Contrattualità del rapporto di lavoro

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Contrattualità del rapporto di lavoro

LA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO
1. La contrattualità del rapporto di lavoro. 
La matrice contrattuale del rapporto di lavoro era pacifica allorché esso era considerato una sottospecie della locazione. Tale matrice restò radicata anche quando la dottrina diede avvio al suo processo di distacco dallo schema locatizio.
Tuttavia, nel corso del primo ‘900, per influenza di una corrente di pensiero tedesca, si affermarono presso di noi talune suggestioni di carattere istituzionalistico-comunitario. L’impresa si sostanzierebbe in una comunione di scopo tra datore e lavoratore, destinata ad esprimersi in un rapporto di lavoro organizzato su base gerarchica. Fonte del rapporto sarebbe non il contratto, bensì l’inserzione del lavoratore nell’impresa ossia nell’organizzazione creata e diretta dal datore medesimo. Tali suggestioni, congeniali all’ideologia corporativa, parvero trovare consacrazione nel codice civile del ’42. il codice infatti non definisce il contratto di lavoro subordinato, ma il prestatore di lavoro subordinato ed intitola la disciplina al rapporto e non al contratto, collocandola nel libro 5° (sull’impresa) e non nel libro 4°, dove sono disciplinati i più importanti contratti di scambio. Cionondimeno la nostra dottrina è rimasta contrattualistica, facendo emergere con sufficiente linearità un rapporto di scambio.
Va tuttavia dato conto di un filone dottrinale che, pur accogliendo la concezione conflittuale-scambistica della relazione tra datore e lavoratore, si è focalizzata sull’organizzazione di lavoro come fonte di situazioni giuridiche sostanzialmente autonome dal contratto, fino al punto di negare la matrice contrattuale del rapporto. Il rapporto di lavoro trarrebbe origine dal fatto in sé della materiale prestazione di attività lavorativa e dalla correlata inserzione nell’organizzazione di lavoro. Tale dottrina ha ritenuto di trovare un aggancio normativo nell’art. 2126 c.c. (prestazione di fatto con violazione di legge); tale articolo stabilisce che la nullità o l’annullamento del contratto di lavoro non produce effetto per il periodo in cui il rapporto ha avuto esecuzione, salvo che la nullità derivi dall’illiceità della causa o dell’oggetto.
Se, malgrado la nullità o l’annullamento del contratto, si producono i normali effetti del rapporto di lavoro subordinato in virtù della sua materiale esecuzione, bisognerebbe riconoscere, secondo questa dottrina, che fonte di quel rapporto non è il contratto, bensì la prestazione di fatto dell’attività lavorativa.
La dottrina contrattualistica però ha potuto ribattere che l’art. 2126 non prefigura un superamento della matrice contrattuale del rapporto, giacché esso presuppone un contratto, sia pure invalido (portata retrospettiva).
La difesa della prospettiva contrattuale ha trovato pieno conforto nell'evoluzione legislativa, specie nello Statuto dei Lavoratori. Il contratto di lavoro si differenzia dagli altri schemi negoziali di scambio per la rilevanza giuridica che è attribuita al profilo organizzativo, cioè alla destinazione del rapporto a svolgersi nell'organizzazione del lavoro. La matrice contrattuale è altresì pacifica nell'ambito della pubblica amministrazione, giusta la riconduzione legislativa del rapporto di lavoro sotto l'egida del diritto comune (art. 2, 2°comma, D.lgs. n. 165/2001). E' la cosiddetta privatizzazione dell'impiego pubblico, che ha riformato lo status giuridico dei dipendenti della pubblica amministrazione, inquadrandolo nella medesima cornice scambistico negoziale del privato.
2. Art. 2126 cod. civ. e prestazione di fatto.
L'art. 2126 c.c. ha una portata solo retrospettiva e non proiettiva. Rapporto tipico e rapporto di fatto non sono pienamente identificabili, giacché con l'esecuzione non si riproducono tutti quanti gli effetti del contratto tipico.
