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I CONTRATTI A TERMINE DOPO LE RECENTI NOVITA’
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I contratti a tempo determinato hanno avuto, nell’ultimo periodo (ci si riferisce alle modifiche introdotte con le leggi n. 247/2007 e n. 133/2008) una vita abbastanza travagliata essendo stati oggetto di continui aggiustamenti che hanno, profondamente, rivisto la materia e che, peraltro, hanno suscitato tra gli operatori una lunga serie di discussioni, non ultime quelle legate alla computabilità nella sommatoria tra i vari contratti, ai dei diritti di precedenza e, ora, alla questione della risarcibilità, in luogo della riassunzione, per una serie di ipotesi contenute nel nuovo art. 5, comma 4 bis.
L’obiettivo che ci si pone con questa riflessione è quello di effettuare, non solo, un esame approfondito dei vari articoli che compongono il provvedimento, ma anche quello di fare un “excursus” su altre materie ed istituti correlati, per rendere possibile un esame, il più possibile esaustivo, dell’istituto: ciò, ovviamente, ci porterà ad effettuare valutazioni, ad esempio, sul contratto a termine, confrontato, almeno per la fascia 18 – 29 anni, con il contratto di inserimento per esaminarne la convenienza sotto il profilo dei costi e della “agibilità”, o sul contratto a tempo determinato, in relazione a leggi speciali come la n. 68/1999 sul collocamento al lavoro dei disabili o su quello del settore pubblico.
Il percorso che sarà seguito nella trattazione cercherà di fornire, più che risposte giuridico-teoriche ad una serie di problemi, soluzioni operative partendo dall’analisi dell’articolato.
Il testo base originario, entrato in vigore il 24 ottobre 2001, è nel D.L.vo n. 368/2001, adottato, al termine di lunghe traversie che portarono in quegli anni ad un’intesa separata (la CGIL non firmò) tra le organizzazioni sindacali, diede seguito alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio del 28 giugno 1999, concernente l’accordo quadro sul lavoro a termine concluso dalla CES, dall’UNICE e dal CEEP.
Apposizione del termine
L’art. 1 ha subito, di recente con la legge n. 247/2007, una integrazione con il comma 01 (abbastanza inusuale è la numerazione adottata) in base alla quale si afferma che “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato”: tale principio, lungi dal rappresentare una presunzione legale a favore di tale tipologia, sta a significare, anche secondo l’indirizzo amministrativo espresso con la circolare del Ministero del Lavoro, della Salute e delle Politiche Sociali (è questa la nuova denominazione) n. 13 del 2 maggio 2008, che la fattispecie “ordinaria” nei rapporti di lavoro subordinato è rappresentata dal contratto a tempo indeterminato. Tale principio è molto attenuato al comma immediatamente successivo, il numero 1, con il quale il c.d. “causalone”, ossia le esigenze di carattere, tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, è ammesso anche se riferibile alla ordinaria attività del datore di lavoro (quest’ ultima specificazione è stata introdotta dall’art. 21, comma 1, della legge n. 133/2008).
La norma appena introdotta è destinata ad intervenire in maniera molto profonda sulla normativa in quanto vanno ripresi in esame molti discorsi che in questi anni la dottrina ha fatto sulla casistica tipologica dei contratti a termine finalizzata, a delimitare il ricorso all’istituto. I concetti, a suo tempo espressi (sulla base del vecchio testo che, peraltro, non conteneva alcun accenno alla “ordinarietà dell’attività”) dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 42/2002 assumono, oggi, una particolare valenza, in quanto si ritenne, da allora, superato l’orientamento destinato a riconoscere la legittimità dell’apposizione del termine soltanto in presenza di una attività definita, “ex ante”, “temporanea”, o “eccezionale”, o “straordinaria”, o “imprevedibile”, con la conseguenza che il contratto a tempo determinato trovava la propria legittimazione sulla base dei criteri di normalità tecnico – organizzativa (o per le ipotesi sostitutive), sulla base di criteri di ragionevolezza che scaturivano dalla combinazione tra la durata delle attività e le esigenze di carattere non permanente.
Ora, se è consentito affermarlo, il Legislatore è andato ben oltre in quanto l’assenza di straordinarietà non è più indicata in via amministrativa ma scaturisce direttamente dalla norma.
Una qualche riflessione va, necessariamente, riservata alle “causali”: le esigenze tecniche sono quelle evidenziabili nella circostanza, ad esempio, che il datore di lavoro ha necessità di avere alle proprie dipendenze personale con “quelle” determinate professionalità, le ragioni produttive ed organizzative riguardano, innanzitutto, l’adeguamento della forza – lavoro a fronte di esigenze rispetto alle quali (si pensi, all’acquisizione di una nuova commessa o alla riorganizzazione di un settore) si configura la necessità di incrementare, sia pure temporaneamente, l’organico, mentre quelle sostitutive (per malattia, infortunio, maternità, ecc.) scaturiscono dalla necessità di mantenere inalterato l’organico aziendale. Il contratto a tempo determinato, per sostituzione, è possibile anche nella c.d. forma “a cascata” che si verifica allorquando un lavoratore ne sostituisce un altro in una posizione che non è quella dell’assente il quale è stato rimpiazzato sul posto di lavoro da altro prestatore in forza, più adatto allo svolgimento di quelle mensioni.
Appare evidente che, ora, il riferimento specifico alle esigenze ordinarie consente di estendere il contratto a termine anche ad ipotesi per le quali, in passato, c’era qualche dubbio: ciò che conta, in ogni caso, è che il principio di ragionevolezza sia sempre rispettato. Di qui la necessità della indicazione delle ragioni: non è sufficiente una mera ripetizione di ciò che afferma la norma (ad esempio, “ragioni di carattere tecnico, produttivo od organizzativo), ma occorre individuare, sulla base dei principi generali di correttezza e di lealtà che sovrintendono ogni rapporto di natura contrattuale, le esigenze specifiche che il datore di lavoro deve soddisfare attraverso il ricorso al lavoro a termine, anche con riferimento alle mansioni affidate.
Il principio della ragionevolezza di cui si è appena parlato si sposa con quello della temporaneità della prestazione, rappresentando quest’ultima la dimensione delle causali poste alla base del contratto a termine, dovendo lo stesso essere considerato lecito tutte le volte in cui, concretamente, può riferirsi alla normalità tecnico – organizzativa o alla casistica delle ragioni sostitutive, rispetto alle quali il principio della imprevedibilità e della non programmabilità dell’evento, non ha ragione di esistere, come, del resto, è ininfluente qualunque correlazione con il fatto che il lavoratore sostituito ha un diritto legale alla conservazione del posto. In questi casi l’apposizione del termine può risultare indirettamente, con un semplice rinvio al momento del rientro del soggetto sostituito ed, inoltre, il contratto a termine stipulato con tale ultima motivazione è esente da limiti quantitativi, pur rientrando, come periodo, nella sommatoria dei trentasei mesi.
Le causali appena evidenziate non esauriscono la gamma dei contratti a termine possibili, ci si riferisce, ad esempio, a quelli previsti, per un massimo di dodici mesi, dall’art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991, pensati per ricollocare più facilmente, attraverso lo strumento dello sgravio contributivo, i lavoratori in mobilità o a quelli per i lavoratori disabili, a seguito di convenzione ex art. 11 della legge n. 68/1999, sui quali ci si soffermerà successivamente.
Le perplessità legate alla legittimità dell’apposizione di una causale ad un contratto a termine possono, in via preventiva, essere superate attraverso l’istituto della certificazione dei contratti previsto dagli articolo 75 e seguenti del D.L.vo n. 276/2003. Le commissioni di certificazione, istituite presso tutte le Direzioni provinciali del Lavoro, ma anche presso talune Università (es. Modena), Ordini provinciali dei Consulenti del Lavoro, Province, ed Enti bilaterali, nonché la Direzione Generale per la Tutela delle Condizioni di Lavoro del Dicastero del Welfare, svolgono anche funzioni di consulenza e di assistenza alle parti (art. 81) ed in tale veste, oltre che per gli effetti giuridici susseguenti all’atto certificativo (art. 79), le stesse possono svolgere un compito di estrema importanza.
L’apposizione del termine è priva di effetto “se non risulta direttamente o indirettamente da atto scritto”, nel quale sono specificate le ragioni che lo hanno determinato. Da come la norma è stata scritta emerge un fatto importante: il termine non necessariamente discende da un fatto di natura negoziale espresso, ma può essere rilevato anche, in via induttiva, dall’esame delle clausole contrattuali (come, ad esempio, l’assunzione per una attività che sin dall’inizio era predeterminata) nel quale sono specificate le ragioni.
Nella legge n. 230/1962 si faceva riferimento alla prova documentale: oggi, come si vede, con i due “avverbi” introdotti il problema va trattato e risolto in maniera diversa ed inoltre, in giudizio, in perfetta analogia con quanto previsto per i rapporti a tempo parziale dall’art. 8, comma 1, del D.L.vo n. 61/2000, qualora la scrittura risulti mancante, è ammissibile la prova testimoniale ex art. 2725 c. c., con le limitazioni individuate al comma 3 del precedente art. 2724, laddove si stabilisce che la prova per testimoni è ammessa unicamente se “il contraente senza sua colpa ha perduto il documento che gli forniva la prova”. La giurisprudenza ha avuto modo di soffermarsi sul concetto di “perdita incolpevole” che si verifica allorché la condotta è immune da imprudenza o negligenza e, d’altra parte, nessuna prova orale o presuntiva è ammissibile se la parte che offre non abbia prima dimostrato di essere rimasta priva del contratto scritto senza colpa.
Ma, le firma vanno messe sullo stesso documento? La risposta, ovviamente, è sì, anche se la Corte di Cassazione (Cass., 2 febbraio 1988, n. 1004) ha ritenuto che le volontà coincidenti potessero desumersi anche da documenti diversi, seppur correlati tra loro, ma tali da evidenziare il consenso di entrambe le parti.
Il comma 3 dell’art. 1 riguarda l’obbligo che incombe sul datore di lavoro di consegnare al lavoratore copia dell’atto scritto entro i cinque giorni successivi all’assunzione. La questione va affrontata alla luce degli adempimenti previsti dall’art. 1, comma 1180, della legge n. 296/2006, con il quale è stato stabilita per tutte le tipologie contrattuali subordinate, autonome ed associate, l’obbligo della comunicazione preventiva on – line, dal Decreto interministeriale 30 ottobre 2007, con il quale è stata disciplinata la modalità telematica con una serie di dati e di elementi necessari da inserire nella comunicazione, dall’art. 39 della legge n. 133/2008 che ha introdotto il libro unico del lavoro e dal D.M. 9 luglio 2008 che ne ha disciplinato le modalità attuative e dal successivo art. 40 che, al comma 2, ha fissato nuove modalità da espletare prima dell’inizio dell’attività lavorativa.
Ma, andiamo con ordine cercando di focalizzare l’attenzione sui vari adempimenti:
L’ultimo comma dell’art. 1 ripete, in maniera pedissequa, quanto già affermato dalla legge n. 230/1962: per i rapporti di breve durata non superiori a dodici giorni, a carattere meramente occasionale, non è necessaria la forma scritta. La prova di queste situazioni non è, infatti, soggetta a prescrizioni formali e, in caso di giudizio, può essere fornita dal datore di lavoro secondo i principi generali sulla ripartizione dell’onere probatorio (Cass., 8 luglio 1995, n. 7507). Qui non è detto chiaramente come debba essere inteso tale periodo: ad avviso di chi scrive, i dodici giorni dovrebbero essere considerati lavorativi, in quanto appare plausibile che il Legislatore abbia preso quale parametro di riferimento “due settimane”. L’occasionalità è un requisito essenziale, cosa che comporta l’inapplicabilità, ad avviso di chi scrive, dell’istituto della proroga, in considerazione della del rapporto brevità dell’impegno. Ovviamente, tutti gli adempimenti connessi alla instaurazione del rapporto (comunicazione anticipata on – line, scritturazione sul libro unico del lavoro nei termini di legge, ecc.) vanno effettuati.
Disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali
L’art. 2 riprende in maniera letterale, il contenuto della lettera f) dell’art. 1, della legge n. 230/1962 che fu aggiunto dalla legge n. 84/1986. La disposizione è specifica per un settore estremamente particolare ove picchi di attività, soprattutto in certi periodi dell’anno, sono costanti. Ci si riferisce alle aziende di trasporto aereo, a quelle aeroportuali che svolgono i servizi operativi di terra e di volo, di assistenza a bordo ai passeggeri ed alle merci. Orbene, queste imprese possono stipulare con i singoli lavoratori contratti a termine per un periodo massimo complessivo di sei mesi tra aprile ed ottobre, o di quattro mesi in altri periodi dell’anno nel rispetto di una percentuale massima del 15% dell’organico aziendale adibito costantemente a tali attività. Tale aliquota massima va calcolata sul personale in forza alla data del 1° gennaio dell’anno cui si riferiscono le assunzioni.
Il Legislatore si è preoccupato anche dei c.d. “aeroporti minori” che lavorano oltre le proprie normali possibilità in alcuni brevi periodi dell’anno (si pensi alle strutture ubicate in luoghi di vacanze): orbene, il limite del 15% può essere “sforato” ma è necessaria la preventiva autorizzazione della Direzione provinciale del Lavoro che è tenuta ad emettere il provvedimento sulla base di considerazioni relative alla quantità dell’attività ed al parere delle organizzazioni sindacali provinciali di categoria cui vanno comunicate tutte le richieste di assunzione. Il riferimento alle strutture provinciali sta a significare l’esigenza, avvertita dal Legislatore, di un confronto, più diretto ( cosa necessaria per i problemi gestionali) con le c.d. “questioni locali”.
Vale la pena di ricordare che, secondo un indirizzo giurisprudenziale formatosi sotto la vecchia disciplina (Cass., 23 aprile 1999, n. 4065), l’atto amministrativo emesso dalla Direzione provinciale del Lavoro è sottratto ad ogni indagine di merito da parte del giudice ordinario circa le condizioni che ne hanno determinato il rilascio, in quanto si tratta di un atto discrezionale rimesso dal Legislatore alla valutazione dell’autorità amministrativa. Ovviamente, è soggetto a valutazione incidentale nel caso in cui si controverta in ordine ad una richiesta avanzata ed il giudice può effettuare il controllo formale del provvedimento, secondo i principi generali ed in relazione al campo di applicazione (Cass., S.U., 11 aprile 1994, n. 3354). Per completezza di informazione si ritiene, che sia pure nella forma residuale rimasta per i c.d. “aeroporti minori”, la Direzione provinciale del Lavoro sia tenuta ad emettere il provvedimento entro i sessanta giorni successivi alla presentazione dell’istanza, come previsto dal D.M. n. 227/1995.
Una breve considerazione si rende necessaria: il Legislatore ha voluto recuperare per questo specifico settore “una specialità” introdotta successivamente nel “corpus” della legge n. 230/1962 che, forse, poteva essere eliminata alla luce della previsione generale contenuta nell’art. 1, atteso che le esigenze del settore aeroportuale nel periodo estivo, con contratti limitati, al massimo a quattro o sei mesi, potevano essere soddisfatte senza ricorrere ad una disciplina “ad hoc”.
Divieti
L’art. 3 individua le ipotesi in cui non è possibile assumere lavoratori con contratto a termine. Simili, in larga parte, alla casistica già individuata dalla legge n. 196/1997 per la utilizzazione dei lavoratori interinali, attraverso la stipula del contratto di fornitura, esse sono:
Disciplina della proroga
L’art. 4 affronta l’istituto della proroga in maniera del tutto diversa da come era stato disciplinato dall’art. 1, comma 2, della legge n. 230/1962. Lì, fatto salvo il consenso del lavoratore, la proroga doveva avere una valenza eccezionale, non era ammessa per più di una volta e per un tempo superiore a quello iniziale, allorchè la stessa era motivata da esigenze contingenti ed imprevedibili e si riferiva alla stessa attività per la quale era stato stipulato il contratto a termine. Con la nuova normativa, fermo restando il consenso del lavoratore, la proroga è possibile una sola volta quando il contratto iniziale è inferiore a tre anni. Non c’è più lo specifico riferimento alla eccezionalità e la durata (cosa del tutto innovativa) può essere superiore al contratto iniziale. La motivazione deve essere oggettiva e riferirsi alla stessa attività per la quale fu stipulato il contratto originario. L’onere della dimostrazione della motivazione è, in caso di contenzioso, a carico del datore di lavoro. Da quanto sopra emerge che l’istituto della proroga non è applicabile ai contratti a tempo determinato di durata pari o superiore a trentasei mesi, anche alla luce delle profonde novità introdotte dalla legge n. 247/2007, sulla durata massima dei contratti a termine (anche per sommatoria) dei quali si parlerà diffusamente più avanti.
Il testo adottato dall’art. 4 è diverso da quello già espresso dall’art. 2 della legge n. 230/1962 ed il riferimento a “ragioni oggettive”, riconducibili a situazioni tecniche, organizzative e produttive e non più ad esigenze contingenti ed imprevedibili.
La circolare del Ministero del Lavoro n. 42/2002, al punto 8, afferma che fermo restando che la proroga va riferita alla stessa attività lavorativa cui si riferisce il contratto a termine, esiste la possibilità che le ragioni che giustificano la stessa, oltre che prevedibili al momento dell’assunzione, siano completamente diverse da quelle che hanno determinato la stipula del contratto a termine, purchè siano riconducibili alle ragioni del c.d. “causalone”: ciò significa, ad esempio, che la proroga, essendo possibile anche per ragioni sostitutive, ferma restando la stessa attività lavorativa, ed essendo la fattispecie imprevedibile al momento della stipula del contratto, potrebbe essere possibile anche per sostituire lavoratrici in maternità. Non si tratterebbe soltanto di due contratti ma di uno soltanto, con la relativa proroga. Tale tesi, che si basa anche sul concetto che “stessa attività lavorativa” si riferisca alle mansioni e non alla causale, presenta una propria validità alla luce di una completa e piena utilizzazione del contratto a termine.
Il consenso del lavoratore è un elemento indispensabile per la proroga: esso va verificato nel momento in cui si accerti la necessità (perché ricorrono i presupposti di legge) di “allungare” il contratto: per la sua validità ed efficacia non è necessaria, anche se preferibile, la forma scritta (Cass., 23 novembre 1988, n. 6305, in Mass., Giur., Lav., 1989, 28): esso può essere manifestato anche oralmente o può essere desunto da fatti concludenti ravvisabili nella continuazione dell’attività da parte del dipendente..
Un problema del tutto particolare è rappresentato dall’istituto della proroga per i dirigenti che, come si vedrà successivamente, possono stipulare contratti a termine di durata non superiore a cinque anni. La giurisprudenza, sotto la vigenza della precedente normativa, aveva chiarito che la proroga (comunque, entro il limite massimo) era possibile anche senza necessità di rispetto delle condizioni modali e temporali stabilite dall’art. 2 della legge n. 230/1962 (Cass., 28 novembre 1991, n. 12741, in Mass. Giur., Lav., 1992, 36, Cass., 17 agosto 1998, n. 8069, in DPL, 1998, 330).
L’istituto della proroga non trova applicazione, come si vedrà, commentando il comma 4 dell’art. 11, per il personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale.
Il discorso relativo a tale istituto non può non riferirsi, sia pure, con un breve accenno alle proroghe previste per altre tipologie contrattuali a termine alle quali, peraltro, non trova applicazione il D.L.vo n. 368/2001: nel contratto di inserimento, finalizzato a facilitare l’inserimento o il reinserimento professionale del prestatore attraverso un rapporto, non prorogabile, di durata massima non superiore a diciotto mesi, il termine massimo (o quello, eventualmente inferiore stabilito dal datore di lavoro) può essere raggiunto attraverso più proroghe, come ribadito dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 31/2004.
Nel contratto di somministrazione, invece, la possibilità di più proroghe rispetto al contratto iniziale è ampiamente ammessa dalla contrattazione collettiva e il Ministero del Lavoro espresse, a suo tempo, l’opinione che, a fronte dell’ampia formulazione adottata dall’art. 22, comma 2, del D.L.vo n. 276/2003, che si doveva escludere l’applicabilità del limite di legge previsto per i contratti a termine.
La proroga del contratto a tempo determinato va comunicata esclusivamente in via telematica, entro cinque giorni dal momento in cui si è verificata (se cade di giorno festivo il termine è, legittimamente, prorogato al primo giorno non festivo successivo) al centro per l’impiego, competente per territorio o presso il quale il datore di lavoro è accreditato, utilizzando la sezione 4 del modello “Unilav”.
Scadenza del termine e sanzioni. Successione dei contratti.
L’art. 5 del D.L.vo n. 368/2001 è stato oggetto di profonde e radicali trasformazioni per effetto sia della legge n. 247/2007 che della legge n. 133/2008.
Ma, andiamo con ordine cercando di focalizzare le varie problematiche presentate dai vari commi.
L’art. 5, nella versione contenuta nei primi 4 commi, riproduce, nella sostanza, le modifiche all’originario rigido apparato sanzionatorio previsto dalla legge n. 230, individuate dall’art. 12 della legge n. 196/97 con una aggiunta normativa che, rifacendosi ad un indirizzo amministrativo contenuto nella circolare del Ministero del Lavoro n. 153 del 28 novembre 1997, chiarisce definitivamente l’oscuro contenuto dell’ultimo periodo del suddetto art. 12. Viene ribadito che se lo “sforamento” del termine è di pochi giorni il rapporto non è trasformato come prevedeva la legge del 1962 ed il disagio viene monetizzato con una percentuale di salario maggiorata. Si afferma, infatti, che se il rapporto continua dopo la scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato (ora possibile fino a tre anni di durata complessiva) il datore di lavoro deve corrispondere una maggiorazione della retribuzione pari al 20% per i primi dieci giorni: tale percentuale sale al 40% per le giornate successive fino alla ventesima od alla trentesima, a seconda che il contratto stipulato sia stato inferiore o superiore ai sei mesi. La maggiorazione percentuale ha natura di vera e propria retribuzione con tutte le conseguenze sia sotto l’aspetto degli oneri previdenziali che sotto quello del trattamento di fine rapporto.
Tale incremento in percentuale per i giorni di “sforamento” spetta anche, ad avviso di chi scrive, ai lavoratori con contratto a termine stipulato con datori di lavoro pubblici non economici: si è in presenza, infatti, di una forma retributiva maggiorata, prevista dalla legge e per nulla legata alla conversione del rapporto.
Se il rapporto a termine continua oltre il ventesimo giorno (se inferiore a sei mesi) od oltre il trentesimo (se uguale o superiore a sei mesi) il contratto si considera a tempo indeterminato a partire dalla scadenza di tali termini: questa disposizione vale per tutti i datori di lavoro, ad eccezione delle Amministrazioni pubbliche per le quali va fatto un discorso a parte, completamente diverso.
La conversione a tempo indeterminato del rapporto, così come risulta disciplinata dall’art. 5, non è possibile, in quanto l’instaurazione di tale tipologia di rapporto, in virtù dell’art. 97 Cost. e dell’art. 36 del D.L.vo n. 29/1993 che contiene le regole generali per l’accesso al pubblico impiego, può avvenire soltanto attraverso procedure concorsuali o selettive pubbliche. A tal proposito, e fermi restando gli approfondimenti specifici che saranno effettuati in un paragrafo a parte, si ricorda che la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori non può comportare la costituzione di rapporti a tempo indeterminato, ferma restando ogni responsabilità o sanzione”. Questo significa nullità del contratto protrattosi oltre i termini cosa che comporta, però, la possibilità che il lavoratore sia comunque retribuito per l’attività “di fatto” prestata in applicazione dell’art. 2126 c.c.: tale tutela si estende anche alla parte previdenziale, nonché all’eventuale danno subito a causa della sottoscrizione di un contratto nullo (ma il danno deve essere dimostrato dal ricorrente). Ovviamente, va posta in rilievo la responsabilità patrimoniale del dirigente,ma soltanto se ha operato con dolo o colpa grave), perché le somme erogate al lavoratore si concretizzano, da un punto di vista patrimoniale, in un danno erariale che l’Amministrazione sopporta e che deve pagare senza titolo di spesa.
