Nello strato ottaedrico vi è una sostanziale sostituzione di ioni magnesio al posto di quelli di alluminio. Questa carica negativa in eccesso viene saturata con sodio e calcio.
Il fatto che la montmarillonite risenta ma solo alla lontana della carica che sta in mezzo agli ottaedri fa si che questo effetto di attrazione sia abbastanza delocalizzata e che gli ioni alcalino – terrosi possano cambiare posto ed eventualmente essere attratti dall’acqua. L’acqua può entrare tra gli strati e come conseguenza questi materiali possono delaminarsi. A ciò e dovuto anche la plasticità.
Nelle lamelle in genere i tetraedri sono legati in modo da formare un piano; i vertici e le basi sono tutte collegati tra di loro. I vertici che sono dalla parte dove le basi non sono legate tra di loro si legano con reazioni tipo condensazione come quelle viste nel processo sol gel. Quando il vertice di un tetraedro si trova libero può, per esempio, essere pensato collegato con un OH. Quando tale gruppo ossidrile vede il gruppo ossidrile nell’ottaedro dove c’è per esempio alluminio e magnesio OH e OH possono condensarsi e formare questi strati TOT.
Tra le diverse strutture dei fillosilicati esistono diversi tipi di legami come le forze di Van der Waals, legami di idrogeno. Lo spessore che separa una lamella dall’altra può variare di molto a seconda del contenuto di acqua e può andare da 10 a 15 Ǻ. Quindi l’idratazione o la disidratazione dell’acqua può comportare grosse variazioni dello spessore. Questo fenomeno è responsabile del ritiro. Una montmarillonite fortemente idrata, se va a disidratarsi, può subire una riduzione di spessore del 30% e se questa riduzione non avviene in maniera controllata il materiale si spacca. Il processo di eliminazione dell’acqua quindi deve avvenire lentamente e delicatamente. Possibilmente nelle argille che contengono montmarillonite o comunque argille fortemente idrofiliche che si caricano di acqua è bene aggiungere degli agenti che si chiamano dimagranti. Questi possono essere argilla cotta tritata che non tenderà più a prendere e a ridare acqua quindi è una fase inerte che messa nell’impasto argilloso fa ridurre le contrazioni e le dilatazioni. E’ bene tenere a mente che assorbendo acqua si può verificare il fenomeno dello swelling che consiste nel distacco delle lamelle. Altri fenomeni che si devono tenere presenti sono che negli strati lamellari ci può essere lo scambio ionico dei cationi e che le argille cariche possono legarsi con molecole organiche.
Lo swelling e l’interazione con molecole organiche non sono una scoperta recente già i cinesi li avevano scoperti impastando il caolino con l’urea.
Nella figura B sono rappresentati i vari tipi di interazioni che possono aver luogo nelle argille con gli strati carichi. Quindi in un’argilla di partenza che ha solo stati TOT e dentro un catione alcalino, alcalino-terroso può avvenire uno scambio ionico, una solvatazione. Il fatto cioè che l’acqua entri nelle lamelle e le allarghi fornisce la possibilità a gruppi organici carichi tipo ioni ammonio di entrare dentro. Inizialmente si intromettono senza espandere la struttura tra le lamelle e successivamente dilatano per via dello swelling provocando il loro distacco.
NANOCOMPOSITI.
22a lezione 04/06/03
Il creep nei materiali ceramici come nei metallici è una deformazione non elastica ma permanente, dove il materiale è sottoposto ad uno stress costante e si valuta la deformazione del materiale in funzione del tempo ad una determinata temperatura . Così come nei metalli, se si plotta la e in funzione del tempo si trovano tre zone, così chiamate:
La cosa più interessante e più riproducibile è quella di studiare il creep secondario in cui abbiamo una legge di tipo Arrhenius, che dipende dalla temperatura , dall’energia di attivazione, ect.
Come spiegare il creep nei materiali ceramici e quali le principali differenze rispetto ai materiali metallici?
