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Nella lingua italiana i vocaboli diligenza o diligente derivano direttamente dalla lingua latina, di cui sono la traduzione letterale : diligere o dilegere significa amare ciò che fra più cose viene preferito (o anche semplicemente preferire); discende da legere ( scegliere) cui è stato anteposto il prefisso dis che suggerisce l’idea del distacco.
Nell’uso corrente della lingua italiana, diligenza è quindi “cura sollecita e assidua nell’operare” , oppure “continua ed assidua cura, accuratezza, amore, ricerca accurata” e così diligente è colui “che opera con cura sollecita e assidua, con amore”.
In sostanza, la diligenza, secondo la sua espressione lessicale attuale, sta a significare una dote naturale dell’essere umano che si traduce in un atteggiamento volontaristico, qualificato dalla ponderata ricerca e selezione dei mezzi per la miglior riuscita di quel che si fa nell’interesse proprio o di terzi. Un più chiaro concetto di diligenza si può evincere considerandone i sinonimi, fra i quali: zelo, premura, sollecitudine, scrupolosità, accuratezza, avvedutezza e altri .
Il vocabolo diligenza viene usato anche nel linguaggio giuridico e, dal diritto romano in poi, il concetto che esso racchiude ha assunto un grande rilievo in moltissime norme, specialmente nel campo del diritto delle obbligazioni.
Come vedremo nelle pagine seguenti, al suo significato originario, che ha una base eminentemente soggettiva e interiore, se ne è andato aggiungendo un altro di carattere tecnico e oggettivo che tende a sovrapporsi al primo. Fenomeni come questi sono frequenti nel linguaggio comune ed anche nello stesso linguaggio giuridico, il che può determinare delle incomprensioni fra gli stessi interpreti a tutto danno della certezza del diritto.
Questi cenni introduttivi sull’etimologia e sul significato comune di diligenza sono, a mio avviso, necessari affinchè l’interprete tenga il dovuto conto del valore delle parole e , quindi, dei concetti che esse racchiudono secondo l’uso corrente delle lingue viva in relazione all’individuazione dei concetti e delle categorie giuridiche presenti nel sistema del diritto positivo.
Può essere interessante illustrare ora alcuni dei principali punti di vista sostenuti dalla dottrina più recente intorno all’essenza del concetto di diligenza specificando che un vivo dissenso si è riscontrato e tuttora si manifesta tra coloro che sostengono la tesi della diligenza soggettiva e quelli che, invece, la ammettono solo in senso oggettivo. Fra i più autorevoli sostenitori della prima opinione figura Ludovico Barassi (1873-1961) giurista docente di diritto privato nell’Università Cattolica di Milano e autore di numerose opere di diritto civile e del lavoro.
Una prima ed organica analisi della teoria soggettivistica è offerta dal Barassi nel secondo volume (della seconda edizione) del Contratto, là dove l’autore afferma che il debitore di lavoro è tenuto ad adempiere la prestazione con la “media diligenza del buon lavoratore, sintetizzata nella diligenza del buon padre di famiglia” . Alla natura astratta del parametro di commisurazione – il “buon” debitore, o diremmo ora, il debitore modello- Barassi associa però una dimensione propriamente interiore della diligenza: questa consiste in una particolare qualità della volizione e non già in una specifica modalità dell’azione esperita o del contegno adottato dal debitore. Infatti, al fine di “soddisfare a quella funzione, a quegli scopi cui il creditore intese destinarla”, il debitore di lavoro deve impiegare nell’adempimento della prestazione, “tutto lo sforzo, tutto lo zelo che normalmente il buon lavoratore suole impiegare nelle circostanze concrete”.
Per adempiere “esattamente” l’obbligazione (come dispone l’articolo 1218 c.c.) il debitore- dice quindi Barassi- deve mettere in atto “un grado di tensione di volontà, un complesso di cure e cautele sintetizzate nella diligenza” . Questo grado di tensione e di diligenza - egli aggiunge – va ben determinato nel senso che il creditore non può pretendere uno sforzo maggiore di quello che normalmente si suole impiegare in identiche circostanze.
È questa la diligenza del buon padre di famiglia, cioè del buon debitore normale, una figura astratta, oggettiva, desunta dalla vita e, quindi, elastica e variabile secondo le circostanze e la natura della prestazione. Il Barassi, parlando di un particolare grado di tensione della volontà intende significare che perché la prestazione del debitore sia eseguita esattamente, è necessario procedere con la particolare diligenza richiesta dalla natura stessa dell’oggetto dedotto in obbligazione e quindi non è sufficiente una volontà qualsiasi, non basta il voler agire semplicemente per liberarsi da eventuali responsabilità, ma si deve voler agire in quella determinata direzione allo scopo di raggiungere il risultato o di tenere il comportamento promesso; in sintesi al debitore–lavoratore non basta lavorare”; per liberarsi da responsabilità è necessario invece lavorare “bene” ed “utilmente”.
Lavorare bene vuol dire lavorare con diligenza e perizia; lavorare utilmente significa che il lavoratore retribuito a cottimo o a tempo , ha un “dovere di tendere verso il normale massimo rendimento” e su di lui grava “l’obbligo di dare al proprio lavoro il rendimento utile che normalmente il buon lavoratore suole dargli”.
A ben vedere, dunque, dalla regula dell’art. 1224 c.c. l’autore deriva, in capo al debitore di lavoro, non tanto un “dovere di tendere” verso il normale massimo rendimento- da realizzare impiegando al fine una quantità normale di sforzo e zelo- quanto piuttosto un “obbligo di dare” il rendimento utile che statisticamente (e perciò normalmente) “il buon lavoratore deve poter dare a giudizio dei più, nelle circostanze concrete”. Ma la conseguente sovrapposizione tra tensione del lavoratore (in cui si risolve l’obbligazione) e scopo dell’attività lavorativa (che soddisfa l’aspettativa del creditore), segnala che l’obbligazione, diversamente da quanto ipotizzato in termini generali, è caratterizzata pur sempre da un risultato atteso, utile per il creditore; si evidenzia così la difficoltà di individuare un parametro di valutazione della diligenza prestata, se e quando a questa si attribuisca una dimensione soggettiva, variamente identificata nella intensità dello sforzo, nello zelo e comunque in ciò che Barassi stesso definisce “fattori psichici”.
Tali difficoltà ricostruttive risultano accentuate dalla rilevanza attenuatrice attribuita alle circostanze concrete in sede di definizione del quantum di “rendimento” astrattamente prevedibile ed esigibile dal creditore. Difatti nel caso in cui il rendimento fosse influenzato da condizioni oggettive attinenti alle modalità di erogazione della prestazione ed anche di organizzazione del lavoro, allora la sola mancanza di zelo e di sforzo nel tendere verso il “normale massimo rendimento” potrebbe imputarsi al debitore di lavoro. Viceversa se il lavoratore avesse l’obbligo di dare comunque un rendimento minimo - che Barassi rappresenta come rendimento “normale massimo”, o più genericamente utile - allora sarebbe irrilevante lo sforzo impegnato e la stessa intensità della tensione di volontà del debitore di lavoro.
Dunque, si ha l’impressione che Ludovico Barassi si trovò quindi in difficoltà ad interiorizzare ed applicare il modello astratto di diligenza introdotto dal codice abrogato e soprattutto a coordinarlo con una architettura dell’obbligazione il cui baricentro è definito per intero dall’attività dovuta.
A rendere ancora più sfumata l’affermata astrattezza statistica del modello di debitore previsto dall’art.1224 c.c. sta il fatto che la “straordinaria elasticità” del concetto di buon padre di famiglia - nella quale pure l’autore esattamente individua il segreto della vitalità dell’istituto - fa sì che la diligenza dovuta, e cioè lo sforzo e la tensione del debitore, “varii non solo secondo le professioni, ma nella stessa professione secondo le cose cui si applica” ovvero “secondo la natura dei rapporti” ed anzi trova un indicatore pertinente nella retribuzione percepita .
