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Le fattispecie estintive del rapporto di lavoro possono essere individuate:
Non costituiscono, al contrario, causa di estinzione del rapporto il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa dell'impresa (art. 2119, ult. co., c.c.).
Secondo le disposizioni civilistiche il recesso è un negozio unilaterale e recettizio (cioè, efficace dal momento in cui viene a conoscenza dell’altra parte). Il recesso è altresì estrinsecazione di un diritto potestativo, in quanto, benché la manifestazione di volontà sia unilaterale, produce effetto nella sfera giuridica di un altro soggetto, il quale vedrà estinguersi il rapporto.
Nel caso del prestatore di lavoro le dimissioni assumono valenza di atto di natura estintiva, avendo il rapporto di lavoro esaurito la funzione relativa all’interesse del lavoratore. In specie, ai sensi degli artt. 2118 e 2119 c.c., il recesso del prestatore è così regolato:
Le ipotesi di giusta causa, di regola tipizzate nei contratti collettivi, possono concernere sia la sfera del lavoratore sia quella del datore. In quest’ultimo caso il recesso del prestatore da un rapporto di lavoro a tempo indeterminato senza l’osservanza del preavviso dà, comunque diritto a percepire l’indennità sostitutiva del mancato preavviso (art. 2119 c.c.).
Quanto alla forma delle dimissioni, esse sono di regola considerate un atto a forma libera, a meno che non via sia una diversa previsione da parte del contratto collettivo il quale può disciplinare, oltre che la forma dell’atto, anche quella della sua comunicazione.
Contro eventuali pressioni del datore di lavoro volte a far presentare le dimissioni, è stato previsto:
Nel rapporto di lavoro a tempo indeterminato, il lavoratore che si dimette è tenuto a dare al datore preavviso del recesso stesso nel termine e nei modi stabiliti dai contratti collettivi, dagli usi o secondo equità; lo stesso deve fare il datore che intende avvalersi del potere di licenziare ad nutum o per giustificato motivo (art. 2118, co. 1, c.c.). L'obbligo del preavviso è volto ad evitare che l'interruzione ex abrupto del rapporto possa comportare conseguenze dannose per la controparte. In mancanza di preavviso, il recedente è tenuto a corrispondere all'altra parte un'indennità (la c.d. indennità di mancato preavviso) equivalente all'importo della retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso. Tale indennità ha natura risarcitoria, sicché essa è dovuta anche in caso di dimissioni per giusta causa, essendo l'interruzione immediata del rapporto - la giusta causa non ne consente la prosecuzione neanche provvisoria - conseguenza di un fatto dipendente dal datore.
L’esercizio del diritto potestativo di recesso da parte del datore di lavoro (licenziamento) trova numerosi limiti legislativi. Tali limiti non può dirsi costituiscano violazione del principio di parità contrattuale delle parti. Ciò perché nel cotesto socio economico che ha caratterizzato l’evoluzione della legislazione speciale del lavoro, il rapporto di lavoro presentava una obiettiva e stridente disparità tra le parti: un contraente forte, il datore di lavoro, un contraente debole, il lavoratore.
Il potere del datore di licenziare il lavoratore trova la sua regolamentazione in una serie di fonti succedutesi nel tempo - Codice Civile, L. 604/1966, Statuto dei lavoratori, L. 108/1990, altre leggi speciali che lo assoggettano:
La prima disciplina legislativa vincolistica venne introdotta con la legge n. 604 del 1966 che, mantenendo intatta la libertà di dimissioni, regolamentò invece i licenziamenti individuali, dichiarando illegittimo il licenziamento non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo. Tale normativa era applicabile, però, solo a imprese con più di 35 dipendenti. Un decisivo passo in avanti sul piano sul piano della effettività della stabilità del posto di lavoro è stato poi compiuto con la legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori), che, all’art. 18, prevede la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, quando il giudice ritenga non sussistere la giusta causa o il giustificato motivo del licenziamento. La legge 108 del 1990, infine, ha dato un nuovo assetto alla normativa del licenziamenti innovando la legge n. 608 del 1966 e modificando l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. In particolare ha esteso anche alle piccole imprese la disciplina del recesso per giusta causa e giustificato motivo, prevedendo l’obbligo di riassunzione o, in alternativa, il risarcimento del danno per il lavoratore illegittimamente licenziato. Per le grandi imprese, la nuova normativa ha ampliato la possibilità di ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro dei dipendenti illegittimamente licenziati.
Per effetto della delineata evoluzione normativa, in base alle disposizioni vigenti, il recesso da parte del datore di lavoro è:
Per effetto dell’art. 1 della legge n. 604 del 1966 il licenziamento del prestatore di lavoro non può avvenire che per giusta causa ai sensi dell’art. 2119 c.c. o per giustificato motivo. Tale norma, che trova ulteriore supporto negli artt. 18 dello Statuto dei lavoratori e 2 della legge n. 108 del 1990, ha introdotto nel nostro ordinamento un regime vincolistico del licenziamento, con conseguente stabilità del posto di lavoro, in quanto non consente che il provvedimento unilaterale di recesso, intimato dal datore, sia privo di motivazione ed infatti esso può essere adottato solo in presenza di una giusta causa o un giustificato motivo.
La disciplina limitativa del potere di licenziamento non si applica nelle ipotesi in cui è ammesso il recesso ad nutum, cioè la possibilità per il datore di licenziare senza alcun vincolo di giustificazione. Essa ricorre solo in alcune ipotesi espressamente previste, e cioè nei confronti:
La disciplina garantistica in tema di licenziamento non solo impone che il licenziamento sia intimato in presenza di una specifica motivazione che lo consenta, salve le eccezioni di cui sopra, ma prevede inoltre delle situazioni in pendenza delle quali vige un divieto di licenziamento.
Sussiste un vero e proprio divieto di licenziamento nei casi di:
e nei confronti dei:
Con riguardo al limite sostanziale, il primo problema che si pone è quello del significato da attribuire al concetto di giusta causa ed a quello di giustificato motivo, tenuto conto anche del fatto che, in relazione a quest'ultimo, dottrina e giurisprudenza distinguono il giustificato motivo soggettivo da quello oggettivo.
La nozione di giusta causa si ricava anzitutto dall'art. 2119, c.c., che contempla la possibilità per ciascuna delle parti di recedere dal contratto prima della scadenza del termine se il contratto è a tempo determinato, ovvero senza preavviso se il contratto è a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto. Anteriormente all'emanazione della L. 15 luglio 1966, n. 604, recante "Norme sui licenziamenti individuali", la dottrina e la giurisprudenza ritenevano giusta causa di licenziamento, oltre all'inadempimento del lavoratore, anche ogni altro fatto idoneo a menomare il rapporto di fiducia personale, considerato connotato essenziale del rapporto di lavoro. Tale orientamento muta dopo l'entrata in vigore della L. 604/1966, alla luce della quale si attribuisce alla giusta causa un significato più ristretto, riportando il concetto di fiducia entro i limiti oggettivi dell'affidamento del creditore nell'esattezza dei successivi adempimenti, generalmente rilevante in tutti i rapporti di durata. In tal modo, il concetto di giusta causa trova "una puntuale definizione nella stessa nozione di giustificato motivo soggettivo, dal quale si differenzierebbe solo per la particolare gravità dell'inadempimento" (GHERA), e cioè solo da un punto di vista quantitativo, non anche qualitativo. Il comportamento del lavoratore deve essere valutato caso per caso dal giudice, anche quando - come di solito accade - esso sia espressamente previsto dai contratti collettivi come giusta causa di licenziamento. In altri termini, il giudice è chiamato a verificare la conformità delle disposizioni contrattuali alla nozione legale di giusta causa, e, dunque, in concreto, a verificare se le mancanze addebitate al prestatore siano così gravi da imporre la risoluzione del rapporto anziché l'irrogazione di sanzioni disciplinari.