Il comma 3 dell’art. 5, riprendendo, integralmente, quanto contenuto nell’art. 12 della legge n. 196/1997 si preoccupa del problema legato alla successione dei contratti. Come si ricorderà, quest’ultima disposizione aveva già abbassato i limiti previsti dalla legge n. 230 (quindici o trenta giorni tra un contratto e l’altro, correlati alla durata del precedente se inferiore o no ai sei mesi), portandoli, rispettivamente a dieci e venti giorni. La norma è rimasta tale e quale, per cui se tali termini minimi (che sono di calendario) non sono rispettati, il secondo contratto si considera a tempo indeterminato. In tale ottica può essere considerata una sentenza del Pretore di Milano, per la verità un po’ “datata” (Pret. Milano, 31 dicembre 1982, in Lav. e Prev. oggi, 1983, 1041), con la quale si sostenne la legittimità del comportamento di un datore di lavoro che si era rifiutato di riassumere a termine un lavoratore prima che fossero passati i termini legali dalla scadenza del precedente contratto: il ragionamento si basava sul presupposto che tale rifiuto era determinato dalla necessità di evitare la conversione legale del rapporto a tempo indeterminato.
Il comma 4 dell’art. 5 fa “giustizia” di una frase infelice, contenuta nelle ultime righe dell’art. 12 della legge n. 196/1997, ove si affermava che “quando si tratti di due assunzioni successive a termine il rapporto si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto”. Frutto di un infelice passaggio parlamentare ove, probabilmente, si era perso “qualche inciso”, esso aveva creato qualche problema e, negli anni passati, si era cercato di dare alla frase una interpretazione razionale in linea con il sistema sanzionatorio ipotizzato dalla nuova norma, in quanto, se si guardava al puro testo letterale, la disposizione sembrava in radicale contraddizione con quanto affermato nelle righe precedenti. Fu così che il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 153/1997, anticipata, in un certo senso, dalla risposta, datata 7 ottobre 1997, fornita ad un quesito avanzato dall’Associazione Nazionale Importatori Ortofrutticoli ed Agrumari, pose l’accento sul fatto che tra le due assunzioni non vi doveva esser alcuna interruzione: essa appariva sul piano letterale ineccepibile (oggi scade un contratto, domani ne inizia un secondo) e si riferiva ad una situazione profondamente logica che prevedeva il concorso di due specifiche condizioni: la prima consistente nella continuità della prestazione, la seconda nella stipula del nuovo contratto per iscritto prima della scadenza del termine (altrimenti si sarebbe ricaduti nell’ipotesi della proroga). Era, comunque, necessario un intervento diretto del Legislatore, anche per evitare “letture diverse” da parte della Magistratura, cosa che è avvenuta, in linea con l’ipotesi amministrativa sopracitata, attraverso il comma che si commenta: “Quando si tratti di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza soluzione di continuità, il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato dalla data di stipulazione del primo contratto”.
Le disposizioni contenute in questo articolo non trovano applicazione nei confronti del personale tecnico ed artistico delle Fondazioni di produzione musicale.
Il contenuto dell’art. 5 offre lo spunto per una brevissima riflessione sul recesso nel contratto a tempo determinato. Esso può avvenire, oltrechè per scadenza del termine inizialmente fissato o successivamente prorogato, anche qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto, così come previsto dall’art. 2119, comma 1, c.c. e dalle norme generali sulla risoluzione dei contratti a prestazioni corrispettive.
La scadenza del termine in un contratto a tempo determinato o la ultimazione della prestazione non consentono la conservazione del posto per una lavoratrice in maternità: così diceva l’art. 2, comma 3, della legge n. 1204/1971 e così afferma, ora, l’art. 54, comma 3, del T.U. n. 151/2001 che, estende tale ipotesi anche al padre che “goda” del congedo per paternità.
Per completezza di informazione va ricordato che, pur in presenza di tutela della maternità, il divieto di licenziamento non trova applicazione anche nel caso:
Il licenziamento arbitrario “ante tempus” del lavoratore va risarcito mediante la retribuzione complessiva che egli avrebbe percepito fino alla scadenza convenzionale del rapporto (Cass., 13 settembre 1997, n. 9122, in Lav. Giur., 1998, 334), non essendo disciplinato dall’art. 18 della legge n. 300/1970 ma dalla norma generale contenuta nell’art. 1223 c.c. (Cass., 28 ottobre 1981, n. 5669, in Riv. It. Dir. Lav., 1982, II, 94): analogo discorso va fatto in caso di dimissioni per giusta causa (Cass., 8 agosto 1996, in DPL, 1986, 3141). Il datore di lavoro che, in caso di giudizio, intenda limitare la misura complessiva del risarcimento dovuto è tenuto a provare una eventuale occupazione lavorativa dell’ex dipendente.
Il licenziamento disciplinare legittima la possibilità del recesso anticipato: il datore di lavoro è tenuto, tuttavia, al rispetto della procedura prevista dai primi 3 commi dell’art. 7 della legge n. 300/1970 per i lavoratori a tempo indeterminato (Cass., 22 settembre 1984, n. 4813, in Mass. Giur. Lav., 1984, 477), in ottemperanza alla sentenza della Corte Costituzionale n. 204 del 30 novembre 1982.
Vale la pena di ricordare come le procedure collettive di riduzione di personale non trovino applicazione nei confronti dei lavoratori a tempo determinato: infatti, l’art. 24, comma 4, della legge n. 223/1991, afferma che esse non riguardano i “casi di scadenza dei rapporti di lavoro a termine, di fine lavoro nelle costruzioni edili e nei casi di attività stagionali o saltuarie”.
Una ulteriore considerazione connessa alla risoluzione del rapporto a termine va fatta per l’istituto del preavviso: la particolare configurazione del contratto ove esiste una scadenza prefissata, esclude che il datore di lavoro sia tenuto al rispetto di tale obbligo.
Il datore di lavoro è tenuto a comunicare al centro per l’impiego competente, attraverso la procedura on – line più volte citata, l’avvenuta cessazione del rapporto a termine entro i cinque giorni successivi (il termine è prorogato, in caso di festività al primo giorno non lavorativo), tranne l’ipotesi in cui la data di cessazione sia quella comunicata al momento dell’invio della comunicazione di assunzione. L’omissione è sanzionata con un importo compreso tra 100 e 500 euro per ogni soggetto interessato: è applicabile l’istituto della diffida obbligatoria ex art. 13 del D.L.vo n. 124/2004 che consente, trattandosi di fatto omissivo, di pagare la sanzione minima.
Il nuovo comma 4 –bis, introdotto dall’art. 1 della legge n. 247/2007 afferma che “qualora per effetto di successione di contratti a termine per lo svolgimento di mansioni equivalenti il rapporto fra lo stesso datore di lavoro e lo stesso lavoratore abbai complessivamente superato i trentasei mesi comprensivi di proroghe e rinnovi……… il rapporto di lavoro si considera a tempo indeterminato e (ma questa aggiunta è frutto di un inserimento apportato dall’art. 21, comma 2, della legge n. 133/2008) fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Sul punto, si rende necessaria più di una riflessione, rispetto alla quale un supporto può venire anche dai chiarimenti amministrativi forniti dal Ministero del Lavoro con la circolare n. 13 del 2 maggio 2008.
Tre sono le condizioni necessarie: stesso datore di lavoro, stessa tipologia contrattuale, mansioni equivalenti.
La dizione operata dal Legislatore ed il fatto che la stessa nota amministrativa del Ministero del Lavoro nulla dica sull’argomento induce a ritenere che non sono assolutamente sommabili tra di loro periodi con contratti a termine lavorati alle dipendenze di imprese diverse, pur facenti parte dello stesso gruppo. Ovviamente, qui si può porre il problema di un’impresa che per effetto di fusioni od incorporazioni abbia, giuridicamente, ereditato tutte le posizioni di un’azienda prima “vivente”. Non è possibile trovare una risposta di carattere generale, dovendosi, di volta in volta, valutare i casi concreti: tuttavia, si ha motivo di ritenere che possa operare la sommatoria dei contratti.
La seconda condizione concerne i contratti a termine. Non essendo stata fatta alcuna eccezione, nel computo complessivo ci rientrano tutti, ivi compresi quelli stipulati sotto la vigenza della legge n. 230/1962.
La norma fa riferimento “tout court” ai contratti a termine: ciò significa che non rientrano, in alcun modo nella sommatoria, oltre ai rapporti di per attività di natura stagionale, esclusi dal computo generale, in virtù del successivo comma 4 – ter (oltre a quelli individuati dalla contrattazione collettiva o dagli avvisi comuni), ma anche quelle tipologie che hanno una scadenza temporale ma che non sono contratti a tempo determinato, come l’apprendistato, i contratti di inserimento o reinserimento, i contratti di somministrazione a tempo determinato ed i contratti di formazione e lavoro. Nel computo complessivo non rientrano neanche quei periodi trascorsi alle dipendenze del datore di lavoro con un contratto a tempo indeterminato risoltosi prima del termine, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, le collaborazioni occasionali, le associazioni in partecipazione a termine con apporto lavorativo e le esperienze di formazione professionale, senza costituzione di alcun rapporto di lavoro subordinato, come avviene con i tirocini, le borse di studio e altre forme similari. Dalla sommatoria dovrebbero venir esclusi anche i contratti a termine con i lavoratori in mobilità ex art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991, per i quali l’art. 10, comma 6, specifica chiaramente che si applica la “disciplina speciale” e, quindi, non trova applicazione il D.L.vo n. 368/2001.
Per quel che concerne il concetto di “equivalenza delle mansioni”, la circolare n. 13/2008 partendo dalla constatazione che la stessa non va intesa come semplice corrispondenza tra i livelli di inquadramento ma che occorre valutare nel concreto le attività espletate, si rifà alla tesi sostenuta dalla Suprema Corte a Sezioni Unite (Cass., S.U., 24 novembre 2006, n. 25033) la quale afferma che “l’equivalenza tra le nuove mansioni e quelle precedenti, deve essere intesa non solo nel senso di pari valore professionale delle mansioni, considerate nella loro oggettività, ma anche come attitudine delle nuove mansioni a consentire la piena utilizzazione o anche l’arricchimento del patrimonio professionale del lavoratore acquisito nella pregressa fase del rapporto”. Da un punto di vista interpretativo, seguendo tale tipo di ragionamento le parti sociali, attraverso la contrattazione collettiva, possono fornire al concetto di equivalenza una valenza ben più ampia, utilizzando le c,d, “clausole di fungibilità”, finalizzate ad una utilizzazione più modulata del lavoratore, nel rispetto di un mansionario destinato, attraverso la valorizzazione delle professionalità, a venire incontro a quelle che sono le esigenze reali del datore di lavoro.
Dal computo complessivo dei trentasei mesi vanno esclusi i rapporti a termine per le attività stagionali ex D.P.R. n. 1525/1963 e quelle postulate dagli accordi e dagli avvisi comuni delle parti sociali: è questo un fatto che già è accaduto in diversi settori come, ad esempio, in quello dell’industria alimentare ove sono state ipotizzate nuove figure di rapporti stagionali che possono durare fino ad otto mesi.
Il Ministero del Lavoro con la circolare n. 13 si è preoccupato anche di limitare gli effetti immediati scaturenti da una conversione immediata del contratto a termine in corso (per superamento, dopo la c.d. “fase transitoria” di cui si parlerà più avanti, attraverso la sommatoria, del periodo massimo dei trentasei mesi): di qui l’interpretazione in base alla quale è possibile lo “sforamento” di venti giorni con le maggiorazioni previste dall’art. 4, comma 1. Per completezza di informazione si ricorda che tale ipotesi incide sia sulla contribuzione che sugli istituti differiti come il TFR nella misura del 20% sulla retribuzione globale fino al decimo giorno e del 40% a partire dal giorno successivo. Tale interpretazione trova il proprio supporto nell’art. 1, comma 40, della legge n. 247/2007 laddove si fa riferimento all’inciso “nonché decorso il periodo complessivo di cui al comma 4 –bis”.
