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CONTRATTI A TERMINE, FLESSIBILI E FORMATIVI.
Contratti a termine.
1.Il lavoro a termine.
Al contratto di lavoro subordinato può essere apposto un termine, anche se risulta fisiologico il contratto di lavoro a tempo indeterminato. Tuttavia, crescenti istanze di flessibilità e di nuova occupazione hanno condotto ad una progressiva attenuazione dell'originario rigore, fino all'emanazione del D.lgs. 6 settembre 2001, n. 368.
Lo sfavore era già rinvenibile nel vecchio art. 2097 c.c., secondo cui il contratto di lavoro si reputava a tempo indeterminato qualora il termine non risultasse dalla specialità del rapporto o da atto scritto. La L. n. 230/1962 ha poi abrogato la norma. Irrigidendo ulteriormente la disciplina. Forma scritta e specialità sono divenuti così requisiti cumulativi e non alternativi, pena la conversione del rapporto a termine in rapporto a tempo indeterminato. Ad attenuazione della rigidità della L. n. 230 è poi ripetutamente intervenuta la legislazione successiva, fino a delegare alla contrattazione collettiva la facoltà della loro individuazione (cosiddetta liberalizzazione controllata e/o contrattata dell'istituto).
Nel recepire la Dir 99/70/UE, il D.lgs n. 368/2001 abroga la legge 239/1962 con una regolamentazione tesa a liberalizzare l'apposizione del termine e a conservare alcune specifiche garanzie della precedente disciplina. Non si tratta pertanto di un provvedimento di mera deregolamentazione: i requisiti per la valida instaurazione di un rapporto a termine restano quelli di forma e sostanza, già richiesti cumulativamente dalla legge del 1962, integrati dai requisti di tipo quantitativo tradizionalmente previsti dalla contrattazione collettiva (clausole di contingentamento) e da quelli di tipo negativo (divieti).
Il D.lgs n. 368/2001 conserva anzitutto il principio della forma scritta ad substantiam, sancendo che l'apposizione del termine deve risultare, direttamente o indirettamente, da atto scritto, con la precisazione che devono essere indicate per iscritto anche le relative ragioni giustificatrici.
La più visibile innovazione concerne il requisito di sostanza. Il precedente numerus clausus di ipotesi viene meno, essendo ora l'apposizione del termine consentita a fronte della sussistenza di più generiche “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo. La formula determina il superamento della precedente tecnica legislativa per “casi di specialità”, predeterminati tassativamente dalla legge e dal contratto collettivo, col risultato di una più ampia apertura all'autonomia individuale e di un diverso ruolo dell'organo giudiziale, chiamato ad una verifica circa la sussistenza delle suindicate ragioni.
Oltre che alla sussistenza delle suindicate ragioni, l'apposizione del termine è subordinata al rispetto di limiti quantitativi (clausole di contingentamento) la cui individuazione, anche in maniera non uniforme, è rimessa alla libera scelta dei CCNL di categoria stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi.
Come già per la somministrazione di manodopera l'art. 3 del D.lgs n. 368/2001 introduce tassativi divieti di assunzione a termine, opportuni nel sistema “aperto” del D.lgs n. 368/2001: sostituzioni di scioperanti; trattamento di integrazione salariale in corso per personale con le stesse mansioni; imprese inadempienti all'obbligo di valutazione dei rischi ; unità produttive interessate nel semestre precedente da licenziamenti collettivi di lavoratori impegnati nelle stesse mansioni.
Qualora manchi il requisito di forma o di sostanza o vengano violati i descritti divieti, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato fin dall'origine.
Il termine può essere prorogato, previo consenso del lavoratore, una sola volta e per la stessa attività lavorativa cui si riferisce il contratto, purché sussistano ragioni oggettive, anche se diverse da quelle originarie, e la durata complessiva del rapporto non superi i 3 anni. Si discute se il termine di 3 anni abbia carattere generale o se si risolva più semplicemente in un divieto di proroga per tutti i contratti il cui termine iniziale già oltrepassi il triennio.
Dubbie sono le conseguenze della illegittimità della proroga per assenza dei requisiti sopra indicati: la dottrina è divisa tra chi ritiene applicabile la sanzione della conversione e chi, ravvisa una prosecuzione di fatto del rapporto, con tutti gli effetti sanzionatori del caso. Se il rapporto continua di fatto oltre la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, esso si considera a tempo indeterminato, ma solo a partire dal ventesimo o dal trentesimo giorno di continuazione, a seconda che il contratto sia di durata rispettivamente inferiore o superiore a sei mesi. Nel periodo intermedio, il datore è tenuto a corrispondere al lavoratore una maggiorazione della retribuzione per ogni giorno di continuazione del rapporto pari al 20% fino al decimo giorno successivo ed al 40% per ciascun giorno ulteriore.
