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DIRITTO DEL LAVORO
Tipologie di lavoro
L’art. 2094 del codice civile definisce lavoratore subordinato “chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”.
L’art. 2222 definisce il lavoratore autonomo come “colui che opera senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente e, quindi, organizza liberamente la propria attività”.
Tra lavoro subordinato e autonomo si colloca il c.d. lavoro parasubordinato nonché le collaborazioni coordinate e continuative confluite oggi nella fattispecie “lavoro a progetto” di cui al DL 276/2003, più conosciuto come “Legge Biagi”.
Fonti del rapporto di lavoro
Il rapporto di lavoro trova la sua regolamentazione in una pluralità di fonti:
Il contratto di lavoro
Si costituisce mediante l’accordo delle volontà delle parti contraenti, secondo le modalità previste dall’art. 1326 del codice civile e, quindi, il contratto si conclude con l’incontro tra posposta e accettazione (o consenso).
I soggetti del rapporto di lavoro
Il datore di lavoro è colui che riceve da altri un lavoro alle proprie dipendenze in cambio di una retribuzione. I datori di lavoro possono essere persone fisiche e persone giuridiche private o pubbliche, nonché imprese di piccole o grandi dimensioni.
Il prestatore di lavoro subordinato è colui che si obbliga, dietro retribuzione, a prestare il proprio lavoro alle dipendenze e sotto la direzione di un altro soggetto.
I prestatori di lavoro si classificano in: dirigenti, quadri, impiegati e operai.
La contrattazione collettiva ha poi introdotto un sistema di classificazione professionale, che è quello dell’inquadramento unico, non più basato sulla separazione tra impiegati e operai, ma su una pluralità di livelli professionali, comuni a entrambi e ordinati in un’unica scala.
Le mansioni
Indicano l’insieme dei compiti e delle concrete operazioni che il lavoratore è chiamato a eseguire e che possono essere pretesi dal datore di lavoro.
Per eventuali esigenze particolari dell’organizzazione, il datore di lavoro ha facoltà di modificare le mansioni del lavoratore rispetto a quelle convenute al momento dell’assunzione ma ha il divieto assoluto di assegnare al lavoratore mansioni inferiori.
Il trasferimento può essere disposto soltanto per motivate esigenze tecnico-organizzative che il datore di lavoro deve dimostrare e comunicare al lavoratore interessato. Se non ha i necessari presupposti esso viene considerato illegittimo e il lavoratore può ricorrere al giudice per l’accertamento della nullità del trasferimento così effettuato.
Obblighi del lavoratore
Oltre all’obbligo principale di effettuare la prestazione lavorativa pattuita, il lavoratore è tenuto ad osservare altri obblighi previsti specificamente dalla legge, come quello di diligenza, di obbedienza, di fedeltà. Nell’obbligo di fedeltà rientra quello di non concorrenza e quello di riservatezza (divieto di divulgare notizie attinenti all’organizzazione e di produzione dell’impresa o di farne un uso che possa recarne pregiudizio).
Diritti del lavoratore
Diritti patrimoniali, quali il diritto di retribuzione, trattamento di fine rapporto e indennità speciali.
Diritti personali, quali quello dell’integrità fisica, la libertà di opinione, il diritto alla riservatezza, il diritto allo studio per i lavoratori studenti.
Diritti sindacali, come quello di affissione, partecipazione ad assemblee, ecc.
Obblighi del datore di lavoro
Corrispondono ad altrettanti diritti del lavoratore e quindi sono: l’obbligo di corrispondere la retribuzione nei modi e termini previsti dal contratto, nonché il trattamento di fine rapporto; l’obbligo di tutela delle condizioni di lavoro e di sicurezza; l’obbligo di tutela assicurativa e previdenziale e anche quello di assicurare i dipendenti contro il rischio di responsabilità civile verso terzi per colpa nello svolgimento delle loro mansioni; l’obbligo di procedere ad accertamenti sanitari prima dell’assunzione e anche durante il rapporto di lavoro nei casi in cui sia obbligatoria la sorveglianza sanitaria e l’obbligo di informazione chiara e trasparente.
Infine, vi è poi l’obbligo di tutelare la riservatezza dei lavoratori (secondo il codice della privacy introdotto con D. lgs. 196/2003).