Il giustificato motivo soggettivo è analogo alla giusta causa, dalla quale si distingue, come si è detto, solo da un punto di vista quantitativo, per la minore gravità dell'inadempimento. Ai sensi dell'art. 3, L. 604/1966, l'ipotesi si verifica quando il lavoratore incorre in un "notevole inadempimento degli obblighi contrattuali"; l'inadempimento è notevole, per l'art. 1455, c.c., quando è di non scarsa importanza, avuto riguardo all'interesse delle parti. Così come nell'ipotesi del licenziamento per giusta causa, la dottrina e la giurisprudenza ritengono non vincolanti per il giudice le tipizzazioni delle condotte legittimanti il licenziamento per giustificato motivo soggettivo contenute nei contratti collettivi.
L'art. 3, L. 604/1966, contempla anche l'ipotesi di giustificato motivo oggettivo che si realizza in presenza di ragioni inerenti "all'attività produttiva, alla organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa". Tali ragioni - da intendersi come esigenze "effettivamente rispondenti a criteri obiettivi di ordinato svolgimento dell'attività produttiva, desumibili da regole di comune esperienza" (GHERA) - prevalgono sull'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Non esiste uniformità di vedute in dottrina ed in giurisprudenza in ordine alla sindacabilità o meno delle scelte imprenditoriali che conducono al licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Da un lato, infatti, vi è chi, richiamandosi all'art. 41, Cost., sostiene l'insindacabilità nel merito da parte del giudice di tali scelte, dal lato opposto vi è chi afferma la necessità di un controllo di merito circa la loro razionalità. In ogni caso, la giurisprudenza prevalente ritiene legittimo solo il licenziamento che costituisce per il datore l'extrema ratio: quello che interviene, cioè, in mancanza di ogni reale possibilità di recupero del lavoratore nell'organizzazione produttiva. Ancora la giurisprudenza, infine, riconduce nell'ambito del giustificato motivo oggettivo alcuni casi di licenziamento che, benché collegati alla persona del lavoratore, non possono rientrare nell'ipotesi del licenziamento per giustificato motivo soggettivo perché non integrano un inadempimento: così è a dire, ad esempio, per il licenziamento per superamento del periodo di comporto, giustificato dal perdurare dell'impossibilità temporanea del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa.
È, peraltro, a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare l’effettività delle ragioni poste a base del licenziamento e l’impossibilità di una diversa proficua utilizzazione dei lavoratori licenziati.
Il licenziamento determinato da giustificato motivo oggettivo, allorché investe una pluralità di lavoratori, non costituisce una ipotesi di licenziamento collettivo, il quale ai senso dell’art. 11 della legge 604/66 è sottratto alla normativa vincolistica in tema di recesso.
Oltre ai limiti sostanziali di cui si è appena detto, il potere di licenziamento del datore incontra anche limiti procedurali, attinenti alla forma del licenziamento. infatti:
L'impugnazione del licenziamento, da parte del lavoratore, deve avvenire, a pena di decadenza, entro 60 giorni dalla sua comunicazione o da quella dei motivi, se non contestuale. La previsione di un termine di decadenza induce a ritenere che il legislatore non si riferisca alle ipotesi in cui il licenziamento è espressamente dichiarato dalla legge nullo od inefficace. L'impugnazione può anche essere stragiudiziale, ossia effettuata per mezzo di qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota, anche attraverso l'organizzazione sindacale, la volontà del lavoratore di impugnare il licenziamento. In tal caso, il prestatore può ricorrere al giudice del lavoro dopo aver esperito la procedura di conciliazione prevista dagli accordi sindacali o dai contratti collettivi ovvero quella disciplinata dall'art. 7, L. 108/1990 e dagli artt. 410 - 412, c.p.c.. In proposito, va rilevato che una delle principali innovazioni introdotte dalla L. 108/1990 consiste nell'obbligo, imposto ad entrambe le parti del rapporto, di esperire il tentativo di conciliazione stragiudiziale se il licenziamento è intimato in difetto di giusta causa o giustificato motivo da datore soggetto alle regole della tutela obbligatoria; la comunicazione della richiesta di conciliazione equivale ad impugnazione del licenziamento ed impedisce la decadenza. In caso di esito positivo, tanto della conciliazione obbligatoria quanto di quella facoltativa, il verbale, depositato presso la Cancelleria del Tribunale competente territorialmente, è reso esecutivo con decreto del giudice del lavoro; in caso di esito negativo, si forma processo verbale con le indicazioni del mancato accordi e di eventuali soluzioni proposte di cui il giudice dovrà tenere conto (art. 412 c.p.c.). In alternativa le parti possono definire la controversia mediante arbitrato irrituale.
Il D.Lgs. 387/98, disciplinante la riforma del pubblico impiego, ha introdotto anche norme di modifica al processo del lavoro: attualmente l’art. 410 c.p.c. prevede il tentativo obbligatorio di conciliazione che deve essere promosso, anche tramite associazione sindacale, da chi intenda impugnare giudizialmente l’atto di licenziamento. L’esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all’impugnazione giudiziale del licenziamento.
Il tentativo di conciliazione, come detto, può essere di tipo sindacale, nel qual caso esso avviene secondo le procedure previste dai contratti collettivi, oppure di tipo amministrativo, nel qua caso deve avvenire presso la Commissione di conciliazione, istituita presso ciascuna Direzione provinciale del lavoro, competente territorialmente. L’esperimento del tentativo di conciliazione costituisce condizione di procedibilità della domanda volta all’impugnazione giudiziale del licenziamento (art. 412 bis c.p.c.). Se il ricorso viene proposto in difetto di tentativo di conciliazione il giudice deve sospendere il processo e fissare un termine perentorio non superiore a 60 giorni entro giorni entro cui le parti devono proporre la richiesta del tentativo di conciliazione. Trascorso inutilmente tale termine, il processo può riassunto entro il termine perentorio di 180 giorni.
Come detto, la richiesta di tentativo di conciliazione, una volta che ne sia stata data comunicazione al datore di lavoro, ha l’importante effetto di interrompere la prescrizione e di sospendere, per tutta la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni temine di decadenza.
