Lavoro subordinato

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Lavoro subordinato

IL TIPO “LAVORO SUBORDINATO”
1 La questione della subordinazione.
Nell’impianto codicistico il diritto del lavoro si caratterizza essenzialmente come diritto del lavoro subordinato: alla subordinazione è dunque affidata la funzione di contraddistinguere il rapporto tipico oggetto della disciplina speciale di quel diritto. E la subordinazione viene ricostruita come un particolare modo di essere della prestazione lavorativa. È subordinata la prestazione che si svolge nell’organizzazione del datore di lavoro (“nell’impresa”), “alle dipendenze e sotto la direzione” dello stesso (art. 2094 c.c.).
Ma la pregnanza qualificatoria della nozione di subordinazione come modo d’essere – eterodeterminato – della prestazione lavorativa è fragile. Infatti l’eterodeterminazione (cioè la soggezione alle altrui decisioni e direttive) può manifestarsi anche nell’ambito di altri rapporti aventi ad oggetto un’attività lato sensu lavorativa (es. contratto d'opera).
Per altro verso poi, l’eterodeterminazione può risultare assai attenuata nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato per lo più in dipendenza del genere di prestazione dedotta (ad esempio dirigenziale o altamente specialistica).
La storia del diritto del lavoro dunque si identifica con la storia della subordinazione. L’idoneità qualificatoria della nozione di subordinazione è tuttavia messa alla prova in casi marginali e zone grigie. Ed è proprio in questi casi che la nozione rivela inesorabilmente tutti i suoi limiti.
Il codice del 1865 ricollegava la distinzione tra lavoro subordinato ed autonomo a quella tra locatio operarum e locatio operis, e dunque, alla distinzione tra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi.
Si ritenne dunque che la locatio operarum (lavoro subordinato) avesse come oggetto un’attività lavorativa in quanto tale, avulsa dal risultato perseguito dal creditore e quindi con estraneità del debitore rispetto al rischio di quel risultato.
Mentre la locatio operis (lavoro autonomo) avesse ad oggetto uno specifico risultato di lavoro, consistente nel compimento di un’opera o di un servizio, con conseguente rischio a carico del debitore.
Tuttavia la distinzione tra attività e risultato del lavoro è inadeguata a costituire il criterio discriminante tra i due tipi di locazione delle opere. Nessun tipo di obbligazione infatti può prescindere da un risultato idoneo a soddisfare l’interesse del creditore.
Per altro verso poi, la distinzione in dipendenza dell’oggetto dell’obbligazione non può trovare supporto nella diversa ripartizione del rischio. È vero infatti che la distinzione tra locatio operis e locatio operarum ha storicamente avuto rilievo pratico al fine di stabilire la diversa ripartizione, fra le parti contraenti, del rischio del lavoro, inteso come rischio dell’utilità finale dell’attività dedotta in contratto (rischio che cade sul lavoratore nella locatio operis, sul datore di lavoro nella locatio operarum). Ma ciò conferma che tale diversa ripartizione è una conseguenza della qualificazione del rapporto come locatio operis oppure operarum e non può quindi fungere da criterio per la qualificazione stessa.
Cionondimeno la distinzione tra obbligazione di mera attività e obbligazione di risultato ha avuto lunga fortuna e solo in tempi recenti è stata sottoposta ad una radicale e definitiva critica.
Si è anche tentato di agganciare la subordinazione a profili vari della condizione socio-economica del prestatore di lavoro, valorizzando aspetti esterni alla fattispecie: estraneità ai mezzi di produzione, debolezza economica, ecc. Ma tali  tentativi sono falliti, in quanto estranei alla fattispecie legislativamente tipizzata e sprovvisti di sufficiente idoneità qualificatoria. Si possono infatti trovare casi di “debolezza economica” al di fuori del vero e proprio lavoro subordinato, così come può aversi il caso dell’appartenenza al lavoratore degli strumenti di lavoro o delle materie prime, senza che per questo si fuoriesca necessariamente dall’ambito della subordinazione.
2. Le operazioni giurisprudenziali di qualificazione: il metodo tipologico
L’impossibilità di costruire una nozione generale ed omnicomprensiva di subordinazione sulla base dell’esile normativa dell’art. 2094, ha spinto la dottrina a prestare maggiore attenzione alle operazioni di qualificazione effettuate dalla giurisprudenza.
La giurisprudenza ha di fatto enucleato una serie di indici desunti dalla figura socialmente prevalente di lavoratore subordinato e dalla normale disciplina del relativo rapporto; l’inserzione del lavoratore nell’organizzazione predisposta dal datore di lavoro; la sottoposizione alle direttive, al controllo e al potere disciplinare dell’imprenditore; l’esclusività della dipendenza da un solo datore; le modalità della retribuzione, generalmente a tempo e indipendente da risultato; il vincolo dell’orario di lavoro; l’assenza del rischio, ecc.
La giurisprudenza, resasi conto dell’impossibilità di garantire la completa coincidenza tra fattispecie concreta e fattispecie astratta attraverso un giudizio di identità (metodo sussuntivo), è giunta alla conclusione che l’operazione di qualificazione può avvenire solo sulla base di un giudizio di approssimazione della fattispecie concreta rispetto al tipo prefigurato dalla fattispecie astratta (metodo tipologico). Il procedimento di qualificazione si risolve dunque nella riconduzione al tipo legale (e alla sua disciplina) delle fattispecie concrete che presentano una prevalenza degli indici che caratterizzano il modello socialmente prevalente di lavoratore subordinato.
In proposito merita di essere riportata questa massima della Corte Costituzionale “l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza del rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva”.