Il D.lgs 368/2001 prevede che se il lavoratore è riassunto a termine entro 10 o 20 giorni dalla scadenza di un contratto di durata “fino a sei mesi” o “superiore a sei mesi”, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. Qualora si tratti di due assunzioni successive a termine, “intendendosi per tali quelle effettuate senza soluzione di continuità”, il rapporto si riterrà, invece, a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto.
L'art 6 del D.lgs 368/2001 enuncia un generale principio di parità di trattamento dei lavoratori a tempo determinato con quelli a tempo indeterminato, salvo specifici profili di obbiettiva incompatibilità. La violazione espone il datore di lavoro alle sanzioni amministrative.
Un vero e proprio diritto di precedenza nell'assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, da esercitarsi entro un trimestre dalla cessazione del rapporto, è riconosciuto ai lavoratori a termine stagionale o impiegati in punte stagionali, per l'anno successivo allo scioglimento del rapporto, secondo quanto disposto dall'art 23, 2° comma, L. n. 56/1987. Componendo i precedenti contrasti giurisprudenziali, l'art. 8 stabilisce ai fini dell'applicazione dell'art 35 St. lav (in materia di diritti sindacali), la non computabilità nell'organico dell'impresa di tutti i lavoratori titolari di un contratto a termine non superiore a 9 mesi,, con ciò intendendo incentivare l'utilizzo di tale tipologia contrattuale da parte aziendale. Non essendo disciplinato dalla L. n. 604/1966, né dall'art 18 St. lav o dalla L. n. 108/1990, il recesso datoriale ante tempus privo di giusta causa è fonte di un obbligo risarcitorio commisurato alle retribuzioni che sarebbero maturate fino alla scadenza, detratto quanto il lavoratore abbia conseguito o avrebbe potuto conseguire da un'altra occupazione usando l'ordinaria diligenza.
Anche per i dirigenti è confermata la possibilità di impiego a termine per il periodo massimo di un quinquennio, ferma la facoltà di dimissioni dopo un triennio. I dirigenti sono, inoltre, esclusi dal campo di applicazione del decreto, salve le disposizioni sul principio di non discriminazione e i criteri di computo.
Nessuna esclusione o disciplina speciale è, invece, prevista per il settore pubblico dall'art 36 D.lgs n. 165/2001, secondo il quale le pubbliche amministrazioni si avvalgano delle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego secondo le modalità previste dai contratti collettivi di comparto. Resta tuttavia inapplicabile il meccanismo della conversione. In tale ipotesi viene riconosciuto al lavoratore il diritto al risarcimento del danno.
Contratti flessibili.
1.Il lavoro a tempo parziale.
Negli ultimi anni, le crescenti preoccupazioni occupazionali e di competitività hanno spinto il legislatore a disciplinare contratti di lavoro con regimi di orario flessibili, volti a migliorare i livelli di produttività e ad aumentare il tasso di occupazione (o anche solo di partecipazione) in particolare delle fasce deboli sul mercato del lavoro (donne, giovani e anziani).
Il D.lgs n. 276/2003, nel titolo V, disciplina tre tipologie contrattuali:
-il lavoro a tempo parziale è caratterizzato da una diminuzione dell’orario di lavoro rispetto a quello normale;
-il lavoro ripartito è uno speciale contratto col quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa.
-il lavoro intermittente è quello mediante il quale un lavoratore si mette a disposizione di un datore di lavoro che ne può utilizzare la prestazione
Tutti e tre questi contratti consentono un uso flessibile della forza lavoro sotto il profilo temporale.
Il lavoro a tempo parziale (o part-time) da un ventennio costituisce una delle manifestazioni più significative della tendenza alla diversificazione del rapporto di lavoro rispetto al modello tradizionale.
La disciplina dell’istituto del lavoro a tempo parziale risulta da:
D. lgs. 61/2000, che ha abrogato la precedente disciplina e ha introdotto una nuova disciplina conforme agli indirizzi comunitari e rispondente all’esigenza di promuovere una maggiore diffusione di tale tipologia contrattuale.
D. lgs. 276/2003 – con questo intervento di riforma sono stati rimossi alcuni vincoli che costituivano un freno alla diffusione di questo tipo di contratto e che ha reso più flessibile la gestione dei tempi parziali di lavoro.
L. 247/2007 – con quest’ultimo intervento di riforma si è rafforzata la competenza della contrattazione collettiva in materia (specie per quanto concerne le clausole elastiche e flessibili).
Per lavoro a tempo parziale si intende il rapporto di lavoro subordinato caratterizzato da un orario di lavoro inferiore rispetto all’orario di lavoro a tempo pieno. Per orario di lavoro a tempo pieno deve intendersi l’orario normale di lavoro, corrispondente alle 40 ore settimanali fissate dalla legge o all’eventuale orario minore fissato dai contratti collettivi.
Si distinguono 3 differenti tipologie di part time.
-rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo orizzontale, in cui la riduzione rispetto al tempo pieno è prevista rispetto all’orario normale giornaliero (si lavora tutti i giorni della settimana lavorativa ma in ciascun giorno per un minor numero di ore).
-rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo verticale, in cui l’attività lavorativa è svolta a orario giornaliero pieno, ma limitatamente a periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno (si lavora a tempo pieno, ma solo in alcuni giorni della settimana o in alcune settimane del mese o in alcuni messi dell’anno).
-rapporto di lavoro a tempo parziale di tipo misto, in cui l’attività lavorativa si svolge secondo una combinazione delle due tipologie precedenti (ad esempio, si lavora in tutti i giorni della settimana lavorativa, ma in alcuni giorni a tempo pieno mentre in altri giorni a tempo parziale).
I contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati dalle associazioni di lavoratori e datori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o dalle rappresentanza sindacali aziendali (RSA o RSU) hanno la potestà di determinare le condizioni e le modalità della prestazione lavorativa nel rapporto di lavoro a tempo parziale.
Il D.lgs n. 61 prevede che il contratto di lavoro deve essere stipulato in forma scritta, ma tale forma è richiesta non ai fini della validità del contratto, ma solo ad probationem, con l'indicazione puntuale della durata della prestazione lavorativa e della collocazione temporale dell'orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all'anno. Sicché l’inosservanza della forma scritta non determina la nullità del contratto ma solo una limitazione dei mezzi probatori (infatti in tal caso la prova per testimoni sarà ammessa solo in caso di incolpevole perdita del documento art. 2725 c.c.).
In difetto di prova della stipulazione del part-time, sul richiesta del lavoratore, potrà essere dichiarata la conversione giudiziale del contratto di lavoro dal tempo parziale al tempo pieno; ma soltanto ex nunc, cioè a partire dalla data in cui la mancanza della scrittura sia giudizialmente accertata.
Per quanto riguarda in contenuto del contratto, esso deve indicare la durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell’orario di lavoro con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno. È richiesta dunque una formale e precisa predeterminazione dell’orario ridotto, bilanciata però da significative aperture alle flessibilità nella durata e nella collocazione temporale (di cui parlerò a proposito di lavoro supplementare, straordinario, clausole elastiche e flessibili).
Anche in questo caso però, l’eventuale mancanza o indeterminatezza di tali indicazioni non comporta la nullità del contratto, ma:
-se l’omissione riguarda la durata della prestazione lavorativa, su richiesta del lavoratore può essere dichiarata la conversione giudiziale del contratto di lavoro a tempo parziale in tempo pieno (ma sempre solo a partire dalla data dell’accertamento giudiziale);
-se invece l’omissione riguarda la sola collocazione temporale dell’orario (ossia la collocazione delle ore di lavoro nell’arco della giornata – di mattina o di pomeriggio, ad esempio), allora sarà il giudice a provvedere a determinare la modalità temporali di svolgimento della prestazione, facendo riferimento alle previsioni dei contratti collettivi, o, in mancanza, con valutazione equitativo.
Nonostante la necessità di predeterminare nel contratto la durata della prestazione lavorativa, è ammessa la possibilità di variare in aumento tale durata. Il lavoro eccedente assume diverse nozioni a seconda della tipologia di contratto: lavoro supplementare nel part time orizzontale; clausole elastiche e lavoro straordinario nel parti time verticale e misto.
Nel part time orizzontale il datore ha facoltà di richiedere lo svolgimento di lavoro supplementare, cioè di lavoro svolto oltre l’orario a tempo parziale concordato ma entro il limite del tempo pieno.
La regolamentazione del lavoro supplementare è rimessa alla contrattazione collettiva, che può determinare il numero massimo di ore supplementari effettuabili, l’individuazione delle causali in base alle quali il datore di lavoro può richiedere lo svolgimento di lavoro supplementare e le eventuali conseguenze in caso di superamento del tetto di ore di lavoro supplementare contrattualmente previste. Inoltre possono (ma non debbono) prevedere una maggiorazione della retribuzione oraria globale di fatto dovuta in relazione al lavoro supplementare.
Non è necessario il consenso espresso del lavoratore alla richiesta del datore di effettuare lavoro supplementare se il contratto collettivo prevede e disciplina la facoltà del datore di richiedere tali prestazioni (ma l’eventuale rifiuto del lavoratore non può giustificare il licenziamento, bensì solo altre sanzioni disciplinari). Altrimenti è necessario il consenso del lavoratore.
Il lavoro straordinario invece si verifica quanto viene superato l’orario legale settimanale (40 ore). Per questo motivo nel part time esso è possibile solo quando sia raggiunto il tempo pieno e quindi solo nel part time verticale o misto. In tal caso si applicherà la disciplina generale del part time prevista per il lavoro a tempo pieno. Le clausole di elasticità (o clausole elastiche) infine consentono al datore di aumentare la durata della prestazione, nel part time verticale o misto, senza che le ore in più valgano come straordinario
Oltre alla durata della prestazione lavorativa, è ammessa anche la possibilità di modificare la collocazione temporale della stessa (per quanto anch’essa debba risultare dal contratto). Ciò accade attraverso l’apposizione al contratto di clausole di flessibilità (o clausole flessibili).