Nel senso cioè, ma l’idea risale già al 1901 , che è lecito presumere una correlazione direttamente proporzionale tra retribuzione percepita e l’intensità dello sforzo richiesto. Il Barassi stabilisce infatti una stretta correlazione tra quantum della retribuzione e quantum della diligenza richiesta al debitore (soggettivamente intesa come tensione e sforzo individuale); la retribuzione è così considerata alla stregua di un indicatore dell’intensità dello sforzo individuale, in modo tale che la scarsità della portata della retribuzione si traduce in un parametro variabile della intensità della diligenza richiesta al debitore di lavoro e dunque in un meccanismo di sostanziale quantificazione della medesima.
È interessante segnalare come siffatta correlazione verrà utilizzata molti anni dopo da Corrado, per lamentare che dalla correlazione salario-diligenza avrebbero potuto dedursi argomenti pertinenti per affermare che un debitore è soggettivamente meno abile, e dunque meno pagato, di un altro; ovvero che la scarsità della mercede è l’elemento comune che identifica una classe di debitori in possesso di scarsa professionalità . Ma è evidente che una soluzione del genere, pure intuita da Barassi, avrebbe revocato in dubbio la costruzione soggettivistica a beneficio di una esaltazione del contenuto oggettivo e tecnico della diligenza.
In conclusione, sulla base delle constatazioni e delle opinioni del Barassi, sebbene contrassegnate da difficoltà e astrattezze nella faticosa ricerca di un percorso lineare su cui incanalare il modello soggettivistico del concetto di diligenza, si può dedurre che l’autore rimane sostanzialmente fedele al tradizionale concetto di diligenza come “fervore normale di volontà nell’attuazione della prestazione”, per cui, se il debitore ha impiegato tutta la sua buona volontà e ciononostante non ha potuto adempiere, egli giammai sarà responsabile nei confronti del creditore.
Questa, in sostanza, è la sintesi logistica della teoria sulla diligenza di Ludovico Barassi che tutt’oggi costituisce uno degli essenziali riferimenti nell’indagine sulla diligenza e a cui la dottrina italiana sembra ancora essere inconsapevolmente assoggettata.
2. CONCEZIONE OGGETTIVA DI DILIGENZA
La teoria soggettivistica del Barassi non spense definitivamente la questione interpretativa del concetto di diligenza instauratasi a partire della seconda metà dell’Ottocento e tuttora viva nella giurisprudenza moderna; d’altronde il pensiero barassiano si risolveva in un vero e proprio paradosso in ordine alla astrazione concreta della diligenza in cui il tentativo di una personalizzazione volontaristica della diligenza si scontrava costantemente con la difficoltà empirica di accertarne l’esistenza e di individuarne la misura.
A tale paradosso sfuggì, invece, Giuseppe Osti, il quale considera la diligenza “sempre come valutazione del comportamento esterno del debitore” .
Partendo dal principio secondo cui il fondamento della responsabilità contrattuale non è la colpa (cioè la mancanza della diligenza del tradizionale buon padre di famiglia valutata a mente dell’art. 1176 c.c.), ma l’inadempimento- l’Osti ritiene che la inosservanza della diligenza nelle obbligazioni di facere costituisca inesatto inadempimento, di cui la colpa è elemento integrante, non una condizione soggettiva, onde la violazione dell’art.1176 comporta l’applicazione dell’art.1218 ponendo in essere la condizione oggettiva dell’inadempimento. Pur ammettendo esplicitamente che la diligenza sia una qualità tipica di un’attività del debitore, egli afferma che l’art.1176 trova applicazione solo se è dovuta un’attività, mentre non è possibile applicarlo se è dovuto un risultato.
L’Osti ha avuto quindi il merito di restituire alla diligenza la definizione che si attaglia all’origine etimologica del termine avendo riguardo al criterio della scelta attuata dal debitore fra i vari comportamenti da tenersi. Infatti l’Osti afferma che “la diligenza non è che scelta o cautela nello scegliere fra un modo di agire e un altro, fra uno e un altro comportamento”, - e aggiunge – “in considerazione di un determinato scopo da raggiungere” ; “promettere di adempiere” ad una prestazione non significa promettere una qualunque intensità di sforzi, di cautele, di energia necessaria per arrivarci, bensì promettere tutte quelle energie, tutti quei mezzi che comunemente in eguali circostanze sogliono essere adibiti per ottenere uno scopo identico . Obbligandosi, il debitore è tenuto ad un certo grado tipico di sacrificio verso uno scopo e nello stesso tempo dichiara di essere irrevocabilmente determinato a mettere in essere l’effetto promesso. Se non vi riesce, o se ha errato i suoi calcoli egli dovrà rispondere senza alcun riguardo alle cause soggettive dell’inadempimento .
In ciò si annida un aspetto paradossale. Se da punto di vista teorico è evidente la consonanza della teorizzazione di Osti con le esigenze dell’economia capitalistica, dal punto di vista pratico è invece proprio l’adozione della colpa come fondamento della responsabilità debitoria (Barassi) che favorisce l’avvio e il radicamento dei processi di industrializzazione a beneficio delle imprese ancora in fase di sviluppo. In un certo senso, la teoria oggettiva di Osti è in anticipo sui tempi, come dimostra il fatto che è proprio nell’attuale fase di sviluppo del capitalismo maturo che emergono specifiche preferenze per una disciplina della responsabilità che, indipendentemente dalla colpa, gravi l’impresa degli eventuali danni.
Evidentemente, nell’elaborazione di Osti è facile individuare la vigorosa reazione polemica nei confronti dell’esasperazione soggettivistica della responsabilità debitoria ad opera della corrente dottrinaria che in Barassi aveva trovato il suo alfiere.
Per comprendere meglio la portata significativa di tali asserzioni, occorre considerare che Osti distingue le obbligazioni per le quali “la considerazione dello scopo è decisiva” da quelle per le quali la prestazione consiste in una “attività diretta a uno scopo” . Nelle prime, ai fini del giudizio di responsabilità, una sola è la ricerca ammissibile, e cioè, se lo scopo sia o no stato raggiunto, sì che risulta esclusa ogni considerazione in ordine alle modalità con le quali lo scopo stesso è stato perseguito dal soggetto obbligato: ciò che rileva è solo l’effettivo conseguimento del risultato. Nelle seconde, invece, il debitore è titolare di una “naturale libertà di scelta” dei mezzi da utilizzare in relazione allo scopo cui l’attività stessa tende. In quest’ultimo contesto la diligenza non è altro che quella scelta di cui abbiamo già accennato poc’anzi.
Insomma, stanti tali differenziazioni, si può sintetizzare la posizione dell’Osti affermando che un comportamento oggettivamente conforme ai canoni di diligenza integra gli estremi dell’adempimento, e viceversa, un comportamento contrario si configura come inadempimento: l’interesse del creditore è dunque soddisfatto non già dall’erogazione di una determinata intensità di sforzo verso uno scopo ma dalla realizzazione dello scopo contrattuale mediante l’impiego della diligenza richiesta dalla prestazione dedotta in obbligazione .
In virtù della correlazione instaurata tra diligenza e attività , Osti può proporre un’ulteriore distinzione, differenziando la portata della regola in relazione alle modalità esecutive; queste saranno: di ordine tecnico, quando si tratti di attività professionali; di ordine “sociale”, negli altri casi. Come si può vedere, dunque, l’autore anticipa e prepara il discorso codicistico del 1942, per quanto poi l’attribuzione di una valenza tecnica alla regola di diligenza sia da lui correlata “al tipo speciale del singolo rapporto”, laddove invece l’art. 1176, 2° comma farà riferimento alla natura dell’attività prestata .
