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Il processo decisionale e le strategie
III.1. Processo decisionale
Se si volesse indicare in modo sintetico l’attività fondamentale di ogni manager, indipendentemente dal grado di responsabilità, senza dubbio si farebbe riferimento all’attività di decisione. È questo l’aspetto fondamentale dell’attività dei manager: assumere decisioni, cioè effettuare scelte. In modo semplicistico, la decisione viene definita come “scelta fra alternative” anche se va subito sottolineato che, di norma, ci si trova in presenza di un’attività più articolata che dà vita ad un processo decisionale.
In questo capitolo l’attenzione viene rivolta, appunto, ad analizzare le varie fasi che compongono il processo decisionale, il ruolo della razionalità e gli studi che ne considerano la sua “limitazione”, così come il ruolo che l’intuito svolge nell’adozione delle decisioni. Inoltre, in base alla considerazione che le decisioni che i manager adottano sono di differenti tipologie, l’attenzione si indirizza, da un lato, ad analizzare le varie tipologie e, dall’altro lato, ad evidenziare le condizione nelle quali le decisioni vengono adottate. Infine, un cenno alle tecniche che possono coadiuvare i manager nello svolgimento della loro responsabilità di decisori.
La prima considerazione che pare opportuno presentare è che ogni soggetto umano, durante le normali attività della propria vita, continuamente, effettua delle scelte, cioè decide (a che ora alzarsi, quali cibi mangiare, recarsi o meno a fare acquisti, e altre simili “semplici” attività quotidiane). Seppure si può rilevare che in particolari situazioni le scelte che un manager si trova ad effettuare sono più complicate, un aspetto è bene sottolineare con forza: le fasi che è necessario porre in essere sono le stesse e, più esattamente, sono quelle presentate nel Riquadro III.1. e che vengono singolarmente analizzate.
Ogni decisione si avvia con un problema, una discrepanza tra una condizione esistente e una desiderata. Una prima domanda è: come si identifica un problema? Nella realtà non è semplice individuare con immediatezza e certezza un problema perché esso non possiede l’etichetta ”problema”. Infatti è molto facile confondere un problema con i sintomi del problema. Per esempio, è un problema la riduzione del 5% delle vendite? O il declino delle vendite è un sintomo di un più rilevante problema come i prezzi elevati o altri simili aspetti? È importante sottolineare che l’identificazione di un problema è un fatto soggettivo, il che significa che ciò che viene considerato “problema” da un manager può non esserlo per un altro. È possibile che un manager risolva perfettamente un problema sbagliato che lo pone nella stessa posizione di chi non riconosce il problema e quindi non agisce. È facile intuire quanto l’identificazione corretta di un problema sia importante, ma non certamente facile.
Riquadro III.1.
Attuazione dell’alternativa scelta
Identificazione di un problema
Identificazione del criterio di decisione
Sviluppo delle alternative
Attribuzione di “peso” ai criteri
Scelta dell’alternativa
Analisi delle alternative
Nel caso in cui i criteri rilevanti siano egualmente importanti, il manager deve individuare dei “pesi” da attribuire a ciascuno di essi in modo da far emergere una graduatoria tra essi. Una modalità utile, anche se apparentemente semplicistica, è quella di attribuire un peso da 0 a 10. Qualsiasi altro criterio ritenuto efficace è altrettanto valido.
La quarta fase del processo di decisionale impegna il manager nella realizzazione di una lista di alternative perseguibili che potrebbero condurre alla soluzione del problema. È questa una fase nella quale il manager ha bisogno di essere creativo. In questa fase le alternative sono solo elencate, non valutate.
A questo punto, il manager deve considerare ogni alternativa e valutarla attentamente sulla base dei “pesi” indicati nell’attuazione della fase 2. Può anche verificarsi che questa fase diventi superflua nel caso in cui un’alternativa acquisisca la valutazione massima in ogni criterio di valutazione.
La scelta dell’alternativa viene effettuata con il supporto dei risultati ottenuti con la valutazione delle alternative della fase precedente.
È a questo punto che si rende operativa la scelta effettuata. È importante richiamare il fatto che se i soggetti umani operanti nell’organizzazione sono stati coinvolti nel processo di decisione, saranno più disponibili a sostenerlo e a favorirne il perseguimento. Un altro aspetto che i manager non possono trascurare riguarda il fatto che durante la fase di attuazione devono tenere conto del cambiamento che continuamente agisce sugli ambienti di riferimento, soprattutto se si tratta di decisioni che hanno un impatto sul lungo termine. Ciò implica che, se le modificazioni ambientali sono particolarmente significative, anche la decisione deve essere rimodulata o rivalutata.