Dunque mentre le clausole elastiche consentono al datore di lavoro di richiedere una prestazione lavorativa di durata superiore a quella prevista nel contratto, le clausole flessibili consentono allo stesso di modificare la collocazione temporale della stessa prestazione (es.: invece che lavorare 6 ore dalle 8 alle 14, lavorare sempre 6 ore ma dalle 14 alle 20). A differenza delle clausole elastiche (che possono essere apposte solo ai contratti part time di tipo verticale o misto) le clausole flessibili possono essere apposte anche ai contratti di part time di tipo orizzontale.
Prima della L. 247/2007 la regolamentazione della clausole elastiche e flessibili, se non prevista dalla contrattazione collettiva, era rimessa direttamente alle parti del rapporto di lavoro. Oggi invece, l’introduzione di tali clausole è rimessa esclusivamente ai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, contratti i quali ne stabiliscono anche condizioni e modalità. Per la concreta introduzione di tali tipi di clausole nel rapporto concreto è poi necessario il consenso espresso del lavoratore, formalizzato attraverso uno specifico patto scritto (la forma scritta del patto di elasticità\flessibilità è richiesta ad substantiam), anche se contestuale al contratto di lavoro. In sostanza tali clausole accessorie attribuiscono al datore un vero e proprio jus variandi temporale, accentuando i tratti della subordinazione del lavoratore.
Il trattamento economico e normativo del lavoratore part time è regolato dai seguenti principi ordinatori:
-principio di non discriminazione, in base al quale il lavoratore a tempo parziale deve beneficiare dei medesimi diritti di un lavoratore a tempo pieno comparabile (per livello d’inquadramento), in particolare per quanto riguarda l’importo della retribuzione oraria, la durata delle ferie annuali, la durata del periodo di astensione obbligatoria e facoltativa per maternità.
-principio di proporzionalità in base al quale il trattamento del lavoratore deve essere ridotto proporzionalmente alla ridotta entità della prestazione lavorativa per quegli istituti commisurati alla stessa (importo della retribuzione globale e feriale).
Il lavoratore part time gode di un diritto di precedenza con riferimento alla trasformazione del rapporto da tempo parziale a tempo pieno. Ossia ha il diritto di essere preferito ad altri lavoratori, in caso di nuove assunzioni a tempo pieno da parte del datore.
Occorre però distinguere 2 ipotesi:
-per i lavoratori originariamente assunti con contratto part time, il diritto di precedenza è azionabile solo se previsto dal contratto individuale.
-per i lavoratori originariamente assunti a tempo pieno ma che poi hanno trasformato il rapporto in part time, il diritto di precedenza è senz’altro azionabile in quanto deriva dalla legge.
È ammessa anche la trasformazione opposta (da tempo pieno in part time) purché vi sia l’accordo delle parti (in forma scritta) e questo accordo venga convalidato dalla Direzione provinciale del lavoro. In tal caso non esiste un vero e proprio diritto soggettivo del lavoratore a tale trasformazione, giacché il legislatore impone al datore di lavoro che intenda procede a nuove assunzioni a tempo parziale soltanto che questi informi il personale già occupato con rapporto a tempo pieno e che prenda in considerazione le loro eventuali domande di trasformazione a tempo parziale.
Il legislatore dispone che i lavoratori part time vadano computati nel complesso del numero dei lavoratori dipendenti sempre in proporzione all’orario effettuato, rapportato al tempo pieno; e ciò in tutte le ipotesi in cui si renda necessario l’accertamento della consistenza dell’organico aziendale.
Nell'attesa della riforma degli incentivi all'occupazione, l'art 46 D.lgs n. 276/2003 , cancella il previgente sistema di benefici contributivi, mostrando di privilegiare i soli incentivi normativi al fine di promuovere il ricorso al lavoro a tempo parziale.
2.Il lavoro ripartito
Dopo un lungo silenzio il D.lgs. n. 276/2003 definisce il lavoro ripartito o job sharing come quello speciale contratto di lavoro subordinato col quale due lavoratori assumono in solido l’adempimento di un’unica e identica obbligazione lavorativa.
Il vincolo di solidarietà importa che ogni lavoratore resta personalmente e direttamente responsabile dell’adempimento dell’intera obbligazione lavorativa.
Il vincolo di solidarietà inoltre presuppone la piena fungibilità della prestazione di lavoro.
Il contratto di lavoro ripartito deve essere stipulato per iscritto (forma richiesta ad probationem) e deve necessariamente contenere alcune indicazioni: la ripartizione percentuale e temporale del lavoro fra i coobbligati, il luogo di lavoro, il trattamento economico e normativo.