I limiti effetti (retrospettivi) dell’art. 2126 si producono solo allorché esista un contratto, sia pure invalido. Non si producono tali effetti quando manchi il consenso o contro la dichiarata volontà del datore di lavoro. In questo caso, il prestatore di lavoro potrà invocare esclusivamente la disciplina sull'ingiustificato arricchimento (art. 2041 ss. c.c), come del resto nell'ipotesi di prestazione resa in esecuzione di un contratto con causa o oggetto illeciti.
Va detto tuttavia che la giurisprudenza, di fronte allo svolgimento di un’attività lavorativa, tende a presumere il consenso del datore, con la conseguenza che la prestazione si considera generalmente resa in esecuzione di un contratto di lavoro (stipulato per fatti concludenti), salva la prova contraria, gravante sull’imprenditore.
E la stessa nascita di un rapporto di lavoro subordinato (e l’applicazione della relativa disciplina tipica) esige un contratto. È necessario ossia che le parti si accordino per operare uno scambio tra lavoro e remunerazione; altrimenti non si ha rapporto di lavoro. Casi emblematici in tal senso sono il lavoro gratuito (ove difetta lo scambio) ed il lavoro invito domino (ove difetta lo stesso accordo). Per lavoro prestato invito domino, s’intende il lavoro prestato senza il consenso o addirittura contro la volontà del datore. In tal caso il prestatore di lavoro potrà invocare soltanto la disciplina sull’ingiustificato arricchimento (come del resto nell’ipotesi di prestazione resa in esecuzione di un contratto con causa o oggetto illeciti).
Si è anticipato che l'eccezionale regime disposto da tale norma non opera nel caso di illiceità dell'oggetto o della causa; in tal caso il prestatore di lavoro potrà invocare la disciplina sull'ingiustificato arricchimento. Solo qualora l'illiceità dipenda dalla violazione di norme poste a tutela del prestatore di lavoro (art. 2126, 2°comma), questi avrà comunque diritto alla retribuzione pattuita.
La presunzione relativa alla stipulazione del contratto per fatti concludenti è consentita ai giudici dalla regola generale di libertà della forma nella stipulazione del contratto di lavoro.
È infine il caso di menzionare che è generalmente esclusa l’applicabilità in via analogica dell’art. 2126 al di fuori del lavoro subordinato (ossia al lavoro autonomo e parasubordinato).
3. Il lavoratore: capacità giuridica e capacità di agire
L’implicazione della persona del lavoratore nel rapporto fa sì che ad essa si attribuisca rilevanza sia nella fase di costituzione che in quella di esecuzione del rapporto. Ne deriva innanzitutto una regola di infungibilità soggettiva della prestazione lavorativa (caratterizzata dall’intuitus personae), che è a sua volta conseguenza del principio generale di intrasmissibilità della relativa obbligazione (sia inter vivos che mortis causa).
Per quanto riguarda la stipulazione del contratto, si suole parlare di capacità giuridica speciale, riferendosi alla disciplina particolare (penalmente sanzionata), che fissa i requisiti d’età per l’accesso al lavoro. La capacità (giuridica) di essere parte di un rapporto di lavoro coincide infatti con la c.d. capacità al lavoro, che si acquista con l’età minima di ammissione al lavoro, indicata dalla l. 17 ottobre 1967, n. 977 ed integrata dal D.lgs. 4 agosto 1999 n. 345, traspositivo della Direttiva n. 94/33/CE per la protezione dei giovani sul lavoro. Ai sensi dell'art. 2 l. n. 977/1967 “l’età minima per l’ammissione al lavoro è fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non può essere inferiore ai 15 anni (18 anni per il pubblico impiego).
Coerentemente con ciò il legislatore stabilisce un generale divieto di lavoro per il bambino, intendendo tale il minore che non abbia ancora compiuto 15 anni o che è ancora soggetto all’obbligo scolastico. Va detto tuttavia, che con l’assenso dei soggetti esercenti la potestà genitoriale e l’autorizzazione della direzione provinciale del lavoro, è legittimo l’impiego del bambino in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario, purché ciò non comporti un pregiudizio per la sicurezza, la salute, lo sviluppo o l’istruzione del bambino.
