Diritto del lavoro domande e risposte

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Diritto del lavoro domande e risposte

 

 Il contratto di lavoro nel secolo XX
Luigi Mengoni       

 

1. Il diritto del lavoro, nel senso stretto di diritto del contratto di lavoro, nasce sul finire del secolo XIX in connessione con la seconda rivoluzione industriale, che in Italia sopravviene con un ritardo di almeno vent’anni rispetto ai paesi europei più progrediti. Le grandi imprese di produzione in serie, organizzate con macchine e impianti complessi, modificano profondamente gli assetti del mercato conferendo importanza prevalente ai rapporti di scambio dei beni strumentali e dei capitali di investimento; in pari tempo la concentrazione nelle fabbriche di masse di lavoratori (“divenuti moltitudine”) acutizza la “questione operaia”  provocando l’intervento dello Stato con provvedimenti restrittivi della libertà di mercato in ordine al fattore lavoro.
L’economia di mercato, in cui il processo di produzione è organizzato nella forma della compravendita, richiede che tutti i fattori della produzione siano trattati come merci. La descrizione fittizia del lavoro come bene di scambio produce sul piano giuridico una deformazione della categoria romana della locatio operarum: coerentemente con la concezione della nuova società quale società di liberi proprietari, nel codice Napoleone oggetto della locazione delle opere (louage d’ouvrage et d’ industrie) sono le energie lavorative in sé considerate astraendo dalla persona del lavoratore. Perciò il primo intervento dello Stato, in opposizione alla tendenza del sistema economico alla reificazione del lavoro, è una legislazione speciale – fortemente radicata nel diritto pubblico – in materia di organizzazione del lavoro nelle fabbriche a tutela dell’integrità fisica e della salute dei lavoratori. Le leggi sul lavoro nelle miniere, sulla prevenzione degli infortuni e l’igiene del lavoro, sul lavoro delle donne e dei fanciulli, sull’orario e sui riposi, mentre erigono un reticolo di limiti esterni al potere organizzativo delle imprese, dal punto di vista privatistico della disciplina del contratto (Barassi, Contratto di lavoro², II, 1917, 328 s., nota 4, vedeva nella legislazione sociale una “pura riforma di diritto privato”) si coordinano con una ratio protettiva della condizione di parte debole, priva di effettivo potere di autonomia, in cui versa l’operaio. Questa ratio si fa portatrice di una esigenza di limitazione della regola del mercato anche in ordine alla determinazione delle condizioni dello scambio, specialmente dei salari. A questa istanza il legislatore rispose indirettamente con un provvedimento generale di grande rilievo politico-sociale. L’abolizione del reato di coalizione nel codice penale del 1890 (entrato in vigore il 1° gennaio 1891) favorì, attraverso lo sviluppo dell’associazionismo operaio, il recupero di potere contrattuale dei lavoratori nella forma del mercato collettivo del lavoro (cfr. F. Carnelutti, RDC, 1909, I, 418); ma sul piano giuridico-formale non modificò la struttura del rapporto di lavoro, che rimase fondamentalmente legata allo schema della locazione.
L’autonomia contrattuale dei privati significa libertà delle parti di darsi un regolamento di interessi sul quale si verifica una convergenza delle loro volontà; non garantisce un potere equilibrato di influire sulla determinazione del contenuto del contratto, ma la libera decisione di ciascuna parte di stipulare il contratto a certe condizioni sulle quali l’altra conviene. Per il diritto civile la questione decisiva è: “quali turbative e pregiudizi alla libertà di decisione sono così rilevanti da incidere sulla validità o sull’efficacia del regolamento negoziale?”. Tale rilevanza è riconosciuta tradizionalmente solo in casi determinati, previsti dalla legge come vizi della volontà. Di qui il rifiuto della dottrina civilistica, e in particolare di Ludovico Barassi nelle due edizioni della sua opera fondamentale, di attribuire valore determinante alla tipologia dell’operaio dell’industria (M. Pedrazzoli, Democrazia industriale e subordinazione, 1995, 56; L. Spagnuolo Vigorita, RDC, 1969, I, 569), di legare la teoria generale del contratto di lavoro a una fattispecie connotata dal dato socio-economico della mancanza di effettivo potere contrattuale del lavoratore nei confronti di chi dispone dei mezzi di produzione, insomma di costruire il diritto del lavoro come diritto di classe (Barassi, I ed., 1901, 12, nota 1). Nel solco della tradizione del codice civile la differenza specificadel contratto di lavoro rispetto al paradigma della locazione è da lui individuata in una modalità della prestazione di lavoro inseparabile dalla persona del lavoratore, la quale perciò “necessariamente rientra nella posizione contrattuale” (II ed., I, 1915, 468). Questa modalità, riferita a dati giuridico-formali, è la destinazione (concordata) della prestazione a svolgersi sotto la direzione del datore, ravvisata quale elemento tipico della promessa scambiata dal lavoratore contro promessa di un corrispettivo (I, 467, 615 s.): in questo senso stretto e tecnico al sintagma “obbligare la propria opera al servizio altrui”, che definisce la locazione delle opere nell’art. 1628 n. 1 del codice 1865, si sostituisce il termine “subordinazione”.