La disciplina applicabile, al di là di quella speciale, è rinviata alla contrattazione collettiva. In assenza di contratti collettivi si applica la normativa generale del lavoro subordinato, ma soltanto in quanto compatibile con le peculiarità del rapporto ripartito.
Al momento della stipula le parti devono concordare la quantità e la collocazione temporale della attività lavorativa. Inoltre i lavoratori hanno la facoltà di modificare successivamente la ripartizione dell’orario e di sostituirsi a vicenda (in tal caso, il rischio della impossibilità della prestazione per fatti attinenti ad uno dei coobbligati è posto in capo all’altro).
Insomma i lavoratori sono liberi di organizzare tra loro la prestazione di lavoro, ripartendosi l’orario di lavoro, con l’obbligo di sostituirsi a vicenda in caso di inadempimento di uno dei due.
L’eventuale impedimento di entrambi i lavoratori, invece, può determinare l’estinzione dell’obbligazione (e quindi giustificare la risoluzione del rapporto) allorché perduri tanto tempo da far cessare l’interesse del creditore alla prestazione (secondo la disciplina di diritto comune).
Un altro aspetto peculiare del lavoro gemellato attiene alla cessazione del rapporto di lavoro. Le dimissioni o il licenziamento (per colpa o per ragioni oggettive inerenti alla persona) di uno dei due comporta l’estinzione dell’intero vincolo contrattuale, a meno che il datore e l’altro lavoratore non convertano il contratto di lavoro ripartito in un normale contratto di lavoro subordinato.
Viceversa, il licenziamento per ragioni aziendali non può che riguardare entrambi i lavoratori.
3.Il lavoro intermittente.
Sulla scia di esperienze straniere il D.lgs n. 276/2003 disciplina il contratto di lavoro intermittente (o job on call) cioè il contratto mediante il quale un lavoratore si pone a disposizione di un datore che ne può utilizzare la prestazione lavorativa (art. 33).
La peculiarità sta nel fatto che il datore può utilizzare la prestazione lavorativa in modo intermittente, se e quando decida di farlo, e a sua volta il lavoratore non è obbligato a rispondere alla chiamata (lavoro intermittente senza obbligo di disponibilità).
Le cose cambiano se, con l’apposizione di una clausola accessoria, il lavoratore si obbliga a rispondere alla chiamata del datore (lavoro intermittente con obbligo di disponibilità). In tal caso peraltro, sorge un correlativo obbligo del datore di corrispondere al lavoratore un’indennità di disponibilità.
Si può ricorrere al lavoro intermittente soltanto in presenza di determinate causali:
-per lo svolgimento di prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi;
-oppure per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno (fine settimana, ferie estive, vacanze pasquali o natalizie).
È inoltre consentito in via sperimentale l’utilizzo del lavoro intermittente per giovani fino a 25 anni o per lavoratori con più di 45 anni esclusi dal ciclo produttivo o iscritti nelle liste di mobilità o di collocamento.
È invece vietato il ricorso al lavoro intermittente negli stessi casi di divieto per il lavoro a termine e per il lavoro somministrato:
-per la sostituzione di lavoratori in sciopero;
-in unità produttive nelle quali si sia proceduto nel 6 mesi precedenti a licenziamenti collettivi, a sospensioni oppure a riduzioni di orario di lavoro che interessino lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente.
Anche il contratto di lavoro intermittente deve essere stipulato in forma scritta ad probationem. Esso deve indicare la causale giustificativa, la durata, il luogo e la modalità della disponibilità del lavoratore, il trattamento economico e normativo.
Caratteristica del lavoro intermittente è che la prestazione non è effettuata con continuità, come di norma, ma solo su richiesta del datore. E a sua volta il contratto non genera automaticamente un obbligo del lavoratore di rispondere positivamente alla chiamata del datore. Perché tale obbligo sussista è necessario che sia inserita una apposita clausola nel contratto individuale, a fronte della quale deve essere corrisposta al lavoratore una indennità di disponibilità.
Per quanto riguarda il trattamento economico bisogna distinguere a seconda che si tratti di lavoro intermittente con o senza obbligo di disponibilità.
-in caso di lavoro intermittente senza obbligo di disponibilità, per i periodi non lavorati, il lavoratore non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati (e dunque non percepisce nulla).
-se invece si tratta di lavoro intermittente con obbligo di disponibilità, per i periodi di disponibilità garantita, il lavoratore ha diritto a percepire la relativa indennità.
Per i periodi lavorati invece ha diritto al regolare trattamento economico e normativo previsto dai contratti collettivi di categoria, proporzionato, naturalmente in ragione della prestazione effettivamente eseguita. Da ciò si desume che trovano applicazione anche nel lavoro intermittente i principi di non discriminazione e di proporzionalità nel trattamento economico e normativo.