Piena capacità al lavoro hanno invece gli adolescenti, ossia i minori di età compresa tra i 15 e i 18 anni non più soggetti all’obbligo scolastico. Sussiste tuttavia un divieto ad adibire gli adolescenti a specifiche attività lavorative, tassativamente indicate dal legislatore, a tutela della loro sicurezza e salute.
Il difetto della capacità giuridica speciale (ossia dell’età minima per l’ammissione al lavoro) integra la mancanza di un presupposto essenziale per la validità del contratto di lavoro e determina pertanto la nullità del contratto stesso per illiceità dell’oggetto. Tuttavia nonostante, la nullità sia dovuta all’illiceità dell’oggetto del contratto, resta comunque applicabile l’art. 2126, poiché il limite di ammissione al lavoro è previsto a tutela dello stesso lavoratore minore.
Diverso dal profilo della capacita giuridica speciale è quello della capacità di agire, cioè di stipulare il contratto di lavoro da parte del soggetto provvisto dell’età minima di ammissione al lavoro. Nel 1975 il legislatore, nell’abbassare a 18 anni il raggiungimento della maggiore età, ha esplicitamente stabilito che sono fatte salve le leggi speciali che stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità di prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro. La nuova disciplina è stato oggetto di letture contrapposte tra le quali spicca quella che ritiene che ormai si deve ritenere legislativamente sancita la coincidenza tra capacità giuridica speciale e capacità di agire. Il difetto di capacità d’agire determina l’annullabilità del contratto. E dal momento che il difetto di capacità di agire non incide sulla liceità dell’oggetto del contratto, è senz’altro applicabile l’art. 2126.
4. Segue: Minori e lavoro.
Fermi restando i limiti di ammissione al lavoro, la l. n. 977/1967 appresta speciali garanzie a favore dei lavoratori con  età inferiore ai 18 anni per esigenze di tutela della salute e dello sviluppo dei minori. Il lavoro minorile solo da qualche tempo costituisce oggetto di autonoma considerazione: infatti la tutela del lavoro minorile è stata per lunghi anni accomunata alla tutela del lavoro femminile, nell’ambito di quella normativa di tutela delle “mezze forze di lavoro”, volta a scoraggiarne lo sfruttamento.
L’esigenza di una disciplina differenziata è emersa con l’art. 37 Cost., che ha sancito tre principi fondamentali. Il primo costituzionalizza la competenza legislativa in tema di età minore per l'ammissione al lavoro. Il secondo istituzionalizza la tutela speciale per il lavoro minorile, distinguendolo dal lavoro femminile(per il quale non è prevista una tutela speciale, ma solo la necessità di contemperare il lavoro della donna con la sua essenziale funzione familiare). Il terzo principio dell’art. 37 poi, stabilisce che il minore ha diritto, a parità di lavoro, alla stessa retribuzione del lavoratore adulto
La tutela speciale del lavoro minorile indicata dall’art. 37 Cost. si è tradotta nelle disposizioni della l. n. 977 del 1967 e risulta una normativa (allineata con gli standards internazionali ed in particolare con la Carta dei diritto fondamentali dell’Unione). Il D.lgs. n. 345/1999 ha provveduto ad attuare la Direttiva 94/33/CE, novellando la l. n. 977 del 1967 con l'obbiettivo di privilegiare l’istruzione, assicurare l’inserimento professionale mediante la formazione, garantire la salute e la sicurezza dei minori, in quanto gruppo a rischio particolarmente sensibile. Ne risulta dunque una disciplina unitaria, rivolta a tutti i rapporti di lavoro, ordinari e speciali, in cui vengano coinvolti minori, incluso l’apprendistato, i contratti di formazione e lavoro ed il lavoro a domicilio.
Così, fermi i già visti divieti in materia di ammissione al lavoro, la legge contempla due generali requisiti di ammissibilità del lavoro minorile: a)che il datore di lavoro effettui la valutazione dei rischi ambientali (art. 4 D.lgs. n.624 del 1994); b) che il minore si riconosciuto idoneo a svolgere la specifica prestazione oggetto del contratto con una visita medica pagata dall’imprenditore ed eseguita da un medico del servizio sanitario nazionale, sia prima dell’assunzione, sia dopo, con cadenza almeno annuale.