Tale provvedimento legislativo stabilisce principi di carattere generale: protezione dei dati personali, obbligo di osservare, nel trattamento dei dati, i diritti e le libertà fondamentali e l’obbligo di ridurre al minimo l’utilizzazione di questi dati personali.
È previsto a tal proposito, inoltre, il diritto di accesso da parte dell’interessato ai dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, in particolare per conoscere le finalità e le modalità del trattamento, e un diritto di opporsi al trattamento stesso in determinate circostanze.
Poteri del datore di lavoro
I poteri del datore di lavoro sono classificabili in tre categorie fondamentali: potere direttivo (gerarchico e conformativo), potere di vigilanza e controllo, potere disciplinare.
Lo Statuto dei lavoratori e la contrattazione collettiva hanno introdotto numerosi limiti al potere direttivo del datore di lavoro; infatti nelle imprese dove la voce del sindacato è più incisiva, le scelte relative all’organizzazione del personale, ma anche le ristrutturazioni e le trasformazioni tecnologiche, devono essere preventivamente discusse con le rappresentanze sindacali interne e a volte anche esterne.
Il potere di vigilanza e controllo è diretto a verificare che l’esecuzione dell’attività lavorativa venga effettuata secondo le modalità stabilite dal datore di lavoro.
Per quanto riguarda il potere disciplinare, il datore di lavoro ha la facoltà di irrogare sanzioni al lavoratore che venga meno agli obblighi di diligenza, obbedienza e fedeltà purché ci sia sussistenza e imputabilità del fatto, la sanzione sia adeguata e vengano rispettati i limiti alla rilevanza della recidiva, cioè non si deve tener conto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione.
Il lavoratore sanzionato può impugnare il provvedimento sanzionatorio mediante azione giudiziaria, ricorrendo al tribunale del lavoro, mediante la procedura arbitrale presso la direzione provinciale del lavoro (entro il termine di 20 giorni il lavoratore può chiedere la costituzione di un collegio di conciliazione e arbitrato che componga la controversia) o anche attraverso altre procedure espressamente previste nei contratti collettivi.
La retribuzione
La retribuzione – diritto costituzionalmente garantito (art. 36 C.) – è la prestazione fondamentale a cui è obbligato il datore di lavoro nei confronti del lavoratore.
Esistono varie forme di retribuzione, il codice civile ne individua due forme fondamentali: la retribuzione a tempo, che consiste nella corresponsione di una somma di denaro stabilita in ragione del tempo di lavoro, e la retribuzione a cottimo, in cui non si tiene conto soltanto del tempo impiegato, ma anche della produttività del lavoro e, quindi, del rendimento fornito dal lavoratore.
Altre forme sono la retribuzione in natura, oggi in disuso, che può trovare applicazione nel lavoro domestico o agricolo; la provvigione, che consiste in una percentuale sugli affari conclusi dal prestatore; la partecipazione – in tutto o in parte – agli utili e al capitale; le retribuzioni differite, emolumenti che pur maturando durante il rapporto di lavoro, vengono erogati in un momento successivo.
La concreta determinazione della misura della prestazione è stabilita dalla contrattazione collettiva oppure dall’accordo delle parti o anche dal giudice nel caso che manchino i due elementi menzionati.
Luogo del rapporto di lavoro
La prestazione lavorativa deve essere eseguita nel luogo determinato dal contratto, dagli usi o desumibile dalla natura della prestazione, anche se vi possono essere deroghe come quella relativa al lavoro a domicilio o al telelavoro.
Come detto, la decisione di un trasferimento del lavoratore deve essere motivata. Diverso è il caso della trasferta che si ha quando c’è un cambiamento solo provvisorio del luogo della prestazione.
Durata del rapporto di lavoro, riposi, ferie.
L’orario normale di lavoro è fissato di regola su base settimanale e ha, come limite massimo, quello di 40 ore settimanali. Tuttavia, i contratti collettivi di lavoro possono stabilire, ai fini contrattuali, una durata minore.
Non è prevista una durata massima giornaliera della prestazione lavorativa, ma è specificamente stabilito che il lavoratore ha diritto a 11 ore di riposo consecutivo ogni 24. Se l’orario giornaliero eccede il limite di sei ore, il lavoratore ha diritto a pause al fine di recuperare le energie psicofisiche e consumare il pasto.