Il giudizio di approssimazione comporta dunque stabilire se, malgrado l’assenza di alcuni indici della subordinazione, l’assetto di interesse configurato dal rapporto da qualificare sia da ritenersi più vicino a quello espresso dal tipo lavoro subordinato piuttosto che a altri tipi (contratto d’opera, agenzia, ecc.).
E per converso, trattandosi di un apprezzamento globale della fattispecie, nell’ambito di una valutazione di approssimazione, si può anche avere un rapporto di lavoro subordinato che presenti elementi che, in connessione con altri ed in situazioni diverse, potrebbero rivelare l’assenza di uno stato di subordinazione.
È evidente come tale giudizio comporti da parte del giudice una valutazione di merito largamente discrezionale. È la Corte Costituzionale ha affermato che è censurabile, in sede di legittimità, soltanto l’individuazione degli indici di subordinazione, mentre è insindacabile, se adeguatamente motivata, la valutazione delle circostanze di fatto che hanno indotto il giudice a ritenere o escludere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato.
L’utilizzazione del metodo tipologico ha consentito alla giurisprudenza di operare (in ossequio alla forti pressioni provenienti dal contesto sociale) negli anni un allargamento dell’area coperta dalla disciplina del rapporto di lavoro subordinato (ed una conseguente estensione della relativa tutela). Si è parlato in relazione a questo fenomeno, di espansione del diritto del lavoro subordinato.
3. La rilevanza della qualificazione operata dalle parti e le presunzioni giurisprudenziali. La procedura di certificazione
L’innovazione tecnologica e la progressiva terziariarizzazione del mondo del lavoro hanno determinato un aumento dei casi in limine tra l’area della subordinazione e quella dell’autonomia, andando così a rendere ancor più sfumata la zona di demarcazione tra le due aree. Peraltro, proprio le crescenti difficoltà di qualificazione del rapporto hanno favorito l’assunzione, tra gli indici giurisprudenziali, quale criterio sussidiario, del nomen iuris eventualmente attribuito dalle parti al rapporto stesso. Precedentemente la giurisprudenza aveva sempre tendenzialmente ignorato il nomen iuris,sulla base del presupposto che, data la tassatività del tipo “lavoro subordinato”, la qualificazione del rapporto spettasse al giudice e che andasse dunque considerata irrilevante l’eventuale volontà delle parti.
Tuttavia a partire dagli anni ’80 la Suprema Corte si è dimostrata maggiormente aperta sulla questione, giungendo ad affermare che “ai fini della qualificazione non si può prescindere dalla preventiva ricerca della volontà delle parti.
La corte dunque richiama l’interprete ad una valutazione più attenta dell’elemento intenzionale, di cui esclude l’incompatibilità con il principio che vuole la qualificazione saldamente agganciata alle oggettive modalità di svolgimento del rapporto. Peraltro l’assunzione del nomen iuris nel novero degli indici utilizzabili, non si traduce in una negazione della tassatività del tipo. Infatti a tale indice può farsi ricorso solo in via sussidiaria, ossia quando la volontà delle parti non risulti contraddetta dalle modalità di effettivo svolgimento del rapporto (che sono sempre destinate a prevalere in sede di qualificazione).
Al fine di alleggerire il contenzioso in materia di qualificazione del rapporto, il D. lgs. 276/2003 ha introdotto nel nostro ordinamento l’istituto della certificazione (come auspicato dal Libro Bianco).
Si tratta di una procedura volontaria, mediante la quale una Commissione appositamente istituita (presso gli Enti Bilaterali, le Direzioni provinciali del lavoro, le province e le università) convalida (certifica) la qualificazione che le parti danno al contratto di lavoro tra di esse stipulato.
La procedura può avere ad oggetto tutte le diverse tipologie flessibili di contratto di lavoro previste dallo stesso D.lgs.276, nonché le rinunzie e le transazioni ex art. 2113 cod. civ. Restano invece esclusi i rapporti di lavoro instaurati con le p.a., data l’esclusione generale del pubblico impiego dalla riforma.
Qualora le parti intendano avviare un procedimento di certificazione devono redigere un istanza comune (o comunque sottoscriverla entrambe) e presentarla all’apposita Commissione territorialmente competente. Il D. lgs. 276 non prevede un modello astratto di procedura, ma anzi, lascia ampia autonomia a ciascuna sede di certificazione (ente bilaterale, direzione provinciale del lavoro, università), che dovrà determinare le fasi della procedura all’atto della propria costituzione.
Ad ogni modo, il procedimento di certificazione deve concludersi entro 30 gg. dal ricevimento dell’istanza. L’atto che certifica il contratto deve essere motivato e deve indicare il termine e l’autorità presso la quale eventualmente presentare ricorso.
La certificazione esclude la possibilità di ricorso in giudizio in ordine alla qualificazione del rapporto, salvo il caso di erronea qualificazione dello stesso da parte della Commissione o il caso di difformità tra il programma negoziale certificato e quello effettivamente posto in essere. Tale efficacia, che in sostanza si traduce in una relativa incontrovertibilità di quanto certificato, si esplica sia nei confronti delle parti stesse, sia nei confronti dei terzi. Gli effetti della certificazione permangono dunque fino al momento in cui sia stato accolto, con sentenza di merito, uno dei ricorsi esperibili dalle parti e dai terzi. Il ricorso può essere giurisdizionale o amministrativo.
-Il ricorso presso l’autorità giudiziaria è ammesso per erronea qualificazione del contratto, per difformità tra quanto certificato e la successiva esecuzione del rapporto e per vizi del consenso (errore, dolo, violenza). Se il giudice accerta l’erroneità della qualificazione, gli effetti scaturenti dalla sentenza retroagiscono fino alla data di stipulazione del contratto. Se accerta la difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione, gli effetti decorrono a partire dal momento in cui la sentenza accerta che ha avuto inizio la difformità stessa.