Il lavoro notturno è poi proibito per tutti i minori, salvo il caso delle prestazioni culturali, artistiche, sportive e pubblicitarie.
5. Il datore di lavoro.
Se la capacità di lavoro del prestatore è subordinata al possesso di requisiti soggettivi speciali, nulla di analogo è previsto invece per il datore di lavoro, applicandosi ad esso le regole civilistiche sulla capacità giuridica e di agire destinate alla generalità dei soggetti.
Piuttosto, sul versante datoriale rileva la distinzione tra imprenditori e non imprenditori, questi ultimi titolari di un’attività organizzata a fini non lucrativi (non profit), frequentemente esclusi dall’ambito di applicazione di importanti normative di tutela del lavoro subordinato (disciplina delle integrazioni salariali e sostegno dell’attività sindacale nei luoghi di lavoro). La diversificazione dei lavori è divenuta inarrestabile e la tendenziale disoccupazione strutturale delle società industriali ha indotta ad ipotizzare nuove forme di lavoro non solo dentro, ma anche fuori il mercato, nell'ambito di organizzazioni c.d. non-profit, che, anche in ragione della crisi del sistema pubblico di welfare, la normativa disciplina e incentiva sia sul piano lavoristico (LL. nn. 266/1991, 381/1991) sia su quello tributario, dove è emersa la nuova categoria della organizzazione non lucrativa di utilità sociale (ONLUS) (D.lgs. n. 460/1997).
Significative evoluzioni si registrano poi nelle amministrazioni pubbliche. Infatti, nonostante la sottrazione al regime pubblicistico dei rapporti di pubblico impiego, il legislatore non ha tuttavia disconosciuto la netta distinzione concettuale tra impresa privata e pubblica amministrazione.  Pertanto alcuni tratti di specialità della disciplina rimangono, in ossequio a norma costituzionali (art. 97 Cost) o alla necessità di perseguire al meglio l’interesse pubblico o all’esigenza di confermare il tradizionale favore per il dipendente pubblico (applicazione dell’art. 18 St lav., a prescindere dai limiti dimensionali).
Infine, nel diritto del lavoro riveste particolare rilievo la dimensione dell’impresa. Infatti sono numerose le ipotesi in cui il legislatore condiziona l’applicabilità di determinate normative di tutela al superamento di una determinata soglia occupazionale (si pensi ad esempio alla normativa sul licenziamento individuale, all’attività sindacale nei luoghi di lavoro, alle procedure sindacali in tema di trasferimento d’azienda e licenziamenti collettivi, alle assunzioni obbligatorie, ecc,).
La crescente attenzione del legislatore per iniziative di job creation, destinate ad incidere sulla domanda di lavoro in una logica di incentivo all'occupazione e di servizio all'impresa, è uno degli elementi sintomatici delle trasformazioni che attraversano attualmente il diritto del lavoro e testimoniano un nuovo interesse della materia per la figura datoriale, attualmente al centro di complesse operazioni di decentramento o esternalizzazione, da un lato, di integrazione e concentrazione a livello societario, dall'altro. Tuttavia, i processi di composizione o scomposizione dell'impresa non hanno finora avuto ricadute sul piano del contratto individuale: la giurisprudenza è compatta nel negare al gruppo di imprese un'autonoma soggettività giuridica, dovendo i contratti di lavoro essere imputati a ciascuna delle distinte società del gruppo.
6. La forma del contratto di lavoro.
La legge non prescrive per il contratto di lavoro alcuna forma e quindi vige il principio generale della libertà della forma. Ma il D.lgs. 26 maggio 1997, n. 152, attuativo della Direttiva 91/533/CE, prevede l'obbligo del datore di informare il lavoratore delle condizioni applicabili al contratto o al rapporto di lavoro.
Molti contratti collettivi del settore privato prescrivono la forma scritta del contratto di lavoro, ma è assai dubbio che questa sia richiesta ai fini della validità del negozio, come disposto dall’art. 1352 c.c. (“se le parti hanno convenuto per iscritto di adottare une determinata forma per la futura conclusione di un contratto, si presume che la forma sia stata voluta per la validità di questo”). Tale articolo infatti presuppone che la forma convenzionale sia stata voluta nell’interesse delle parti, mentre nelle clausole collettive in questione la forma scritta è disposta ad esclusiva garanzia del lavoratore.