L’innesto della subordinazione nel contenuto, e quindi nella causa, del contratto soddisfa l’istanza di ripersonalizzazione del rapporto rispettando il principio civilistico di uguaglianza formale, il quale esclude che i contratti possano differenziarsi per diversità delle posizioni economiche delle parti e implica logicamente la “necessità (di) considerare (“fingere”) libero il consenso dell’operaio come di qualunque altro contraente” (E. Redenti, Massimario della giurisprudenza dei probiviri, 1906, 21, nota 5, 22, n. 8-bis). Barassi non era “un reazionario piccolo piccolo” (U. Romagnoli, Il lavoro in Italia, 1995, 63), anche se la sua prosa sembra a volte intinta di dottorale arcaicità; non era un giurista della stazza di un Carnelutti o di un Redenti, ma a questi “intoccabili” lo accomunava la convinzione che il sistema del diritto civile non può essere forzato dalle domande di innovazione provenienti dall’ambiente sociale oltre la misura in cui è possibile amalgamarle nei processi di ridefinizione della sua razionalità. Questa misura, precisava Redenti (Mass., 22, nota 9), è “condizione imprescindibile di ogni convivenza sociale, nonché (in proporzione diretta) di ogni suo sviluppo e progresso”.  Proprio la costruzione teorica di Barassi consentì l’integrazione sistematica nell’ordinamento vigente delle nuove regole elaborate dai probiviri a tutela dei lavoratori.    
Considerata quale “stato liberamente voluto dal lavoratore” (Barassi, I, 622), la subordinazione assume un significato opposto alla logica originaria di distacco dalle ragioni del diritto civile, propria dei primi interventi della legislazione sociale. Referente delle leggi speciali è lo stato di soggezione al potere (esterno) di mercato dell’imprenditore, cui l’operaio è astretto dalla sua condizione sociale di proletario e che occorre moderare sia con minimi legali di condizioni dello scambio, sia vincolando l’organizzazione e gli ambienti di lavoro nelle fabbriche a minimi di tutela dell’integrità fisica, della salute e della personalità morale dei lavoratori. Non in termini di asimmetria di potere di mercato è rilevante la subordinazione nel tipo normativo (depurato da riferimenti sociologici) sotteso alla teoria civilistica, ma come elemento qualificante della prestazione promessa dal lavoratore: è sinonimo di eterodirezione, di mancanza di autogestione dell’attività di lavoro dedotta in contratto. Così intesa, nel senso (positivo) di modo di partecipazione al processo della produzione sociale, la subordinazione non è percepita come disvalore appunto perché liberamente voluta dal lavoratore. A distanza di cinquant’anni la “finzione contrattuale”, di cui parla Redenti nel passo sopra citato, è potuta apparire a una riflessione critica meditata anche con l’ausilio dell’esperienza, oltre che una condizione logica di possibilità di integrazione del contratto di lavoro nel sistema giuridico vigente, “una prima, elementarissima garanzia della libertà del lavoratore” (G. Giugni, Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva, 1960, 89).
Le conseguenze pratiche di siffatta impostazione sono di grande rilievo sia sul piano della legislazione sia sul piano dell’interpretazione e dell’applicazione, e non tutte di segno positivo.
Ne è derivato anzitutto uno squilibrio delle tutele, recentemente osservato anche dall’Unione europea. Il legislatore italiano pecca per eccesso nella tutela dei lavoratori sui luoghi di lavoro e nelle garanzie di stabilità del posto di lavoro, per difetto nella tutela sul mercato: indennità di disoccupazione insufficienti, servizi di informazione dei lavoratori, di orientamento e di formazione o riqualificazione professionale inefficienti, un servizio pubblico di collocamento che, pur dopo la regionalizzazione, è poco definire “un modello di scarto” (G. Giugni, Lavoro, legge, contr., 1989, 300). Per la medesima ragione l’Italia non ha mai avuto una legislazione sui minimi di tariffa, a parte il tentativo abortito della  legge n. 741 del 1959, operante peraltro con la tecnica del rinvio materiale ai minimi dei contratti collettivi.
Un’altra conseguenza ha preso corpo nella tendenza espansiva del diritto del lavoro (P. Greco, Contratto di lavoro, 1939, 31, 61; F. Santoro-Passarelli, Nozioni di diritto del lavoro, I ed. 1945; 35° ed., rist. agg., 1991, 80). Non solo la fattispecie imperniata sul concetto formale di subordinazione supera la connotazione originaria di droit ouvrier (o droit industriel) e tende a ricomprendere tutte le figure di lavoro alle dipendenze altrui, dal lavoro impiegatizio (definito dall’art. 1 della legge sull’impiego privato, nelle due edizioni del 1919 e del 1924, come tipo contrattuale a se stante, poi divenuto un’ipotesi del contratto di lavoro estesa alla categoria dei dirigenti, non esclusi quelli di vertice) fino al lavoro a domicilio (dich. XXI Carta del lavoro del 1927; art. 2128 c.c. del 1942), ma pure la disciplina a essa collegata  propone un modello universale di trattamento dei lavoratori con una forza di attrazione che ha investito anche un settore dei rapporti di lavoro autonomo. “La legislazione sociale non si preoccupa del lavoro autonomo”, scriveva Barassi nel 1915 (I, 617), ma si sbagliava nell’accreditare alla distinzione (logica) tra lavoro subordinato e lavoro indipendente una funzione normativa di spartiacque tra lavoro protetto e lavoro non protetto, la cui (supposta) rigidità egli stesso lamentava. Separata dalle matrici sociologiche, compendiate nella nozione di contraente debole, e riferita invece alle modalità della prestazione dedotta in contratto, la subordinazione diventa un concetto elastico che ha eroso progressivamente la fascia dei rapporti contigui. Nel 1939 Paolo Greco notava che “il lavoro subordinato di impresa si è andato sempre più sviluppando a discapito del lavoro autonomo”  (op. cit., 59).