-In quanto atto di natura amministrativa, poi, contro la certificazione è ammesso anche il ricorso davanti al TAR nella cui giurisdizione ha sede la Commissione che ha certificato l’atto impugnato, ma solo per violazione del procedimento o eccesso di potere. Ci sarebbe però da chiedersi in cosa possa consistere l’eccesso di potere con riferimento all’attività di certificazione, nella quale il margine di discrezionalità amministrativa è pressoché inesistente, risolvendosi la certificazione in una mera registrazione del voluto negoziale (del contenuto del rapporto voluto dalle parti).
4. Subordinazione, fattispecie tipica ed effetti.
È opinione consolidata che ogni rapporto che presenti le caratteristiche della subordinazione va necessariamente ricondotto alla fattispecie tipica lavoro subordinato (tassatività del tipo). E una volta qualificato un rapporto come rapporto di lavoro subordinato (ossia una volta ricondottolo alla fattispecie tipica), si producono tutti gli effetti legislativamente correlati a tale fattispecie (tassatività della disciplina tipica). In parole povere, troverà inderogabile ed integrale applicazione tutta quanta la disciplina tipica. Questi due orientamenti sono retaggio dell’antica concezione del procedimento di qualificazione del rapporto sulla base di un giudizio di identità tra la fattispecie tipica e lo specifico rapporto da qualificare.
Tuttavia, constatato che il procedimento di qualificazione si basa oggi su un giudizio di approssimazione (e non di identità), occorrerebbe riconoscere che allo specifico rapporto, che pur viene qualificato come rapporto di lavoro subordinato, possano ben difettare alcuni elementi propri della fattispecie tipica; magari elementi che vadano ritenuti presupposti per l’applicazione di determinati profili della disciplina del rapporto. La disciplina tipica andrebbe quindi considerata tendenzialmente (ma non necessariamente integralmente) applicabile al rapporto che viene qualificato come di lavoro subordinato.
Ad esempio nel caso del lavoro dirigenziale ci si muove in direzione non già di un improbabile restringimento del tipo legale, bensì dell’applicazione selettiva della disciplina tipica.
Questa è d’altronde la direzione segnata dalla proliferazione di norme eccezionali e derogatorie della regolamentazione tipica, fino all’emersione di nuovi rapporti speciali. Al punto che si parla di frammentazione dell’unicità del rapporto di lavoro e di destrutturazione del modello tipico, come risultato dell’operazione di moltiplicazione delle tipologie posta in essere dalla c.d. riforma Biagi.
5. Para-subordinazione, lavoro autonomo, lavoro a progetto occasionale.
Speculare all’art. 2094 è l’art. 2222 c.d. civ, in base al quale si è in presenza di un contratto d’opera (lavoro autonomo) quando “una persona si obbliga a compiere dietro corrispettivo, un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente con perfetta parità dei soggetti del rapporto”.
L’elemento della durata della prestazione può dare luogo a figure ibride, ovvero di prestatori di lavoro formalmente autonomi, ma di fatto ed in diversa misura dipendenti dal committente.
Tra la subordinazione e l’autonomia la dottrina ha così collocato la para-subordinazione, categoria sorta dalla valorizzazione dal dato della debolezza o soggezione economica del prestatore di lavoro nei cfr. del committente.
Solo negli anni ’70 la para-subordinazione ha potuto vantare l’appoggio di alcuni fondamenti normativi. La legge di riforma del processo del lavoro del ’73 (l. n. 533/1973) ha ricompreso tra le proprie destinatarie anche le controversie relative a “rapporti d’agenzia, di rappresentanza commerciale ed altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. Da questa definizione è poi sorta la fattispecie della collaborazione coordinata e continuativa, dotata di autonoma fisionomia e caratteri: il requisito della continuità rinvia ad una collaborazione durevole nel tempo, anche attraverso un unico incarico di durata apprezzabile. La prevalente personalità va intesa come prevalenza dell’attività del lavoratore sugli altri fattori impiegati (anche sul capitale). Il requisito della coordinazione implica un collegamento funzionale del collaboratore con l’attività economica del committente. Tale tipo di collaborazione è diverso da quello richiesto dall’art. 2094 (lavoro subordinato), poiché deve esserci una certa libertà nelle modalità di esecuzione della prestazione.
Dal punto di vista della disciplina di tutela, il lavoro parasubordinato non si differenzia da quello autonomo. La configurabilità di un rapporto di lavoro parasubordinato non implica infatti l’accesso alla disciplina tipica del lavoro subordinato. Da qui i frequenti rilievi sull’inutilità della nozione di lavoro parasubordinato, specie se riguardata dal punto di vista delle esigenze di drammatizzazione dell’alternativa secca tra tutela (subordinazione) e non tutela (autonomia). Non a caso numerose sono le proposte di riforma, tra cui spicca la proposta di uno Statuto dei Lavori, poi confluita nel programma di riforma del diritto di lavoro contenuto nel Libro Bianco dell'ottobre 2001.
Un momento di svolta nell’evoluzione della disciplina dei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa si ha poi con il D. lgs. 276/03, che tenta di fare chiarezza sui confusi rapporti tra le aree della subordinazione e dell’autonomia, introducendo per la prima volta un discrimine tipizzato lungo la linea di confine tra le due aree; il lavoro a progetto, che va a sostituire i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa.