La situazione è invece diversa nel caso del mancato rispetto dell’obbligo di forma scritta del contratto individuale di lavoro prescritto da tutti i contratti collettivi di comparto del settore pubblico. In tal caso infatti si ritiene che la forma scritta soddisfi anche l’interesse della p.a. alla certezza dei rapporti giuridici in essere.
Eccezioni al principio della libertà della forma sono previste con riguardo ad una serie nutrita di ipotesi.
In tali casi il vincolo di forma è inteso il più delle volte ad substantiam , con conseguente nullità dello stesso ed operatività del meccanismo di conversione automatica, qualora la legge lo preveda esplicitamente. Ad esempio, la carenza di forma scritta della clausola oppositiva di termine determina la conversione del contratto a termine in contratto di lavoro a tempo indeterminato.
Altre volte la forma è richiesta ad probationem, con il corollario che il contratto sarà comunque valido, ma in presenza di contestazioni sulla sua esistenza, l’interessato non potrà fornire prova testimoniale, salvo che il documento sia andato perduto senza propria colpa (art. 2725 c.c.). Ad esempio, il D.lgs 276/2003 prevede la forma scritta ad probationem per tutte le tipologie flessibili di contratto di lavoro di nuova introduzione (il lavoro ripartito, il lavoro intermittente, finanche il lavoro a progetto, per il quale, data l’essenzialità della predisposizione del progetto o programma, ci si aspettava piuttosto il requisito della forma scritta ad substantiam). Devono essere altresì stipulati per iscritto i contratti di apprendistato nonché il contratto di inserimento ai sensi dell'art. 56, il quale prevede, esplicitamente, in caso di mancanza di forma scritta, la conversione in contratto a tempo indeterminato. Un regime di forma vincolata è infine previsto per talune clausole speciali, quali il patto di prova, il patto di non concorrenza, le clausole flessibili e le clausole elastiche nel part-time.
7. Consenso, vizi del consenso e simulazione.
La matrice contrattuale del rapporto mette in luce la centralità dell’elemento volitivo nella fase costitutiva del rapporto stesso. In generale tuttavia, la definizione dei contenuti dell’accordo è solo parzialmente oggetto di un reciproco scambio del consenso tra la parti. Normalmente infatti la proposta di lavoro proviene dal datore e risulta altresì formulata sulla scorta delle disposizioni di legge e del contratto collettivo, derogabili solo in melius.
Nel settore pubblico poi, la compressione dell’autonomia del datore di lavoro è ancor più accentuata, essendo vincolata finanche la scelta dell’altro contraente. Se infatti è vero che la fase costitutiva del rapporto è ormai sotto l’egida del diritto privato, va pur detto che la fase preassuntiva sembra rimanere nel dominio del diritto pubblico, applicandosi ancora la regola del pubblico concorso. (D.lgs. n. 165/2001).
La volontà dei contraenti è assoggettata alla generale alla generale disciplina codicistica (domina quindi l'aspetto privatistico) in tema di consenso e vizi del medesimo. Sul piano del contratto di lavoro, può rilevare l’errore, allorché verta sulle qualità personali del lavoratore. Tuttavia, per essere essenziale, e quindi possibile causa di annullamento del contratto, l’errore deve riguardare qualità che abbiano diretta attinenza con la prestazione lavorativa (ad. es. qualità tecnico-professionali).
La rilevanza dell’errore è in ogni caso subordinata alla sua riconoscibilità da parte del datore. Essenzialità e riconoscibilità non sono però necessari in caso di dolo del lavoratore, qualora cioè questi abbia dato causa all’errore con affermazioni false (dolo commissivo) o reticenti (dolo omissivo). Non ha mancato di venire alla ribalta anche l'ipotesi dell'errore di diritto di cui al n. 4 dell'art. 1429 c.c., con riguardo ad es. al caso del datore di lavoro che abbia proceduto all'assunzione senza il rispetto della graduatoria concorsuale fidando sulla clausola preferenziale della residenza contenuta nel bando di concorso e poi dichiarata nulla.