3. LA POSIZIONE AMBIVALENTE DEL MENGONI
Il Mengoni in occasione di una sua accurata indagine critica sulla distinzione delle obbligazioni di risultato e di mezzi , si è a lungo occupato del problema della diligenza.
Questa, secondo l’autore, non è un comportamento, ma un modo di comportarsi e, quindi, la misura di un concreto dovere di prestazione.
Notevole è l’osservazione che da un punto di vista tecnico giuridico la parola diligenza, coi verbi: “prestare, usare, impiegare, rispondere”, assume uno speciale significato: non designa semplicemente un’attitudine interiore, bensì l’estrinsecazione di questa in un “comportamento diligente”, onde il termine “obbligazione di diligenza” equivale a dovere di agire diligentemente in vista di un dato risultato.
Più oltre, risalendo alle fonti, il Mengoni afferma che la “diligentia” è una qualità soggettiva di un’attività e significa cura, sollecitudine, sforzo, studio, attenzione al fine. Ma l’affermazione più importante è che la funzione tecnica della diligenza riguarda non tanto l’adempimento, quanto la conservazione della possibilità di adempiere. Il momento determinante dell’adempimento essendo, nei riguardi del creditore, la bonitas o utilitas della prestazione, cioè una qualità inerente al risultato dell’azione, questa si risolve in un giudizio oggettivo di valore. La diligenza è invece, una funzione della volontà; la bontà o l’utilità dell’azione è una funzione di determinate regole la cui osservanza trasforma il semplice agere in facere.
Chi opera bene agisce perciò diligentemente, ma appunto la diligenza è soltanto una modalità del contenuto del vincolo, un presupposto dell’esatto adempimento.
Sotto il punto di vista tecnico, la diligenza- continua il Mengoni – è essenzialmente un criterio di imputabilità, una misura della colpa e, quindi, si risolve in una valutazione etica del debitore che è astratta e perciò oggettiva. Come tale implica la considerazione della tensione di volontà in direzione dell’adempimento.
Osserva poi detto autore che nel nostro ordinamento, il quale alla responsabilità del debitore non riconosce altro limite all’infuori del casus (art.1218 c.c.), la diligenza ,come dovere di sforzo, non può avere quella rilevanza che sembrerebbe indicata dall’art.1176 c.c.
La culpa-diligentia (imputabilità) viene in rilievo solo nel caso di sopravvenuta impossibilità (oggettiva) dell’adempimento .
In conclusione per il Mengoni, la diligenza, come sforzo diretto a evitare il casus culpa determinatus , si pone quale misura di imputabilità della impossibilità sopravvenuta. Tale opinione è conseguente alla valutazione di buona fede dei rapporti obbligatori, il che esige che il debitore non solo compia tempestivamente tutto ciò che è necessario per adempiere, ma anche che prima della scadenza si comporti da buon padre di famiglia per mantenersi in grado di adempiere.
Il Mengoni riprende, quindi, collegandola all’obbligo di buona fede, l’opinione precedentemente espressa in base alla quale la diligenza del buon padre di famiglia viene intesa come diligenza in preparazione dell’adempimento , limitatamente ai comportamenti necessari per la prestazione (funzione conservatrice della diligenza in fase di pre-adempimento).
4. ALTRE OPINIONI AUTOREVOLI DEL CONCETTO DI DILIGENZA
Tra le altre opinioni autorevoli sul concetto di diligenza, interessante è senza dubbio segnalare la posizione del Betti che, per certi aspetti, richiama la concezione oggettiva dell’Osti.
Il Betti da sempre insiste sull’esigenza di cooperazione fra i soggetti del rapporto obbligatorio ; per quanto si riferisce alla cooperazione del debitore egli vede in essa un momento soggettivo (contegno di cooperazione) e uno oggettivo (che si concreta nell’utilità per il creditore).
Il primo viene valutato secondo “un concetto deontologico di diligenza ed eventualmente anche a una stregua di abilità tecnica” . A parte la distinzione che anche egli fa fra obbligazioni di contegno e di risultato, è sintomatico notare che quel “concetto deontologico di diligenza” viene tenuto separato dalla abilità tecnica, ammessa come eventuale.
Etimologicamente “diligenza deontologica” vuol dire ad litteram una diligenza “come deve essere”. Di fatto essa è quella che viene espressa da una valutazione generale intorno a un certo modo con cui il debitore deve comportarsi nell’adempimento della obbligazione in un dato momento e ambiente storico. Né può escludersi che essa in un senso circoscritto, comprenda anche quei comportamenti, soprattutto d’ordine etico, che costituiscono la cosiddetta deontologia professionale. Nemmeno possono escludersi interferenze con il concetto generale di correttezza.
Questo complesso concetto può non trovare preciso riscontro in rigide formule di legge. Insomma è giuridicamente rilevante agli effetti dell’adempimento dell’obbligazione quel contegno del debitore che per varie vie che non si riducono esclusivamente alle regole della tecnica (pur giocandovi questa un ruolo non trascurabile) convoglia le energie del debitore verso l’esatta esecuzione dell’obbligazione.
Lo stesso Betti assume che il mero criterio tecnico non è sufficiente a escludere l’imputabilità dell’inadempimento perché occorre appurare se vi è una causa estranea al debitore .
Appare quindi lecito indagare se, in alcuni casi speciali, vi possa essere anche una causa interiore, riferibile esclusivamente al debitore, che determini una sua impossibilità soggettiva a effettuare la prestazione, nonostante che dall’art.1218 c.c. si deduca che la causa di impossibilità deve essere oggettiva. Così ad esempio quando un artista lirico non riesce a trovare in sé sufficienti energie per eseguire la parte affidatagli a causa dell’improvvisa notizia della morte di un suo stretto congiunto comunicatagli poco prima della rappresentazione .
Il tentativo del Betti di attenuare il rigore della tesi dell’Osti lascia tuttavia perplessi: Egli limita l’applicazione dell’art. 1176 c.c. alle sole obbligazioni di contegno, ma per quanto riguarda la impossibilità ad adempiere di cui all’art.1218 c.c. afferma che questa deve essere assoluta con riferimento al tipo di obbligazione di cui si tratta e al dovere di cooperazione che da questa discende.
In altre parole egli costruisce un concetto di impossibilità tipica del debitore, non quindi eventualmente il limite del massimo sforzo che il debitore può sopportare. Si può allora dubitare che questa formula del Betti coincida con la diligenza oggettiva in senso proprio.
Un’altra opinione è prospettata dal Giorgianni sulla base di una spiegabile alterazione, dal punto di vista storico, del concetto di impossibilità della prestazione trasfuso nell’art.1218 c.c. del Codice Civile. Infatti, in diritto romano la impossibilità della prestazione era limitata alla perdita della cosa da consegnare o da restituire nelle obbligazioni di custodia. Ora, non essendo lecito generalizzare le regole della custodia ad altre ipotesi, il Giorgianni afferma che “l’equivoco” da cui è sorto l’art.1218 c.c. deriva dalla pretesa di elevare l’impossibilità sopravvenuta a metro uniforme della responsabilità dell’obbligato. La soluzione del problema consisterebbe nel limitare la portata del citato art.1218 c.c. per restringerla a una sola ipotesi, quella in cui la prestazione è diventata impossibile per causa imputabile al debitore. Costui, dunque, deve evitare ogni causa di impossibilità della prestazione e, quindi, deve anche conservare le proprie possibilità di adempimento.
In sintesi, diligenza e colpa, secondo il Giorgianni non indicano necessariamente una situazione soggettiva del debitore, ma la colpa assume un significato diverso da quello che ha in campo morale .