Innanzitutto il creep nei materiali monocristallini, sia ceramici che metallici, si può studiare ammettendo che vi è la presenza di piccoli difetti, tipo dislocazioni di linee, di punto, ect.; poi il trasporto di tali difetti determina la deformazione del materiale. Quindi, in un materiale monocristallino si ammette che vi siano difetti del cristallo, essenzialmente dislocazioni di linea.
Nei materiali policristallini metallici abbiamo invece i difetti nei grani che generano il creep. Nei materiali ceramici il movimento delle dislocazioni è più difficile, infatti il movimento di un piano cristallino su un altro, nei materiali metallici, non è così critico come nei ceramici, per il fatto stesso che i singoli atomi sono cementati da un mare di elettroni, ma non legati tra di loro, per cui lo scorrimento è più facilitato nei metallici che nei ceramici, ovvero materiali di natura ionica e covalente dove i legami tra atomi sono più spiccati e direzionali.
Pertanto, generalmente i materiali ceramici sono più resistenti al creep, rispetto i materiali metallici; anche se fenomeni diffusivi e dislocastici determinano il creep anche nei materiali ceramici.
Nei materiali monocristallini si ha creep per il movimento delle dislocazioni. Comunque questo movimento delle dislocazioni s’innesta anche nei materiali ceramici ad alta temperatura.
In un materiale ceramico prima ancora che intervengano le dislocazioni con il loro movimento, avviene il creep in zona primaria a causa dei bordi di grano, ovvero regioni in cui il materiale non è completamente cristallino, anzi a volte vi è una fase vetrosa che lega i bordi di grano, che si deforma con l’applicazionedello stress.
Allora la prima zona del creep primario si spiega con un riarrangiamento del materiale nei pressi dei bordi di grano, che si blocca quando si hanno impedimenti di tipo geometrico, ecco perché nel grafico si ha un forte assestamento.
La zona di creep secondario si spiega con fenomeni di natura diffusivi, ovvero con il movimento di lacune, di vacanze e di impurezze, e ciò avviene sia nei pressi del bordo di grano che nel grano stesso.
Per studiare la refrattarietà dei materiali ceramici, bisogna innanzitutto riscaldarli con una velocità di riscaldamento costante e successivamente si va a misurare l’espansione o il ritiro del materiale.
Nel grafico vediamo che man mano che passa il tempo (l’asse tempo coincide con quello di temperatura, perché se la velocità di riscaldamento è costante, c’è proporzionalità tra temperatura e tempo) il materiale si espande, anche se è caricato, sino a quando non raggiunge un massimo in cui il materiale comincia a cedere sotto il carico.
Quello che si va a prendere sono i valori di T0,5 e T1, che li valuto lungo la curva decrescente di prova, quando il materiale si è ritirato rispettivamente di 0,5% e di 1% rispetto alla deformazione massima (nota che continuo a riscaldare sempre con la velocità costante).
Dopo una prima caratterizzazione sull’espansione e ritiro si decide a quale temperatura (oppure può essere imposta dal cliente) far avvenire la deformazione a carico costante e a temperatura costante e si determinano i parametri di SUBSIDENZA S10 e S20 che significano:
quanto si deforma il campione dopo 10 e 20 ore rispettivamente, tenuto a quella temperatura e a quel carico (nell’esempio 1500°C).
Se un materiale deve mantenere per poco tempo a un carico e a temperatura elevate si può avere anche un S10 del 1-2%.
Se un forno deve stare sempre acceso, invece, quel materiale non può accettare nemmeno quel 1-2%.
Infine, abbiamo un confronto di curve di SUBSIDENZA da cui si evince che il materiale che subisce la minore deformazione è il materiale più refrattario. Passando dal mattone convenzionale, al mattone in mullite si ha un aumento della refrattarietà. Inoltre, notate che la mullite, avendo il 70% di allumina e il 30% di silicio, ha una subsidenza migliore dell’allumina stessa.
In realtà l’allumina si presenta con una struttura cristallina perfetta, mentre la mullite essendo meno perfetta resiste meglio sia al creep che agli shock termici. Ciò non toglie che l’allumina ha una resistenza meccanica maggiore della mullite.