Contratti a contenuto formativo e altre esperienze di alternanza formazione/lavoro.
1.Dall'apprendistato agli apprendistati.
Sulla strada dell'alternanza e dell'intreccio tra formazione e lavoro, la legislazione è venuta proponendo in primis l'apprendistato-denominato tirocinio dal codice civile-strumento d'ingresso del giovane nel mondo del lavoro, scosso nelle sue fondamenta e rinnovato dal D.lgs. 276/2003, il quale prevede 3 tipologie di contratto di apprendistato differenziate, che perseguono l’obiettivo di formare il giovane per il suo inserimento nel mercato del lavoro.
Quello derivante dal contratto di apprendistato è un vero e proprio rapporto di lavoro subordinato, la cui specialità discende dalla causa mista del contratto: non solo scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione, ma anche e soprattutto scambio tra attività lavorativa e formazione professionale, interna ed esterna all’azienda.
Dunque a fronte della prestazione lavorativa, il datore si obbliga a corrispondere all’apprendista, non solo una controprestazione retributiva, ma anche gli insegnamenti necessari per il conseguimento di una qualifica professionale, di una qualificazione tecnico-professionale o di titoli di studio di livello secondario o universitario.
Possono essere assunti, in tutti i settori di attività, con contratto di apprendistato classico i giovani di età non inferiore ai 16 anni e non superiore a 24. Il contratto di apprendistato è subordinata quindi ad un limite minimo e ad uno massimo di età. Il limite massimo di età riguarda esclusivamente il momento in cui il rapporto ha inizio, ma se valicato successivamente, non ne preclude la continuazione.
Al fine di tutelare la salute del lavoratore si fissa l'obbliga di visita sanitaria pre-assuntiva per accertare che le condizioni fisiche di questo ne consentano l'assegnazione al lavoro per il quale deve essere assunto. È consentita l'apposizione del patto di prova che tuttavia non può avere durata superiore a due mesi.
La fissazione della durata dell'apprendistato classico è rinviata ai contratti collettivi nazionali e non potrà essere inferiore ai 18 mesi e superiore ai 4 anni ((L. n. 196/1997). I periodi di servizio prestato in qualità di apprendista presso più datori di lavoro si cumulano ai fini del computo della durata massima del periodo di apprendistato, purché non separati da interruzioni superiori ad un anno e purché si riferiscano alle stesse attività.
Il numero massimo di apprendisti che un datore può assumere non può superare il numero del personale specializzato e qualificato in servizio (ma se il personale qualificato è composto da soli 3 elementi è ammessa in deroga l’assunzione di 3 apprendisti).
I lavoratori assunti con contratto di apprendistato sono esclusi dal computo dei lavoratori occupati ai fini dell’applicazione di quegli istituti collegati al superamento di una certa soglia occupazionale.
Addestramento pratico e insegnamento complementare caratterizzano a partire dal 1998 il contratto di apprendistato classico con l'intento di renderlo più congruo ad una formazione professionale effettiva, attenuandone la valenza di mero strumento di riduzione del costo del lavoro.
Durante il rapporto di apprendistato trova applicazione la disciplina limitativa dei licenziamenti, mentre al termine del periodo il datore di lavoro ha facoltà di dare disdetta ai sensi dell'art. 2118 c.c.
L’assunzione di apprendisti comporta per il datore di lavoro il vantaggio economico di una ridottissima contribuzione previdenziale e assicurativa. Tali incentivi sono naturalmente subordinati all’effettività della formazione da parte del datore di lavoro, e dunque vengono meno in caso si accerti un grave inadempimento dell’obbligo formativo imputabile al datore (il datore dovrà versare la differenza dei contributi maggiorata del 100%).
Il D.lgs n. 276/2003 prevede per un futuro prossimo la sostituzione del contratto di apprendistato con una trilogia di tipi contrattuali. L'entrata in vigore delle nuove tipologie di apprendistato non è immediata e nelle more di una regolamentazione ulteriore (demandata alle Regioni e alla contrattazione collettiva) si applica la vecchia e classica disciplina:
-apprendistato per l’espletamento del diritto-dovere di istruzione e formazione (apprendistato del 1° tipo)
Tale apprendistato costituisce un’alternativa alla frequenza di un istituto di scuola media superiore ed è volto al conseguimento di una qualifica professionale per giovani che abbiano compiuto i 15 anni.
La stipulazione di questo contratto consente al minore di entrare nel mondo del lavoro e contemporaneamente di adempiere ai propri obblighi formativi.
Possono essere assunti giovani di età compresa tra i 15 ed i 18 anni e la durata massima del contratto è di 3 anni (purché sempre all’interno del limite massimo d’età).