A seguito di impugnazione del licenziamento, nel caso in cui venga accertata l’illegittimità del recesso, il giudice potrà dichiarare:
Il licenziamento illegittimo perché non sorretto da giusta causa o da giustificato motivo è annullabile; quello illegittimo per ragioni formali (cioè intimato senza il rispetto della forma scritta, senza l'indicazione dei motivi ovvero senza il rispetto delle formalità previste dall'art. 2, L. 604/1966) è inefficace; infine, quello "discriminatorio", quello delle lavoratrici madri e quello intimato per causa di matrimonio sono nulli.
Ai fini dell'individuazione delle conseguenze della declaratoria di illegittimità del licenziamento, occorre distinguere:
Ora per stabilire se la tutela accordata al prestatore sia quella reale oppure quella obbligatoria occorre far riferimento alle dimensioni dell'impresa, sotto il profilo del numero dei dipendenti, tenendo presente che nel computo vanno compresi anche i lavoratori a tempo indeterminato parziale in proporzione all'orario effettivamente svolto ed i lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro, mentre non vanno computati il coniuge ed i parenti entro il secondo grado del datore. Dunque, l'art. 18, St. lav., modificato dall'art. 1, L. 108/1990, che disciplina la c.d. tutela reale, stabilisce che essa si applica nei confronti dei datori, imprenditori e non imprenditori, che occupano più di 15 dipendenti in ciascuna unità produttiva o ufficio in cui svolge la propria attività il lavoratore licenziato o più di 5 se si tratta di impresa agricola o più di 15 (o 5 se impresa agricola) nello stesso comune sebbene in più unità produttive od uffici, ovvero nei confronti dei datori che abbiano complessivamente alle proprie dipendenze più di 60 prestatori di lavoro. Come osserva GHERA, l'innovazione più importante introdotta dalla L. 108/1990 è costituita dal riferimento alla complessiva dimensione organizzativa del datore: pertanto, risultano oggi garantiti dalla tutela reale i lavoratori dipendenti da datori che comunque abbiano alle proprie dipendenze più di 60 prestatori, indipendentemente dal frazionamento organizzativo in unità produttive. La tutela obbligatoria, invece, spetta ai sensi dell'art. 8, L. 604/1966, come modificato dall'art. 2, L. 108/1990, nei confronti dei datori che occupano fino a 15 dipendenti per ogni unità produttiva (fino a 5 se impresa agricola) o fino a 60 dipendenti ovunque essi si trovino. In conclusione, un chiarimento merita il concetto di "unità produttiva" che la giurisprudenza, anche anteriore alla L. 108/1990, definisce come quella porzione della più vasta organizzazione imprenditoriale dotata di autonomia in senso tecnico-produttivo. Dalla interpretazione giurisprudenziale non si discosta la dottrina dominante, che valorizza l'aspetto funzionale dell'unità produttiva caratterizzata dal fatto di realizzare un risultato autonomo, che tuttavia si inserisce in quelli perseguiti dalla più ampia organizzazione anche non imprenditoriale (DE LUCA TAMAJO, D'ANTONA, PISANI).
L'art. 3, L. 108/1990, sancisce esplicitamente la nullità del licenziamento intimato per ragioni discriminatorie (politiche, sindacali, religiose, razziali, di lingua e di sesso), a prescindere dall'applicabilità o meno della normativa limitativa dei licenziamenti e, quindi, anche nelle aree in cui è ammesso il recesso "ad nutum". Il licenziamento discriminatorio dà in ogni caso diritto, al lavoratore che ne sia vittima alla tutela reale, quali che siano le dimensioni dell'impresa.
Il licenziamento disciplinare, intimato come misura sanzionatoria, ha dato luogo in passato a contrasti giurisprudenziali sia in ordine alla sua legittimità sia in ordine alla sua riconducibilità nell'area di applicazione dell'art. 7, St. lav.. I dubbi interpretativi sono sorti perché l'art. 7, co. 4, St. lav., statuisce che "fermo restando quanto disposto dalla L. 15 luglio 1966, n. 604, non possono essere disposte sanzioni disciplinari che comportino mutamenti definitivi del rapporto di lavoro". Secondo un orientamento giurisprudenziale ormai superato (Cass. S.U., 20 marzo 1981, n. 1781), al licenziamento doveva riconoscersi natura disciplinare quando il contratto collettivo lo contemplava tra le sanzioni disciplinari e rinviava esplicitamente alla procedura di contestazione di cui all'art. 7, St. lav.. Oggi, in seguito alla sentenza n. 204/82 della Corte costituzionale, i commi 1, 2 e 3 dell'art. 7, St. lav., si applicano anche "alla sanzione disciplinare del licenziamento, per la quale la normativa si limiti ad includere il licenziamento medesimo tra le sanzioni disciplinari e non richiami espressamente il regime per questo previsto dall'art. 7, L. 300/1970". Anche il licenziamento disciplinare è dunque sottoposto ai vincoli di carattere procedurale contemplati dall'art. 7, St. lav.: così, il datore ha l'obbligo di portare il codice disciplinare a conoscenza del lavoratore, di contestare preventivamente l'addebito a quest'ultimo e di sentirlo a sua difesa. La mancata osservanza della procedura disciplinare determina la nullità del licenziamento, con conseguente applicazione dell'art. 18, St. lav..
La L. 23 luglio 1991, n. 223, recante "Norme in materia di cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro", disciplina anche i licenziamenti collettivi per riduzione di personale. Lo Stato italiano è giunto alla emanazione di tale legge a seguito di due condanne della Corte di Giustizia Europea per la mancata attuazione nel nostro ordinamento della direttiva CEE n. 129 del 1975.
Scopo primario della legge è quello di assicurare la mobilità dei lavoratori licenziati, attraverso la loro iscrizione in liste di disoccupazione privilegiate, che consentano lo spostamento di lavoratori con un notevole bagaglio di professionalità acquisito dalla imprese recedenti ad imprese bisognevoli di personale qualificato, favorendo la ricollocazione dei lavoratori licenziati.
La procedura di mobilità trova applicazione pertanto in tutte le ipotesi di eccedenze di personale delle imprese, distinguendosi tuttavia, formalmente, due autonome fattispecie e cioè:
D’altra parte la procedura prevista per i licenziamenti collettivi per riduzione del personale è sostanzialmente ripresa dalla procedura di mobilità tant’è che, ad avviso della dottrina maggioritaria, si può parlare di una regolamentazione sostanzialmente unitaria delle riduzioni di personale (Ghera).