La diligenza poi comprende secondo il predetto autore, non solo lo sforzo, ma anche la perizia .
Per gli altri autori la diligenza non è che un criterio valutativo o una misura di imputabilità.
Così per Maiello non è altro che la misura dell’esatta rispondenza di ciò che si è eseguito a ciò che si è obbligati di eseguire o di dare .
Questo controllo dell’accennata rispondenza viene dilatato fino al punto da esaminare se l’utilità conseguente alla prestazione eseguita è proprio quella dovuta o quella che il creditore legittimamente si aspettava dal debitore.
Proseguendo su questa via si arriva a concepire la diligenza non solo come criterio di controllo, ma anche quale criterio per determinare in concreto quale è l’oggetto dell’obbligazione.
Anche Giovine propende per un concetto di diligenza ambivalente, soggettiva e oggettiva, in fase di adempimento , ma questo concetto esigerebbe una chiarificazione in altra sede.
Nella letteratura straniera va notato che la più recente dottrina tedesca si sforza di mettere a fuoco un concetto di diligenza come misura concreta e obbligatoria da applicarsi nel caso secondo quanto farebbe una accorta e scrupolosa persona appartenente a quel determinato ramo d’affari o di rapporti di cui si tratta.
Ciò è importante ricordare per la individuazione della diligenza in relazione alle caratteristiche di una prestazione-tipo.
Ne discende così la speciale diligenza dell’operaio a seconda delle sue diverse qualifiche, del medico, dell’avvocato, dell’artigiano, etc.
La diligenza del lavoratore è stata definita a causa dei suoi caratteri: diligenza professionale e si è ritenuto che essa implichi un grado di colpa più rigoroso di quella levis (in cui la legge può escludere comunque la responsabilità del soggetto) .
Contro questa concezione si è reagito ritenendosi che con ciò si dà vita a un nuovo concetto di diligenza, tuttavia da un punto di vista letterale o formale non è errato definire la diligenza professionale come quell’attitudine che inerisce all’esplicazione di un’attività professionale, tanto più che la locuzione adottata dal legislatore nel 2° comma dell’articolo 1176 c.c., sia pure indirettamente, può dar credito a questa aggettivazione .cfr. BATTISTI e ALESSIO, Dizionario etimologico della lingua italiana, Firenze, 1961, vol. II, p.1303, voce: Diligente: accurato, zelante; Diligenza: cura, accuratezza.
PALAZZI, Nuovissimo dizionario della lingua italiana, Milano, 1952.
ZINGARELLI, Vocabolario della lingua italiana, ed. 1996, voce diligenza.
DEVOTO-OLI, Il dizionario della lingua italiana, 1998, Le Monnier, Firenze, p.570, voce “diligenza”.
Si veda al riguardo BARASSI, Teoria generale delle obbligazioni, Milano, 1948, n.281. Nella prima edizione della stessa opera (Milano 1946) il B. aveva assunto una posizione in parte diversa, puntando sul dovere di diligenza normale, per cui il debitore è responsabile solo se non osserva la diligenza del buon padre di famiglia.
BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, vol. II, Milano, 1917, 449 e 452 in nota, 453 e 461.
Cfr. BARASSI, Teoria Generale, cit., III, p.15.
Il Barassi non percepisce ancora la differenza tra risultato come contenuto (contratto a cottimo) del lavoro e risultato come misura del salario (retribuzione a cottimo): in merito cfr. GIUGNI, Organizzazione dell’impresa ed evoluzione dei rapporti giuridici.
La retribuzione a cottimo, in Riv. giur. lav.,1968, I, 3. Cfr. GHEZZI-ROMAGNOLI, Il rapporto di lavoro, p, 60, Zanichelli, Bologna, 1987.
BARASSI, Il contratto, risp. 488 e 680 in nota.
BARASSI, Il contratto di lavoro nel diritto positivo italiano, Milano, 1901, p. 624.
Cfr. GIUGNI, Mansioni e qualifiche del prestatore di lavoro, Giuffrè, Milano p. 122.
CORRADO, Retribuzione dei dipendenti privati, in Nov. dig. it., vol. XV, Torino, 1968, p.754.
OSTI, Deviazioni dottrinali in tema di responsabilità per inadempimento delle obbligazioni, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1954, p. 613.
OSTI, Revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ.,1918, p.424.
OSTI, Revisione, cit., p.444.
OSTI, Revisione, cit., p.444 e 445.
Al riguardo, OSTI, Deviazioni, cit., p.606 dirà: “io avevo già prima (di Demogue) accennato all’importanza di quella possibile diversità di oggetto delle obbligazioni per determinare il significato e la portata dell’art. 1224 del codice del 1865 (ora art.1176), come qui di nuovo accennerò nel testo: non mi lagno perché quel mio spunto non abbia avuto nella dottrina nostra la fortuna che il successivo rilievo del Demogue ha avuto nella dottrina francese”.
Tuttavia, mi pare che l’originale anticipazione di Osti sia stata adeguatamente valorizzata da RESCIGNO, Presentazione, in Osti, Scritti giuridici, vol. I, Milano, 1973, XVII.
Cfr. per un riepilogo BRECCIA, Le obbligazioni., p.136.
Cfr. MANCINI, La responsabilità contrattuale del prestatore di lavoro, Milano, 1957, p.31.
MENGONI, Obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi, in Riv. dir. comm., 1954, I, pp.185 ss., 289 ss., 305 ss. e 366 ss.
ALPA, La colpa nella risoluzione per inadempimento, in AA.VV., Inadempimento, adattamento, arbitrato. Patologie dei contratti e rimedi, Milano, 1992 p.12.
LEGA, La diligenza del lavoratore, Milano, 1963, p.36.
MENGONI Note sull’inadempimento involontario dell’obbligazione di lavoro, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1950 , p.274.
BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, I, Milano, 1953 (introduzione).
BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, cit., I, p.40. La Relazione ministeriale al codice (n.559) afferma che la figura del buon padre di famiglia è un concetto deontologico, frutto di una valutazione espressa dalla coscienza generale.
BETTI, Teoria generale delle obbligazioni, cit., I, p.128.
E’ l’esempio portato per sostenere questa tesi dal MENGONI, Obbligazioni di risultato, ecc., cit., p.183.
GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1959, p.183.
GIORGIANNI, L’inadempimento, cit., p.275.
MAIELLO, Deposito e custodia, Napoli, 1958, p.141.
GIOVINE, L’impossibilità della prestazione e la sopravvenienza, Padova, 1941, p.91.
Contro la configurazione di un concetto di diligenza professionale: MAIELLO: Deposito e custodia, cit., p.380.In senso favorevole: SUPPIEJ, Il rapporto di lavoro,
Padova, 1993, pp.123 ss; SANTORO-PASSARELLI, Nozioni di diritto del lavoro, Napoli, 1987, p.193; GHEZZI-ROMAGNOLI, Il rapporto di lavoro, 2ª ed., Zanichelli, Bologna, 1987. p.155.
Cfr. LEGA, Rischio professionale e responsabilità civile dell’imprenditore, Milano, 1954, p. 21.
Quanto all’aspetto sostanziale del problema, si deve precisare che la cosiddetta diligenza professionale non altera profondamente il concetto tradizionale di diligenza, ma ne è una specificazione, la quale le attribuisce alcuni caratteri nuovi rispetto al concetto originario.
Si deve poi aggiungere che anche così specificata la diligenza professionale non implica un grado più rigoroso di colpa, ma la sua violazione costituisce sempre espressione di culpa levis.