Per giunta, come è stato osservato con efficace metafora, questa tendenza ha inoculato nel diritto del lavoro uno “strabismo precoce che lo porta a concedere tutela a chi non ne ha bisogno e a negarla a chi invece ne avrebbe” (Ghezzi-Romagnoli, Il rapporto di lavoro, 1984, 23). È uno strabismo così radicato da riprodursi anche là dove si tenta di correggerlo. Un recente disegno di legge (n. 5651), già approvato dal Senato, estende una serie di tutele del lavoro subordinato ai rapporti di lavoro autonomo detti di parasubordinazione, definiti in negativo con un criterio analogato al concetto di subordinazione e quindi tale da includere nel campo di applicazione della legge anche gli amministratori di grandi società per azioni, i grandi consulenti di imprese, gli esperti altamente specializzati di informatica e altre figure di professionisti che prestano le loro competenze e i loro know how a più committenti, con forte potere di mercato e totale autonomia di esplicazione della loro professionalità.

2. La seconda fase della vicenda del rapporto di lavoro nel secolo XX si colloca nel periodo tra le due guerre e culmina nel codice civile del 1942, in cui si compendia l’esperienza del periodo sindacale-corporativo. Il nuovo codice ha tipizzato la subordinazione come criterio di qualificazione del contratto di lavoro, ma il tipo legale definito dall’art. 2094 non corrisponde alla fattispecie generale teorizzata da Barassi, nella quale la subordinazione è una modalità qualificante indipendentemente da determinazioni spazio-temporali o afferenti alle finalità economiche per cui la prestazione è utilizzata dal datore. Il codice ha trasformato in archetipo (affetto, come ogni archetipo, dal pericolo di sovraccarico della pretesa di universalità) quello che per Barassi era un sotto-tipo (contratto di lavoro industriale: I, 767 ss.), benché riferito all’ipotesi socialmente prevalente del lavoro nell’impresa. Inoltre, la concezione istituzionalistica dell’impresa sottostante all’art. 2086 si riflette nella definizione dell’art. 2094 restringendone ulteriormente il referente socio-economico all’impresa medio-grande e modificando il concetto di subordinazione nel senso di uno stato di dipendenza gerarchica  mediato dall’inserimento del lavoratore nell’organizzazione produttiva di cui l’imprenditore è il capo. La definizione legale deriva dalla dottrina di P. Greco (in cui si avverte l’influsso delle concezioni organicistiche dell’impresa correnti in Germania tra i giuslavoristi weimariani),secondo cui “il contratto di scambio in sé e per sé non indurrebbe senz’altro lo stato di subordinazione, ove non si combinasse con l’ingresso e la permanenza, stabile o transitoria, del lavoratore nella organizzazione dell’impresa” (op. cit., 60). In quest’ordine di idee, che considera il lavoro subordinato prevalentemente nel momento del rapporto, anziché in quello della costituzione del rapporto medesimo, l’art. 96 disp. att. sposta il “momento dell’assunzione” dalla stipulazione del contratto all’atto successivo di inquadramento del lavoratore nell’organico dell’impresa con assegnazione della categoria, della qualifica e del grado gerarchico corrispondenti alle mansioni concordate. Nonostante l’ammonimento del risistematore del diritto del lavoro nell’ordinamento postcorporativo a non sopravvalutare la portata normativa di questo aspetto del codice (F. Santoro-Passarelli, Nozioni, 131), la considerazione prevalente degli elementi del rapporto (correlata alla svalutazione della volontà contrattuale) è stata una costante della giurisprudenza almeno fino alla metà degli anni ’80 e la principale responsabile degli eccessi nella spinta espansiva delle tutele del  lavoro subordinato.
Nella concezione originaria del codice il nesso causale della subordinazione con l’inserimento del lavoratore nell’impresa altera la purezza dello schema dello scambio creando una sfasatura tra la fattispecie contrattuale e gli effetti. La funzione di elemento organizzativo dell’impresa assume una rilevanza integrativa del rapporto di lavoro con posizioni di comando e di soggezione non giustificate dalla logica paritaria del contratto e fondate nella struttura gerarchica dell’impresa (per esempio, il potere disciplinare non è, come nell’ordinamento precorporativo, un elemento del potere direttivo derivante dal contratto, soggetto alla misura delle pene private convenzionali, ma è un potere distinto fondato sull’interesse dell’impresa al mantenimento dell’ordine dell’organizzazione, e fatto oggetto di una disciplina autonoma delegata dall’art. 2106 alla contrattazione corporativa). Correlativamente l’autonomia individuale viene ridotta entro una cerchia sempre più stretta di norme inderogabili (leggi e contratti collettivi stipulati da sindacati di diritto pubblico ed elevati a fonti formali di diritto) dotate di automatica efficacia sostitutiva delle clausole difformi di contratti o regolamenti di diritto privato. Pur staccata dagli originari presupposti ideologico-istituzionali, la tecnica della norma inderogabile ha segnato profondamente fino a oggi il nostro diritto del lavoro (salvo l’intervallo degli anni ’50) imprimendogli una forte inclinazione autoritaria che ha rovesciato il principio generale della libertà di determinazione del contenuto del contratto sancito dall’art. 1322 c.c. (De Luca Tamajo, La norma inderogabile nel diritto del lavoro, 1976).

3. La terza fase della vicenda del contratto di lavoro nel secolo che sta per concludersi occupa gli anni del dopoguerra fino al 1970 e coincide col primo periodo della Costituzione repubblicana.  