La disciplina della materia dei licenziamenti collettivi può essere attuata purché ricorrano i seguenti presupposti (art. 24 della legge 223 del 1991):
L’art. 24 della legge 223/91 delinea la procedura da seguire rimandando testualmente alle norme dettate in materia di mobilità. In particolare, quando una impresa intende procedere ad almeno 5 licenziamenti nell’arco di 120 giorni, a seguito di una trasformazione dell’attività e del lavoro, nell’ambito di ciascuna unità produttiva o di più unità produttive presenti sul territorio della stessa provincia, deve preventivamente darne comunicazione per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali nonché alle rispettive associazioni di categoria. In mancanza di tali rappresentanze, la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale. In ogni caso, la comunicazione deve contenere l'indicazione:
Entro 7 giorni dalla data di ricevimento della comunicazione, a richiesta delle rappresentanze sindacali aziendali e delle rispettive associazioni, si procede ad un esame congiunto tra le parti, che ha il fine di esaminare le cause che determinano l'eccedenza del personale e di evitare i licenziamenti. Qualora la consultazione abbia esito negativo, il direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro e della massima occupazione convoca le parti al fine di un ulteriore esame della situazione, anche formulando proposte per la realizzazione di un accordo. Esaurita questa fase senza che un accordo sia raggiunto, l'impresa ha facoltà di licenziare i lavoratori eccedenti, individuati secondo i criteri di scelta indicati dai contratti collettivi o, in difetto, nel rispetto dei seguenti criteri, individuati nell’art. 5 della legge 223 del 1991, in concorso tra loro: carichi di famiglia; anzianità; esigenze tecnico-produttive ed organizzative. Il licenziamento collettivo per riduzione di personale è:
Una volta individuati i lavoratori, il datore di lavoro può esercitare il diritto di recesso che deve essere comunicato per iscritto e nel rispetto del termine di preavviso.
La violazione della procedura e dei criteri di scelta può comportare due conseguenze sui licenziamenti:
I licenziamenti inefficaci o annullabili possono essere impugnati. L'impugnazione deve avvenire nel termine di 60 giorni dalla comunicazione del licenziamento, con qualsiasi atto scritto idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore di impugnazione. Se l'illegittimità del licenziamento è riconosciuta dal giudice, si applica l'art. 18, St. lav. (tutela reale – reintegrazione e risarcimento).
L’art. 5, comma 3, ultima parte, non trova applicazione nel caso di inefficacia o di illegittimità del recesso intimato dai datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale ecc. ecc.. In tale ipotesi, infatti, si applica la tutela obbligatoria dei licenziamenti della legge 604 del 1966, e non la tutela reale.
L’istituto della mobilità, disciplinato dalla legge 223 del 1991 (come modificata dal Dlgs 151 del 1997), rientra nell’ambito di quei sistemi messi a punto dal legislatore, noti con il nome di ammortizzatori sociali, per rendere meno gravi sul piano sociale i fenomeni di crisi occupazionale.
Con la procedura di mobilità, in assenza della quale la crisi si riserverebbe tutta a carico dei lavoratori licenziati, viene attuato un meccanismo di intervento dello Stato sociale per consentire, in un certo spazio temporale e al concorrere di certe condizioni, il passaggio dei lavoratori licenziati da impresi in crisi ad imprese con bisogno di mano d’opera, transitando per una speciale lista di collocamento e godendo, in attesa della nuova occasione lavorativa, in tutto o in parte, di un sostegno di reddito.
La L. 223/1991 prevede che i prestatori di lavoro, in caso di licenziamenti collettivi per riduzione o trasformazione di attività o lavoro, siano posti in mobilità, mediante l'iscrizione in una lista di collocamento preferenziale, che dovrebbe consentire di accedere con più facilità a nuove occasioni di lavoro; ad essi spetta anche la c.d. indennità di mobilità, ossia un trattamento economico variabile in base all'età del lavoratore. La mobilità è prevista anche per l'ipotesi in cui l'impresa ammessa al trattamento straordinario d'integrazione guadagni non sia in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi né di ricorrere a misure alternative.
In entrambi i casi dovrà essere esperita la procedura descritta nei precedenti paragrafi al fine di effettuare i licenziamenti nei confronti dei lavoratori in esubero e collocare tali lavoratori in mobilità.
Quanto alle conseguenze della messa in mobilità, queste si rilevano sotto tre distinti profili e cioè:
Hanno lo scopo di agevolare, anche attraverso appositi programmi di riqualificazione professionale, o diverse iniziative, il reinserimento nel mercato del lavoro dei lavoratori licenziati. Alle liste sono iscritti i lavoratori (operai, impiegati e quadri) per i quali sia cessato il rapporto di lavoro a seguito di riduzioni di personali ed i lavoratori in CIGS sa licenziare per impossibilità di reimpiego. L’iscrizione avviene a seguito di apposita comunicazione effettuata alla DRL da parte dell’impresa recedente, e di un iter procedurale in cui intervengono a vario titolo diversi soggetti istituzionali con funzioni in materia di collocamento e politica del lavoro. L’iscrizione nelle liste di mobilità costituisce presupposto essenziale per accedere al relativo trattamento economico (indennità di mobilità). I vantaggi sono legati, oltre che al trattamento economico, anche dalla maggiore facilità con cui è possibile accedere a nuove occasioni lavorative.
La cancellazione dalle liste, oltre ad intervenire in una serie di casi in cui il lavoratore non accetti le offerte formative, di riqualificazione o occupazionali provenienti dai centri per l’impiego e degli altri soggetti abilitati, è la normale conseguenza della cessazione dallo stato di disoccupazione, della scadenza del periodo di godimento dei trattamenti e delle indennità ovvero dello scadere dei termini di permanenza nelle liste stesse per i lavoratori non ammessi all’indennità di mobilità.
Di regola i lavoratori iscritti nelle liste di mobilità hanno diritto a fruire del relativo trattamento di sostegno del reddito ovvero dell’indennità di mobilità che, tuttavia, è subordinata a ben determinati requisiti soggettivi ed oggettivi e cioè:
I lavoratori licenziati da datori di lavoro non imprenditori hanno diritto ad essere iscritti nelle liste di mobilità, ma non anche alla relativa indennità di mobilità. L’entità dell’indennità di mobilità è commisurata al trattamento straordinario d’integrazione salariale spettante al lavoratore collocato in mobilità nella misura del 100% di tale trattamento per i primi 12 mesi e dell’80% dal 13° mese in poi.
L’indennità ha durata variabile in base all’età dei lavoratori e nell’ubicazione dell’impresa di appartenenza. In specie essa è corrisposta per un periodo di dodici mesi, elevato a 24 mesi per i lavoratori che hanno da 40 a 50 anni e a 36 mesi per i lavoratori con più di 50 anni.
L’art. 7, commi 6 e 7, della legge 223 del 1991 disciplina la c.d. mobilità lunga, in base alla quale nelle regioni meridionali, in quelle ove il tasso disoccupazionale è superiore alla media nazionale e in altri ambiti territoriali decisi dagli organismi competenti, è possibile continuare a fruire dell0indennità di mobilità fino al compimento dei requisiti contributivi per la pensione di vecchiaia o di anzianità.
Il ricorso agli interventi straordinari di integrazione salariale di certo attenua le tensioni sociali conseguenti alle riduzioni di personale, ma per altra contribuisce alla diffusione del lavoro sommerso (Ghera) e all’ingente appesantimento della spesa pubblica.