La ratio dell’introduzione di questa figura è quella di porre una linea di demarcazione quanto più netta possibile tra autonomia e subordinazione, in modo tale da evitare l’abuso delle collaborazioni coordinate e continuative al fine di eludere la legislazione posta a tutela del lavoro subordinato.
Il D.lgs. 276 dunque introduce la fattispecie lavoro a progetto attraverso una modifica\specificazione inerente alla figura delle collaborazioni coordinate e continuative. Stabilisce infatti che tali “collaborazioni coordinate e continuative, prevalentemente personali e senza vincolo di subordinazione” devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici o programmi di lavoro o fasi di esso, determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato, nel rispetto del coordinamento con l’organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione dell’attività lavorativa. Tratto caratterizzante la fattispecie è dunque l’esistenza di uno specifico progetto o programma di lavoro o fase di esso, che assurge a contrassegno della genuinità dell’autonomia del rapporto. In assenza di tale progetto o programma manchi, ai sensi dell’art. 69 del D.lgs 276, il rapporto si considera subordinato a tempo indeterminato.
Il progetto di riforma assolve alla funzione (essenziale in un rapporto di lavoro autonomo) di predeterminare il perimetro dell’obbligazione del collaboratore, in modo tale da inibire al datore l’esercizio di quel potere direttivo che caratterizza il lavoro subordinato. Il committente ha invece sul collaboratore un più limitato potere di coordinamento.
Dalle disposizioni sul lavoro a progetto restano esclusi, oltre la pubblica amministrazione (in virtù dell’esclusione generale del decreto) ed alcuni specifici rapporti (come agenzia e rappresentanza commerciale), i rapporti occasionali. Per prestazione occasionale si intende il rapporto di durata complessiva non superiore a 30 giorni nel corso dell'anno solare con lo stesso committente, salvo che il compenso complessivamente percepito sia superiore a 5000 euro, nel quale caso trovano applicazione le disposizioni sul lavoro a progetto. Una particolare fattispecie di prestazione occasionale è poi quella del c.d. lavoro accessorio i cui soggetti possono essere adibiti a determinate mansioni per riceverne in cambio un pagamento in buoni che potranno essere convertiti in denaro presso centri autorizzati (concessionari). Il decreto delegato, come corretto dal D.lgs. 251/2004 delega ad un decreto ministeriale la fissazione del valore nominale dei buoni. La differenza tra tale valore e il compenso netta  è detratta concessionaria e versata, per conto del lavoratore, in parte alla gestione separata INPS, in parte all' INAIL.
Il contratto a progetto deve essere stipulato per iscritto ai fini della prova e deve contenere l’indicazione del progetto, della durata, del corrispettivo, delle forme di coordinamento. La stesura per iscritto del contratto (e l’indicazione del progetto) sono estremamente importanti soprattutto per il committente, onde evitare che scatti la presunzione di subordinazione di cui all’art. 69 del decreto.
Tuttavia a favore del collaboratore a progetto sono comunque previste alcune garanzie, talune già precedentemente deducibili dalla disciplina codicistica (art. 2222 ss.)relativa al lavoro autonomo, altre nuove: tra le prime rientra ad esempio il criterio della proporzionalità nella determinazione del corrispettivo, che dovrà tenere conto dei compensi normalmente corrisposti per analoghe prestazioni di lavoro autonomo nel luogo di esecuzione. Tra le seconde, la previsione che la gravidanza, la malattia e l’infortunio del collaboratore non comportano l’estinzione del rapporto, ma solo la sua sospensione, senza erogazione del corrispettivo.
In coerenza con il rilievo dato al risultato, il legislatore stabilisce che il contratto si risolve al momento della realizzazione del progetto, o comunque al raggiungimento del risultato. Tuttavia è stabilito che le parti possano recedere prima della scadenza per giusta causa  ed altresì secondo le diverse causali o modalità, incluso il preavviso, stabilite dalle parti nel contratto di lavoro individuale. Ciò significa che le parti possono delineare un regime di libera recedibilità o fissare penali per l'esercizio unilaterale del potere di recesso.

 

6. Lavoro associato e subordinazione (associazione in partecipazione e lavoro in cooperativa.
Il rapporto di lavoro subordinato delineato dall’art. 2094 è un rapporto di scambio articolato attorno a 2 obbligazioni principali; l’attività lavorativa e la retribuzione. Si tratta di una fattispecie tipica in cui l’onerosità è elemento essenziale, al pari della subordinazione.
A tal proposito vengono in rilievo alcuni rapporti, che, pur non essendo riconducibili alla figura del rapporto di lavoro subordinato (in quanto privi dell’elemento di scambio lavoro-retribuzione), presentano una forte analogia con esso. È questo il caso dei rapporti di carattere associativo (associazione in partecipazione, cooperative di lavoro).
L’associazione in partecipazione (artt. 2549.2554 c.c.) è un contratto col quale l’associante attribuisce all’associato la partecipazione agli utili dell’impresa o di uno o più affari, verso il corrispettivo di un determinato apporto che può anche consistere in una prestazione di lavoro. In teoria la fattispecie è facilmente distinguibile dal rapporto di lavoro subordinato. Tuttavia in concreto, avviene frequentemente che la linea di demarcazione tra le 2 fattispecie sia tutt’altro che netta. Anzi, l’estrema flessibilità di utilizzo dell’associazione in partecipazione ha spesso fatto sì che il relativo contratto (come quello di co.co.co.) sia stato impiegato per dissimulare un rapporto di lavoro subordinato.