Non si vede ragione, infatti, di aggravare la posizione del debitore per il fatto che questi esplica un’attività professionale. Anzi la tendenza è, al contrario, di attutirne la responsabilità quando il lavoratore deve risolvere problemi tecnici di particolare difficoltà ( art. 2236 c.c.).
Alcuni autori, contrapponendo la diligenza morale a quella materiale o professionale, ricollegano quest’ultima alla natura del lavoro svolto o al grado di responsabilità che consegue dall’occupare un certo posto di lavoro. Senonchè la diligenza in senso professionale è un concetto più complesso che comprende anche questi aspetti, ma non si esaurisce in essi.
La diligenza professionale, dunque caratterizza il comportamento del buon lavoratore nell’adempimento di tutte le obbligazioni che per lui scaturiscono dal contratto di lavoro (individuale e collettivo) e dagli usi. Egli contrae, in caso di sua violazione colposa, una responsabilità che anch’essa può definirsi professionale specialmente quando viene in rilievo sotto l’aspetto disciplinare.
Non è forse eccessivo affermare che il concetto di diligenza professionale così inteso contribuisce a dare un ulteriore elemento di qualificazione originale alla disciplina giuridica del contratto di lavoro e, quindi, al sistema di diritto del lavoro.
In quanto elevata a rango normativo la diligenza rappresenta “a general expectation” e alla figura del debitore modello (buon debitore) è affidata la funzione di orientare l’azione del debitore concreto e di individuare, delimitandole, le aspettative del creditore della prestazione.
Costui, infatti, ha motivo per contare sull’esatto adempimento dell’obbligazione di lavoro da parte dei lavoratori e per attendersi da costoro l’uso della normale diligenza nell’eseguire l’operazione.
In tal senso mantiene una straordinaria attualità il giudizio di Neumann, secondo cui “la costruzione del contratto di lavoro come contratto obbligatorio significa che le prestazioni del datore e del prestatore di lavoro sono esattamente determinate e quindi esattamente calcolabili (standardizzate), per cui né le autorità giudiziarie né quelle amministrative possono imporre ulteriori obblighi o sopprimere diritti esistenti” .
Pertanto, seguendo questo filone, più che mai attuale, possiamo individuare il cosiddetto standard della diligenza che si differenzia sia dalla regola di diritto in senso proprio sia dal principio di diritto: dall’una perché non consiste in una proposizione giuridica astratta fissata per fattispecie; dall’altro in quanto non indica autonomamente alcun criterio valutativo .
D’altronde lo standard in genere (e quello di diligenza in particolare) non può essere determinato, né in via esclusiva né in via principale, prescindendo da una specifica relazione con i fatti sociali ai quali si riferisce :esso dunque non rappresenta un tipo logico ma definisce n tipo reale di comportamento, condizionato storicamente e dunque caratterizzato da un’intrinseca condizione di variabilità .
Di conseguenza, a differenza della regola di diritto idonea ad essere applicata a casi concreti mediante un procedimento sillogistico la cui validità è verificabile sul piano logico, il criterio di giudizio pertinente allo standard di diligenza è principalmente quello di “approssimazione per comparazione” .
Da ciò derivano almeno due importanti conseguenze in ordine per un verso, al contenuto della regola e per altro verso, al procedimento di concretizzazione delle figure di debitore diligente.
Sul primo versante, la considerazione della regola di diligenza come standard della prestazione dovuta, determina l’affievolimento ed anzi il venir meno di ogni elemento differenziale orientato a discriminare la diligenza cosiddetta ordinaria del debitore comune e la diligenza cosiddetta qualificata del debitore professionale in virtù dell’attribuzione all’una o all’altra di una comparativamente variabile quantità o intensità dello sforzo richiesto al debitore.
Viceversa, ancora recentemente si è asserito che il richiamo del 2°comma dell’articolo 1176 c.c. ad una valutazione della diligenza con riguardo alla natura dell’attività esercitata debba essere interpretato nel senso che l’esercizio professionale dell’attività dedotta in obbligazione altera il quantum diligentiae e “richieda effettivamente un metro di valutazione conforme ai peculiari interessi del creditore” .
Tuttavia tale assunto non sembra condivisibile perché l’individuazione del quantum di diligenza richiede una comparazione tra unità omogenee e tali non sono, per definizione, il debitore comune ed il debitore professionale.
È ovvio che dal punto di vista naturalistico al chirurgo che opera a cuore aperto si richiede una attenzione maggiore di quella dell’acquirente tenuto a depositare, a favore del venditore, una certa somma entro un dato termine.
Ma è errato ritenere che, dal punto di vista giuridico, la norma chieda al chirurgo di usare una diligenza “maggiore” di quella dell’acquirente o a questi invece una diligenza “minore”.
Ad entrambi, l’ordinamento richiede di usare una misura di diligenza normale (standard), propria della rispettiva categoria.
Da questo punto di vista, l’affermazione, ricorrente in giurisprudenza, secondo cui, ad esempio, l’indennità di maneggio denaro è “connessa con la maggiore diligenza richiesta” (Trib. Trento, 10 novembre 1994, in Mass. giur. lav. 1995, p.459) appare oltremodo discutibile, non tanto perché al dipendente che maneggia denaro l’art. 2104 non richiede una diligenza maggiore rispetto al dipendente che ciò non fa, ma piuttosto perché il presunto aggravamento della diligenza sta qui ad indicare soltanto l’esecuzione esatta della prestazione .
Ciò considerato, risulta avvalorata la diversa soluzione che individua l’elemento differenziale tra la diligenza richiesta al debitore comune e quella richiesta al debitore nell’esercizio di attività professionale non in un dato quantitativo ma esclusivamente nella “diversità del relativo modo di essere”.
La diligenza del debitore è sempre definita in relazione ad un parametro di normalità, rappresentato dall’oggettivo “buono”, per sé idoneo a soddisfare l’interesse del creditore;
Cosicchè, nel caso del debitore comune, tale parametro esprimerà modalità di esecuzione aventi carattere socio-relazionale, mentre nell’ipotesi di obbligazione stipulata nell’esercizio di attività professionale, esso avrà riguardo a criteri precisamente tecnici.
Vediamo ora il ruolo che svolge la diligenza nel rapporto di lavoro.
Le nozioni che nei capitoli precedenti abbiamo dato sulla diligenza nei rapporti obbligatori in generale sono invocabili anche nelle pagine seguenti in considerazione della unitarietà del concetto di diligenza.
Le obbligazioni nascenti dal contratto di lavoro (contratto sinallagmatico e di scambio) implicano sempre la persona stessa del debitore nella realizzazione dell’oggetto dedotto in obligatione. La sua attività lavorativa è, come sappiamo, infungibile, avendo il rapporto di lavoro una natura fiduciaria e personale; lo è tanto nel rapporto di lavoro subordinato, quanto in quello di lavoro autonomo. Nel primo l’attività lavorativa caratterizza l’oggetto del negozio; nel secondo questa condiziona la realizzazione dell’oggetto che consiste nel raggiungimento di un risultato.
In entrambe queste specie di rapporto di lavoro (subordinato e autonomo) la diligenza con cui l’attività lavorativa viene esplicata assume un particolare rilievo. Essa in ogni caso attiene all’adempimento stesso perché, rispetto a questo, l’attività del debitore è infungibile ed anche il modo con cui tale attività si svolge (diligenza) si traduce più o meno tangibilmente in esso.
Certo è che la diligenza viene più apertamente in rilievo nel rapporto di lavoro subordinato e in quello autonomo avente per oggetto un’attività-risultato.