Fino al 1960 il codice civile, con l’aggiunta di poche leggi (l. n. 264 sul collocamento; l. n. 860 del 1950 sulla tutela delle lavoratrici madri; l. n. 25 del 1955 sull’apprendistato), rimane la fonte legale principale di disciplina del rapporto di lavoro. Cadute le sovrastrutture del diritto corporativo, l’interpretazione rientra nei binari delle  categorie civilistiche, congeniali agli imperativi di razionalità tecnico-organizzativa dell’ideologia tecnocratica. L’alleanza tra democrazia industriale e tecnocrazia – fondata da un lato sulla conferma, pur nel riemergere del conflitto di classe, del consenso di fondo del movimento operaio all’organizzazione capitalistica del lavoro, compensato da forme contrattate ai livelli aziendali di partecipazione dei lavoratori ai benefici del progresso tecnologico, dall’altro sull’art. 36 cost., che fornisce alla giurisprudenza la base per una estensione generalizzata (col meccanismo automatico dell’art. 2077 c.c.) dei minimi di trattamento economico-normativo stabiliti dai nuovi contratti collettivi di diritto comune – questa  alleanza,  progredita nel vuoto legislativo di quegli anni (libertas silentium legis), è stata una delle forze motrici della rapida trasformazione dell’Italia da paese agricolo, con una industria arretrata sostenuta da sovvenzioni statali e da rigide protezioni doganali, in un paese industriale avanzato, capace di competere sui mercati internazionali. 
Gli anni ’60 (i primi, a partire dal 1962, dei governi di centro-sinistra) sono densi di sviluppi di tutto il diritto del lavoro. Basti pensare, fuori dal nostro tema, alla rottura nel 1962 dell’unità contrattuale dei datori di lavoro dell’industria con conseguente duplicazione della contrattazione collettiva in questo settore e crescenti scompensi tra aumenti salariali e produttività, oppure alla riforma della previdenza sociale del 1969, non bene calcolata nelle sue conseguenze di lungo periodo. Per quanto riguarda il contratto di lavoro, il mutamento interessa sia la legislazione sia la dottrina sia la giurisprudenza. 
Prende avvio in questi anni una sequela di leggi che progressivamente irrigidiscono le strutture normative del rapporto  incidendo sull’autonomia privata anche sotto il profilo della libertà di scelta del tipo contrattuale e, per gli imprenditori, della libertà di uscita dal rapporto. Capostipite di queste leggi non è tanto la l. n. 1361 del 1960 (divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro), quanto la l. n. 230 del 1962 sul contratto di lavoro a tempo determinato. Integrata di lì a poco da una disciplina restrittiva del potere di licenziamento (l. n. 604 del 1966, potenziata dall’art. 18 della l. n. 300 del 1970, modificato dalla l. n. 108 del 1990), la legge vincola il lavoro subordinato a un unico schema di contratto: il contratto a durata indeterminata e a tempo pieno, munito nelle imprese medio-grandi di forti garanzie di stabilità tali da formare la piattaforma di una carriera analogamente all’impiego pubblico. Solo più tardi, quando finì il tempo felice in cui l’Italia conobbe una situazione di pieno impiego (nel 1963 la disoccupazione scese al 2,5 per cento, il livello più basso della nostra storia economica), il “diritto dell’emergenza” comincerà a rendersi conto del rovescio di siffatto principio: il lavoratore che non riesce a trovare uno sbocco sul mercato nella forma privilegiata del posto fisso non ha altra alternativa se non il lavoro nero o la disoccupazione totale di lunga durata.
Fortemente deviante dal sistema del codice civile, la legislazione di questi anni muta definitivamente la posizione sistematica del contratto di lavoro, che diventa oggetto di una autonoma disciplina speciale, retta da propri criteri di politica del diritto e anche da alcuni princìpi generali propri. Corrispondentemente, nel solco di un moto generale di rinnovamento della scienza giuridica in senso antiformalistico, si sviluppa negli anni ’60 una dottrina giuslavoristica indipendente dalla scienza del diritto civile, anche se ciò non vuol dire priva di connessioni con quest’ultima e affrancata dal bisogno di ricorso alle sue categorie concettuali: una dottrina dogmaticamente più elastica, arricchita da aperture al pensiero giuridico di altri paesi, specialmente dei paesi anglosassoni, all’economia e alla sociologia del lavoro e integrata da apporti di sapere empirico, ma sempre, nelle importanti monografie apparse in questo decennio, metodologicamente controllata.
Nella giurisprudenza prevale la tendenza a estendere al massimo le tutele del lavoro subordinato con operazioni di qualificazione che svuotano di significato il concetto di  subordinazione fino a ridurlo in casi-limite a una formula magica che occulta il deficit argomentativo della decisione. La reazione della dottrina è di due specie: o si cerca, con rigorose analisi interpretative, di restituire consistenza tipizzante al criterio dell’art. 2094 c.c. (M. Persiani, Studi in onore di Santoro-P., 1972), oppure si assoggetta a critica storico-dogmatica la scelta di tale criterio compiuta dalla teoria del primo novecento per concludere con la proposta di un metodo di qualificazione diverso dal tradizionale metodo sussuntivo (L. Spagnuolo Vigorita, Subordinazione e diritto del lavoro, 1967).  Ma il decennio successivo ai rivolgimenti degli anni 1968-70 non fu propizio a discussioni metodologiche o ad approfondimenti interpretativi. L’attenzione della dottrina fu catturata da un mutamento normativo di prima grandezza, maturato in un nuovo clima sociale e politico, che modificò profondamente gli equilibri dei rapporti sociali di produzione. E nel nuovo clima, agitato dall’ideologia rampante, mutarono anche lo stile del diritto del lavoro e i suoi interlocutori (cfr. M. D’Antona, RCDP, 1990, 207 ss.;  M. Persiani, Studi in memoria di D’Antona, di pross. pubbl.). 

4. Nei limiti del tema di questa relazione la domanda da porsi è se la legge n. 300 del 1970, nota col nome di “statuto dei lavoratori”,  abbia modificato lo schema causale del contratto di lavoro. La domanda non è nuova, ma oggi va riformulata diversamente alla luce della dottrina più recente.