Basti pensare che lo specifico contratto di associazione può precludere qualsiasi attività di controllo dell’associato sull’attività gestoria, escludere ogni forma di partecipazione dell’associato alle perdite e perfino garantirgli un guadagno minimo. In queste ipotesi, nelle quali appare fortemente sfumato l’elemento paritario ed emerge una sostanziale disparità economica e sociale fra le parti, i giudici sono soliti presumere l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato e conseguentemente stabiliscono l’applicabilità della relativa disciplina tipica.
L'art 86, 2°comma, D.lgs. 276/2003 prevede che, in caso di assenza di un’effettiva partecipazione dell’associato all’impresa associante e di adeguate erogazioni a suo favore, il lavoratore ha diritto ai trattamenti contributivi, economici e normativi previsti dalla legge e dai contratti collettivi per il lavoro subordinato corrispondente al medesimo settore di attività. Ed in mancanza di contratto collettivo, ad una posizione corrispondente secondo il contratto di settore analogo.
La fattispecie del lavoro in cooperativa è stata oggetto di attenzione da parte della legislazione dell’ultimo decennio, che ha esteso al socio alcuni istituti tipici del lavoro subordinato (fondo di garanzia, cassa integrazione guadagni, ecc.). Questi interventi hanno costituito l’istanza di tutela nella realtà delle cooperative, per lungo tempo relegata a margini del diritto del lavoro.
Per la prestazione del socio in cooperativa la giurisprudenza non ha mai fatto ricorso alla presunzione di lavoro subordinato, ma anzi ha utilizzato la presunzione opposta, cioè il ricorso alla presunzione di non subordinazione è stato argomentato sulla base dell’assenza dell’elemento (essenziale in un rapporto di scambio) dell’alterità degli interessi (il socio, nel prestare la propria opera, mira al raggiungimento dello scopo sociale).
Di recente, la L. 142/2001 (come modificata dall'art. 9 della L.d. 14 febbraio 2003, n.30) ha ricostruito in capo al lavoratore-socio la titolarità di un rapporto in cui risultano una componente associativa ed una componente lavoristica.
Per quanto riguarda la qualificazione del rapporto di lavoro (che può essere subordinato o autonomo) la legge n. 142 ha previsto l’obbligo per le cooperative di definire il regolamento sulla tipologia dei rapporti di lavoro. Sebbene quindi la qualificazione del rapporto continui a dipendere dal suo effettivo contenuto il giudice non potrà non adottare (in luogo della presunzione di non subordinazione) la presunzione di conformità di quel contenuto alla qualificazione attribuitagli nel regolamento.
Ai soci lavoratori subordinati si applicano lo Statuto dei Lavoratori. Il socio ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e in ogni caso non inferiore ai minimi previsti per prestazioni analoghe dalla contrattazione collettiva nazionale del settore o della categoria affine. Le controversie relative alla posizione del socio lavoratore, comprese le procedure di conciliazione ed arbitrato, sono assoggettate alla disciplina del processo del lavoro; mentre quelle relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario.
7. Il cumulo delle posizioni di socio o amministratore e di lavoratore subordinato.
L’attenuazione della subordinazione può dipendere inoltre dal cumulo in capo al medesimo soggetto della posizione si lavoratore subordinato con quella di socio o amministratore della società datrice di lavoro. In tal caso la giurisprudenza ammette che il lavoratore possa essere socio della società sua datrice di lavoro, anche che si tratti di una società di persone, salvo che la prestazione costituisca oggetto di conferimento e sia quindi resa dal socio in adempimento del contratto sociale. Si richiede semplicemente, nel caso di società di persone, che l’attività lavorativa sia prestata sotto il controllo gerarchico di un altro socio; e nel caso di società di capitali, che il socio non sia azionista unico o socio sovrano.
In parole povere il cumulo è escluso solo nel caso in cui il lavoratore sia amministratore unico o amministratore delegato con poteri illimitati; in tali casi si verrebbe ad avere un fenomeno di auto-assunzione, che farebbe sfumare ogni ipotesi di subordinazione.
Naturalmente è assai difficile se non impossibile distinguere in concreto interessi e funzioni pertinenti ad un soggetto nella qualità di amministratore delegato da interessi e funzioni pertinenti allo stesso soggetto nella qualità di lavoratore subordinato. Ciò spiega perché capita frequentemente di veder negata, in giurisprudenza, la compatibilità delle due posizioni specie in ragione dell'assenza di un'attività di lavoro subordinato distinguibile dall'attività di amministratore.
8. Lavoro gratuito, lavoro familiare e volontariato.
L’onerosità è elemento costitutivo sia della fattispecie lavoro subordinato che della fattispecie lavoro autonomo. Il nesso sinallagmatico che caratterizza entrambi i tipi di rapporti, impone che la prestazione lavorativa venga resa in cambio di una controprestazione (la retribuzione o il compenso).
Il problema della configurazione ed ammissibilità del lavoro gratuito ha dato luogo ad un dibattito dottrinale con due opinioni contrastanti.
Da un lato, si afferma che il rapporto di lavoro gratuito, nonostante innominato, è lecito in quanto idoneo a realizzare, mediante l'impegno di lavorare senza salario, interessi di tipo benefico o ideologico, meritevoli di tutela da parte dell'ordinamento, ai sensi dell'art. 1322 c.c (c.d. tesi del contratto atipico di lavoro).
Dall'altro lato si osserva la necessaria ed ineliminabile inerenza dell'onerosità ad ogni rapporto di lavoro subordinato giuridicamente rilevante.
In pratica i giudici distinguono tra la prestazione di lavoro gratuita svolta a titolo di cortesia (cioè al di fuori di ogni vincolo giuridico) e il vero e proprio rapporto di lavoro subordinato con illegittima esclusione della retribuzione, cui il lavoratore può aver acconsentito per motivi diversi, quali l’aspettativa di vantaggi materiali differiti nel tempo.