In questa fase si valutano i risultati in modo da verificare se l’alternativa scelta ha consentito la soluzione del problema. Se il problema è ancora presente, è indispensabile domandarsi: il problema è stato definito non correttamente? Ci sono stati errori nella valutazione delle alternative? L’alternativa selezionata era corretta ma non è stata attuata correttamente? In relazione alle risposte formulate per questa o altre domande, può essere necessario riavviare l’intero processo.
È supposizione diffusa che le decisioni dei manager, soprattutto se responsabili di grandi imprese, siano razionali, cioè si dà per certo che essi effettuino scelte logiche e coerenti rispetto all’ottenimento del massimo risultato. I manager, a tal fine, dispongono di strumenti e tecniche che li aiutano ad essere razionali. Cosa significa essere un decisore razionale?
Un esempio di “non razionalità”
Quando la Hewlett-Packard acquistò la Compaq, non effettuò nessuna ricerca per comprendere la percezione dei clienti del marchio Compaq. All’atto dell’acquisizione, il CEO Carly Fiorina annunciò pubblicamente che” non esisteva nessun dissenso con riferimento all’acquisizione”. Col tempo, quando l’impresa scoprì che i consumatori percepivano i prodotti Compaq come non di qualità – l’opposto della percezione dei prodotti HP – era già tardi. La performance di HP ne soffrì e Fiorina abbandonò il lavoro.
Tratto da S.P. Robbins, M. Coulter, Management, Pearson, 2009
Un decisore razionale dovrebbe essere pienamente oggettivo e logico. Il problema da affrontare dovrebbe essere chiaro e non ambiguo, il decisore dovrebbe avere un obiettivo specifico e chiaramente formulato e conoscere tutte le possibili alternative e conseguenze. Infine, adottare le decisioni razionalmente significherebbe scegliere l’alternativa che massimizza la probabilità di perseguire quell’obiettivo. Per quanto attiene alle decisioni dei manager, è necessario ricordare che essi adottano le decisioni nell’interesse dell’organizzazione. In realtà questa supposizione di razionalità è irrealistica: quanto esposto nel punto successivo aiuta a comprendere meglio come molte decisioni vengono adottate nelle organizzazioni.
Malgrado le irrealistiche possibilità, ci si aspetta che i manager siano razionali quando assumono una decisione. Di norma si ritiene che un “buon” decisore adotti validi comportamenti decisionali, identifichi i problemi, consideri le alternative, ecc. e agisca decisamente ma prudentemente. Comportandosi in questo modo, essi dimostrano che sono competenti e che le loro decisioni sono il risultato di valutazioni intelligenti.
Un approccio più realistico per descrivere come i manager adottano le decisioni è il concetto di razionalità limitata, che evidenzia che i manager assumono le decisioni razionalmente ma sono limitati nelle loro capacità di trattamento delle informazioni. Poiché non hanno la possibilità di analizzare tutte le informazioni su tutte le alternative, i manager adottano decisioni soddisfacenti, piuttosto che ottime. In altri termini, accettano soluzioni che sono “abbastanza buone”: cioè sono razionali nei limiti della loro abilità di processare le informazioni.
Per molte decisioni è improponibile l’applicazione della razionalità perfetta, per questo i manager adottano decisioni soddisfacenti. Comunque, è bene tenere a mente che le decisioni sono influenzate anche dalla cultura organizzativa, dalle politiche interne, dal potere e da un fenomeno definito aumento di impegno (escalation commitment), che si sostanzia in un incremento di impegno per una precedente decisione malgrado sia evidente che possa essere stata sbagliata.
Un esempio di “escalation commitment”
Il disastro dello shuttle Challenger del 1986 viene utilizzato come esempio di escalation commitment. I decisori scelsero di lanciare lo shuttle nonostante la decisione fosse messa in discussione da molti soggetti che credevano che fosse una cattiva idea. Perché i decisori hanno voluto mantenere l’impegno rispetto ad una cattiva decisione? Perché essi non volevano ammettere che la loro decisione iniziale era errata. Piuttosto che ricercare nuove alternative, essi hanno semplicemente aumentato il loro impegno rispetto alla soluzione originale.