Lo statuto ha rotto il principio tradizionale di neutralizzazione sindacale delle imprese, correlato al principio autoritario del sistema di fabbrica fordista, e ha aperto le porte delle unità produttive a forme di coalizione dei lavoratori promovendo un regime di democrazia industriale nei luoghi di lavoro. Le norme di sostegno (o promozionali) della presenza sindacale all’interno delle aziende hanno creato le condizioni di una interazione costante tra coalizione e subordinazione, che ha depotenziato la rilevanza giuridica attribuita dal codice alle “esigenze (o all’interesse) dell’impresa” come criterio di conformazione dei poteri dell’imprenditore e correlativamente ha attenuato il carattere gerarchico della subordinazione. Ma non si può dire che abbiano integrato strutturalmente la coalizione nella fattispecie del rapporto. Quella che i critici della seconda metà del secolo chiamano “la scelta di Barassi”, cioè l’individuazione nella subordinazione del criterio di qualificazione del rapporto, impedisce tecnicamente questa integrazione. Coalizione e subordinazione non sono coordinabili nel rapporto individuale di lavoro come poteri simmetrici: la coalizione è un potere collettivo di contrattazione, mentre il potere direttivo del datore, di cui la subordinazione del prestatore è il lato passivo, è un effetto del contratto, i cui modi di svolgimento possono, e alcuni debbono, formare materia di accordi  collettivi istituzionalizzati ai livelli aziendali. “In breve – conclude la critica – potere dei lavoratori e subordinazione sono incommensurabili in virtù di una coercizione definitoria”: incommensurabilità “relativa alla definizione di subordinazione e quindi di natura dottrinale-ideologica” (M. Pedrazzoli, Democrazia ind., 106). Ma come può una costruzione dottrinale vincolare l’interprete che non la condivide? La coercizione, se sussiste, non viene da una voce d’oltretomba, ma dalla norma definitoria dell’art. 2094, che ha codificato l’opzione dogmatica di Barassi.
Tra coalizione e subordinazione non può esservi se non una relazione di regola (pattizia) a regolato. Dopo la legge n. 300 del 1970 nel rapporto individuale di lavoro il pendant dei poteri   dell’imprenditore è il diritto di coalizione nel luogo di lavoro attribuito dall’art. 14 ai lavoratori uti singuli. Esso non realizza direttamente “un controbilanciamento delle autonomie” all’interno del rapporto: il suo esercizio crea un distinto rapporto collettivo, operante dall’esterno come fonte pattizia di regolazione dei poteri organizzativi e gestionali dell’impresa. Del resto l’uso conflittuale di questa parte dello statuto, ritagliata sul modello della fabbrica fordista, appare oggi in declino. È significativa la scomparsa dal lessico giuslavoristico del vocabolo “contropotere”, usato e abusato negli anni ’70 per denotare la funzione delle “norme di sostegno”.
Nemmeno le norme “garantistiche” hanno alterato la natura del contratto di lavoro, anzi le modificazioni di contenuto da esse apportate, estendendo la tutela contrattuale ai diritti fondamentali della persona che non possono essere coinvolti nel rapporto di subordinazione o possono esserlo, con adeguate garanzie, solo nella misura strettamente richiesta dall’interesse (oggettivo) dell’impresa, hanno assicurato un assetto più equilibrato degli interessi contrapposti e più coerente con la logica egualitaria del contratto.

5. La festa dello statuto fu guastata dallo shock petrolifero del 1973, che provocò una rovinosa svalutazione della moneta seguita da lunghi anni di inflazione a due cifre e da tassi crescenti di disoccupazione. Il legislatore fu costretto a intervenire (a partire dal 1977) con una serie di provvedimenti in controtendenza rispetto alla politica legislativa degli anni precedenti, che attenuarono le rigidità dell’impiego della manodopera (allentamento dei vincoli del collocamento pubblico obbligatorio, ampliamento delle possibilità di deroga al divieto di assunzioni a termine, istituzione del contratto di formazione e lavoro per i giovani) e frenarono gli incrementi del costo del lavoro. Per la prima volta nella storia del secondo dopoguerra fu applicata la tecnica della norma inderogabile all’autonomia collettiva in funzione di limite massimo della dinamica salariale. A questi provvedimenti la dottrina dette il nome di “diritto del lavoro nell’(o dell’) emergenza”, giudicandolo un fenomeno transitorio legato a una crisi congiunturale. Ma all’inizio degli anni ’80 fu chiaro che si era sovrapposta una crisi strutturale del sistema economico determinata dalla rivoluzione tecnologica, dall’estensione delle interconnessioni dei mercati a livello mondiale e dai conseguenti processi di riorganizzazione o ristrutturazione delle imprese in funzione di nuovi modi di produrre più efficienti e meno costosi. Il diritto dell’emergenza, integrato nel 1984 dalla legge sul part-time, diventò il nucleo iniziale di sviluppo, ancora lontanto dal compimento, del diritto del lavoro della società postindustriale.
Alla metà del decennio si apre una riflessione sullo stato del diritto del lavoro. Gli aspetti distorsivi dell’espansione delle tutele del lavoro subordinato, ostinatamente perseguita dalla giurisprudenza con l’elaborazione di una serie di indici empirici non previsti nella definizione dell’art. 2094 e sovente arbitrari, riportano in primo piano la questione della qualificazione. La Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3310 del 1995) corregge la rotta ritornando a Barassi (I, 615), ossia rivalutando la volontà negoziale come elemento cui si deve risalire quando i dati oggettivi del rapporto non forniscono indici probatori sicuri circa la natura subordinata o autonoma della prestazione di lavoro. La maggioranza della dottrina, invece, preferisce riprendere la proposta di revisione metodologica già formulata alla fine degli anni ’60. Nel metodo tipologico, di cui nel frattempo la dottrina civilistica aveva provveduto a fornire una base di teoria generale (G. De Nova, Il tipo contrattuale, 1974), si ritiene di trovare il mezzo idoneo a controllare e a frenare le pretese espansive del diritto del lavoro. La corrispondenza del caso concreto alla fattispecie legale si stabilisce mediante una descrizione selettiva degli elementi che maggiormente si approssimano all’ipotesi più frequente di lavoro subordinato (c.d. tipo normativo) sottostante al tipo definito dall’art. 2094 (cfr., per tutti, F. Carinci, R. De Luca Tamajo, P. Tosi, T. Treu, Diritto del lavoro³, 2, 31 ss.).