Il lavoro straordinario è compensato con delle maggiorazioni retributive stabilite dai contratti collettivi oppure, in alternativa o in aggiunta, con riposi compensativi. Il decreto legislativo 66/2003 ha fissato il principio che il lavoro straordinario deve essere contenuto.
Il lavoro straordinario è legittimo solo se c’è accordo tra datore e lavoratore e non superi le 250 ore annuali.
Il lavoro notturno deve essere retribuito con una maggiorazione rispetto a quello diurno. Considerata la gravosità, il datore di lavoro ha l’obbligo di accertare lo stato di salute del dipendente attraverso controlli periodici e preventivi, secondo le disposizioni di legge e dei contratti collettivi.
Si intende per lavoro notturno l’attività svolta nel corso di un periodo di almeno 7 ore consecutive comprendenti l’intervallo fra le 24 e le ore 5 del mattino”.
Il lavoratore ha diritto a un periodo di riposo di almeno 24 ore consecutive ogni sette giorni (riposo settimanale) e al riposo annuale, cioè le ferie. Il periodo annuale di ferie retribuite non può essere inferiore a quattro settimane.
Secondo la giurisprudenza prevalente, la malattia del lavoratore durante il periodo delle ferie determina la sospensione del decorso delle ferie stesse.
Al lavoratore subordinato è consentito di effettuare delle soste per occuparsi di impegni di carattere civile e personale. Queste soste sono i permessi e i congedi che possono essere retribuiti o non retribuiti a seconda dell’attività da svolgere.
Particolari permessi sono previsti per i lavoratori con handicap o per i loro familiari (art. 42 D. lgs. 151/2001).
I lavoratori subordinati possono fruire altresì di speciali permessi retribuiti o congedi non retribuiti fino a un massimo di due anni in caso di eventi particolari, come gravi motivi familiari.
È prevista inoltre la possibilità di fruire di appositi congedi per finalità formative.
Sospensione del rapporto di lavoro
Possono essere molteplici i motivi di sospensione del rapporto di lavoro, sia per fatti che dipendono dal lavoratore sia per fatti che dipendono dal datore di lavoro.
La cassa integrazione guadagni ordinaria (CIG) è prevista in caso di contrazione o sospensione dell’attività produttiva dipendente da situazioni aziendali come eventi transitori e non imputabili all’imprenditore o ai dipendenti, oppure a situazioni temporanee di mercato.
In questi casi l’INPS assicura ai dipendenti, con qualifica di operaio, impiegato o quadro intermedio, una indennità nella misura dell’80% della retribuzione globale.
La cassa integrazione guadagni straordinaria (CIGS), prevista per le aziende che abbiano almeno 15 dipendenti, opera in caso di sospensione o riduzione di attività motivate da ristrutturazione, riorganizzazione o riconversione aziendale; crisi aziendale particolarmente rilevante; fallimento, liquidazione coatta amministrativa, amministrazione straordinaria, ecc.
Altre cause di sospensione sono l’infortunio o la malattia professionale che colpisce un lavoratore, il servizio militare o civile, l’aspettativa e lo sciopero.
In caso di malattia, il lavoratore deve giustificare l’assenza mediante apposita certificazione che, a seguito della legge n. 183/2010, deve essere trasmessa per via telematica direttamente dal sanitario all’istituto previdenziale il quale dovrà comunicarla al datore di lavoro.
Il datore di lavoro può accertarsi sullo stato del dipendente esclusivamente per mezzo di medici delle ASL e in determinate fasce orarie di reperibilità.
Cessazione del rapporto di lavoro
Un rapporto di lavoro può cessare per scadenza del termine, per un accordo tra le parti, per eventuale impossibilità sopravvenuta della prestazione o per forza maggiore (es. distruzione dell’azienda per fatti naturali), per cause specifiche previste dalla legge (es. superamento del periodo di comporto o mancato rientro in azienda del lavoratore a seguito di provvedimento di reintegra), per recesso del lavoratore (dimissioni volontarie), recesso del datore di lavoro (licenziamento).