La novità introdotta, da ultimo, nel “corpus” della norma dalla legge n. 133/2008 di cui si è detto pocanzi, offre una via d’uscita ad un possibile orientamento diverso sui trentasei mesi: con accordo stipulato a livello nazionale, territoriale o aziendale, sarà possibile derogare alla sommatoria complessiva, magari, adattando la disposizione alle particolarità del settore o dell’impresa. Ciò che chiede il Legislatore è che la trattativa ed il successivo accordo siano effettuati con quelle organizzazioni sindacali che siano veramente rappresentative su base nazionale e non con “sindacati di comodo”.
Un altro problema riguarda le modalità di calcolo dei trentasei mesi.
Sul punto si registrano due modalità di calcolo differenti,
Il Dicastero del Lavoro parte dalla considerazione che la durata media dei mesi nell’anno è di trenta giorni e, di conseguenza, che periodi di trenta giorni sono pari ad un mese. Prendendo, a mò di esempio, ai fini della sommatoria, due contratti a termine di durata diversa (1 gennaio – 20 febbraio) e (1à maggio – 20 giugno), si arriva ad un totale di tre mesi (gennaio, maggio oltre a trenta giorni aggiuntivi pari ad un mese) e dieci giorni(che rappresentano il residuo dei giorni lavorati oltre i trenta). Tale criterio di calcolo appare oltremodo semplice e, sostanzialmente corretto.
Di diverso avviso è la modalità suggerita dalla Fondazione del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro la quale si riferisce ad una sentenza della Corte di Cassazione (Cass., 12 settembre 1991, n. 9536). Essa afferma che ”la regola che un termine fissato a mesi deve essere sempre computato secondo il calendario comune, posta dagli articoli 155, comma 2, c.p.c. e 2963, comma 1, c.c. , configura espressione di un principio generale, applicabile, in caso di diversa previsione, tanto in materia processuale quanto in materia sostanziale”. Applicando tale principio il computo complessivo dei giorni lavorati nell’arco dei trentasei mesi è pari a 1.095.
Ma se questa è la disciplina generale che tende a limitare il ricorso ai contratti a termine, è necessario, altresì, soffermarsi sia sulle deroghe alla disciplina della sommatoria che sulla possibilità della stipula di un ulteriore contratto oltre il termine massimo.
Per quanto riguarda il primo problema la stessa circolare n. 13/2008 individua alcune tipologie escluse che sono:
Il limite dei trentasei mesi può essere “sforato” (art. 5, comma 4 –bis) con un ulteriore contratto stipulato tra il datore di lavoro ed il lavoratore assistito da un rappresentante sindacale espressione di una organizzazione sindacale comparativamente più rappresentativa a livello nazionale, cui aderisca o conferisca mandato: la sottoscrizione deve avvenire avanti ad un funzionario della Direzione provinciale del Lavoro competente per territorio. La circolare n. 13/2008 attribuisce all’organo periferico del Ministero del Lavoro una funzione prettamente “notarile”, affermando che il ruolo è finalizzato alla verifica della completezza “formale” del contenuto, all’accertamento che la volontà dell’interessato è libera da condizionamenti e, soprattutto, che non è attribuito all’atto sottoscritto alcun valore certificativi.
Alcune considerazioni sono, a questo punto, opportune e necessarie.
La prima è rappresentata dal fatto che ci si trova di fronte ad un nuovo contratto a termine (e non ad un contratto prorogato) che, però, scaturendo da una specifica norma di legge (e per quel che concerne la durata da una norma di natura pattizia), può essere stipulato anche senza attendere il decorso dei dieci (se l’ultimo è durato meno di sei mesi) o dei venti giorni (se, invece, è durato oltre i sei mesi), previsto, in via ordinaria, dall’art. 5, comma 3. La causale, riferibile anche all’attività ordinaria, va chiaramente esplicitata “nel concreto” e non può che riferirsi alle esigenze tecnico, produttive, organizzative o sostitutive.
La seconda concerne il ruolo della Direzione provinciale del Lavoro alla quale, ora, la nota del Ministero del Lavoro affida soltanto una funzione “notarile”: pur nel rispetto di tale indirizzo, si ritiene che essa sia estremamente riduttiva, anche alla luce dell’attività di consulenza e di informazione postulata dal D.L.vo n. 124/2004. L’ambito di operatività del funzionario (atteso che la propria firma non ha alcun valore di certificazione, in quanto si è al di fuori della procedura individuata dal Titolo VIII, capo I, del D.L.vo n. 276/2003) va meglio chiarito e, ad avviso di chi scrive, ferma restando l’attività di assistenza nei confronti del lavoratore fornita dal sindacalista, non può non fornite chiarimenti e consigli sulla procedura, sulle rinunce, e sui principi generali che regolano l’istituto.
La competenza territoriale è individuata con il luogo ove il lavoratore è destinato a svolgere la propria attività: ciò non toglie che lo stesso possa, successivamente, essere impiegato in una sede diversa, nel rispetto dei dettati contrattuali e di legge. Un ulteriore problema che potrebbe presentarsi è quello di un eventuale ulteriore contratto stipulato avanti ad una Direzione provinciale Lavoro, incompetente per territorio: tale patto è valido o no? Ad avviso di chi scrive, se la volontà delle parti è stata espressa senza alcuna costrizione, se il contratto individuale ha rispettato i contenuti di legge e dell’accordo collettivo cui fa riferimento, si ritiene che, per il principio generale della conservazione degli atti, lo stesso possa validamente esplicare i propri effetti. E’ questo, in sostanza, lo stesso concetto che è alla base della validità di un verbale di accordo raggiunto avanti ad una commissione provinciale di conciliazione incompetente.
La terza riflessione riguarda la durata dell’ulteriore contratto: qui sono le parti sociali che la stabiliscono. L’avviso comune per il settore dell’industria, ad esempio, sottoscritto il 17 marzo 2008 ha previsto che la durata non possa essere inferiore agli otto mesi e che la contrattazione collettiva di settore possa addivenire ad un termine superiore come ha stabilito, con dodici mesi, il comparto dell’industria alimentare. Ovviamente, la contrattazione collettiva stabilisce il limite massimo non superabile: ciò significa che il contratto iniziale può ben essere inferiore al tetto massimo, raggiungibile (ma non superabile) attraverso l’istituto della proroga previsto dall’art. 4 del D.L.vo n. 368/2001.
Un discorso a parte, per tutta una serie di problemi e per i necessari approfondimenti, merita la disciplina transitoria, stabilita al comma 43, dell’art. 1. della legge n. 247/2007, destinata, come risulta dalla relazione illustrativa al Parlamento, a “consentire un graduale e adeguato inserimento della nuova disciplina”. Tale comma individua due aspetti estremamente importanti nelle lettere a) e b) e nella interpretazione di tali disposizioni, per motivi di chiarezza amministrativa, si seguirà quanto affermato dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 13/2008.
L’assunto normativo è chiaro: i contratti a termine in corso alla data del 1° gennaio 2008, continuano fino al termine previsto anche in deroga al limite massimo dei trentasei mesi. La piena validità è finalizzata alla salvaguardia dei diritti sorti sotto la vecchia legge. Ciò non è altro che la piena attuazione del principio contenuto nell’art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile secondo il quale “la legge dispone solo per l’avvenire”. Tale principio di ultrattività, richiamato dalla nota ministeriale è lo stesso che ha consentito, ad esempio, ai contratti a chiamata in corso alla data del 1° gennaio 2008 di “sopravvivere” alla scadenza determinata dalla legge n. 247/2007 e fino alla loro reintroduzione avvenuta il 25 giugno successivo con il D.L. n. 112/2008.
Nel rispetto della gradualità postulata nella stessa relazione al Parlamento va letto, ad avviso di chi scrive il comma b), per il quale il periodo di lavoro già effettuato alla data del 1° gennaio 2008 (ossia la sommatoria di tutti i periodi lavorati con i contratti a tempo determinato) si calcola, insieme ai periodi successivi di attività ai fini della determinazione dei trentasei mesi, a partire dal 1° aprile 2009. Una lettura graduale di tale periodo è quella fornita dal Ministero del Lavoro il quale sostiene che l’attività svolta nel c.d. periodo “transitorio” pur rientrando nel computo generale e pur potendo superare in tale arco temporale il limite massimo, non si conta se il rapporto ultimo cessa entro il 31 marzo 2009, con la conseguenza che non si potrà procedere alla conversione del contratto. E’, in sostanza, un periodo “neutro”: ovviamente, se, superato il limite massimo, il rapporto prosegue durante il mese di aprile 2009, la conversione diviene automatica, in quanto non trova applicazione neanche la norma sullo “sforamento” di venti giorni, prevista dal nuovo art. 5, comma 2.
Un’ultima considerazione legata al periodo massimo di trentasei mesi: comprendendo nel computo tutti i contratti a tempo determinato a prescindere dalla causale (con l’inclusione, quindi, anche di quelli a carattere sostitutivo utilizzati, nella maggior parte dei casi, per la maternità e che, peraltro sia l’art. 10 che la contrattazione collettiva escludono dal computo per i limiti massimi quantitativi) si potrebbe verificare in futuro qualche caso imbarazzante, anche sotto l’aspetto dei rapporti interpersonali, come in quelle ipotesi in cui la scadenza del termine è strettamente correlata al rientro della sostituta. Il datore di lavoro, per non veder trasformato il contratto a tempo indeterminato, potrebbe procedere alla risoluzione del rapporto prima del rientro della neo – mamma. La questione è meno peregrina di quel che potrebbe sembrare, atteso che, sovente, tali contratti sono molto lunghi e la data finale è incerta, in quanto la tutela della maternità può prevedere assenze “pre – post partum” particolarmente significative sotto l’aspetto della durata. Ovviamente, il datore di lavoro potrebbe essere “costretto” ad assumere una nuova lavoratrice fino al rientro della sostituto ed, inoltre, potrebbe dover affrontare un eventuale giudizio legato alla richiesta di un risarcimento del danno per l’interruzione anticipata del rapporto a termine. Indubbiamente una soluzione al problema (che, si ripete, soprattutto in qualche piccola realtà potrebbe presentare aspetti poco simpatici) potrebbe essere rappresentata dall’inserimento nel contratto, dopo la frase “fino al rientro della signora..,…..assente per maternità”, l’ulteriore specifica “e, comunque, non oltre il termine massimo di trentasei mesi, intesi come sommatoria anche di periodi con contratto a tempo determinato antecedenti”. Ad avviso di chi scrive, in una rivisitazione della materia prima del 1° aprile 2009, sarebbe opportuno escludere i contratti a termine per ragioni sostitutive dalla sommatoria.
Altri problemi potrebbero presentarsi, passato il periodo transitorio, in altri settori nei quali (si pensi ai conduttori di bus privati o al personale che opera negli istituti di istruzione privati) non c’è “stagionalità” ma ci sono contratti termine stipulati di volta in volta con periodi abbastanza lunghi e che spesso sono legati all’anno scolastico (si pensi anche ai servizi scolastici per i bambini). Cosa accadrà allorquando dal computo complessivo di tutti i contratti già svolti emergerà il superamento del limite massimo e le aziende da cui dipendono, anche volendo, non sono in grado di assumerli a tempo indeterminato in quanto l’attività è sospesa nei periodi estivi? Forse è opportuno un ripensamento critico, almeno per le situazioni più eclatanti.
Diritto di precedenza
I commi 4- quater, 4 – quinquies e 4 – sexies dell’art. 5, nella nuova versione introdotta con la legge n. 247/2007 e con la legge n. 133/2008, hanno, sostanzialmente, allargato il diritto di precedenza nei contratti a termine che, nel tempo, aveva subito alcune riduzioni.