Sicché si è pensato di impiegare i soggetti percettori di indennità varie connesse allo stato di disoccupazione in servizi o lavori di pubblica utilità presso le pubbliche amministrazioni. Questo istituto ha ricevuto una prima sistemazione con il D.L. 299 del 1994 e successivamente è stato organicamente riformato con il Dlgs n. 468 del 1997. Da ultimo è intervenuto il legislatore con il Dlgs n. 81 del 2000 che riduce significativamente sia il novero di attività che possono essere oggetto di LSU sia i potenziali destinatari delle stesse. Ai sensi dell’art. 3 Dlgs 81/00, possono essere oggetto di LSU:
Sono invece esclusi dall’ambito di applicazione del provvedimento diverse categorie di lavoratori nei confronti dei quali non potranno più essere avviati progetti di LSU (art. 2 Dlgs 81/00). Quanto al rapporto tra utilizzazione e prestatore di attività, che non costituisce un rapporto di lavoro, sono autorizzati ad utilizzare lavoratori in attività socialmente utili le P.A., gli enti pubblici economici, le società a totale o prevalente partecipazione statale (per la Cassazione il rapporto ha natura previdenziale e ciò impedisce al lavoratore la rivendicazione nei confronti di dette amministrazioni di un rapporto di lavoro subordinato, e dei suoi consequenziali diritti).
Lo svolgimento di attività socialmente utili dà al lavoratore diritto ad un sussidio economico mensile erogato dall’INPS.
Lo scopo del Dlgs 81/00 è quello di esaurire progressivamente il bacino dei lavoratori socialmente utili, espressione di precarietà strutturale e fonte di forti instabilità sociali. Sta di fatto che a distanza di vari anni dalla riforma, i suoi effetti non si sono in pratica realizzati, tant’è che continuano ad essere necessarie sempre nuove misure tampone.
Parte del diritto del lavoro tende a tutelare la libertà e la personalità del lavoratore per la sua particolare condizione di inferiorità economica nei confronti del datore di lavoro; tale tutela ha carattere inderogabile, in quanto basata su norme imperative e, spesso, coercitive. La sua concreta attuazione si realizza sia attraverso l’attività diretta dello Stato, sia attraverso una attività di vigilanza affidata in genere ad organi della P.A., sia infine attraverso un’attività repressiva e di tutela giuridica.
Con la riforma dei servizi ispettivi il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, operata col in Dlgs n. 124 del 2004, assume un ruolo cardine nella vigilanza in materia di rapporti di lavoro e di iniziative di contrasto al lavoro sommerso e irregolare.
Tale attività viene esercitata dal personale ispettivo in forza presso le Direzioni regionali e provinciali del lavoro. Le funzioni ispettive nelle sole materie della previdenza e assistenza sociale sono anche svolte dal personale di vigilanza dell'INPS, dell'INAIL, dell'ENPALS e degli altri enti per i quali sussiste la contribuzione obbligatoria.
Oggetto della vigilanza è tutta la materia dei rapporti di lavoro e dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti diritti civili e sociali, l’osservanza complessiva della normativa di legislazione sociale e del lavoro, compresa l’applicazione dei contratti collettivi e della disciplina previdenziale. La vigilanza concerne tutti i rapporti di lavoro, a prescindere dal luogo in cui è prestata l’attività e dallo schema contrattuale, tipico o atipico utilizzato.
Con la riforma dei servizi ispettivi sono state delineate:
Un aspetto focale della riforma è rappresentata dalla razionalizzazione delle funzioni ispettive in materia di legislazione sociale e di lavoro allo scopo di superare l’eccessiva attuale frammentazione dei compiti di vigilanza tra una pluralità di organi e di pervenire ad un sistema organico e coerente di tutela del lavoro.
L’esercizio dell’attività di vigilanza sull’applicazione di buona parte delle norme in materia di lavoro e legislazione sociale compete al Ministero del lavoro e delle politiche sociali che opera mediante propri organi centrali e periferici. A livello periferico i compiti di vigilanza, già affidati all’Ispettorato del lavoro, sono esercitati dal Servizio ispettivo del lavoro delle direzioni regionali e provinciali del lavoro. Gli enti ausiliari dello Stato nel campo previdenziale, quali l’INPS, l’INAIL e tutti quelli gestori di forme di assicurazioni sociali obbligatorie, sono investiti di un potere di vigilanza in materia di norme di legislazione sociale. Detto potere, peraltro, si distingue da quello dei Servizi ispettivi del lavoro in quanto è limitato alla vigilanza sull’assolvimento degli obblighi contributivi ai fini dell’erogazione delle prestazioni previdenziali o, più in generale, in materia di previdenza ed assistenza sociale.
Altri organi di vigilanza sono le Aziende sanitarie locali, organi investiti della competenza ad esercitare la vigilanza sull’applicazione della legislazione in materia di sicurezza e salute nei luoghi di lavoro.
La vigilanza i materia di legislazione sociale viene svolta in via residuale anche da altri organi statali o da enti pubblici competenti per settori specifici e limitati.
A decorrete dal 14 febbraio 1997 i compiti di vigilanza a livello periferico sono svolti dalle DRL e DPL (tramite i servizi ispettivi). La DRL, presente in ogni regione svolge, tra l’altro, funzioni di indirizzo coordinamento e vigilanza delle attività delle DPL. La DPL svolge, tramite l’ufficio servizio ispezione del lavoro, attività di vigilanza tecnica e ordinaria sull’osservanza della disciplina di legge, coordinando la propria attività con quella degli altri soggetti investiti di analoghe competenze.
Alle associazioni sindacali spesso la legge riconosce il diritto di assistere il lavoratore, in sede sia giudiziale che stragiudiziale, per la tutela dei diritti derivanti dal rapporto di lavoro. Altri organismi attivi in sede di applicazione della legislazione sociale, sono gli istituti di patronato e di assistenza sociale. L’art. 12 riconosce loro il diritto di svolgere la loro attività anche all’interno delle aziende e possono, su istanza del lavoratore, partecipare ai giudizi promossi innanzi all’autorità giudiziaria in ogni grado, rendendo informazioni e osservazioni orali e scritte.
A livello nazionale il coordinamento dell'attività ispettiva viene garantito dalla Direzione generale per l'ispezione al lavoro. Istituita presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, ha il compito di svolgere l'attività di direzione e coordinamento dell'attività ispettiva, fornendo indicazioni operative sulla base di direttive emanate dal Ministro del lavoro.
Qualora si renda opportuno coordinare a livello nazionale l'attività di tutti gli organi impegnati sul territorio nelle azioni di contrasto del lavoro sommerso e irregolare, il Ministro convocherà la commissione centrale di coordinamento delle attività di vigilanza al fine di individuare gli indirizzi, gli obiettivi strategici e le priorità degli interventi ispettivi.
A livello territoriale l'attività di coordinamento e di direzione è svolta dalle Direzioni regionali e provinciali del lavoro. Anche in ambito regionale, analogamente a quanto avviene in ambito nazionale, il Direttore della Direzione Regionale del Lavoro, qualora si renda opportuno coordinare l'attività di tutti gli organi impegnati in ambito territoriale nell'azione di contrasto del lavoro irregolare, convoca la Commissione regionale di coordinamento dell'attività di vigilanza.