Il licenziamento può essere liberamente esercitato soltanto in casi limitati previsti dalla legge ed è nullo se ispirato da motivi illeciti. Deve essere pertanto esercitato solo per giusta causa.
Il licenziamento per giusta causa (art. 2119 cc) viene effettuato per fatti o comportamenti posti in essere dal lavoratore, di tale gravità da far venire meno irrimediabilmente la fiducia nel rapporto. In tali casi il datore di lavoro ha facoltà di recedere senza l’obbligo di preavviso.
Il licenziamento per giustificato motivo (art. 3 L. n. 604/1966) può essere di natura soggettiva o oggettiva. Il giustificato motivo soggettivo si ha in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro; il giustificato motivo oggettivo può essere intimato per fatti che riguardano l’attività produttiva, l’organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento della stessa. In questo caso il datore di lavoro dovrà dimostrare le ragioni effettive del licenziamento e l’impossibilità di utilizzare diversamente i lavoratori licenziati.
Il licenziamento deve essere intimato dal datore di lavoro in forma scritta.
La motivazione del recesso non deve essere necessariamente contenuta nell’atto di intimazione, ma il lavoratore può chiedere – entro 15 giorni dalla comunicazione – i motivi che hanno determinato il recesso.
Nei sette giorni dalla richiesta del lavoratore, il datore di lavoro ha l’obbligo di comunicare per iscritto i motivi.
Il lavoratore ha l’onere di impugnare il licenziamento entro 60 giorni, con qualsiasi atto scritto anche extragiudiziale. È stato soppresso l’obbligo di effettuare il tentativo di conciliazione extragiudiziale.
L’obbligo di proporre l’azione giudiziale è imposto onde evitare l’inefficacia dell’impugnazione, depositando il ricorso entro i successivi 270 giorni. Nello stesso termine temporale il lavoratore può optare per una soluzione conciliativa; in caso di rifiuto o mancato accordo della controparte, il ricorso al giudice deve essere depositato entro 60 giorni. Il mancato rispetto di suddette regole rende inefficace il licenziamento.
A seguito di impugnazione, il giudice può accertare l’inefficacia del licenziamento, perché intimato senza il rispetto delle prescritte formalità; la nullità del licenziamento in caso esso sia discriminatorio; annullamento per mancanza di giusta causa o giustificato motivo.
In caso di licenziamento illegittimo, se il numero dei lavoratori è inferiore alle quindici unità, il datore di lavoro può scegliere tra la riassunzione entro tre giorni e il pagamento di un’indennità fissata dal giudice tenendo conto delle dimensioni dell’impresa, del numero dei lavoratori, dell’anzianità di servizio, ecc.
Se il numero dei dipendenti è superiore alle quindici unità è applicabile l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori che prevede un sistema di tutela assai più incisivo che prevede, oltre al reintegro in servizio, il risarcimento del danno con un’indennità pari alla retribuzione globale dal giorno del licenziamento a quello dell’effettiva reintegrazione (in ogni caso non inferiore alle 5 mensilità).
Il licenziamento discriminatorio è nullo in partenza. I lavoratori devono essere reintegrati e risarciti indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda.
A volte il licenziamento può essere collettivo per riduzione di personale dovuta a riduzione, trasformazione o cessazione di attività.
I lavoratori vengono iscritti in apposite liste privilegiate di disoccupazione allo scopo di assicurare la c.d. mobilità dei lavoratori licenziati.
Il licenziamento è vietato nei casi di: matrimonio del lavoratore, stato di gravidanza e puerperio, infortunio o malattia professionale, malattia generica, richiamo alle armi, dirigenti delle rappresentanze sindacali aziendali, lavoratori eletti a svolgere pubbliche funzioni, lavoratori che partecipano a scioperi.
Trattamento di fine rapporto
L’articolo 2120 del c.c. prevede che in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto a un trattamento di fine rapporto.
Tale trattamento si calcola accantonando, al termine di ciascun anno di servizio, una quota pari e comunque non superiore all’importo della retribuzione dovuta per l’anno stesso, diviso per 13,5.
Ha carattere retributivo con funzione previdenziale perché costituisce quella parte della retribuzione che viene differita al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
Si può però avere una certa disponibilità anticipata (almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro) non superiore al 70%.