L’istituto, legato alla assunzione, alla riassunzione o alla stabilizzazione, è presente nel nostro ordinamento per una serie di situazioni estremamente variegate e diverse tra loro come il licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per riduzione di personale (art. 15, comma 6, della legge n. 264/1949 e art. 8 della legge n. 223/1991), il contratto a tempo parziale (art. 12 – ter del D.L.vo n. 61/2000), il reimpiego di lavoratori ultrecinquantacinquenni (3.000 persone ex lege n. 127/2006), i lavoratori stagionali extracomunitari che sono tornati nel loro Paese rispetto ad altri ingressi (art. 24, comma 4, del D.L.vo n. 286/1998), i familiari delle vittime del terrorismo, delle stragi e del lavoro (legge n. 407/1998 e art. 3, comma 123, della legge n. 244/2007). Ovviamente, la riflessione che segue tratterà soltanto gli aspetti relativi ai contratti a termine avendo presente che, in linea di principio, il diritto di precedenza, stabilito dalla legge e, talora, dai contratti collettivi, afferisce alla sfera giuridica del lavoratore: esso deve essere fatto valere attraverso una manifestazione di volontà ed è, per sua natura, disponibile.
“Il lavoratore che, nell’esecuzione di uno o più contratti presso la stessa azienda, abbia prestato attività lavorativa per un periodo superiore a sei mesi, ha diritto di precedenza, fatte salve diverse disposizioni di contratti collettivi stipulati a livello nazionale, territoriale o aziendale con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i dodici mesi successivi con riferimento alle mansioni già espletate in esecuzione dei rapporti a termine”: questo recita il nuovo comma 4 – quater merita alcuni approfondimenti, anche alla luce dell’inciso introdotto con l’art. 21, comma 3, della legge n. 133/2008.
Il primo riguarda la sommatoria dei contratti: il periodo (comprensivo delle eventuali proroghe e degli “sforamenti”) deve essere superiore a sei mesi e deve essersi svolto presso la stessa azienda. Ciò significa che non si calcolano i contratti che hanno avuto esecuzione con diversi datori di lavoro, seppur collegati tra di loro, mentre, al contempo, sono computabili i periodi trascorsi presso unità produttive della stessa impresa, seppur ubicate in zone o città diverse. Nel computo complessivo non rientrano i periodi trascorsi presso il datore di lavoro nell’esecuzione di altre tipologie di lavoro subordinato come l’apprendistato, il contratto di somministrazione, il contratto di inserimento o reinserimento, il contratto a tempo indeterminato (risolto “ante tempus”), lo “stage” ove, peraltro, non si configura, per legge, una ipotesi di lavoro subordinato.
Il secondo approfondimento concerne il concetto delle “mansioni già espletate”. La dizione adottata è più ristretta rispetto a quella che il Legislatore ha usato, ad esempio, per la sommatoria dei trentasei mesi, allorché ha parlato di “mansioni equivalenti”: quindi nel caso che ci interessa si deve trattare delle stesse mansioni già svolte.
La terza considerazione suscitata dalla norma riguarda l’esercizio della volontà di voler esercitare il diritto di precedenza: essa va manifestata entro i sei mesi successivi alla cessazione del rapporto attraverso il quale è stato superato il limite temporale dei sei mesi e la validità è soggetta ad un termine di decadenza che è di dodici mesi dal giorno in cui era scaduto il contratto. Nulla dice la disposizione circa il modo di esternazione della volontà: si ritiene che per motivi pratici sia più produttivo farlo per iscritto con una nota inviata al datore di lavoro.
La quarta riflessione riguarda la durata del diritto: essa è di dodici mesi mentre, paradossalmente, quella legata alla riassunzione di un lavoratore licenziato per riduzione di personale o giustificato motivo oggettivo, è di sei mesi (art. 15, comma 6, della legge n. 264/1949, come modificato dall’art. 4, comma 6, del D.L.vo n. 297/2002).
Il quinto approfondimento concerne l’ambito di operatività del diritto: esso si estende, non essendoci alcun limite chilometrico, a tutte le eventuali articolazioni dell’impresa su tutto il territorio nazionale. Ciò potrebbe portare a dover risolvere alcuni problemi operativi attraverso accordi sindacali o, in mancanza, sulla base di criteri gestionali fissati dall’imprenditore, come quello di dover formulare una graduatoria tra coloro che hanno manifestato la volontà. Il Legislatore nulla ha detto ma, ad avviso di chi scrive, dovrebbero essere presi in considerazione criteri tra loro ponderati come la durata dei precedenti rapporti, il carico familiare e le situazioni personali (es. famiglia monoreddito o monoparentale).
Il sesto concerne l’operatività del diritto di precedenza, rispetto ad altre tipologie contrattuali: esso opera soltanto a fronte di assunzioni a tempo determinato con la stessa qualifica. Ciò significa che se il datore di lavoro assume, ad esempio, con contratto di apprendistato, con contratto di inserimento, o procede a trasformazioni di contratti a tempo parziale in essere, o procede a nuove assunzioni a termine, il diritto non può essere esercitato.
Una settima riflessione discende direttamente dalla novità derogatoria introdotta con l’art. 21, comma 3, della legge n. 133/2008: con accordi collettivi sottoscritti con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale, il termine dei sei mesi può essere “plasmato” (in aumento) ,in relazione alle esigenze del settore o dell’impresa. Infatti, l’accordo può essere anche territoriale o aziendale: ciò che chiede il Legislatore è che lo stesso non venga stipulato con “sindacati di comodo”.
Un discorso del tutto analogo va fatto per i contratti a termine legati ad attività stagionali che il Legislatore ha avuto cura di tenere rigorosamente separati dai precedenti. Il comma 4 – quinquies afferma che “il lavoratore assunto a termine per lo svolgimento di attività stagionali ha diritto di precedenza, rispetto a nuove assunzioni a termine da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali”. La volontà va esternata (è preferibile per iscritto) al datore di lavoro nei tre mesi successivi ed il diritto (salvo una previsione migliorativa prevista dal contratto collettivo) si estingue entro un anno.
Anche in questo caso vanno effettuate alcune riflessioni.
La prima riguarda la natura della norma: l’art. 10, commi 9 e 10, del D.L.vo n. 368/2001 aveva abrogato “le precedenze legali” rimettendole alla contrattazione collettiva. Ora, fermi restando i dettami contrattuali, essa è stata ripristinata.
La seconda concerne l’identificazione delle attività stagionali: vi rientrano quelle individuate dal D.P.R. n. 1525/1963, quelle fissate dalla contrattazione collettiva anche per punte di attività stagionali nel settore del trasporto aereo o dei servizi aeroportuali (art. 2 del D.L.vo n. 368/2001), ove la durata complessiva può essere di quattro o sei mesi e la percentuale non può superare il 15% dell’organico.
Una terza riflessione riguarda un’altra ipotesi di precedenza legata alle attività stagionali che non è stata enumerata nel D.L.vo n. 368/2001 ma che è presente nel nostro ordinamento all’art. 59 del D.L.vo n. 151/2001: si tratta della precedenza nelle stagionalità per le lavoratrici addette al settore industria o delle lavorazioni stagionali, nel caso di assunzioni in occasione della ripresa dell’attività nel primo anno di vita del bambino. E’ una precedenza “particolare”, finalizzata a tutelare la lavoratrice stagionale in quanto madre. Da ciò discende che il diritto ha una portata più ampia rispetto a quello previsto, nella generalità dei casi, per un anno, in quanto, tenuto conto del periodo della gestazione, la stessa ha lo può esercitare entro un anno dalla nascita del bambino. Si ha motivo di ritenere che tale precedenza possa essere intesa come preferenza rispetto ad altri soggetti ugualmente aventi titolo (per il principio di tutela della maternità) e che, per la completa equiparazione avvenuta, la stessa trovi applicazione anche per i bambini adottati o in affido.
Disposizione transitoria concernente l’indennizzo per la violazione delle norme in materia di apposizione e di proroga del termine
Con l’art. 21, comma 1- bis, della legge n. 133/2008 è stato introdotto nel “corpus” del D.L.vo n. 368/2001 un nuovo articolo, il 4 –bis, che, in sede di conversione dell’originario D.L. n. 112/2008, ha sollevato forti perplessità e taluni giudizi di palese incostituzionalità da parte di molti operatori. Ci si riferisce alla disposizione che, da molte parti, è stata definita “anti – precari”, in quanto va ad incidere su posizioni processuali in corso, a seguito di ricorsi presentati al giudice del lavoro da parte di soggetti che ritengono violate una serie di norme contenute nella disciplina dei contratti a termine, con la conseguente richiesta di trasformazione a tempo indeterminato. La norma riguarda il contenzioso giudiziario in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione, ossia il 21 agosto 2008. Sono fatte salve le sentenze passate in giudicato: in tutte le altre situazioni che abbiano comportato una violazione delle ragioni che legittimano l’apposizione del termine (art. 1), o il trasporto aereo ed i servizi di aeroporto (art. 2), o la disciplina della proroga (art. 4), il lavoratore non ha più diritto alla reintegra ma ad una indennità non inferiore a 2,5 e non superiore a 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (comprensiva, ad esempio, dei ratei aggiuntivi). Nella “quantificazione” si dovrà tenere conto sia della durata del contratto, che delle dimensioni aziendali, che delle condizioni del prestatore: si tratta, in sostanza, dei requisiti, da tempo, fissati dall’art. 8 della legge n. 604/1966. Ovviamente, nei casi di specie e soltanto per i procedimenti in corso, viene meno sia la tutela reale che quella obbligatoria.
Una breve riflessione è opportuna: probabilmente, si tratta di una disposizione nata per affrontare alcuni problemi di contenzioso impellenti, che riguardano grandi imprese e società operanti su tutto il territorio nazionale e che si trovano di fronte a notevoli aspetti gestionali: la norma che tra l’altro è, per così dire, “temporanea”, in quanto non trova applicazione, ad esempio, nei confronti di coloro che instaurano un ricorso a partire dal 22 agosto 2008, è stata tacciata di incostituzionalità; sarà come sempre la Consulta, se adita, a fornire, come sempre, la propria decisione.
Principio di non discriminazione
L’art. 6 afferma chiaramente che al prestatore di lavoro spettano sia le ferie (ma anche l’eventuale recupero delle festività soppresse), che la tredicesima mensilità, che il trattamento di fine rapporto, che ogni altro trattamento in atto nell’impresa per i lavoratori in forza a tempo indeterminato (es. mensilità aggiuntive, premio di produzione, ecc.) inquadrati nello stesso livello. Ovviamente, tali voci retributive sono erogabili in proporzione al periodo lavorativo svolto e sempre che non siano incompatibili con la natura del contratto a termine.
La disposizione è importante, in quanto è strettamente correlata alle uniche sanzioni amministrative esplicitamente previste dal D. L.vo n. 368/2001 all’art. 12 e, soprattutto, è la concreta applicazione di una delle finalità individuate dalla direttiva 1999/70/CE.
Il principio di non discriminazione concerne, necessariamente, anche altre disposizioni non richiamate che riguardano la sfera individuale dei lavoratori. Ci si riferisce, ad esempio, a tutte quelle previste dalla legge n. 265/1999 che disciplinano lo “status” degli amministratori locali. Vi sono una serie di garanzie (artt. 19, 24) in favore degli amministratori, siano essi dipendenti pubblici o privati, senza alcuna specificazione connessa alla durata del rapporto. Uguali considerazioni possono farsi per eventuali permessi sindacali, attesochè la legge n. 300/1970 non prevede alcuna esclusione per i lavoratori a termine, oltre che, ovviamente, per i quindici giorni di congedo matrimoniale retribuito.
La non discriminazione passa anche attraverso l’applicazione di particolari istituti previsti da leggi sulle quali, al momento, non ci si sofferma: ci si riferisce, ad esempio, alla tutela ed al trattamento economico in caso di assenze dovute a malattie, per le quali trova piena applicazione l’art. 5 della legge n. 638/1983 o alle tutele disposte in favore delle lavoratrici madri per effetto delle norme ora compendiate nel T.U. n. 151/2001 che trovano applicazione anche nei confronti dei lavoratori pubblici con contratto a tempo determinato.