Entrambi i tipi di rapporto si inseriscono nel sistema di diritto del lavoro i cui principi generali , con intensità maggiore o minore a seconda delle specie di rapporto e della natura della prestazione, svolgono una particolare influenza nel dinamismo dell’obbligazione e , quindi, riguardo anche al comportamento secondo diligenza del lavoratore ; il concetto di diligenza assume quindi un significato particolarmente rilevante, in primo luogo da un punto di vista generale; infatti, in considerazione della natura fiduciaria del rapporto di lavoro e della infungibilità della prestazione del debitore, vengono ad assumere speciale importanza le qualità personali di quest’ultimo, mentre la necessaria personalità della prestazione si ricollega alle stesse modalità di adempimento, fra cui quella di comportarsi con un particolare grado di diligenza.
In secondo luogo il concetto di diligenza ha acquisito una notevole importanza da un punto di vista di tecnica legislativa in quanto la sua doverosità è stata sottolineata in modo particolare dal legislatore in alcune norme ad hoc: l’art. 1176, 2° comma c.c. ha riguardo alle attività professionali; l’art.2104 c.c. fissa tre criteri ai quali deve uniformarsi la diligenza del lavoratore subordinato; in altre norme la doverosità della diligenza è ulteriormente affermata come ad esempio nell’art. 2174 c.c. che si riferisce a un tipo di lavoratore di un particolare rapporto di lavoro associativo: la soccida.
In terzo luogo è necessario menzionare il fatto che la diligenza è rilevante anche con riguardo all’oggetto del contratto di lavoro, vuoi perché esso non è realizzabile altro che con la implicazione della persona del lavoratore, vuoi perché in molti rapporti di lavoro le qualità personali di natura etica (correttezza professionale, diligenza) assumono un particolare rilievo come avviene nelle libere professioni.
3. RELAZIONE TRA IL 2°COMMA DELL’ARTICOLO 1176 C.C. E IL 1°COMMA DELL’ARTICOLO 2104 C.C.
Prima di affrontare il discorso circa la relazione che lega il concetto di diligenza generale del debitore comune nell’adempimento dell’obbligazione (art.1176 c.c.) con il concetto di diligenza specifica del prestatore di lavoro (art.2104 c.c.) in esecuzione del contratto di lavoro, bisogna segnalare che le due norme rappresentano l’ossatura della disciplina codicistica sulla diligenza; appare quindi opportuno evidenziare la logica strutturale e la conformazione legislativa degli articoli nell’ambito dei rapporti che li caratterizzano, rammentando che per una migliore comprensione di quanto segue sarà necessario tener sempre presenti il contenuto dei suddetti articoli:
Art. 1176 c.c.- Diligenza nell’adempimento-
Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia.
Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata.
Art.2104 c.c.- Diligenza del prestatore di lavoro-
Il prestatore di lavoro deve usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale.
Deve inoltre osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo dai quali gerarchicamente dipende.
Innanzi tutto è indispensabile evidenziare come il filone dottrinale moderno abbia spesso lamentato il fatto che l’art.2104 c.c. , all’atto della stesura del Codice civile, si sia posto sostanzialmente come una ripetizione dell’art.1176, 2° comma in ordine al concetto di diligenza. Bisogna osservare che questa ultima norma si riferisce a tutte le attività professionali in genere. Così si riferisce al lavoratore autonomo (artigiano, artista, professionista), al lavoratore intellettuale impiegato o funzionario, all’imprenditore (è il caso tipico della banca: art.1838, 3° comma), a certi tipi ben individuati di lavoratori (l’allevatore di bestiame: art.2174) e in genere a tutti i lavoratori subordinati. Inoltre, nel 2° comma dell’art. 1176 il legislatore pone un criterio valutativo della diligenza, confermando, rispetto al 1° comma, che si tratta sempre della nozione fondamentale di diligenza del buon padre di famiglia allorquando questi scende ad esplicare attività professionali.
Per contro nell’art.2104 c.c. non si dà più un criterio di valutazione, ma si impone una regola di condotta, che è ristretta alla categoria dei lavoratori subordinati inseriti nell’impresa. Costoro devono usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale. Vedremo tra poco come questi tre punti vadano interpretati: qui basta osservare la graduale specificazione del concetto basilare e tradizionale di diligenza che passa dalla generica disposizione del 1°comma dell’art.1176 a quella più dettagliata del 2°comma e poi a quella specifica relativa al lavoro introaziendale dell’art.2104 c.c. per affinarsi ancor più in certi casi speciali (art.2174).
Il legislatore ha applicato, quindi, il criterio della diligenza al modo con cui si adempiono i vari obblighi che si riferiscono allo svolgimento di qualunque attività professionale ed ha posto come punto di riferimento della valutazione della diligenza del debitore la natura dell’attività professionale da lui esplicata. Questa viene in rilievo specialmente da un punto di vista tecnico, ma il concetto di tecnicità è in questo settore molto elastico .
Le attività professionali, come è noto, si contraddistinguono e si suddistinguono in vari modi: da quelle per il cui esercizio è necessaria la iscrizione in un albo o in elenco tenuto da enti pubblici o da autorità amministrative, a quelle esenti da tali formalità, ecc. Le categorie professionali, inoltre, possono essere individuate oggettivamente in base al criteri della tecnicità, ma devono concorrere anche elementi soggettivi, come l’abitualità dell’esercizio professionale, l’assenza di scopi speculativi o di lucro, la finalità sociale ( la destinazione dei proventi professionali al sostentamento e ai bisogni personali dei lavoratori e dei suoi familiari).
Da un punto di vista generale non può negarsi che entrambe le norme si riferiscano all’esercizio di attività professionali , ma l’art. 1176, comma 2°, ha un campo d’applicazione molto più vasto dell’art. 2104 c.c., che si applica solo ai rapporti di lavoro subordinato introaziendale. Inoltre, mentre la prima delle due norme contiene un criterio di valutazione della diligenza dei lavoratori subordinati o autonomi con riferimento all’esercizio di qualunque attività professionale, l’art. 2104 c.c. fissa una regola di condotta.
Qui il legislatore non parla più di attività professionali in genere, ma di “prestazione”, cioè adotta un concetto specifico e ristretto riferendosi a quella particolare attività che di volta in volta deve essere esplicata e che può anche mutare pur riferendosi allo stesso rapporto di lavoro.
Ai sensi dell’art. 2104 c.c. i caratteri della diligenza del lavoratore subordinato dipendente da un’impresa devono essere considerati non solo in relazione alla natura della prestazione, ma anche con riguardo all’interesse dell’impresa e a quello della produzione nazionale. Questi due ultimi criteri, però, rivestono minor importanza rispetto al primo, vuoi perché la natura della prestazione è strettamente collegata all’oggetto del rapporto di lavoro, vuoi perché il legislatore l’ha posta come criterio di valutazione della condotta del lavoratore (art.1176, comma 2°) e come regola di condotta (art.2104, comma 1°).
Infine, bisogna specificare che il lavoratore deve comportarsi diligentemente non solo nello svolgimento dell’attività lavorativa in senso stretto o tecnico, ma anche nella esplicazione di qualunque altra mansione o attività che egli sia tenuto a svolgere in base al contratto o agli usi.
Invero, la disposizione del 2° comma dell’art. 1176 c.c. è assai ampia. Vi si parla, infatti, dell’adempimento delle “obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale” senza fare alcuna distinzione.
Queste obbligazioni sono varie ed anche mutevoli a causa dell’eventuale esercizio da parte dell’imprenditore dello ius variandi e del potere di dare “disposizioni per l’esecuzione del lavoro” ( art.2104, comma 2°).
La varietà delle mansioni è incrementata anche dalla presenza delle norme di legge di carattere prevenzionistico . Così, ad esempio, un lavoratore subordinato, il quale procede alla rimozione di una causa di pericolo immediato verificatasi nell’ambiente di lavoro dovrà comportarsi con la diligenza richiesta dalla natura dell’operazione che compie, anche se questa è eseguita volontariamente, non in esecuzione di uno specifico ordine del suo superiore gerarchico.