Lo shock termico insorge ogni volta che un materiale non è scaldato in modo costante o non è tenuto ad una temperatura costante.
Naturalmente, quando un materiale è scaldato in un forno, soprattutto se la sua conducibilità termica è bassa e si riscalda a velocità elevata o viceversa si raffredda a velocità elevata, si creano gradienti termici nel materiale; pur avendo un forno isotermo.
In queste condizioni ogni materiale che subisce gradienti di temperatura, esplica la sua fragilità al griffit subendo fatica termica, microfratture, rotture, cricche, ect. che alla lunga sono la morte di questi materiali che hanno impieghi termostrutturali.
Queste considerazioni sono molto importanti, perché in fase di progettazione non basta guardare alla temperatura max di resistenza di un materiale o solo alla resistenza meccanica, ma a tutte le condizioni al contorno del problema, che devono portare alla scelta migliore del materiale da utilizzare.
Se per esempio, serve un materiale che deve operare in un forno con cicli di riscaldamento e raffreddamento sino ad una temperatura massima di 1400 °C e con carichi non troppo eccessivi, la cosa più saggia è utilizzare mullite piuttosto che allumina, che si romperebbe molto prima a causa della più bassa resistenza agli shock termici. (La zirconia a causa della sua alta espansione termica è ancora più critica dell’allumina, anche se arriva a temperatura di 2000 °C e oltre).
Dalle formule si evince che oltre ad a, subentra anche E (rigidità del materiale) nel calcolo di R, ovvero un materiale quanto più rigido è, tanto meno resistente si presenta agli shock termici.
Inoltre, per il calcolo di R si dovrà considerare la resistenza di Mohr, ovvero quella ultima in cui si ha la rottura: sfr.
In figura a) è rappresentata una sezione del materiale che stiamo raffreddando, ovvero un corpo in un forno che si raffredda, in cui il cuore è a più alta temperatura, mentre la superficie è a più bassa temperatura e tende a contrarsi, ma gli strati interni più caldi e più espansi non glielo consentono, generando allora, stress di tensione in superficie e di compressione nel cuore del materiale.
In figura b) avviene esattamente il contrario.
Nei profili di temperatura della figura in basso, il materiale a temperatura più bassa si contrae più di quello a temperatura più alta e il provino si deforma anche permanentemente, rompendosi in diversi modi.
R, si misura in temperatura.
R’, lo vogliamo misurare in termini di flusso massimo che possiamo mandare sulla superficie di un materiale. Notare che, un materiale resiste tanto più, quanto più alta è la sua conducibilità termica.
Nel caso della resistenza agli shock termici è bene considerare non solo R, ma anche tenere conto dei flussi di calore, nonché delle resistenze alla propagazione del creep e del danno.
Combinando tra di loro i vari parametri, possiamo mettere a confronto diversi materiali. Notiamo che il confronto diretto tra allumina e carburo di silicio. Hanno resistenze meccaniche e modulo elastico confrontabili, la cosa che li differenzia è l’espansione termica che essendo alta per l’allumina, la rende vulnerabile agli shock termici, infatti abbiamo R=96 contro R=230 per SiC.
Inoltro il SiC va molto meglio perché ha un alto coefficiente di conducibilità termica rispetto l’allumina.
Queste considerazioni si fanno a parte, nel senso che il SiC se riscaldato si porta immediatamente in tutti i suoi punti alla stessa temperatura, mentre nell’allumina si ha una concentrazione di calore che la porta a rottura più rapidamente.
Stesse considerazioni si possono fare per il nitruro di silicio, che pur avendo un modulo elastico basso e una espansione termica inferiore ha una resistenza (DT) elevata; ecco perché è utilizzato nelle costruzioni delle turbine più che del SiC, l’unico inconveniente è che intorno ai 1000 °C e più innesca fenomeni ossidativi.
La cosa importante da notare è come un materiale che si presenta povero nei confronti della resistenza meccanica e poco rigido o molto tenero, presenta poi una così elevata resistenza agli shock termici (4860 °C).
Fonte: http://www.antonio.licciulli.unisalento.it/lezioni/sbobinamento.doc
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