Formazione
Il lavoratore assunto con contratto a termine deve ricevere dal datore di lavoro una formazione sufficiente ed adeguata alle mansioni che è destinato a svolgere anche alfine di prevenire i rischi specifici connessi con l’esecuzione del lavoro: questo prevede l’art. 7 il quale rinvia ai contratti collettivi la possibilità di prevedere modalità e strumenti diretti ad agevolare l’accesso dei lavoratori a termine ad opportunità formative adeguate, per aumentare la qualificazione, promuovere la carriera e migliorare le opportunità occupazionali. Bisognerà vedere come tali principi generali, estremamente condivisibili, saranno tradotti in pratica. E’ questo, uno degli spazi contrattuali riservati alle Organizzazioni sindacali che, secondo una definizione già presente, ad esempio, nella legge n. 196/1997, debbono essere “comparativamente più rappresentative”. Il termine è lessicalmente diverso dalla “maggiore rappresentatività” nel passato correntemente in uso nella nostra legislazione del lavoro: il riferimento appare modellato su un radicamento contrattuale ben maggiore rispetto al precedente concetto: in sostanza, si è sbarrata, con maggior vigore, la strada in una materia delicata a sigle sindacali poco rappresentative.
L’obbligo di formazione, comunque, rappresenta una attuazione specifica delle prescrizioni in materia di prevenzione (sia di informazione che di informazione) che rientrano tra gli oneri del datore di lavoro, secondo la previsione contenuta nel D.L.vo n. 81/2008. I requisiti di sufficienza e di adeguatezza della formazione debbono avere una sostanziale rispondenza nei rischi specifici del lavoro da effettuare.
Sulla base dei contenuti dell’art. 2, comma 1, lettera a), del D.L.vo n. 81/2008, lo svolgimento della formazione per la tutela e la sicurezza è indipendente dalla tipologia contrattuale. Da ciò ne consegue che il datore di lavoro sottostà agli obblighi previsti ex art. 17 (valutazione dei rischi e designazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione) ed ex art. 18 (nomina del medico competente, visita medica preventiva per i neo assunti, obbligo di informazione e di addestramento, ecc.), oltre agli obblighi specifici derivanti dalla stessa valutazione dei rischi tipici di quelle lavorazioni.
Criteri di computo
Afferma l’art. 8 che, ai fini del campo di operatività delineato dall’art. 35 della legge n. 300/1970, i contratti a termine sono computabili ove il rapporto abbia una durata superiore a nove mesi. Tale disposizione stabilisce che per le imprese industriali e commerciali le norme contenute nel titolo III (attività sindacale) ad eccezione del primo comma dell’art. 27 (locali a disposizione delle rappresentanze sindacali aziendali), si applicano a ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo che occupa più di quindici dipendenti. Per quelle agricole, invece, il limite dimensionale è fissato ad almeno sei dipendenti. Queste norme trovano applicazione anche nei confronti delle imprese industriali e commerciali che nello stesso comune occupano almeno sedici dipendenti e delle imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, di per sé considerata, non raggiunge tali limiti. E’ appena il caso di ricordare come per unità produttiva si intenda, per giurisprudenza costante, quella entità aziendale che si caratterizzi per sostanziali condizioni imprenditoriali di indipendenza tecnica ed amministrativa, tali che in essa si svolga e si concluda il ciclo relativo, o una frazione, o un momento essenziale dell’attività produttiva aziendale.
L’arco temporale di riferimento di nove mesi ai fini della computabilità è del tutto uguale a quello individuato dall’art. 4, comma 1, della legge n. 68/1999 per il calcolo del personale in forza sul quale va quantificata l’aliquota dei disabili: i contratti a termine di durata inferiore a nove mesi non rientrano nel calcolo.
Per quel che concerne, invece, un eventuale contratto a tempo determinato parziale (che è possibile nelle tre forme “orizzontale”, “verticale” e “misto”), occorre rifarsi a quanto stabilito dall’art. 6 del D.L.vo n. 61/2000, modificato, sul punto, dal D. L.vo n. 100/2001: i lavoratori a tempo parziale vanno computati pro-quota in relazione all’orario svolto ma, ovviamente, ai fini delle quantificazioni di organico previste dall’art. 35 della legge n. 300/1970 per l’applicazione di particolari garanzie, ciò riguarderà soltanto quelli di durata superiore a nove mesi.
Per completezza d’informazione giova ricordare come dal comma 2 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, quale risulta dopo le modifiche introdotte dalla legge n. 108/1990 in materia di licenziamenti individuali, si possa ricavare che ai fini della individuazione del campo di applicazione, non debbano essere computati gli assunti a tempo parziale e determinato.
Il discorso sulla computabilità introduceva, fino al 29 gennaio 2003, data di entrata in vigore del D.L.vo n. 297/2002, necessariamente anche quello della riserva del 12% in favore delle fasce deboli (lavoratori in mobilità, disoccupati da oltre ventiquattro mesi, speciali categorie individuate dalla Commissione Tripartita Regionale), previsto dall’art. 25, comma 1, della legge n. 223/1991 e che, per effetto dell’art. 9-ter della legge n. 608/1996, si applicava anche, a partire dal 1° gennaio 1996, anche alle imprese agricole che hanno occupato nell’anno precedente lavoratori per almeno 1350 giornate. Il Ministero del Lavoro, con circolare n. 163/1991, stabilì che l’onere della riserva andava applicato contando separatamente i contratti a tempo indeterminato e quelli a tempo determinato. La cancellazione dell’obbligo della riserva del 12% è effettiva: le Regioni, tenuto conto della composizione degli elenchi dei prestatori disponibili al lavoro, possono legiferare sull’argomento, riservando percentuali di posti alle c.d. “categorie deboli”, ma le eventuali regole di computo e le percentuali sono, ora, rimesse alle stesse.
Informazioni
L’art. 9 è, sostanzialmente, la trasposizione nel nostro ordinamento, del contenuto degli artt. 6 ed 8 della direttiva 1999/70/CE. Viene demandata, infatti, alla contrattazione collettiva la definizione delle modalità ritenute utili per informare i lavoratori a tempo determinato sulle potenzialità occupazionali esistenti nell’impresa, con l’obiettivo di offrire agli stessi la possibilità di occupare posti a tempo indeterminato. Attraverso lo strumento della pattuizione collettiva deve altresì essere garantita l’informativa alle rappresentanze sindacali a livello aziendale sulle prestazioni a tempo determinato. In questo caso, come già avviene nella disciplina di molti contratti nazionali, il sindacato interno dovrà essere messo a conoscenza, entro termini certi, del numero dei rapporti stipulati e delle motivazioni alla base degli stessi. Ciò appare estremamente importante anche sotto l’aspetto del controllo degli accordi sottoscritti in quanto le parti sociali stabiliscono, nei modi individuati dall’art. 10, i limiti quantitativi dei contratti stipulabili annualmente.
Lo scopo dell’art. 9 è, indubbiamente, quello di favorire, anche attraverso l’informazione concordata con le organizzazioni sindacali, i processi di stabilizzazione dei rapporti all’interno dell’azienda. Essa si correla, indubbiamente, con i diritti di precedenza che sono stabiliti per legge non solo per i contratti a termine (art. 5, comma 4 – quater) e che possono, comunque, subire una deroga per quel che concerne i tempi della durata dei precedenti rapporti attraverso la contrattazione collettiva, ma anche per i rapporti a tempo parziale (art. 5, comma 2 e articoli 12 – bis e 12 - ter del D.L.vo n. 61/2000, questi ultimi introdotti dall’art. 1, comma 44 della legge n. 247/2007).
Esclusioni e discipline specifiche.
L’articolo 10 è stato, profondamente, ritoccato dalla legge n. 247/2007. Esso elenca, innanzitutto, alcune tipologie contrattuali escluse dall’applicazione di questa normativa, perché disciplinate “iure proprio” che sono:
Il comma 3 dell’art. 10, si riferisce alla assunzioni fino a tre giorni (le c.d. assunzioni “extra”) per l’esecuzione di speciali servizi: la normativa sul D.L.vo n. 368/2001 non trova applicazione ma anche le altre cose che vi sono scritte in merito alla comunicazione di assunzione vanno, ora, riviste alla luce della comunicazione on – line anticipata al centro per l’impiego, prevista dall’art. 1, comma 1180, della legge n. 296/2006 e della circolare n. 20/2008, esplicativa delle modalità di tenuta del libro unico del lavoro. Sul punto, la nota del Dicastero del Welfare, riallacciandosi, indirettamente anche alla risposta ad un interpello dell’11 luglio 2007 (interpello n. 18/2007), osserva che nelle assunzioni dei lavoratori “extra” l’ispettore (ai fini dell’applicazione della maxisanzione) deve valutare se quelle assunzioni sono state effettuate per una esigenza straordinaria o di forza maggiore (es. il cuoco o alcuni camerieri si sono ammalati all’improvviso) o sono state effettuate, in carenza di tali cause, per sopperire all’esigenza di un meeting o un banchetto nuziale programmati da mesi. Nel primo caso, in presenza, comunque, di una comunicazione con il modello “UniURG”, inviato via fax, con i dati essenziali al centro per l’impiego, non si da luogo alla maxisanzione, nel secondo caso, sì.
Un’altra esclusione dalla normativa generale (ad eccezione degli artt. 6 ed 8 relativi alla non discriminazione ed ai criteri di computo per gli effetti previsti dall’art. 35 della legge n. 300/1970) riguarda i dirigenti per i quali la durata del contratto a termine non può eccedere i cinque anni: tuttavia, trascorso un triennio, gli stessi possono recedere offrendo il periodo di preavviso previsto dall’art. 2118 c.c.. La norma ricalca anche nei contenuti l’analoga previsione già contenuta nell’art. 4 della legge n. 230/1962. L’assunzione, nel rispetto dei contratti collettivi di riferimento, deve risultare da atto scritto con l’indicazione del luogo di lavoro e delle funzioni attribuite, dei poteri e delle responsabilità inerenti l’incarico, del trattamento economico e delle eventuali condizioni di miglior favore, nonché del periodo di prova, se previsto.
La vecchia normativa parlava di dirigenti tecnici ed amministrativi, l’attuale di dirigenti “tout court”. La differenza non c’è, tuttavia, è bene ricordare come la identificazione sia da intendersi in senso “stretto”, in quanto non comprensiva dei funzionari direttivi e dei quadri intermedi. Riprendendo una definizione contenuta in un contratto collettivo di categoria si può affermare che dirigente “è colui per il quale sussistono le condizioni di subordinazione ex art. 2094 c.c. e che ricopre nell’impresa un ruolo caratterizzato da elevata professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplica la sua funzione per la promozione, il coordinamento, la gestione e la realizzazione degli obiettivi dell’impresa”.
L’applicabilità dell’art. 8, riguarda unicamente il fatto che il dirigente rientra nel computo numerico previsto dall’art. 35 della legge n. 300/1970 per la identificazione delle dimensioni dell’impresa ai fini dell’applicazione di tutta la normativa di garanzia prevista dal Capo III della stessa (qualora, ovviamente, abbia un contratto a termine superiore a nove mesi). Detto questo, è opportuno ricordare come per effetto di una disposizione a carattere speciale che conserva la propria validità, contenuta nell’art. 4, comma 1, della legge n. 68/1999, i dirigenti sono esclusi dalla base di computo sui cui si calcola l’aliquota per l’avviamento obbligatorio dei disabili.
Il Ministero del Lavoro, con la lettera circolare del 14 dicembre 2001, ha precisato una serie di questioni relative ai contratti dei dirigenti, tra cui la non applicazione di quasi tutte le disposizioni del D.L.vo n. 368/2001 ed il fatto che la proroga, ammissibile anche per tali contratti, deve restare sempre nell’ambito complessivo della durata quinquennale.
L’esclusione dalla previsione legislativa riguarda anche (comma 5) i rapporti a termine instaurati con le imprese che esercitano il commercio di esportazione, importazione e all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli: si tratta di una previsione forse imputabile alla specialità del rapporto ma che non trova alcun apparato normativo specifico di supporto: ciò significa, ad avviso di chi scrive, assoluta libertà contrattuale.