Si è obiettato giustamente che “in questo senso non si esce dallo schema logico della sussunzione” (Nogler, RIDL, 1990, 208; DLRI, 1991, 108). Ma anzitutto si deve obiettare che l’argomentazione giuridica, di cui è un modo il metodo tipologico (classico o funzionale che sia), non può sostituire la logica deduttiva, ma soltanto completarla ai fini della ricerca e della fondazione delle premesse. Il metodo tipologico implica sì un discorso su due piani, non però nel senso di una duplicazione delle fattispecie, l’una, definita dall’art. 2094, per la classificazione del rapporto nella categoria della subordinazione, l’altra determinata volta a volta confrontando col tipo normativo gli elementi (tipologicamente) descrittivi del caso concreto, per la determinazione della disciplina applicabile (cfr. Pedrazzoli, Democrazia ind., 277 ss.; 307 ss.). I due piani di discorso si riferiscono a un’unica fattispecie, quella legale, e si differenziano nei termini della teoria analitica del significato, distinguendo un nucleo comune a tutte le situazioni applicative e varianti di senso adeguate ai vari contesti. Il nucleo comune, definito a un livello più elevato di astrazione dall’analisi della struttura linguistica e logica del testo normativo, non va inteso nel senso di essenza necessaria (o sostanza) proprio dell’ontologia tradizionale, bensì secondo la nozione di essenza nominale, la quale si risolve nel concetto di significato (che è un concetto di relazione). È sufficiente che le varianti contestuali, che traducono il significato astratto della fattispecie legale in una proposizione applicabile al caso concreto (cioè in una regola concreta di decisione), siano identiche ai concetti della proposizione iniziale quanto a valore operazionale, non quanto a contenuto (cfr. J. Dewey, Logica, teoria dell’indagine, tr. it.², 1949, XVI, 416 s.). È sufficiente una relazione di equivalenza funzionale tra le varianti di significato definite in base al contesto delle concrete situazioni applicative e il contenuto proposizionale del testo, così da giustificare l’attribuzione anche a quelle, malgrado la diversità di contenuto, del nome di “subordinazione” (in senso analogo Nogler, RIDL, 1990, 210; DLRI, 1991, 112 ss.). Nei limiti del principio di equivalenza (intesa come “la capacità di sostituire delle significazioni nella serie di proposizioni che costituiscono il ragionamento”), la premessa minore della decisione  può avere, alla stregua della ricostruzione tipologica del caso concreto, un contenuto diverso da quello della proposizione iniziale in cui si esprime la premessa maggiore, mantenendo però un significato equipollente.
Non è qui il caso di insistere ulteriormente su problemi di metodo. Importa piuttosto notare che la querelle tra metodo sussuntivo e metodo tipologico sottende una questione di politica del diritto: la diversificazione dei modi della subordinazione, portata prima dalla forza di attrazione del diritto del lavoro, poi dall’avvento di nuove tecnologie e di nuove forme di produzione, pone un problema di flessibilità della disciplina dei rapporti di lavoro inerenti alle imprese. Ma nella giurisprudenza è sempre radicata la concezione unitaria del contratto di lavoro e quindi la convinzione che, una volta decisa positivamente la questione sull’an della subordinazione, graduazioni della disciplina standard collegata alla fattispecie dell’art. 2094 siano consentite solo nei termini tassativi di previsioni di legge o di contratto collettivo, salvo che la ricostruzione tipologica dei casi concreti scopra nella legge lacune di previsione colmabili con  operazioni ermeneutiche di riduzione o di estensione teleologica della norma (per es. la riduzione dell’art. 2106 c.c. operata da Cass., s.u., n. 6041 del 1995, che ha escluso il potere disciplinare nei confronti dei dirigenti di vertice dell’impresa, o l’estensione ai minidirigenti, o "dirigenti convenzionali", della tutela contro i licenziamenti: Cass. n. 12571 del 1999).

6. La diversificazione dei trattamenti all’interno dell’area della subordinazione si è ben presto rivelata un aspetto del problema, di dimensioni più ampie, connesso alla perdita di tenuta del concetto di subordinazione non tanto quale criterio logico di distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, quanto come criterio pratico discriminante tra lavoro protetto e lavoro non protetto. Prestazioni di lavoro integrate in attività di impresa in modi diversi dall’archetipo dell’art. 2094 si manifestano con crescente multiformità non soltanto nell’area del lavoro subordinato, entro la quale, almeno le più diffuse, sono già oggetto di una articolata disciplina di legge e di contratto collettivo (lavoro a tempo determinato, lavoro a domicilio, lavoro sportivo, lavoro a tempo parziale, contratto di formazione e lavoro, lavoro temporaneo tramite agenzia), ma anche nell’area del lavoro autonomo dilatando la categoria dei rapporti un tempo detti di parasubordinazione, ora di lavoro coordinato. Negli anni ’90 è la flessibilità dei modi di impiego del lavoro, anche al di là della subordinazione, il punto focale del diritto del lavoro.