Per quanto riguarda invece la simulazione (discrasia volontaria tra volontà effettiva delle parti e dichiarazioni negoziali) trova anche qui applicazione la disciplina codicistica.
Dunque in caso di simulazione assoluta (le parti stipulano un contratto di lavoro subordinato quando in realtà non vogliono dare vita a nessun rapporto), il contratto simulato non produrrà alcun effetto tra le parti, ai sensi dell'art. 1414 c.c. In caso di simulazione relativa invece (allorché le parti intendono instaurare tra di esse un rapporto diverso da quello simulato), sarà il contratto dissimulato a produrre effetti. Quindi se le parti stipulano un contratto simulato di lavoro autonomo, che nasconde un contratto dissimulato di lavoro subordinato, al rapporto si applicherà la disciplina tipica del rapporto subordinato (la questione viene risolta sulla base della corretta qualificazione del rapporto).
È evidente insomma come nel caso della simulazione relativa, si possa pervenire alle stesse soluzioni generali previste dal codice in tema di simulazione, ma utilizzando come chiave di lettura la disciplina del diritto del lavoro (qualificazione del rapporto e tassatività del tipo lavoro subordinato).
8. La clausola di prova.
Ai sensi dell’art. 2096, il contratto di lavoro può prevedere un periodo di prova, finalizzato alla verifica della capacità professionale del lavoratore in relazione alle mansioni affidate.
Il patto di prova deve risultare da una clausola apposita per la quale è previsto l’obbligo di forma scritta ad substantiam.
Oltre alla forma scritta, l’ordinamento impone la predeterminazione della durata massima del periodo di prova, normalmente stabilita dai contratti collettivi in misura non superiore a 6 mesi. In ogni caso, la l. n. 604/1966 pone indirettamente un limite legale alla prova, con la conseguenza che, anche a volerla prolungare, il rapporto acquisterà comunque una stabilità, una volta trascorso il semestre. La l. n. 604/1966 prevede che il recesso datoriale per il lavoro in prova non richieda preavviso e sussistenza di presupposti giustificativi (motivi), con conseguente discrezionalità della valutazione del datore di lavoro. Durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità. Se però la prova è stabilità per un tempo minimo necessario, la facoltà di recesso non può esercitarsi prima della scadenza del termine.
A fronte ci ciò, resta però, sempre sindacabile l'uso distorto del potere imprenditoriale, a tutela del diritto del prestatore non subire licenziamenti arbitrari; sicché il giudice potrà ben dichiarare l'invalidità del recesso ogni qualvolta il lavoratore dimostri che allo scioglimento unilaterale del vincolo negoziale abbia concorso un motivo non attinente all'esperimento della prova, quindi illecito. Conseguenze dell'invalidità del recesso sono o la prosecuzione dell'esperimento fino alla scadenza del termine prefissato o il risarcimento del danno.
L'assenza di qualsivoglia requisito formale per il recesso è stata confermata altresì in rif. all'invalido assunto obbligatoriamente, con cui i giudici ritengono validamente stipulabile un patto di prova. Oggi la questione è affrontata dalla l. n. 68/1999, laddove consente di stipulare ai fini occupazionali convenzioni per lo svolgimento di periodi di prova più ampi di quelli previsti dal contratto collettivo, fermo il generale divieto di prestazioni non compatibili con le minorazioni del prestatore.
Salvo il profilo del recesso senza preavviso, la disciplina legislativa del rapporto in prova non differisce da quella del rapporto definitivo: la giurisprudenza riconosce al lavoratore in prova il normale trattamento economico e normativo.
Per quanto riguarda la natura del patto di prova, la dottrina maggioritaria tende a qualificarlo come una condizione sospensiva potestativa. Alla luce della disciplina finora ricostruita peraltro, sembra comunque lecito ritenere che si tratti di un patto di libera recedibilità senza preavviso da un altrimenti normale rapporto di lavoro subordinato.

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

Sito web da visitare: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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