Il comma 6 richiama esplicitamente le discipline speciali sui contratti a termine che restano in vigore. Esse sono:
Ad avviso di chi scrive, l’elencazione prospettata dal Legislatore non esaurisce la gamma delle altre normative particolari riferibili ai contratti a termine che restano in vigore, attesochè non c’è stata alcuna abrogazione esplicita e la loro sopravvivenza non è affatto incompatibile con le nuove norme. Ci si riferisce, ad esempio, ai contratti a termine per attività di ricerca previsti dall’art. 14 della legge n. 196/1997 nelle piccole e medie imprese ed in quelle artigiane con l’avviamento di diplomati universitari, laureati o ricercatori nell’ambito di progetti di ricerca di durata predeterminata, ai contratti a termine per l’esercizio di attività socio-sanitarie, disciplinati dall’art. 53 della legge n. 144/1999, i cui destinatari sono le province, i comuni, le istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza e le istituzioni sanitarie del Servizio Sanitario Nazionale, alle assunzioni a tempo determinato per la sostituzione di lavoratori tossicodipendenti, assunti a tempo indeterminato, che accedono a programmi terapeutici e di riabilitazione presso i servizi socio-sanitari delle unità sanitarie locali, per un periodo non superiore a tre anni, secondo la previsione dell’art. 99 della legge n. 685/1975, come sostituito dall’art. 29 della legge n. 162/1990.
Un altro contratto a termine che è fuori dalla disciplina del D.L.vo n. 368/2001 è quello previsto dalla legge n. 91/1981 in materia di rapporti tra società sportive e professionisti. Il rapporto può assumere diverse forme e, per quel che ci interessa in questa trattazione, anche quello del contratto a tempo determinato che deve essere conforme (art. 4) ad un contratto tipo predisposto dalla federazione sportiva nazionale e dai rappresentati delle categorie interessate. Il comma 8 del medesimo articolo, oltre ad escludere l’applicazione di disposizioni fondamentali della legge n. 300/1970 afferma che “ai contratti a termine non si applicano le norme della legge n. 230/1962”: ovviamente, ora, tale disposizione è da leggersi riferita al D.L.vo n. 368/2001. Il contratto (art. 5) può contenere l’apposizione di un termine risolutivo, non superiore a cinque anni, dalla data di inizio del rapporto ed è ammessa la successione di contratto a termine fra gli stessi soggetti, come è ammessa la cessione del contratto. Si tratta, in ogni caso, di un contratto tipico che deve rispettare le formalità previste dall’art. 4: se ciò non avviene, affermò, a suo tempo, la Corte di Cassazione (Cass., 8 giugno 1995, n. 6439), ricorrendone i presupposti, il contratto è di lavoro subordinato e, quindi, non operando la deroga prevista al comma 8 dell’art. 4, si applica la disciplina generale sul contratto a tempo determinato.
Altre ipotesi di contratto a termine sulla quale è opportuno soffermarsi sono quelle conseguenti alle procedure di emersione dal “nero” e di stabilizzazione da precedenti rapporti di collaborazione coordinata e continuativa previste, rispettivamente (sia pure, con una terminologia leggermente diversa) dai commi 1200 e 1210 dell’art. 1, della legge n. 296/2006. Senza entrare nel merito delle stesse, cosa che ci porterebbe lontano dalla nostra riflessione e, tenuto conto del fatto che i termini sono stati prorogati al 30 settembre 2008, si può affermare che nell’uno e nell’altro, al termine di procedure abbastanza simili che vedono coinvolti, a vario titolo, datori di lavoro, lavoratori, organizzazioni sindacali, Direzioni provinciali del Lavoro, INPS e INAIL (quantomeno, nella loro rappresentanza di vertice, ai fini della concessione delle regolarizzazioni) è previsto, quale requisito necessario, che al lavoratore “in nero” (comma 1200) sia assicurato un rapporto di lavoro subordinato di almeno ventiquattro mesi dalla regolarizzazione o che (comma 1210) al lavoratore, già collaboratore coordinato e continuativo sia assicurato un rapporto subordinato “non inferiore a ventiquattro mesi”.
La norma, invero abbastanza scarna, nulla dice di altro: di conseguenza, si può sostenere, in linea con alcuni chiarimenti amministrativi espressi nei mesi scorsi, che l’eventuale rapporto a tempo indeterminato o (è quel che ci interessa) a termine , può essere anche a tempo parziale, avendo quale parametro di riferimento per la durata settimanale, in via preferenziale ma non esclusiva, il contratto collettivo nazionale. Per completezza di informazione si ricorda che il Ministero del Lavoro aderendo, in data 31 marzo 2007, ad una interpretazione della Direzione provinciale del Lavoro di Modena, sostenne l’impossibilità di un contratto di lavoro intermittente per l’emersione, attesa la non “prevedibilità” delle prestazioni a carattere discontinuo e l’assoluta incertezza delle stesse.
Ma, detto questo, è necessario rispondere ad un’altra domanda? Tale contratti a termine di almeno ventiquattro mesi (che possono essere risolti “ante tempus” – comma 1200 – soltanto per dimissioni o licenziamento per giusta causa) rientrano nel c.d. “causalone”, almeno per quel che riguarda la motivazione, o no?
Ad avviso di chi scrive, la risposta è negativa, atteso che ci si trova di fronte ad una norma speciale, come quella individuata dal Legislatore con l’art. 8, comma 2, della legge n. 223/1991. In quest’ultimo caso l’obiettivo era (ed è) quello di favorire la ricollocazione dei soggetti espulsi dai processi produttivi attraverso uno strumento, quello del contratto a termine, necessario per inserire gli stessi, sia pure temporaneamente e con incentivi sotto forma di sgravi contributivi, in nuove realtà aziendali. Tale fu, da subito, l’orientamento del Ministero del Lavoro che la definì una ipotesi ulteriore a quelle previste dalla legge n. 230/1962 e tale, successivamente, fu anche l’orientamento della Magistratura prevalente.
Nel caso della emersione dal “nero” e della stabilizzazione dei “falsi” collaboratori coordinati e continuativi, ci si trova di fronte ad una ipotesi del tutto analoga: pur di favorire la legalità dei rapporti, il Legislatore ha tracciato, concedendo congrui “sconti” sotto l’aspetto contributivo ed assicurativo e prevedendo la chiusura di eventuali rivendicazioni economiche e risarcitorie con la copertura giuridica delle procedure ex articoli 410 e 411 c.p.c., una strada che, comunque, prevede quale requisito necessario, un contratto di lavoro subordinato di almeno ventiquattro mesi. La motivazione, neppur troppo sottesa, è quella di portare alla luce tali rapporti “in nero” o fasulli.
Ovviamente, questa interpretazione potrebbe non essere seguita dal giudice che potrebbe arrivare a sostenere la necessità della indicazione di una delle cause previste dall’art. 1 del D. L.vo n. 368/2001 ma, al momento, non risulta che ci siano state pronunce in merito, anche perché non sono trascorsi, nella gran parte dei casi, due anni dal termine delle procedure, le quali hanno riguardato un numero di casi di gran lunga inferiori a quelli ipotizzati dal Governo allorquando preparò le disposizioni poi approvate dal Parlamento.
Il comma 7 dell’art. 10 riguarda direttamente ciò che è riservato alla contrattazione collettiva: la quantificazione (con molte eccezioni) dei rapporti a termine che è possibile stipulare annualmente.
Nel numero complessivo, espresso in percentuale sull’organico in forza al 31 dicembre dell’anno precedente, le parti sociali possono tener conto delle varie realtà produttive del nostro Paese: di conseguenza, esso potrà non essere uniforme, ma variare secondo le aree geografiche.
Alcune tipologie particolari non sono comprese nell’aliquota globale. La non computabilità riguarda:
L’art. 1, comma 41, della legge n. 247/2007 ha cancellato all’art. 10 del D.L.vo n. 368/2001, alcune ipotesi di esclusione dalla quantificazione come quelle che facevano riferimento nel testo precedente alla stagionalità ed alla intensificazione in alcuni periodi dell’anno. Parimenti sono stati cancellati i commi 8, 9 e 10 ove, tra le altre cose, era affermato che i contratti non superiori a sette mesi, comprensivi della proroga, erano esenti da limitazioni quantitative. Ovviamente, la cancellazione di talune ipotesi come quella relativa alla non computabilità dei rapporti di tirocinio trasformati in contratti a tempo determinato, potrebbero essere recuperate dalla contrattazione collettiva.
Abrogazioni
A far data dal 24 ottobre 2001, sono state abrogate la legge n. 230/1962 e successive modificazioni ed integrazioni, l’art. 8-bis della legge n. 79/1983, l’art. 23 della legge n. 56/1987, nonché tutte le disposizioni di legge che siano comunque incompatibili e non siano espressamente richiamate.
Vediamo, concretamente, cosa tutto ciò significa.
Sulla abrogazione della legge n. 230 c’è poco da dire: un nuovo provvedimento che risponde ad una filosofia operativa completamente diversa, è stato emanato e le vecchie disposizioni cessano di esistere. Tra queste vanno ricordate sia la legge n. 266/1977 per i rapporti a termine del settore dello spettacolo, che la legge n. 84/1986 (peraltro, ripresa integralmente nell’art. 2 del D. L.vo n. 368/2001) sui contratti relativi alle aziende aeroportuali, che l’art. 12 della legge n. 196/1997 (peraltro, successivamente, cancellata dal D.L.vo n. 276/2003), il quale, inserendosi nell’art. 2 della legge n. 230/1962, affrontava i temi della proroga e della successione dei contratti.
L’abrogazione dell’art. 8-bis della legge n. 79/1983 ed il richiamo contenuto nel comma 2 dello stesso articolo alle leggi n. 18/1978 e n. 598/1979, ha portato alla cancellazione dell’iter autorizzatorio della Direzione provinciale del Lavoro per le assunzioni a termine determinate da una intensificazione dell’attività lavorativa in limitati periodi dell’anno.
Resta, tuttavia, una sola ipotesi di assunzione per punte stagionali in cui è necessaria l’autorizzazione preventiva della Direzione provinciale del Lavoro: negli aeroporti minori, qualora le società di volo e di terra, ivi operanti, si trovino nella necessità di “sforare” il limite del 15% sull’organico in forza a tempo indeterminato, previsto dall’art. 2 del D. L.vo n. 368/2001.
Non trovano, poi, applicazione nei confronti del personale artistico e tecnico delle Fondazioni di produzione musicale le disposizioni che riguardano la disciplina della proroga, la scadenza del termine e le sanzioni correlate al mancato rispetto dei termini di interruzione tra un contratto a tempo determinato e l’altro.
Sanzioni
L’art. 12 riporta integralmente alcune sanzioni amministrative, già contenute nell’art. 7 della legge n. 230/1962, così come sostituito dall’art. 14 del D. L.vo n. 758/1994: esse riguardano la violazione del principio di non discriminazione concretizzatosi nel mancato “godimento” delle ferie, nella mancata erogazione della tredicesima mensilità, del trattamento di fine rapporto e di ogni altro emolumento spettante al personale in forza a tempo indeterminato di pari livello (ovviamente, in proporzione). La sanzione amministrativa (poco applicata in passato) è rimasta uguale e va da 25 a 154 euro. Se l’inosservanza si riferisce a più di cinque lavoratori, la sanzione pecuniaria è compresa tra 154 e 1032 euro.
E’ appena il caso di precisare che queste sono le sanzioni “tipiche” richiamate dal D.L.vo n. 368/2001: per il resto, trovano piena e totale applicazione, concretizzandosi le varie ipotesi di violazione delle norme, quelle generali correlate allo svolgimento della generalità dei rapporti di lavoro (es. collocamento, orario di lavoro, libro unico, interposizione, ecc.).
Contratti a termine e collocamento dei disabili
La normativa sul contratto a termine va, necessariamente, rapportata, ad avviso di chi scrive, ad altre leggi (come, ad esempio, la n. 68/1999) che interessano il collocamento dei disabili.