In tal caso, il titolo gratuito è riconosciuto solo qualora, dall’analisi delle circostanze del caso, sia possibile giustificare la causa gratuita ed escludere con certezza la sussistenza di un accordo elusivo della irrinunciabilità della retribuzione.
La questione dell'ammissibilità del lavoro gratuito non muta i suoi termini neppure se riguardata dall'angolazione delle peculiarità che contraddistinguono il c.d. terzo settore, il non-profit. Qualora il rapporto abbia natura subordinata sussiste necessariamente anche l'onerosità, elemento strutturale indispensabile alla fattispecie. Diversamente, è possibile solo ricorrere alle ipotesi di lavoro gratuito tipizzate dal legislatore (volontariato; stage aziendali; lavoro senza rapporto come i lavoratori socialmente utili ecc.).
Vi è tuttavia un’ipotesi in cui la giurisprudenza non ha mai utilizzato la presunzione di ricorrenza del lavoro subordinato tipico (oneroso), ma anzi ha sempre fatto ricorso alla presunzione contraria di gratuità. È questo il caso del lavoro prestato nell’ambito di un’impresa gestita da familiari. In tal caso si pone la presunzione che il lavoro sia reso per ragioni di mutua solidarietà e al di fuori di un rapporto subordinato tipico (che tuttavia resta consentito alle parti di costituire). Detto questo, va anche ricordato che il lavoro prestato nell’impresa familiare è stato dotato di una particolare tutela (al prestatore di lavoro nell'ambito della famiglia vengono assicurati, oltre al mantenimento, la partecipazione agli utili e ai beni nonché il diritto a concorrere alle fondamentali decisioni del nucleo familiare) con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha introdotto la figura dell’impresa familiare, condensata nell'art. 230 bis del codice civile.
Al lavoro svolto nella comunità familiare viene comunemente accomunato, ai fini della presunzione di gratuità, il lavoro religioso nell’ambito della propria comunità, anche se è ammesso che in capo al religioso possa configurarsi un rapporto di lavoro subordinato quando la sua attività sia svolta in favore di un soggetto privato o ente pubblico dietro corrispettivo e non officii causa o religionis causa.
La presunzione di gratuità non operava infine con riguardo ai casi di praticantato presso studi professionali ed ai casi di volontariato nell’ambito di organizzazioni laiche o religiose attive nell’assistenza sociale. In tali casi tuttavia si tendeva a giustificare il titolo gratuito e ad escludere la frode facendo riferimento agli obiettivi non di lucro perseguiti dal prestatore di lavoro (apprendimento, impegno sociale, ecc.).
Con la legge quadro sul volontariato (L266/1991) poi, si è stabilito che le organizzazioni di volontariato, per potere essere qualificate come tali, debbano avvalersi in modo prevalente delle prestazioni personali, volontarie e gratuite dei propri associati o aderenti. L’attività di costoro è incompatibile con qualsiasi forma di rapporto di lavoro, subordinato o autonomo, e con ogni altro rapporto di natura patrimoniale con l’organizzazione di cui fanno parte. Va detto tuttavia che la legge riconosce al volontario il diritto al rimborso delle spese effettivamente sostenute, ma solo entro limiti predeterminati. Sull’organizzazione ricade comunque l’obbligo di assicurare i volontari contro gli infortuni e le malattie, nonché per la responsabilità civile verso i terzi.
9.La questione dei rapporti di lavoro speciali o di disciplina speciale.
Nel panorama produttivo si riscontrano rapporti di lavoro che, pur essendo sicuramente di natura subordinata, presentano deviazioni più o meno accentuate rispetto alla fattispecie tipizzata dall’art. 2094. Si parla allora di rapporti di lavoro speciali o a disciplina speciale.
Numerose e varie sono le ragioni della specialità; ed in proposito sono avanzate diverse teorie. Taluni ritengono che la specialità possa derivare solo da alterazioni qualitative o causali del tipo (ad esempio nell’apprendistato l’elemento formativo gioca un ruolo importante, per quanto riguarda la causa del rapporto).  Altri ritengono che la specialità possa derivare dall'incidenza di un interesse pubblico o della collettività o o dalla peculiarità dell'oggetto della prestazione. Altri invece ritengono che la specialità possa derivare anche da variazioni meramente quantitative (ad esempio quelle che si realizzano nel part-time o nel contratto di lavoro a tempo determinato).
Per quanto riguarda la disciplina applicabile a tali rapporti, l’opinione prevalente ritiene la disciplina generale comunque applicabile per gli istituti che non sono oggetto di attenzione da parte della legge speciale.
La dottrina italiana preferisce tendenzialmente al termine “specialità” il termine più debole “atipicità”.
La tendenza alla deregolazione ha innescato a partire dagli anni ’80 un processo di diversificazione delle tipologie di rapporto  (c.d. articolazione del tipo).
Per distinguere le singole figure nei confronti della fattispecie madre sottesa all’art. 2094 (lavoro a tempo pieno e determinato), la dottrina ha cominciato ad utilizzare il concetto di atipicità, riconducendo ad esso tutti quei rapporti di lavoro subordinato che si discostano dalla fattispecie madre (il lavoro a termine, il part-time, il lavoro temporaneo, ecc.). Posta in questi termini la questione appare di ordine meramente classificatorio o nominalistico. Ben più pregante è la diversa alternativa concernente l'esaustività o meno della disciplina dettata per il lavoro speciale, cioè vale a dire il quesito circa l'applicabilità o meno della disciplina generale del lavoro subordinato. Prevale l'opinione che la disciplina generale risulti comunque applicabile per gli istituti non oggetto di specifica attenzione della legge speciale e che quindi non opera alcun meccanismo di implicita incompatibilità. E ciò anche per effetto di un'applicazione analogica dell'art. 2239 c.c
9.1. Il lavoro a domicilio e il telelavoro.
Il fondamentale profilo di specialità del lavoro a domicilio è correlato al luogo di esecuzione della prestazione lavorativa; non l’azienda del datore ma il domicilio dello stesso prestatore.