Con terminologia tratta dal diritto comparato i “nuovi lavori” sono detti “atipici” in quanto diversi dal tipo di contratto con cui il fattore lavoro si incorpora nell’organizzazione tradizionale della produzione, ossia il contratto di lavoro senza prefissione di termine e a tempo pieno con garanzie di stabilità. Poiché nella nostra legislazione il tipo normale è assurto a tipo normativo, vincolante per l’autonomia privata salvo eccezioni tassativamente previste, l’aggettivo si carica da noi di un significato deteriore: dal punto di vista dell’art. 2094 c.c. una parte della dottrina non solo percepisce tali rapporti come eccezionali, ma li giudica una anomalia non rispettosa della dignità e della sicurezza del lavoratore. Questo punto di vista  non è estraneo allo stesso legislatore: ne sono un indice i ripetuti interventi legislativi in materia di lavoro a temine, di lavoro temporaneo o di part-time, che concedono di volta in volta, quasi puntando i piedi, riduzioni di rigidità di disciplina o di lacci burocratici, e ancor più il disegno di legge approvato dal Senato sui lavori coordinati, pervaso da una logica progressiva di contenimento dell’anomalia mediante una robusta estensione di tutele del lavoro subordinato, che pare molto somigliante all’annessione (Montuschi, ADL, 1998, 694).
In realtà, col tramonto dell’organizzazione della produzione di tipo fordista è cessata la base sociologica dell’ideologia del posto fisso di lavoro (un aspetto del mito della sicurezza caratteristico del secolo XX), risalente a un’epoca in cui le alternative a questa forma di occupazione erano classificate nel concetto di disoccupazione, totale o parziale. Nella fase attuale di trasformazione delle strutture produttive e di mercato caratterizzata da una forte diminuzione dei posti di lavoro di tipo tradizionale, i lavori atipici – rappresentati da impieghi temporanei, intermittenti, a tempo parziale o ripartito, e altri ancora che possono pure comportare periodi di lavoro subordinato avvicendati a periodi di lavoro autonomo – rispondono a esigenze oggettive delle imprese. Essi sono la via principale per ridurre significativamente la disoccupazione e perciò sono inclusi tra i coefficienti statistici di stima dei livelli occupazionali. Solo una cultura giuridica arretrata può ancora giudicare il part-time un caso di disoccupazione parziale.
Non si tratta di abbandonare queste forme di impiego del lavoro  alla regola del mercato, ma di disciplinarle in guisa da non ostacolarne l’utilizzazione da parte delle imprese tutelando in pari tempo adeguatamente i lavoratori. Il principio della dignità umana deve essere definito distinguendo le qualità etico-sociali che lo costituiscono come valore assoluto, intangibile, dalle qualità empiriche (nella specie: titolarità di un posto stabile di lavoro) socialmente ritenute, in certe contingenze storiche, condizioni di realizzazione di tale valore. Oggi a chi non riesce a trovare uno sbocco immediato sul mercato del lavoro nella forma privilegiata del posto fisso i lavori atipici offrono un’alternativa diversa dalla disoccupazione. Essi non possono ritenersi contrari ai valori personali tutelati dall’art. 41, comma 2°, cost., quando, oltre alla garanzia dei diritti fondamentali (inclusa l’uguaglianza proporzionale di trattamento secondo il precetto dell’art. 36), siano garantiti al lavoratore un sostegno economico nei periodi di mancanza di occupazione, la ricomposizione delle sue prestazioni, ai fini previdenziali, in un percorso professionale unitario, servizi efficienti di informazione, di formazione e di riqualificazione professionale che ne impediscano la precarizzazione, prospettive concrete di passaggio a una occupazione stabile.
La maggioranza della dottrina ha ormai abbandonato il punto di vista dell’art. 2094 c.c. come modello egemone di disciplina dei rapporti di lavoro. Diversamente dagli anni ’80, nei quali la rigidità del modello era discussa in relazione alla pretesa di applicabilità al lavoro subordinato secondo il criterio “o tutto o niente”, indipendentemente dalla diversità dei modi di espressione della subordinazione, negli anni ’90, una volta tipizzate e disciplinate dalla legge le forme atipiche più importanti nell’area della subordinazione, la discussione si è spostata sul piano propositivo concentrandosi sui rapporti di lavoro coordinato (o parasubordinato), nel frattempo incrementati da nuove figure, che hanno la loro matrice nella categoria del lavoro autonomo e ai quali deve ormai essere propriamente riservata l’aggettivazione di “atipici”.
Il fervore progettuale della dottrina più recente è stato criticato non a torto (R. Scognamiglio, ADL, 1999, 286), pur dovendosi dare atto che le proposte sono precedute da analisi dei mutamenti della realtà socio-economica determinati dalla segmentazione dei processi produttivi e dalla terziarizzazione dei servizi delle imprese, che appartengono a pieno titolo alla funzione del giurista: il discorso sul  diritto non è soltanto interpretazione (in senso ampio), ma anche  critica del diritto, descrizione dei ritardi e delle inadeguatezze normativi rispetto al cambiamento sociale e l’individuazione dei problemi per la cui soluzione occorre l’intervento del legislatore.