Per garantire il coordinamento dell'attività ispettiva di tutti gli organi di vigilanza, è inoltre istituita, presso il Ministero del lavoro, una banca dati telematica con tutte le informazioni relative ai datori di lavoro ispezionati, gli approfondimenti e informazioni sulle dinamiche del mercato del lavoro e sulle materie oggetto di formazione permanente del personale ispettivo. Questa banca dati costituisce una sezione della borsa continua nazionale del lavoro. L’accesso a tale banca dati è riservato alle amministrazioni che esercitano attività di vigilanza.
Il Dlgs 124 del 2004 ha altresì istituito il nuovo strumento operativo del modello unificato di verbale ad uso del personale ispettivo degli enti di vigilanza, al fine di evitare difformità di rilevazione degli illeciti.
Oltre alla funzione di coordinamento le Direzioni del lavoro, regionali e provinciali, hanno il compito di:
Le Direzioni del lavoro devono inoltre esercitare:
Le Direzioni regionali e provinciali del lavoro esercitano la propria attività attraverso gli ispettori del lavoro.
Ai sensi dell’art. 3 del D.L. 463 del 1983, i funzionari degli enti previdenziali preposti alla vigilanza hanno facoltà:
Agli ispettori degli enti previdenziale non è attribuita qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria e, pertanto, essi non possono contestare contravvenzioni.
Il Dlgs 124 del 2004 ha stabilito che le disposizioni impartite dal personale ispettivo in materia di lavoro e di legislazione sociale, nell’ambito dell’applicazione delle norme per cui sia attribuito dalle singole disposizioni di legge un apprezzamento discrezionale, sono esecutive.
La riforma attuata con il Dlgs 124 del 2004 ha introdotto un nuovo strumento a loro disposizione, la cosiddetta “diffida accertativa per crediti patrimoniali” a mezzo della quale se durante l'ispezione viene accertato un credito del lavoratore, l'ispettore può "diffidare" il datore di lavoro, ovvero intimargli il pagamento del suo debito. Le somme spettanti al lavoratore devono essere connesse ad un qualsiasi istituto patrimoniale e non, avente contenuto economico, derivante dalla disapplicazione di norme di legge o di natura negoziale (contratto collettivo o individuale).
In presenza di tali presupposti l’ispettore diffida il datore di lavoro a corrispondere direttamente al lavoratore le somme dovute entro il termine di 30 giorni.
A seguito della notifica dell’atto di diffida, il datore può:
Il Dlgs 124/03 affianca, alle tradizionali funzioni di ispezione e di repressione degli organi di vigilanza, funzioni di tipo consultivo e conciliativo, espressione di una più moderna visione del ruolo e dell’operato degli organi di vigilanza. Il diritto di interpello può essere descritto come la facoltà di porgere quesiti in ordine generale sull’applicazione delle normative di competenza del Ministero del Lavoro, onde pervenire ad un chiarimento. Il diritto di interpello è riservato agli enti pubblici, alle associazioni di categoria e agli ordini professionali che possono inviare quesiti alla Direzione Generale per le attività ispettive, per il tramite delle DPL. La soluzione al quesito è estremamente importante poiché se il datore di lavoro aderisce all’indirizzo proposto dal Ministero, ciò dovrebbe comportare in linea di massima l’esclusione della colpa o dolo ai fini della commissione degli illeciti amministrativi e dell’applicazione delle sanzioni civili in campo previdenziale.
Mediante la conciliazione monocratica si previene l’insorgenza di controversie tra le parti del rapporto di lavoro nel caso in cui l’inadempimento sia di natura civile o amministrativo. La conciliazione può avere ad oggetto unicamente questioni relative a diritti patrimoniali del lavoratore.
La conciliazione può essere contestuale, quando viene attivata direttamente, previo consenso delle parti, dall’ispettore nel corso dell’espletamento di un accesso ispettivo, oppure preventiva, quando la DPL competente, a seguito di richiesta di intervento da parte del lavoratore o dell’organizzazione sindacale che lo rappresenta, convoca gli interessati ed effettua un tentativo di conciliazione fra prestatore e datore di lavoro.
La Direzione provinciale del Lavoro può, mediante un proprio funzionario, avviare un tentativo di conciliazione in due ipotesi:
Il tentativo di conciliazione, che può riguardare solamente diritti disponibili del lavorator, può portare ad un accordo, risultante da apposito verbale, ci dovrà seguire il pagamento da parte del datore di lavoro delle somme dovute al lavoratore, nella misura concordata, e il versamento dei contributi previdenziali e assicurativi. Ciò determina l’estinzione del procedimento ispettivo.
La violazione delle norme in materia di lavoro e legislazione sociale può comportare l’applicazione di una sanzione penale, di una sanzione amministrativa, congiunta o alternativa alla prima, o di una sanzione civile. In particolare, l’illecito amministrativo si realizza in tutti quei casi in cui la violazione è punita con una sanzione amministrativa pecuniaria seconda la legge 689 del 1981.
Il Dlgs 124 del 2004 ha riformato la diffida con la finalità di incentivare il datore di lavoro alla regolarizzazione della violazione, mediante ammissione al pagamento di una sanzione ridotta rispetto a quella ordinaria ed estinzione dell’illecito rilevato. Il potere di diffida può essere esercitato quando l’ispettore, nel corso di un accesso, constati la violazione di norme in materia di lavoro e legislazione sociale, dalle quali derivino sanzioni amministrative sanabili. In presenza dei presupposi sopra menzionati il personale ispettivo deve provvedere a diffidare il datore di lavoro alla regolarizzazione delle inosservanze, fissando un congruo termine per l’adempimento. In caso di ottemperanza l’ispettore ammette il datore al pagamento di una sanzione ridotta, e l’adempimento estingue il procedimento sanzionatorio. In caso di inottemperanza il procedimento prosegue con la contestazione e la notificazione dell’illecito.
Il diritto penale del lavoro è quel complesso di norme che puniscono, con sanzioni tipiche del diritto penale, i comportamenti diretti a violare il diritto all’integrità fisica, alla salute dei lavoratori ed altri diritti previdenziali.
In relazione alle finalità di tutela dell’interesse pubblico, le norme riguardano:
Fra le fattispecie più notevoli costituenti delitti ricordiamo:
Le contravvenzioni rappresentano la quasi totalità delle fattispecie panali in materia di lavoro. E’ consentita l’oblazione che estingue il reato, a norma dell’art. 162 c.p., se è prevista la sola ammenda, e a norma dell’art. 162bis c.p. se è prevista, in alternativa, la pena dell’arresto. Una speciale causa di estinzione del reato è prevista dal D.Lgs. 758/94 subordinata alla rimozione della violazione accertata dagli organi di vigilanza.