Il fondo di garanzia, istituito presso l’Inps, è previsto per i dipendenti che non possono riscuotere il trattamento di fine rapporto nei casi di insolvenza dei datori di lavoro.
LA LEGGE BIAGI
La cosiddetta Legge Biagi si pone come finalità quella di “aumentare i tassi di occupazione e promuovere la qualità e la stabilità del lavoro, anche attraverso contratti a contenuto formativo e contratti a orario modulato compatibili con le esigenze delle aziende e le aspirazioni dei lavoratori”.
Finora erano conosciute essenzialmente tre categorie di lavoratori: i lavoratori subordinati, i lavoratori autonomi e i c.d. lavoratori parasubordinati (non definiti dal codice civile ma richiamati nell’art. 409 del codice della procedura civile).
La figura del lavoratore parasubordinato è più simile a quella del subordinato per il rapporto che si viene a creare con il datore di lavoro che non al lavoro autonomo.
Per questa tipologia sono state individuate alcune caratteristiche principali:
Le figure tipiche di questa tipologia sono l’agenzia e i mandati professionali come quello di amministratore di società o di condominio o quello dei medici in convenzione.
Questo quadro di massima ha portato un notevole contenzioso per stabilire il tipo di rapporto tra società e lavoratore. È qui che si inserisce la riforma Biagi.
Tratti essenziali della Legge Biagi
È un disegno complessivo definito “neo liberista”.
I suoi capisaldi sono:
Le principali innovazioni
Il decreto Biagi ha introdotto la disciplina del contratto di somministrazione, modificando anche le discipline del contratto di appalto e dell’interposizione di manodopera.
La nuova figura della somministrazione di lavoro si definisce (all’art. 2) come “la fornitura professionale di manodopera a tempo indeterminato o a termine”. Le disposizioni hanno carattere sperimentale e sono soggette a revisione previa relazione del ministero del lavoro al parlamento, come disposto dall’art. 86, comma 12.
Le tre figure contrattuali – somministrazione, appalto e distacco – sono distinguibili soprattutto in base all’esercizio dei poteri (direttivo, organizzativo e di controllo) e del rischio di impresa dell’appaltatore o dell’utilizzatore, e dell’interesse economico o meno del datore di lavoro distaccante o fornitore.
La rilevanza della somministrazione, soprattutto a tempo determinato, è data dalla possibilità del datore di lavoro al ricorrere di determinate condizioni e per lo svolgimento di specifiche attività, di concludere un contratto con una società anche a tempo determinato, senza che questi entrino a far parte del personale dipendente della società utilizzatrice.
La legge n. 247/2007 ha abolito la possibilità di stipulare il contratto di somministrazione a tempo indeterminato.
Sono state introdotte poi, nella legge Biagi, nuove tipologie di lavoro flessibile: il lavoro intermittente e il lavoro ripartito, sotto il profilo pratico tipologie che saranno poco utilizzate perché di scarsa utilità nella scelta delle opzioni da parte del datore di lavoro. Il lavoro a intermittenza, infatti, presenta l’incognita della qualificazione della c.d. indennità di disponibilità cui ha diritto il lavoratore in attesa di chiamata. Collegandola all’art. 36 della Costituzione sarebbe scarsa la convenienza del datore di lavoro che dovrebbe pagare tale indennità in misura adeguata alle esigenze di vita pur senza far lavorare colui che retribuisce.
Il lavoro ripartito – detto anche job sharing – prevede un vincolo di solidarietà tra due lavoratori responsabili di un’unica prestazione lavorativa. Per il datore di lavoro porta più problemi che benefici a causa della duplicazione dei costi accessori e per le necessità organizzative.
Il contratto di lavoro a progetto
È un contratto d’opera che deve però rispettare molti vincoli legati al progetto o programma, in assenza dei quali vi è presunzione assoluta di esistenza di lavoro subordinato.
In sostanza, dall’entrata in vigore della riforma, non potranno più essere stipulati contratti di collaborazione coordinata e continuata se non sono riconducibili a uno o più progetti specifici.
Nell’intenzione della riforma, il lavoratore a progetto dovrebbe sostituire il parasubordinato in tutte le ipotesi in cui sia reale l’esistenza di una collaborazione di tipo non pienamente subordinata.