La ragione dell’elaborazione di un nucleo di disciplina specifica va ricercata nelle frequenti pratiche di evasione delle garanzie assicurate dalla disciplina tipica al lavoratore subordinato, attraverso il lavoro a domicilio, rendendo incerta la linea di confine con il lavoro autonomo.
La L. 877/1973 persegue l’obiettivo di scongiurare le pratiche evasive,anche attraverso una definizione fluida di subordinazione nel lavoro a domicilio
In tal senso la il legislatore stabilisce all'art. 1 della suddetta legge che “è lavoratore a domicilio chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in locale di cui abbia disponibilità, anche con l'aiuto accessorio di membri della sua famiglia conviventi e a carico, ma con esclusione di manodopera salariata e di apprendisti, lavoro retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materie prime o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore, anche se fornite per il tramite di terzi”.
In parole povere, nel lavoro a domicilio la subordinazione può presentarsi anche in forma alterata, bastando ad esempio, che le direttive dell’imprenditore committente circa le modalità di esecuzione del lavoro siano impartite, non già di volta in volta, ma all’inizio ed una volta per tutte, e che successivamente vi sia un controllo ella rispondenza del lavoro finito a tali direttive. Si configura invece un’ipotesi di lavoro a domicilio autonomo quando il lavoratore presenta una distinta organizzazione dei mezzi produttivi (a proprio rischio) e una struttura di tipo imprenditoriale
Altre disposizioni della legge 877/1973 intendono frenare possibili abusi di un uso spregiudicato del lavoro a domicilio. Così non possono ricorrere al lavoro a domicilio sia le imprese in fase di ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione sia le imprese che abbiano ceduto a qualsiasi titolo macchinari e attrezzature per proseguire all'esterno la stessa attività produttiva già svolta all'interno dei reparti. I datori di lavoro che intendono assumere lavoratori a domicilio e tale tipologia di lavoratori devono essere iscritti in un apposito registro. È esclusa l'ammissibilità dell'esecuzione del lavoro a domicilio per attività che comportino l'impiego di sostanze o materiali nocivi o pericolosi.
La retribuzione del lavoratore a domicilio deve essere determinata in base alle tariffe di cottimo pieno risultanti dai contratti collettivi di categoria, o, in mancanza, fissate da una Commissione regionale i cui membri sono designati dai sindacati di categoria maggiormente rappresentativi.
Allorché non si verifichino evasioni della disciplina protettiva, il ricorso al lavoro a domicilio è ascrivibile al fenomeno del c.d. decentramento produttivo, cioè della frammentazione del processo produttivo e della esportazione di talune delle sue fasi all’esterno dell’organizzazione aziendale riconducibile all’imprenditore.
Una peculiare ipotesi di lavoro a domicilio è il telelavoro, vale a dire il lavoro svolto nel proprio domicilio mediante un computer collegato ad una memoria centrale. Con questo sistema i lavori di archiviazione dati, di dattilografia e altre mansioni d’ufficio possono essere decentrate, permanendo intatto un forte potere di controllo a distanza del datore di lavoro. Mentre nel settore pubblico il telelavoro è regolato legislativamente, nel privato manca una sua disciplina legislativa ad hoc, giacché la regolamentazione è demandata ad accordi quadro con cui si definiscono le garanzie minime dei telelavoratori. Attualmente il telelavoro non riesce neppure a configurarsi come una tipologia contrattuale specifica, costituendo piuttosto solo una modalità flessibile e delocalizzata di esecuzione della prestazione lavorativa. A seconda delle condizioni concrete di svolgimento del rapporto infatti, il telelavoratore può essere titolare di un rapporto autonomo, parasubordinato o subordinato.
9.2. Il lavoro domestico.
Il lavoro domestico rinviene la sua regolamentazione nel codice civile (artt. 2240-2246) e poi nella l. 2 aprile 1958, n. 339; quest'ultima però, è applicabile ai soli prestatori impegnati in modo continuativo e prevalente per almeno 4 ore giornaliere presso lo stesso datore di lavoro (art. 1).
Si considera lavoratore domestico colui che presta attività a favore di una comunità familiare o di comunità similari.
La dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 2068, 2° comma, c.c., che espressamente sottraeva alla disciplina sindacale i rapporti di lavoro in esame, ha permesso la stipula di contratti collettivi, sulla cui effettività e generalizzata applicazione possono però nutrirsi fondate perplessità.
I lavoratori domestici possono ancora oggi essere licenziati ad nutum, ma va ricordato che la l. n. 108/1990 ha previsto la nullità con diritto di reintegra, del licenziamento determinato da ragioni discriminatorie.
9.3. Il lavoro giornalistico.
L'attività giornalistica, solitamente prestata a favore di aziende editrici, oltre che oggetto di un rapporto di lavoro subordinato, può assumere la veste di collaborazione autonoma, ma presuppone in ogni caso il requisito dell'appartenenza all'Ordine professionale dei giornalisti.