4. LA DILIGENZA DEL PRESTATORE DI LAVORO SENZA VINCOLO DI SUBORDINAZIONE
Occorre adesso esaminare il ruolo che assume la diligenza all’interno di una prestazione di lavoro che non possa essere tecnicamente qualificata come subordinata ai sensi dell’art.2094 c.c.
Le ipotesi più importanti, o almeno quelle socialmente più importanti , sono tre e riguardano la prestazione di lavoro: del volontario (l. 11 agosto 1991 n.266), del socio volontario di cooperativa sociale (l. 8 novembre 1991 n.381), del lavoratore impegnato in attività socialmente utili (l. 19 luglio 1994 n.451).
La legge quadro sul volontariato sancisce l’incompatibilità della “qualità di volontario” con “qualsiasi forma di rapporto di lavoro subordinato o autonomo e con ogni altro rapporto di contenuto patrimoniale con l’organizzazione” di volontariato (art.2, 3°comma), fermo restando a carico di questa l’onere di assicurare i volontari contro gli infortuni e per responsabilità civile verso terzi (art. 4, 1°comma). Nella specie, l’organizzazione costituisce solo il tramite tra il beneficiario e il volontario e da ciò segue che l’attività prestata da quest’ultimo non è governata dall’art.2094 c.c. e che l’organizzazione medesima non assume la qualificazione giuridica di datore di lavoro: efficacemente, si è detto che il lavoro di volontariato rappresenta “un modo di essere della persona nell’ambito dei rapporti sociali” .
Non diversa è la situazione del socio volontario di cooperativa sociale in capo al quale l’art.2, 3°comma, l. 8 novembre 1991 n.381 esclude, molto chiaramente, la stessa possibilità di applicare i contratti collettivi e le norme di legge in materia di lavoro subordinato ed autonomo. In assenza del presupposto tipico, l’essere appunto debitore di lavoro subordinato, è indubbio che - a fini interni all’organizzazione - la valutazione della prestazione resa dal volontario in adempimento di quello che può ragionevolmente considerarsi un obbligo morale, che da vita se si vuole ad una obbligazione naturale, non deve essere effettuata né a stregua di diligenza qualificata ex art. 2104 c.c. né ai sensi dell’art.1176 c.c.( ma è ovvio, però, che lo statuto può disporre diversamente).
Diversamente, nel caso di accertamento della responsabilità per i danni cagionati a terzi nell’esercizio dell’attività prestata , opereranno le normali regole della responsabilità extracontrattuale, sì che la valutazione della condotta dannosa del volontario andrà effettuata (non alla stregua della diligenza professionale dell’art. 2104 c.c. ma) sulla base degli indici elaborati in materia di responsabilità civile, quali ad esempio la prevedibilità e l’evitabilità del danno in relazione alle conoscenze dell’homo eiusdem.
La soluzione appare più incerta in relazione all’attività di lavoro socialmente utile. L’art. 14, 2°comma, l.19 luglio 1994 n.451 (che costituisce al momento la tappa finale di una disciplina caratterizzata da una storia ormai decennale) sancisce che “l’utilizzazione dei lavoratori non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato” fermo restando l’obbligo dell’assicurazione contro le malattie e per responsabilità civile. Si tratta di disposizione analoga a quella già contenuta nell’art.23, 7°comma, l.11 marzo 1988 n.67, la cui conformità ai principi costituzionali è stata revocata in dubbio dal Pretore di Catania sulla base di quanto ebbe ad asserire la Corte costituzionale nella sentenza del 29 maggio 1993 n.121 e cioè che “non è consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura ove da ciò derivi l’inapplicabilità delle norme inderogabili previste dall’ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato” . In questa sede, tuttavia, non interessa tanto l’applicazione delle norme inderogabili di tutela, e in definitiva la questione dei limiti di disponibilità del tipo contrattuale, quanto piuttosto la disciplina del rapporti di lavoro socialmente utile e, in particolare, la questione se il lavoratore socialmente utile sia tenuto o no ad erogare la sua prestazione con la misura di diligenza richiesta dall’art. 2104 ovvero da uno dei due commi dell’art.1176 c.c.
In termini formalistici la risposta potrebbe apparire semplice: poiché all’ “utilizzazione” del lavoratore non corrisponde l’ “instaurazione” del rapporto di lavoro subordinato, ne segue che la prestazione di attività socialmente utile non può essere valutabile alla stregua della diligenza di cui all’art. 2104 c.c. che presuppone, si è già detto, la qualificazione del contratto ai sensi dell’art.2094 c.c.
Naturalmente, il problema dell’esatta identificazione della diligenza che il lavoratore socialmente utile deve usare nell’adempimento della sua prestazione solo apparentemente presenta un mero carattere teorico. Per rendersene conto è sufficiente considerare che i relativi progetti dovrebbero trovare applicazione in settori particolarmente delicati come i beni culturali, il recupero urbano, la ricerca, i servizi alla persona (art.14, 1°comma, l. n.451); si tratta di settori in cui l’esecuzione non diligente della prestazione di lavoro è tale da pregiudicare interessi di ragguardevole portata dell’ente utilizzatore e, dunque, della stessa collettività. D’altronde se abbandoniamo la prospettiva delle norme di tutela del lavoratore socialmente utile e si assume invece la diversa prospettiva del soggetto utilizzatore riscontriamo che questa strana figura di “rapporto anomalo” che si instaura tra i due e che non produce giuridicamente alcun vincolo di subordinazione , presenta di fatto “tutti i tratti meno controversi della subordinazione”. Basta pensare all’esercizio da parte del soggetto utilizzatore del potere disciplinare ovvero alle conseguenze che possono derivare dall’accertamento dell’inesatto adempimento della prestazione di attività socialmente utile. In altri termini, dunque, la ricerca di una ragionevole disciplina del rapporto di lavoro con i soggetti utilizzatori non può essere elaborata assumendo come unico criterio ordinatore le pur innegabili esigenze di tutela della persona del lavoratore, ma si deve invece tener conto di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda e dei relativi interessi.
In particolare è necessario porre nel giusto rilievo il fatto che all’assegnazione del lavoratore socialmente utile consegue l’inserimento del medesimo nell’organizzazione dell’ente utilizzatore ed inoltre che tale inserimento ha carattere temporaneo e parziale, essendo finalizzato alla realizzazione del progetto per il quale il lavoratore è stato assegnato .
Alla luce di ciò, è possibile affermare ( e difficile negare) l’esistenza di un specifico interesse dell’ente utilizzatore a beneficiare dell’assegnazione di lavoratori che abbiano professionalità adeguata rispetto alle caratteristiche tecniche del progetto da realizzare. In proposito, la circolare del Ministero del lavoro 1°marzo 1995 n.30 ritiene che la prevista corrispondenza tra professionalità posseduta ed attività assegnata “non implica che il soggetto debba essere in possesso di una qualifica specifica”, ma richiede unicamente che “egli sia in possesso di capacità comunque sufficienti a far prevedere un impegno proficuo per l’efficacia del progetto”.
Ciò considerato, appare necessario stabilire se la professionalità del lavoratore legittimi l’ente utilizzatore ad esigere che la prestazione socialmente utile sia eseguita con la diligenza richiesta dalla sua natura e nell’interesse della buona riuscita del progetto, ed inoltre se in ciò sia da individuare il fondamento del potere dell’ente di irrogare sanzioni per l’inesatta esecuzione della prestazione di lavoro socialmente utile .