Il contratto deve essere stipulato in forma scritta (ad substantiam). Al contratto di apprendistato si applica la disciplina del licenziamento vigente in materia di lavoro subordinato, per cui il licenziamento dell’apprendista è legittimo solo in presenza di una giusta causa o di un giustificato motivo. Al termine del periodo di apprendistato invece, il datore può recedere dal rapporto ai sensi dell’art. 2118 c.c..
Quanto alla formazione da erogare il legislatore nazionale rinvia quasi completamente alle norme regionali.
-apprendistato professionalizzante (del 2° tipo)
Tale apprendistato mira al conseguimento di una qualificazione professionale attraverso una formazione sul lavoro ed un apprendimento tecnico-professionale.
Mentre dunque l’apprendistato del 1° tipo mira a far conseguire al giovane un titolo di studi e costituisce assolvimento del diritto-dovere di istruzione, l’apprendistato professionalizzante mira a far conseguire al giovane una qualificazione, accrescendone le competenze fino a farlo divenire un lavoratore qualificato.
Possono essere assunti soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni e la durata del contratto deve essere tra un minimo di 2 ed un massimo di 6 anni.
Anche questo contratto deve essere stipulato in forma scritta e vale quanto detto prima a proposito del licenziamento.
Per quanto riguarda la formazione professionale, il legislatore nazionale, pur rinviando al legislatore regionale, stabilisce che debbano comunque essere erogate al giovane almeno 120 ore per anno di formazione teorica (distinta dall’addestramento pratico).
-apprendistato per l’acquisizione di un diploma o per percorsi di alta formazione (apprendistato del 3° tipo)
Tale apprendistato è diretto al conseguimento di un titolo di studio secondario, universitario e di alta formazione.
Possono essere parti di tale contratto soggetti di età compresa tra 18 e 29 anni. Non sono previsti limiti di durata del contratto.
I profili che attengono alla formazione sono rimessi alle regioni, ma è chiaro che il fulcro della formazione consisterà nella frequenza di una scuola superiore o università.
2.I contratti di formazione e lavoro.
Il contratto di formazione e lavoro è nato con la finalità di agevolare l’occupazione giovanile mediante un’esperienza di lavoro formativa. Tuttavia nel tempo tale finalità è stata snaturata e tale tipo di contratto si è trasformato in uno strumento di procacciamento di manodopera giovane con un regime agevolato.
Sicché, in seguito alle decisioni della commissione europea e della corte di giustizia europea (che hanno considerato il regime di benefici economici previsto per tale tipo di contratto in contrasto con la normativa europea sulla concorrenza), il legislatore italiano (contestualmente alla creazione di un nuovo contratto a finalità formative; il contratto di inserimento), ridusse l’ambito di applicazione del CFL, ormai in estinzione.
A partire dall’ottobre 2003 la disciplina dei CFL viene circoscritta all’ambito del pubblico impiego e trova solo residuale applicazione nell’impiego privato, limitatamente ai contratti in corso (per i quali peraltro, sono stati limitati i benefici previsti originariamente).
Tramite CFL possono essere assunti giovani fra i 16 ed i 32 anni. Si distinguono due tipologie di CFL.
-il CFL forte che concede al datore ampie flessibilità (durata fino a 2 anni, benefici contributivi) in cambio di un’attività formativa vera e propria, volta ad accrescere la professionalità del lavoratore.
-ed il CFL leggero, che riduce la porzione di flessibilità (durata dimezzata e benefici solo in caso di stabilizzazione) accontentandosi di un’attività più informativa che formativa, volta ad agevolare l’inserimento lavorativo.
Per la stipulazione del contratto è richiesta la forma scritta, pena la conversione in contratto a tempo indeterminato. Anche l’inosservanza da parte del datore degli obblighi di formazione comporta la trasformazione del CFL in contratto a tempo indeterminato (sin dalla sua instaurazione) e la revoca dei benefici contributivi (anch’essa sin dall’inizio).
Il CFL è un contratto non facilmente classificabile; species del genus contratto a termine, è ormai considerato un contratto a causa mista o complessa con una doppia obbligazione principale a carico del datore, retribuzione e formazione. Al rapporto di formazione e lavoro si applicano le disposizioni legislative che disciplinano il rapporto di lavoro subordinato.
3.Il contratti di inserimento.
L’estinzione (almeno nel settore privato) del CFL è coincisa con l’ascesa ad opera del D.lgs n. 276/2003 di un’altra tipologia di contratto a contenuto formativo: il contratto di inserimento. Si tratta di un contratto dalla più marcata finalità occupazionale che formativa. Esso infatti è un contratto di lavoro diretto a realizzare, mediante un progetto individuale di adattamento delle competenze professionali del lavoratore ad un determinato contesto lavorativo, l’inserimento (o il reinserimento) nel mercato del lavoro di determinate categorie di lavoratori. Si tratta dunque di uno strumento diretto a realizzare l’inserimento mirato nel mercato del lavoro di categorie socialmente deboli.