Oggi il problema centrale del diritto del lavoro è la ridistribuzione graduata delle tutele del lavoro dentro e oltre i confini della subordinazione, ma non v’è concordia di vedute sulla metodologia. Da una parte si propone la creazione di un tertium genus di rapporti, di cui il nucleo primigenio sono i rapporti previsti dall’art. 409 c.p.c., allargato a tutti i lavori stabilmente coordinati con  imprese senza vincoli di subordinazione: tertium genus, dunque, in un senso che distingue nell’ambito del lavoro autonomo una classe di rapporti protetti, ma non secondo il modello della disciplina (massima) collegata all’art. 2094 (De Luca Tamajo, ADL, 1997, 41 ss.). La proposta tende a sottrarre alla fattispecie della subordinazione una serie di figure contigue pur meritevoli di un certo grado (minore) di protezione, oggi artificiosamente sospinte dalla giurisprudenza nel dominio dell’art. 2094 a causa dell’attuale sistema binario di protezione del lavoro rigidamente impostato sull’alternativa si/no. La nuova categoria è aperta a specificazioni analitiche e a tipizzazioni di singole figure a opera della contrattazione collettiva, le quali però patirebbero il limite di non vincolare il giudice, trattandosi appunto di   questioni di qualificazione. È una soluzione che può alleggerire, ma non elimina il problema di regolamento di confini sul versante della subordinazione e anzi lo ripropone raddoppiato sull’opposto versante del lavoro autonomo non protetto, tanto più se il requisito della “continuatività” del rapporto (art. 409 c.p.c.) fosse sostituito, secondo il più volte citato disegno di legge, da quello  meno preciso (come tutti i concetti negativi) di “non occasionalità”.
Un’altra dottrina suggerisce di “decongestionare la nozione di subordinazione” muovendo da una nozione ampia di lavoro “senza aggettivi” (sans phrase), astratta da un particolare tipo di contratto e pensata come istituto giuridico riassuntivo di una normativa complessa e articolata estesa all’intero “fenomeno lavoro”. [cfr., ma con differenziazioni, M. D’Antona, RCDP, 1988, 195 ss.; Lavoro subordinato e dintorni (a cura di Pedrazzoli), 1989; M. Pedrazzoli, RIDL, 1998, I, 74 ss.; Id., Scritti in onore di F. Mancini, 1998, 397 ss.]. Questa nozione generalissima ricorda le origini del diritto del lavoro. Barassi muoveva da un concetto di contratto di lavoro non come tipo, ma come genus comprendente tutti i rapporti contrattuali in cui è impegnata, contro corrispettivo, l’attività di lavoro di una parte al servizio dell’altra. Ma, rendendosi conto che solo una classe di tali rapporti, quelli aventi a oggetto una prestazione di lavoro eterodiretta, è riconducibile a un tipo unitario di contratto (sia pure articolato in sotto-tipi), non tardava a introdurre la bipartizione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo, intesa quale discrimine tra lavoro protetto da norme speciali e lavoro rimesso alla disciplina civilistica dei rispettivi contratti, così assegnando alla subordinazione la funzione di criterio-limite di sviluppo del diritto del lavoro. È vero che egli invitava il legislatore a favorire il più possibile il passaggio dei lavoratori subordinati al lavoro autonomo (I, 701 s.), ma non pensava  a un’estensione parziale di tutele del lavoro subordinato.
Alla categoria del lavoro sans phrase dovrebbe essere riferita una tutela minima comune, che verrebbe poi progressivamente integrata in relazione delle varie specie e sottospecie di rapporti in proporzione delle esigenze di ciascuna. La ridistribuzione delle tutele è correttamente prospettata secondo una metodologia che, muovendo da una disciplina minima e procedendo gradualmente verso tutele più forti, facilita il dosaggio della protezione ai vari livelli. L’opposto punto di vista, che muove dallo standard di tutela massima, non solo produce la tendenza a estendere al lavoro autonomo anche tutele che hanno senso solo per il lavoro subordinato (ad es. la tutela contro i licenziamenti), ma ha pure il difetto,  già notato, di riprodurre lo stesso strabismo manifestato dal diritto del lavoro nel campo suo proprio di applicazione, fornendo protezione a chi non ne ha bisogno e anzi protesta di non volerla.
Non persuade però l’idea di una disciplina comune al lavoro subordinato e al lavoro autonomo coordinato con imprese. La distinzione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo è in rerum natura e concettualmente radicale: non può essere messa tra parentesi nemmeno per un tratto iniziale della riflessione sul “diritto del lavoro che cambia”. Uno “zoccolo di tutele minime” comune non è ipotizzabile a meno di ridurlo ai diritti fondamentali, il che non è pensabile. Il plus di protezione che dovrebbe essere aggiunto anche alla tutela minima non includerebbe i medesimi elementi, data la diversità di piani, e quindi di ratio, della tutela.
Nel campo variegato del lavoro autonomo manca un qualsiasi elemento idoneo alla funzione aggregante che nell’altro campo è adempiuta dalla subordinazione (R. Scognamiglio, ADL, 1999, 307), la quale, oltre al problema di correzione delle leggi del mercato, pone un problema specifico di protezione dei lavoratori, all’interno delle unità produttive, contro il potere organizzativo e direttivo dell’imprenditore. La tutela del lavoro coordinato senza vincolo di subordinazione non è animata dallo spirito originario del diritto del lavoro, che è spirito di emancipazione, di liberazione da condizioni lesive dei valori della sicurezza, della libertà e della dignità umana: basti considerare che l’esigenza di tutela riguarda anche le piccole imprese operanti sulla base di un unico rapporto di fornitura di beni strumentali o di servizi con una grande impresa. La ratio è qui analoga a quella sottesa alla tutela dei consumatori nei contratti con imprese fornitrici di beni o di servizi, cioè un’esigenza di correzione di asimmetrie di informazione e di potere di mercato. In breve, si tratta di una forma di paternalismo contrattuale, che dovrebbe essere contenuta entro limiti qualitativi e quantitivi precisi, per l’individuazione dei quali occorrono criteri (ad es. la distinzione tra mono- e pluricommittenza) affatto estranei al lavoro subordinato. 
L’idea del lavoro sans phrase come istituto giuridico non sembra idonea a fornire un ordito in cui possano intrecciarsi in un disegno unitario antiche e nuove trame del diritto del lavoro.    

Fonte: http://www.economia.unige.it/03/prg2009/ge/diritto_lavoro.rtf

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