Ai sensi dell'art. 2126 c.c. e dell'art. 36 Cost. Il lavoratore per la natura subordinata della prestazione resa, ha diritto al trattamento economico previsto dal contratto collettivo. In altre parole, la mancata iscrizione all'albo professionale, pur essendo penalmente sanzionata a norma degli artt. 348 e 498 cod. pen., non rende illecito né l'oggetto né la causa del contratto e dà origine ad una prestazione di fatto rilevante agli effetti della pretesa retributiva, mentre si deve escludere l'applicabilità del contratto collettivo per tutte quelle clausole che non riguardano i trattamenti economici. Nel lavoro giornalistico, per la particolare natura intellettuale, può presentarsi più attenuato il vincolo di subordinazione rispetto ad altre attività lavorative, in ragione dei margini di autonomia e discrezionalità.
Per ottenere l'iscrizione all'ordine è richiesto l'esercizio continuativo della pratica giornalistica, realizzata attraverso un praticantato durante il quale l'aspirante giornalista viene impiegato nei servizi redazionali per apprendervi l'attività giornalistica ed acquisire l'indispensabile preparazione. Una volta iscritti all'Albo i giornalisti sono divisi in due categorie: quella dei professionisti (esercitanti in modo esclusivo e continuativo la professione giornalistica) e quella dei pubblicisti (svolgenti un'attività non occasionale e retribuita, eventualmente in concorso con altre professioni e impieghi).
Il contenuto del rapporto di lavoro giornalistico è regolato da un contratto collettivo nazionale. Il contratto collettivo riconosce al giornalista una particolare tutela della sua dignità professionale e morale, nell'ipotesi di mutamento dell'indirizzo politico del giornale, attraverso la previsione di un motivo legittimo di dimissioni in tronco senza perdere i benefici economici e la particolare indennità (c.d. Indennità fissa), altrimenti riconosciuta solo nei casi di licenziamento per colpa dell'editore (c.d. Clausola di coscienza).
L'art. 4 l. n. 108/1990 riconferma per l'azienda giornalistica che non riveste i caratteri dell'impresa l'esclusione dell'applicabilità dell'art. 18 St. lav.; pertanto i rapporti di lavoro restano soggetti alla sola tutela obbligatoria, indipendentemente dalle dimensioni dell'azienda. Viceversa, ai datori imprenditori di tendenza si dovrà applicare l'art. 18 St. lav. (come modificato dall'art. 1, l. n. 108/1990).
9.4. Il lavoro sportivo.
Il rapporto di lavoro intercorrente tra atleti professionisti e società sportive è stato regolamentato ex professo con la l. 23 marzo 1981, n. 91. La recente normativa inquadra espressamente tale fattispecie nell'ambito del lavoro subordinato. Tuttavia la legge ammette che la prestazione a titolo oneroso dell'atleta debba qualificarsi come lavoro autonomo quando ricorra uno dei seguenti presupposti. a)l'attività sia svolta nell'ambito di una singola manifestazione sportiva o più manifestazioni tra loro collegate in un breve periodo di tempo; b)l'atleta non sia contrattualmente vincolato per ciò che riguarda la frequenza a sedute di preparazione o di allenamento; c)la prestazione che è oggetto del contratto, pur avendo carattere continuativo, non superi otto ore settimanali o cinque giorni ogni mese o trenta giorni ogni anno.
Tra gli aspetti salienti dell'intervento legislativo vanno segnalati: l'assunzione diretta dell'atleta senza il tramite dell'ufficio di collocamento; l'obbligo di stipulare per iscritto, a pena di nullità, il contratto individuale che dovrà uniformarsi ad un contratto tipo predisposto in conformità all'accordo triennale stipulato dalla Federazione sportiva nazionale e dai rappresentanti delle categorie interessate, stabilendosi altresì che eventuali clausole peggiorative del contratto individuale sono sostituite di diritto da quelle contenute nel contratto tipo: la mancata applicazione di alcune norme dello Statuto dei lavoratori (artt. 4, 5, 13, 33, 34) nonché della disciplina vincolistica concernente i licenziamenti individuali. In materia disciplinare l'art. 7 St. lav. consente alle parti di deferire ad un collegio arbitrale la definizione delle controversie riguardanti l'attuazione del contratto stesso.
9.5. Il lavoro nautico.
La necessità di contemperare esigenze protettive del lavoratore con altri interessi legislativamente considerati e di particolare rilevanza giustifica la specialità del rapporto di lavoro nautico (marittimo ed aereo).
L'interesse pubblico alla sicurezza della navigazione pervade tutta la materia ed impone una regolamentazione rigorosa e specifica. L'art. 1 cod. nav. detta un criterio generale in virtù del quale ogni rapporto ricadente nell'area nautica resta assoggettato alle norme del codice di navigazione e soltanto l'abrogazione o lacune consentono il subentro del diritto civile comune. La peculiarità del settore hanno spinto il legislatore dello Statuto (art. 35, 3°comma) a non estendere tout court l'intera legge n. 300/1970 al personale navigante, bensì a distinguere tra disposizioni immediatamente applicabili e le restanti norme suscettibili di applicazione solo se espressamente richiamate dai contratti collettivi di categoria.
In particolare dalla mancanza di immediata operatività dell'art. 18 St. lav. si è tratto spunto per sollevare l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 35, 3°comma, St. lav. accolta dalla corte costituzionale con rif. sia al personale marittimo navigante delle imprese di navigazione (sull'assunto che la contrattazione collettiva non è intervenuta a rendere operante l'art. 18 dello Statuto, emergendo un'ingiustificata disparità di trattamento tra il personale marittimo navigante ed i lavoratori comuni), sia al personale aeronavigante, estendendo con carattere di immediatezza a quest'ultimo il regime della stabilità reale ex. Art. 18 St. lav.

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

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