La risposta alla prima questione non può che essere positiva perché l’impossibilità legale di instaurare un rapporto di lavoro subordinato non esclude l’applicazione di alcuni segmenti della relativa disciplina; ciò è sicuramente vero (ed anzi necessario ex. art.1 bis, l. n. 390/1981) per quanto riguarda le norme inderogabili di tutela, ma anche per le norme che regolano l’esecuzione della prestazione: infatti in funzione della “qualità” o se si vuole della “proficuità” del progetto, è necessario che l’attività socialmente utile sia eseguita dal lavoratore con le modalità ad essa proprie. Così, tanto per proporre uno fra gli esempi possibili, il lavoratore socialmente utile, assegnato ad una biblioteca, è tenuto a catalogare i libri con le modalità tipiche del “buon” catalogatore.
Dubbio è, semmai, se la violazione di tale standard di esecuzione sia sanzionabile mediante l’esercizio del potere disciplinare, la cui titolarità appare, nella specie, del tutto incerta.
In effetti, la circolare del Ministero del lavoro 1° marzo 1995 n.30 dispone che il controllo sull’erogazione dell’attività socialmente utile sia affidato all’ente gestore il quale è tenuto a segnalare al direttore dell’ULPMO la “mancata partecipazione dei lavoratori alle attività del progetto cui sono stati assegnati”. Tuttavia, il potere dell’ufficio di disporre la consequenziale perdita del trattamento previdenziale non può essere configurato come atto di esercizio del potere disciplinare in luogo del soggetto gestore perché l’indennità prevista non costituisce corrispettivo dell’attività socialmente utile.
In conclusione, potrebbe dirsi che la circolare ministeriale conferma che dall’inserimento nell’organizzazione dell’ente deriva in capo al soggetto utilizzatore un potere organizzativo in senso lato (e comunque comprensivo del controllo della prestazione) ma non un potere disciplinare in senso stretto. Per cui, il datore di lavoro potrebbe solo lamentare e segnalare all’autorità amministrativa la mancata partecipazione al progetto consistente nell’incapacità del lavoratore socialmente utile di esercitare la sua abilità professionale o nel rifiuto di seguire le istruzioni impartite.
NEUMANN, Il diritto del lavoro tra democrazia e dittatura, Bologna, 1983, p.398. Forse sarebbe opportuno ricordare la successiva e meno nota affermazione posta da Neumann a conclusione del paragrafo: “è necessaria la massima precisione nella
legislazione e nella attività contrattuale per rendere effettiva la funzione garantista del diritto nazionale”. “Massima precisione” di cui è spesso possibile constatare l’assenza là dove si discute di diligenza o di comportamento diligente).
Cfr. per un riepilogo sintetico MENGONI, L’argomentazione nel diritto costituzionale, in ID., Ermeneutica e dogmatica giuridica. Saggi, Milano, 1996, p.126 e
per un approfondimento ALPA, I principi generali del diritto, in Trattato di diritto privato, a cura di IUDICA e ZATTI, Milano, 1993.
Cfr. PASTORE, Giudizio, prova, ragion pratica. Un approccio ermeneutico, Milano, 1996.
Esemplarmente, “l’impiegato è tenuto al rispetto di tutte quelle norme, originariamente non giuridiche, quali quelle deontologiche, alle quali, però, il legislatore ha conferito il carattere della giuridicità”, Corte dei Conti, sez. II, 15 febbraio 1992 n.37, in Inf. prev., 1992, p.371.
Cfr. SUPIOT, Critique du droit du travail, Paris, 1994, p.236 dove alcune pertinenti osservazioni riferite alle norme tecniche in materia di sicurezza ma interamente riconducibili alla regola di diligenza.
Cass. 26 ottobre 1987, n. 7861, in Ord. Giur. lav.1988, 76.
Vedi anche Cass. 10 gennaio 1994 n. 162, in Foro It., 1995, I, 276.
Cfr. SMURAGLIA, La costituzione e il sistema del diritto del lavoro, Milano 1958, p. 28, ARDAU, Corso di diritto del lavoro, Milano, 1960 p.46
Secondo BARASSI, Diritto del lavoro, cit., II, p.248, si tratterebbe di poco accurato coordinamento legislativo. Per SANTORO-PASSARELLI, Nozioni, cit., l’art. 2104 rappresenta una integrazione dell’art.1176.
Cfr. Cass. 8 settembre 1988 n. 5102, in Rass. giur. Enel, 1989, 679 laddove “è quanto mai importante aver riguardo all’effettiva natura ed al reale contenuto del rapporto di lavoro ed alle varie modalità tecniche di espletamento delle mansioni che costituiscono l’oggetto della prestazione lavorativa”.
Sullo ius variandi si veda in particolare: BARASSI, Diritto del lavoro, cit., I, p.479 e II, p.364; TRAVERSA, La qualifica del lavoratore e lo ius variandi dell’imprenditore, Milano, 1961; SANTORO PASSARELLI, Nozioni, cit., p.163.
LEGA, Obblighi di prevenzione, ecc., in Dir. Lav., 1962, I, p.14.
GHERA, Diritto del lavoro, Cacucci Ed., Bari, 1990, p.68.
Cost. 28 febbraio 1992 n. 75, in Foro it., 1991, I, 2578.
Per deciderne, ad esempio, l’esclusione: si tratta infatti di un atto interno alla vita dell’organizzazione disciplinato dalle norme associative, che pure possono prevedere l’obbligo del volontario di eseguire le prestazioni a lui affidate con una certa diligenza, soprattutto quando si tratti di volontariato professionale.
Sia pure entro i limiti del dolo e della colpa grave previsti dall’art.1900, che consente anche un’attenuazione della responsabilità per i sinistri “compiuti per dovere di solidarietà umana”. Per tutti, BRUSCUGLIA (a cura di), 266/91. La legge sul
volontariato, Padova, 1993. Il problema è non poco rilevante, basti considerare il caso dei tre barellieri condannati per omicidio colposo per aver cagionato, con la caduta, la morte di un paziente per non essere stato adeguatamente assicurato alla barella con cinghie o altre necessarie cautele, cfr. ivi sub art.4.
Pret. Catania ord. 3 maggio 1995, in Foro it., 1995, I, 1974, dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza da Corte Cost. 23 febbraio 1996 n.43, in Dir. prat. lav., 1996, 1033; Corte Cost. 29 maggio 1993 n.121, in Foro it.,1993, I, 2432. Su di essa cfr. D’ANTONA, Limiti costituzionali alla disponibilità del tipo contrattuale nel diritto del lavoro, in Arg. dir. lav., 1995, 1, 63.
Cfr. ZOPPOLI, Lavoro flessibile e lavoro precario: le garanzie del trattamento economico come discrimine, in D’ANTONA (a cura di), Politiche di flessibilità e mutamenti di diritto del lavoro. Italia e Spagna, Napoli, 1990, p.142. Di “stravaganza” del legislatore parla ROMAGNOLI, Introduzione, in PEDRAZZOLI, Lavoro subordinato e dintorni, Bologna, 1989, p.22.
Così Cass.16 febbraio 1999 n. 2146, in Foro It., 2000, I, 146.
Naturalmente diversa è la disciplina per il “nuovo” datore di lavoro ai sensi dell’art.11, 7°comma, l. n. 223/1991 che prevede, appunto, l’ipotesi di reiscrizione alle liste di mobilità per mancato superamento del periodo di prova. In questo senso va letto anche l’art.9, 1°comma, lett. b, della medesima legge che sanziona con la cancellazione dalla lista il lavoratore in mobilità che rifiuti l’offerta di un lavoro professionalmente equivalente.
Come ritiene VERGARI, Una nuova frontiera del diritto del lavoro: i lavori socialmente utili, in Dir. prat. lav., 1994, p.269.
Fonte: http://www.controcampus.it/wp-content/uploads/2012/02/Diritto_del_lavoro.doc
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