Norme particolari sono dettate anche in campo penale dallo Statuto dei lavoratori. L’art. 38 punisce, con l’ammenda o con l’arresto, la violazione delle norme di cui agli artt. 2,4,5,6,8,15 e 33 della medesima L. 300/70. Il sindacato è ammesso alla costituzione di parte civile. L’art. 28 punisce, ai sensi dell’art. 650 c.p. l’inottem-peranza da parte del datore di lavoro all’ordine del giudice di cessazione o rimozione degli effetti della condotta antisindacale. Sono previste anche le seguenti sanzioni atipiche:
Le novità della legge 124 del 2004 si inseriscono, oltre che nella fase dell’accertamento dell’illecito, mediante gli innovativi istituti della diffida e della prescrizione obbligatoria, anche nella fase successiva della emanazione della ordinanza ingiunzione che, ai sensi dell’art. 18 della legge 689 del 1981, rappresenta l’atto conclusivo del procedimento sanzionatorio.
La legge 124 del 2004 disciplina, al riguardo, un importante possibilità di ricorso amministrativo, con la previsione di due specifici ricorsi, distinguibili per materia e per funzione:
Varie norme speciali, di carattere imperativo, prevedono molteplici garanzie per la tutela dei diritti del prestatore di lavoro. Ciò nella considerazione che il lavoratore, nella sua posizione di contraente più debole, possa essere indotto a non esercitare propriamente i propri diritti nel timore di ritorsioni da parte del datore.
I crediti del lavoratore per retribuzioni, per indennità legate alla cessazione del rapporto di lavoro e per risarcimento danni in conseguenza di un licenziamento illegittimo sono assistiti in via principale dal privilegio generale sui beni mobili del datore (art. 2751 bis c.c.); in via sussidiaria da privilegio, rispetto ai creditori chirografari, sul prezzo degli immobili (art. 2776 c.c.). Solo in particolari rapporti valgono garanzie speciali. I crediti di lavoro occupano il secondo posto dopo le spese di giustizia, tra i privilegi di cui all’art. 2777 c.c. e sono preferiti ad ogni altro credito, anche pignoratizio o ipotecario.
La retribuzione, per espressa previsione costituzionale, è destinata a soddisfare le esigenze vitali del lavoratore e della sua famiglia. Per tale motivo il legislatore ha posto alcuni limiti alla disponibilità dei diritti del prestatore. In particolare:
Nel concludere l'esame dei principali istituti che formano il rapporto di lavoro, dalla sua costituzione fino alla sua cessazione, volti essenzialmente a tutelare il prestatore nella sua posizione di contraente debole, è necessario trattare degli atti di disposizione dei diritti dei lavoratori. L'art. 2113, co. I, c.c., nel testo modificato dall'art. 6, L. 11 agosto 1973, n. 533, dispone che "Le rinunce e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 del codice di procedura civile, non sono valide". I negozi giuridici con cui può realizzarsi la disposizione dei diritti dei lavoratori ai quali si riferisce l'art. 2113, co. I, c.c., sono dunque:
Dalle rinunce e dalle transazioni bisogna tenere distinte le c.d. quietanze a saldo o quietanze liberatorie, con le quali il prestatore dichiara di aver ricevuto una certa somma attestando di essere soddisfatto di ogni spettanza e di non avere nulla a pretendere. In un primo momento, la giurisprudenza era incline a ravvisare nella quietanza a saldo l'animus rinunciandi; oggi è giunta all'opposta conclusione che la quietanza è una mera dichiarazione di scienza che non contiene alcuna volontà di rinuncia ad ogni altro eventuale credito del prestatore nei confronti del datore. La rilevanza di tale atto come rinuncia può, dunque, aversi solo nei casi in cui precisi elementi testuali e circostanze di fatto denotino la sussistenza dell'animus rinunciandi.
L'impugnazione delle rinunce e transazioni di cui all'art. 2113, co. 1, c.c., con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore, deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione del rapporto o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima. L'invalidità prevista dall'art. 2113, c.c., è della specie dell'annullabilità, come si desume dalla previsione di un regime di impugnazione - il diritto di impugnazione ex art. 2113 è un diritto potestativo concesso solo al prestatore, intrasmissibile agli eredi - e dalla fissazione di un termine di decadenza. Il mancato esercizio del potere di impugnazione sana le rinunce e le transazioni altrimenti invalide.
Non sono però impugnabili le rinunce e le transazioni che, ai sensi degli artt. 185, 410, 411 e 420 c.p.c., siano stipulate attraverso procedure conciliative avvenute innanzi al giudice o davanti alle apposite commissioni istituite presso le Direzioni provinciali del lavoro ovvero in conseguenza delle analoghe procedure previste dai contratti collettivi di lavoro.
Come si sa, la prescrizione estintiva produce l'estinzione del diritto soggettivo per effetto dell'inerzia del titolare che non lo esercita o non ne usa per il tempo determinato dalla legge. Ora, il tema della prescrizione dei diritti del prestatore di lavoro è strettamente connesso a quello della disposizione degli stessi, in quanto "l'effetto estintivo della prescrizione può essere considerato sostanzialmente equivalente all'effetto dismissivo proprio della rinuncia e della transazione, previste dall'art. 2113 c.c., a vantaggio del datore di lavoro" (GHERA). In materia di lavoro si distingue:
Alla prescrizione estintiva si affianca la prescrizione presuntiva, di diversa natura, fondamento e disciplina; essa si sostanzia in una presunzione di pagamento perché fa presumere che, decorso un determinato periodo di tempo, il credito si sia estinto. Tale prescrizione, in materia di lavoro, è:
La prescrizione presuntiva ammette come prova contraria soltanto la confessione giudiziale ed il giuramento decisorio. I termini di prescrizione dei crediti retributivi decorrono:
Quelli relativi a diritti non retributivi decorrono secondo il normale regime di diritto civile (Corte cost. n. 66/63, n. 174/72). Anche la decadenza come la prescrizione è un istituto collegato al decorso del tempo: essa si concreta, infatti, nella perdita, per il titolare di un diritto, della possibilità di esercitarlo a causa del mancato compimento di una certa attività o di un certo atto entro un termine perentorio. La decadenza è:
La L. 533/73, recante la Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatoria, ha delineato un procedimento ispirato a criteri di snellezza e semplicità, poco costoso e soprattutto più breve rispetto a quello ordinario. Costituiscono caratteristiche salienti del diritto del lavoro:
Il campo di applicazione della normativa in esame, oltre che ai rapporti di lavoro subordinato, si estende:
A partire dal 2-6-99 è operativa la riforma del giudice unico di primo grado introdotta con il D.Lgs. 51/98. Tale riforma concentra in un unico ufficio di primo grado, il Tribunale, le competenze giudiziarie tradizionalmente divise tra Tribunale e Pretura allo scopo di superare la eccessiva polverizzazione della rete giudiziaria al fine di accrescerne efficienza e funzionalità. Dal 2-6-99 è stato dunque soppresso l’ufficio del pretore con la conseguenza che le controversie previste dall’art. 409 c.p.c. sono decise in primo grado dal Tribunale in funzione di giudice del lavoro. Il Tribunale del lavoro è giudice monocratico. La competenza per territorio, inderogabile, è determinata dal luogo in cui è sorto il rapporto di lavoro.