Introducendo tale tipologia contrattuale, il legislatore ha inteso valorizzare l’acquisizione di professionalità concreta, calibrata in rapporto al fabbisogno del datore di lavoro, nella prospettiva della futura, eventuale stabilizzazione del rapporto.
Possono essere assunti con contratto di inserimento se seguenti categorie di persone:
-soggetti di età compresa tra i 18 e i 29 anni.
-disoccupati di lunga durata da 29 fino a 32 anni.
-lavoratori con più di 50 anni privi di un posto di lavoro.
-donne residenti in aree geografiche con un elevato tasso di disoccupazione femminile.
-persone affette da un grave handicap fisico, mentale o psichico.
L'utilizzo del contratto di inserimento è escluso nel pubblico impiego con l'eccezione degli enti pubblici di ricerca e degli enti pubblici economici.
Condizione necessaria per l’assunzione con contratto d’inserimento è la definizione (col consenso del lavoratore) di un progetto individuale di inserimento, volto a garantire l’adeguamento delle competenze professionali del lavoratore stesso al contesto lavorativo. Ciò dovrebbe significare che non sono assumibili con questa tipologia contrattuale soggetti privi di una capacità professionale adattabile per i quali invece, dovrebbe essere utilizzato, ove possibile, l'apprendistato.
L'Accordo interconfederale firmato l'11 febbraio 2004 dispone che il progetto individuale di inserimento debba prevedere una formazione teorica non inferiore alle 16 ore, ripartita tra apprendimento di nozioni di prevenzione antinfortunistica e disciplina del rapporto e organizzazione aziendale.
La causa del contratto di inserimento può essere considerata mista se è prevista una formazione professionale. Il contratto d’inserimento deve essere stipulato in forma scritta e in esso deve essere necessariamente indicato il progetto individuale di inserimento concordato col lavoratore. In mancanza di forma scritta il contratto è nullo e il lavoratore si intende assunto a tempo indeterminato sin dall’origine.
Il contratto d’inserimento può avere una durata variabile da 9 a 18 mesi (se il rapporto continua alla scadenza del termine, il contratto si trasforma in un normale contratto a tempo indeterminato.
Salvo diversa disposizione dei contratti collettivi, ai contratti d’inserimento di applicano, per quanto compatibile, la disciplina in materia di contratto di lavoro a tempo determinato.
Così come il contratto di apprendistato ed i contratti di formazione e lavoro, il contratto d’inserimento comporta dei vantaggi economici e normativi per il datore. È previsto infatti che al lavoratore possa essere attribuito un inquadramento inferiore rispetto a quello corrispondente alla qualifica al cui conseguimento è preordinato il contratto d’inserimento (ed il sotto-inquadramento comporta ovviamente un trattamento economico inferiore). L’inquadramento del lavoratore può arrivare sino a 2 livelli inferiori rispetto alla categoria spettante.
Inoltre anche i lavoratori assunti con contratto d’inserimento sono esclusi dal computo dei lavoratori occupati.
4.I tirocini formativi e di orientamento.
I tirocini formativi e di orientamento (stage) non configurano un rapporto di lavoro subordinato e consistono in un inserimento temporaneo (di durata non superiore a 12 mesi, 24 nel caso di disabili) di un soggetto all’interno del mondo produttivo, allo scopo di sperimentare un contatto diretto ed un addestramento pratico.
I tirocini formativi possono essere svolti sulla base di convenzioni stipulate tra datori privati e pubblici (ospitanti) e soggetti promotori individuati dalla legge (agenzie regionali per l’impiego, università, scuole), in cui i tirocinanti sono parte terza.
Non si prevede normalmente la corresponsione di alcuna somma di denaro al tirocinante, anche se spesso il soggetto ospitante eroga una borsa o premo al termine dello stage.
Questa pratica è adottata sovente dalle scuole medie superiori e dalle università nel percorso didattico degli studenti consentendo loro di accumulare “crediti formativi”.
Tutti gli stagisti devono essere assicurati contro gli infortuni, le malattie professionali e per la responsabilità civile verso terzi nonché informati sulle misure di tutela e di sicurezza sul lavoro. La disciplina recente tende ad incentivare gli stage rendendoli meno costosi per i datori, trasferendo sui soggetti promotori sia i costi connessi alla figura del tutore, sia quelli per la responsabilità civile e gli infortuni sul lavoro.
Proprio nell'ottica di realizzare un'alternanza tra formazione e lavoro, con il D.lgs n. 276/2003 (art. 60) ha visto la luce per brevissimo tempo un nuovo tipo di tirocinio di orientamento denominato “estivo”, riguardante un adolescente o giovane, regolarmente iscritto ad un ciclo di studi presso l'università o istituto scolastico che intenda svolgere un'esperienza in azienda con fini orientativi e di addestramento pratico. Questa previsione però, è stata dichiarata incostituzionale, poiché, attenendo alla formazione professionale riguarda una materia di competenza esclusiva delle Regioni.
Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc
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