Con la disciplina del lavoro occasionale invece non si regola in realtà un nuovo tipo contrattuale, già esistente, ma si dettano norme di natura fiscale e previdenziale, con l’introduzione di ticket pre-pagati per le singole ore di lavoro comprensivi dei contributi previdenziali e assicurativi, che tendono a favorire l’emersione del lavoro sommerso.
La certificazione dei contratti. L’effetto stand-by e l’attività ispettiva degli enti previdenziali. Il documento unico di regolarità contributiva
Tra gli strumenti di semplificazione introdotti dalla riforma Biagi, il più importante è quello della certificazione dei contratti (art. 75 della riforma).
Tale certificazione ha la funzione di far qualificare da enti autorizzati il contratto di lavoro, di regolamentazione dell’assetto negoziale, di assistenza alle parti. Affinché abbia vigore la disciplina sono necessarie le norme attuative di individuazione degli enti bilaterali e delle università ai quali è attribuito il potere di certificazione.
Detta certificazione non ha valore vincolante nei confronti del magistrato del lavoro, ma ha valore tra le parti stipulanti e con i “terzi”, intesi come gli organi ispettivi del lavoro, compresi quelli degli enti previdenziali.
Con la recente riforma del 2010 il legislatore ha voluto rafforzare ulteriormente l’istituto della certificazione, al fine di ridurre il contenzioso e di proteggere la validità dei rapporti di lavoro certificati. La certificazione non avviene solo all’inizio del rapporto, ma può esserci anche durante lo svolgimento dello stesso e in più di un’occasione.
Ciò che viene posto in stand-by fino a una pronuncia giudiziaria conforme, sono gli effetti dell’accertamento ispettivo dal quale risultino delle irregolarità e ciò anche ai fini di un eventuale iscrizione a ruolo o richiesta di decreto ingiuntivo per omissioni o sanzioni conseguenti all’accertamento.
I poteri ispettivi, ora disciplinati dal decreto legislativo 23 aprile 2004, integrato da norme successive tra cui la legge n. 183/2010, comprendono non solo l’accesso ai luoghi di lavoro ma anche la possibilità di emettere diffide e irrogare sanzioni.
Il Durc – documento unico di regolarità contributiva – prevede la necessità per le imprese che vogliano accedere a contributi, norme premiali o anche solo partecipare a gare di appalti pubblici, di dimostrare la regolarità e correntezza nel versamento dei contributi previdenziali e premi assicurativi.
La disciplina del Durc costituisce uno stimolo per i datori di lavoro a mantenere la regolarità nei pagamenti agli enti previdenziali anche in relazione alle conseguenze limitative sulla loro attività imprenditoriale.
Conclusioni
Le logiche della riforma sono nel tentativo di spostamento di prospettiva dalla tutela del lavoratore alla tutela del mercato, alla flessibilità del mercato del lavoro e a consentire al datore di lavoro sia la scelta fra diverse possibili forme del rapporto di lavoro con i dipendenti sia anche la c.d. esternalizzazione e segmentazione dell’attività produttiva dell’azienda.
Alla luce della riforma Biagi non può più parlarsi di tre sole categorie di lavoratori, in quanto il quadro è ora diventato molto più ampio e variegato.
Privatizzazione del pubblico impiego
La privatizzazione del pubblico impiego consiste essenzialmente nell’applicazione delle disposizioni di diritto privato al rapporto di pubblico impiego; nell’applicabilità della disciplina della contrattazione collettiva; nell’assegnazione alla pubblica amministrazione/datrice di lavoro i medesimi poteri di gestione del rapporto tipici del datore di lavoro privato.
Il Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ha riordinato l’intera disciplina del pubblico impiego.
La nuova riforma del pubblico impiego è intervenuta fondamentalmente su tre profili:
La riforma Brunetta
Le linee guida del progetto di riforma sono:
Fonte: http://www.studiosartoritn.it/clie_dw_dl.php?id=4326
Sito web da visitare: http://www.studiosartoritn.it
Autore del testo: non indicato nel documento di origine
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"Ciò che sappiamo è una goccia, ciò che ignoriamo un oceano!" Isaac Newton. Essendo impossibile tenere a mente l'enorme quantità di informazioni, l'importante è sapere dove ritrovare l'informazione quando questa serve. U. Eco
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