L’art. 410 c.p.c. (riformato dall’art. 36 del D.Lgs. 80/98) prevede che il tentativo di conciliazione extragiudiziale sia obbligatorio: esso è condizione di procedibilità della domanda giudiziale e, in suo difetto, il giudice deve sospendere il giudizio, fissando alle parti un termine perentorio per proporre il tentativo. La comunicazione della richiesta di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo e per i 20 giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza. Il tentativo di conciliazione deve essere espletato entro 60 giorni dalla presentazione della richiesta. In difetto, si considererà comunque espletato. Se il tentativo riesce si redige processo verbale che il giudice dichiarerà esecutivo con decreto; se non riesce si redige processo verbale con l’indicazione delle ragioni del mancato accordo.
La domanda si propone con ricorso, che viene depositato presso la cancelleria del Tribunale competente – sezione lavoro – il quale fissa l'udienza di discussione con decreto. Questo è notificato, nei dieci giorni successivi e comunque non meno di giorni trenta dalla data della prima udienza, con il ricorso al convenuto.
Il convenuto ha l’onere di costituirsi, a pena di decadenza dalle eccezioni processuali e di merito, almeno dieci giorni prima dell’udienza, mediante deposito in cancelleria della comparsa. Qualora proponga nello stesso atto domanda riconvenzionale deve chiedere la fissazione di nuova udienza. Nell'udienza di discussione il giudice interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione della lite. Se questa non riesce, egli procede all'istruzione probatoria, alla quale seguono la discussione orale, le conclusioni delle parti e la pronuncia della sentenza il cui dispositivo viene immediatamente letto in aula. La sentenza è provvisoriamente esecutiva: se pronunciata a favore del lavoratore può essere sospesa dal tribunale se all'altra parte può derivare un gravissimo danno; se pronunciata a favore del datore di lavoro può essere sospesa quando ricorrono gravi motivi. Quanto alla fase di impugnazione, per effetto della riforma introdotta dal D.Lgs. 51/98, a far data dal 2-6-99, l’appello contro le sentenze dei processi di lavoro deve essere proposta con ricorso davanti alla Corte di Appello territorialmente competente in funzione di giudice del lavoro. La procedura ricalca quella di primo grado.
Occorre infine ricordare che il giudice del lavoro è anche competente per i giudizi relativi ad assicurazioni sociali, infortuni sul lavoro e malattie professionali, assegni familiari, ogni altra forma di previdenza e assistenza obbligatoria.
Il co. IV dell'art. 2113, c.c., statuisce che le disposizioni dello stesso articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli artt..185, 410 e 411 del codice di procedura civile, che può essere giudiziale o stragiudiziale. La prima, prevista in generale dall'art. 185, c.p.c., non presenta particolarità di sorta e può avvenire in ogni momento del processo su iniziativa del giudice, che la tenta già nell'udienza fissata per la discussione della causa. Se la conciliazione è raggiunta, viene redatto il relativo processo verbale, che ha efficacia di titolo esecutivo. La conciliazione stragiudiziale, invece, trova il suo fondamento nell'autonomia privata, ha carattere facoltativo e può avvenire sia in sede amministrativa - dinanzi ad apposite commissioni intersindacali istituite presso l'ufficio provinciale del lavoro o presso le relative sezioni zonali -, sia in sede sindacale - quando è prevista dai contratti collettivi per la risoluzione di controversie concernenti la loro applicazione. Il relativo processo verbale acquista efficacia di titolo esecutivo in virtù di un apposito decreto del giudice del lavoro, emesso su istanza di parte, che ne accerta esclusivamente la regolarità formale. Diverso dalla conciliazione è l'arbitrato, sia rituale sia irrituale, di cui si tratta in questa sede perché esso si inserisce nel sistema di garanzie predisposte dal legislatore per rafforzare la tutela dei diritti del lavoratore. In generale, l'arbitrato trova la sua fonte nella clausola compromissoria, con la quale si stabilisce che le controversie relative all'applicazione di un contratto siano risolte da un arbitro già designato o da designare al momento della controversia, con un ulteriore atto di autonomia definito compromesso - che può essere anche l'unica fonte dell'arbitrato nel caso in cui manchi la clausola compromissoria (MAZZIOTTI). L'arbitrato è:
Nel secondo caso il lodo arbitrale è parificato alle rinunce e transazioni ed è quindi invalido se viola disposizioni inderogabili di legge oppure di contratti o accordi collettivi; ad esso sono applicabili i co. II e III dell'art. 2113, c.c., con la conseguente possibilità di impugnazione del lodo, per il lavoratore, nel termine di decadenza di sei mesi.
Nei procedimenti relativi a controversie derivanti dall’applicazione delle norme riguardanti le assicurazioni sociali, gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali, gli assegni familiari nonché ogni altra forma di previdenza e di assistenza obbligatoria, si applicano le disposizioni di cui agli artt. 409 – 441 c.pc.. Allo stesso regime sono assoggettate le controversie relative all’inosservanza degli obblighi di assistenza e previdenza derivanti da contratti o accordi collettivi. Tuttavia, relativamente alla materia previdenziale non trova applicazione il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 410 c.p.c..
L’art. 28 dello Statuto dei lavoratori ha previsto la repressione della condotta antisindacale posta in essere in qualsiasi forma dal datore di lavoro riconoscendo alle organizzazioni sindacali, il diritto di chiedere la tutela giurisdizionali degli interessi collettivi violati da tale comportamento. Il legislatore ha utilizzato una formula amplissima e generica per definire tale condotta, individuandola in qualsiasi comportamento diretto ad impedire o limitare l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale nonché del diritto di sciopero (strappo di un manifesto sindacale; licenziamento intimato per motivi sindacali; rifiuto di concedere una bacheca per le affissioni). Accanto all’ipotesi di comportamento antisindacale genericamente descritta dall’art. 28, l’ordinamento ha tipizzato alcune situazioni in presenza delle quali il sindacato può ricorrere alla procedura di tutela dell’art. 28. Ne sono esempi:
Il procedimento è estremamente semplice. I soggetti legittimati sono solamente gli organismi locali delle associazioni nazionali che vi abbiano interesse. Competente è il Tribunale, in composizione monocratica. Oggetto della tutela è il libero esercizio dei diritti sindacali si tutti i lavoratori e, perciò, non solo dei rappresentanti sindacali. In seguito al ricorso il giudice decide con decreto motivato immediatamente esecutivo nei due giorni successivi alla proposizione del ricorso. Contro il decreto è ammesso opposizione entro 15 giorni dalla comunicazione davanti allo stesso giudice del lavoro. In materia di rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni, a seguito della abrogazione dei commi 6 e 7 dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, se applica, coerentemente con la privatizzazione del pubblico impiego, la medesima disciplina e procedura.
Fonte: http://www.controcampus.it/wp-content/uploads/2012/03/Mazziotti-Compendio_Di_Diritto_Del_Lavoro__Aggiornato_.doc
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Autore del testo: M. De Stasio www.studiodestasio.it
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