Il contratto a termine viene in evidenza per due aspetti:
In ordine al primo aspetto si osserva che la norma afferma, tra le altre cose, la non computabilità dei soggetti con contratto a tempo determinato di durata non superiore a nove mesi. Il problema che si pone è se il calcolo vada effettuato sulla base del singolo contratto o della sommatoria di più contratti che, nel periodo considerato (si fa la “fotografia” dell’organico al 31 dicembre essendo, al momento, l’obbligo di presentazione del prospetto fissato al 31 gennaio successivo). La risposta, attenendosi alla dizione letterale della norma, non può che propendere per la prima tesi.
Il Ministero del Lavoro, con la circolare n. 4 del 17 gennaio 2000, ha affrontato il problema relativo ai datori di lavoro che svolgono attività stagionale, affermando che sono esclusi dalla base di computo i lavoratori che abbiano prestato attività nell’arco dell’anno solare, anche se non continuativamente, per un periodo complessivo di nove mesi, calcolato sulla base delle corrispondenti giornate lavorative.
Per quel che concerne il secondo aspetto va sottolineato come nell’ottica di favorire l’inserimento dei soggetti portatori di handicap, il Legislatore ha previsto la possibilità, attraverso l’istituto della convenzione tra datore di lavoro e servizio della Provincia del collocamento dei disabili, di contratti a tempo determinato.
L’assunzione di un lavoratore disabile con contratto a termine è stata, ritenuta, in passato, in linea di massima, non coerente con il dettato, allora previsto, dalla legge n. 482/1968, che calcolava le carenze d’obbligo sulla base delle scoperture relative al personale a tempo indeterminato, fatta eccezione per le attività a carattere stagionale di durata superiore a tre mesi: e la Magistratura di merito fu coerente con tale principio sostenendo (Trib. Milano, 28 luglio 1982, Pret. Sestri Ponente, 18 febbraio 1989) che il fine generale della legge era quello di assicurare un’occupazione stabile e duratura al disabile.
Ora, un’assunzione a termine è possibile nell’ambito di una convenzione ex art. 11 della legge n. 68/1999 ove, all’accordo tra il servizio disabili e l’imprese, sovrintende, a mo’ di regia, il comitato tecnico, previsto dall’art. 6: lo spirito della convenzione è quello di venire, da un lato, incontro alle esigenze del datore di lavoro e, dall’altro, quello di favorire il proficuo inserimento di soggetti con particolari handicap. Ciò che è importante sottolineare (anche ai fini di una eventualità risarcitoria) è che, comunque, risulti dalla richiesta di avviamento inviata all’organo del collocamento (qui, c’è sempre il nulla – osta) che l’instaurando rapporto è a tempo determinato (Cass., 26 settembre 1998, n. 9658)
Raffronti tra il contratto a termine ed il contratto di inserimento per i giovani di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni
L’analisi che segue, lungi dal rappresentare un paragone tra le due tipologie che sono, sostanzialmente, molto diverse, si ripromette soltanto un paragone comparato, sotto gli aspetti normativi, economici e contributivi, tra il contratto a termine ed il contratto di inserimento, disciplinato dall’art. 54, comma 1, lettera a) del D.L.vo n. 276/2003, per i soggetti di età compresa tra i diciotto ed i ventinove anni.
La riflessione si rende necessaria per focalizzare l’attenzione su questo contratto di inserimento che, per l’assenza di benefici contributivi specifici, è stato poco utilizzato, a differenza, delle ipotesi successive.
Senza spezzare la lancia a favore di alcun contratto giova mettere a confronto gli elementi essenziali (perché, spesso, i datori di lavoro, scegliendo una tipologia invece che un’altra un po’ di conti li fanno e, soprattutto, ferme restando le caratteristiche delle persone, tengono conto dei vantaggi offerti, a vario titolo, dalla normativa).
Cominciamo dai requisiti soggettivi. Il contratto a termine non ha limiti di età, il contratto di inserimento (nella sola fattispecie oggetto di esame), va dai diciotto anni compiuti ai ventinove anni che, secondo un’interpretazione amministrativa del Ministero del Lavoro resa per l’apprendistato, vanno intesi come ventinove anni e trecentosessantaquattro giorni (ovviamente, ci si riferisce al giorno di inizio del rapporto). Non è previsto, per tali giovani, alcun requisito minimo di iscrizione nelle liste dei disponibili in cerca di occupazione come, per esempio, per la categoria sub b) ove si parla di disoccupati di lunga durata (un anno almeno) da ventinove fino a trentadue anni.
Entrambi i contratti debbono essere stipulati per iscritto ma mentre nel contratto a tempo determinato deve essere indicata (in modo abbastanza specifico) una causale riferibile, sia pure per le attività ordinarie, alle esigenze di natura tecnica, produttiva, organizzativa o sostitutiva, nel contratto di inserimento (che è finalizzato all’inserimento di un soggetto nell’ambito di ambiente lavorativo) deve essere indicato il progetto individuale di inserimento, previsto dall’art. 55, predisposto dal datore di lavoro, di durata minima di sedici ore, o termine maggiore previsto dalla contrattazione collettiva di settore (secondo i dettami dell’accordo interconfederale dell’11 febbraio 2004).
La durata del contratto a termine, comprensivo della proroga, non può superare i trentasei mesi (e, poi, ora, c’è il problema legato alla conversione per sommatoria), il contratto di inserimento (art. 57) ha una durata non inferiore a nove mesi e non può superare i diciotto e non è rinnovabile.
Se da un punto di vista contributivo non ci sono differenze (la contribuzione è normale in entrambe le ipotesi, in quanto quella ridotta per il contratto di inserimento riguarda le ipotesi da b a f dell’art. 54), è da un punto di vista economico che comincia a registrarsi qualche differenza, atteso che il lavoratore con contratto di inserimento può essere retribuito fino a due livelli di meno rispetto alla categoria spettante. Molti contratti collettivi hanno stabilito, per alcune qualifiche, un solo livello inferiore, o da subito, o a partire da alcuni mesi dopo. C’è da aggiungere, inoltre, a vantaggio del contratto di inserimento, che le spese della formazione, così come per l’apprendistato, sono deducibili ai fini dell’IRAP.
Nel contratto a termine la proroga è una soltanto (anche di durata superiore al contratto iniziale), nel contratto di inserimento si può arrivare al limite massimo dei diciotto mesi attraverso più proroghe, rispetto all’iniziale durata di nove mesi. Ovviamente, il consenso dell’interessato ci deve essere in entrambe le ipotesi ed è consigliabile la forma scritta che, tra l’altro, deve indicare le motivazioni della stessa.
Istituti tipici legati alla sommatoria dei contratti a termine per la conversione dopo i trentasei mesi ed al diritto di precedenza dopo rapporti con lo stesso datore di lavoro per le stesse mansioni di durata superiore ai sei mesi, non sono assolutamente presenti nel contratto di inserimento che, proprio perché è una tipologia particolare, non trova applicazione nei casi appena citati ove la norma parla soltanto dei contratti a tempo determinato.
Una ulteriore differenza riguarda la computabilità rispetto a particolari istituti: i contratti a termine di durata superiore a nove mesi rientrano nel calcolo di base per l’individuazione dell’aliquota dei disabili e delle eventuali scoperture e, inoltre, sempre con la stessa durata, sono computabili ai fini previsti dall’art. 35 della legge n. 300/1970 (limiti dimensionali). I contratti di inserimento, invece, fatte salve specifiche previsioni di legge o di contratto, sono esclusi da computo dei limiti numerici previsti da leggi e contratti collettivi per l’applicazione di particolari normative ed istituti (art. 53, comma 2), così come avviene per i rapporti di apprendistato.
Contratto a termine nel pubblico impiego
L’art. 49 della legge n. 133/2008, disciplinando il lavoro flessibile nelle Pubbliche Amministrazioni, ha riscritto completamente l’art. 36 del D.L.vo n. 165/2001, facendo venir meno anche le novità introdotte con la legge n. 244/2007.
Ma andiamo con ordine cercando di comprendere le novità.
Dopo aver affermato (comma 1) che per i fabbisogni ordinari occorre ricorrere esclusivamente a contratti di lavoro subordinato a tempo indeterminato, il Legislatore (comma 2) stabilisce che le esigenze temporanee ed eccezionali possono essere soddisfatte con il ricorso alle forme contrattuali flessibili previste nel nostro ordinamento, cui segue una puntigliosa elencazione, con la specifica che, in ogni caso, non è possibile ricorrere alla somministrazione a tempo determinato per le funzioni direttive e dirigenziali. Ovviamente resta in capo alle singole amministrazioni la valutazione relativa alla individuazione delle necessità organizzative sulla base dei principi generali della legge n. 133/2008, che postulano un forte contenimento delle spese del personale. Il comma 3 si preoccupa degli eventuali abusi, sottolineando che, nel rispetto della tra speranza e della imparzialità, la durata complessiva dei rapporti con i singoli lavoratori, pur ricorrendo alla utilizzazione di più tipologie contrattuali (es. tempo determinato, somministrazione, ecc.) non possa superare, per sommatoria, i tre anni nell’ultimo quinquennio.
Ma è il comma 5 che riguarda, più da vicino, il contratto a tempo determinato, cui trova espressamente applicazione (art. 49, comma 2) il D.L.vo n. 368/2001. La violazione delle disposizioni imperative riguardanti l’assunzione in organico nella Pubblica Amministrazione (ove si può entrare, secondo il dettato dell’art. 97 della Costituzione per concorso o prove selettive alternative, fatti salvi i pochissimi casi di “chiamata diretta”) non comporta la costituzione di alcun rapporto di lavoro subordinato. Il riferimento alla norma costituzionale è di natura inderogabile: qualunque strumento finalizzato ad aggirarlo, come potrebbe essere la conversione del rapporto dopo i trentasei mesi, è illecito per violazione di una norma fondamentale del nostro ordinamento.
Ovviamente, qualora il termine fissato sia stato “sforato” il lavoratore ha diritto alla retribuzione ed alla contribuzione previdenziale ed assicurativa per tutte le prestazioni effettuate (con le maggiorazioni del 20% o del 40% della retribuzione globale di fatto) ma, aggiunge, la norma, lo stesso ha diritto al “risarcimento del danno” derivante dalla prestazione di lavoro resa in violazione di norme imperative.
Una riflessione si rende necessaria: cosa può essere il danno per un lavoratore che, comunque, viene retribuito per le prestazioni rese? Ad avviso di chi scrive, la correlazione tra “danno” e “prestazione lavorativa” deve essere diretta e, fermi restando casi particolari, potrebbe essere ipotizzabile, ad esempio, allorquando il lavoratore, basandosi, sugli affidamenti dell’Amministrazione, ha rinunciato ad una effettiva, reale (ma dimostrabile in giudizio) opportunità di lavoro.
La nuova dizione dell’art. 36, si sostituisce anche alle novità introdotte con l’art. 3, comma 79, della ultima legge finanziaria, la n. 244/2007 ove, tra l’altro, per le sole autonomie territoriali si faceva riferimento alle sostituzioni per maternità e ove si stabiliva l’impossibilità di contratti a termine di durata superiore a tre mesi.
Sulle Pubbliche Amministrazioni gravano una serie di obblighi che possono così sintetizzarsi:
La normativa italiana che esclude nel settore pubblico la conversione a tempo indeterminato dei contratti a termine per violazione delle disposizioni che li regolano, è stata oggetto anche di una pronuncia della Corte Europea di Giustizia il 7 settembre 2006, nella causa C – 180/04. Nel dispositivo, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea del 28 ottobre 2006, si afferma che “l’accordo quadro sul lavoro a termine, del 18 marzo 1999, che figura nell’allegato alla direttiva del Consiglio 28 giugno 1999, 1999/70/CE, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP su lavoro a tempo determinato, deve essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che questi siano trasformati in contratti o rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre tale trasformazione è prevista per i contratti e i rapporti di lavoro conclusi con un datore di lavoro appartenente al settore privato, qualora tale normativa contenga un’altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, a sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico”.
Fonte: http://www.dplmodena.it/contrattiatermine.doc
Sito web da visitare: http://www.dplmodena.it/
Autore del testo: Eufranio MASSI
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