Tratto da S.P. Robbins, M. Coulter, Management, Pearson, 2009
In molte occasioni i manager, pur avvalendosi di varie e sofisticate tecniche, hanno difficoltà a pervenire ad una decisione. In questi casi può essere di grande aiuto l’intuito. Adottare una decisione avvalendosi dell’intuito significa decidere sulla base dell’esperienza, sentimento (emozioni) ed esperienza accumulata. I ricercatori studiando le modalità con le quali i manager utilizzano l’intuito per il processo decisionale, hanno identificato cinque differenti aspetti dell’intuizione, come indicati nel Riquadro III.2.
È usale avvalersi dell’intuito per le decisioni? Una ricerca ha evidenziato che almeno il 50% dei manager intervistati “utilizzano l’intuito più spesso delle analisi formali per dirigere le loro imprese”.
Riquadro III.2.
I manager adottano le decisioni basandosi sulla esperienza pregressa
I manager adottano le decisioni basandosi sui valori etici o culturali
I manager utilizzano le informazioni del subconscio per avere supporto nell’adottare decisioni
I manager adottano le decisioni basandosi sulle abilità e conoscenze
I manager adottano le decisioni basandosi sui sentimenti o emozioni
L’utilizzazione dell’intuito per il processo decisionale può essere un valido complemento sia per il processo decisionale razionale che per il processo basato sulla razionalità limitata. Prima di tutto, un manager che ha avuto esperienza con simili tipologie di problemi o situazioni, spesso può agire velocemente avvalendosi di informazioni che possono apparire limitate ma che sono basate sull’esperienza passata. Inoltre, è stato riscontrato che i manager partecipano anche emotivamente all’adozione delle decisioni e questo incrementa la performance. Si tratta di una “conquista” rispetto a quanto si presumeva negli studi di qualche decennio fa che affermavano che i manager ignorano le emozioni quando adottano le decisioni perché le emozioni distraggono dalla razionalità, “sono cattive consigliere”.
Problemi strutturati e decisioni programmate
Nello svolgimento della loro attività i manager adottano differenti tipi di decisioni in relazione alle diverse tipologie di problemi che devono affrontare. Alcuni problemi sono semplici e l’obiettivo del decisore è chiaro, il problema è usuale e le informazioni su di esso sono definite e complete. Un esempio può essere quello di un cliente che riporta un acquisto al negozio: questa è una situazione che viene definita problema strutturato perché è probabile che esistano indicazioni standardizzate per gestirlo. Si tratta di decisioni che vengono definite decisioni programmate (Riquadro III.3.). In questo caso, poiché il problema è strutturato, il manager non deve sviluppare un processo decisionale.
Con le decisioni programmate lo “sviluppo delle alternative” del processo decisionale o non esiste o richiede scarsa attenzione. Quale è il motivo? Una volta che il problema strutturato è definito, la soluzione è, di norma, evidente o, al limite, ridotta a poche alternative che sono note e sono state affrontate con successo in passato.
Riquadro III.3.
Per rispondere ad un problema strutturato, i manager si avvalgono delle procedure, cioè di una serie di fasi sequenziali. Una volta che il problema è chiaro, lo è altrettanto la procedura. Un esempio è la procedura di acquisto che nell’impresa deve essere eseguita ogni volta che si deve effettuare un nuovo ordine.
La regola è un esplicita dichiarazione che indica ai manager che cosa possono o non possono fare. Le regole sono utilizzate frequentemente perché sono semplici da seguire e assicurano coerenza. Per esempio le regole per le assenze dal lavoro.
La terza tipologia di decisioni programmate è la politica che è una linea guida per l’adozione di una decisione. Diversamente dalla regola, la politica stabilisce i parametri generali per l’adozione della decisione, piuttosto che indicazioni specifiche che potrebbero o non potrebbero verificarsi. Le politiche sono talvolta ambigue e devono essere interpretate dai decisori. Un esempio: “i consumatori vengono prima di tutto e dovrebbero essere sempre soddisfatti”. Il vocabolo soddisfatti richiede un’interpretazione, non è un dato inequivocabile.
Problemi non strutturati e decisioni non programmate
Non tutti i problemi che i manager devono affrontare possono essere risolti con decisioni programmate. Molte situazioni che si manifestano nell’impresa riguardano problemi non strutturati, cioè problemi, nuovi, non usuali, per i quali non si dispone di informazioni o le stesse sono insufficienti e non chiare. Ampliare il mercato inserendosi in un nuovo Stato, è un esempio di problema non strutturato. In presenza di problemi non strutturati i manager si trovano nella condizione di adottare decisioni non programmate, cioè sviluppare un processo - sviluppo delle fasi di cui al punto 1.2. - rispetto all’individuazione di un’unica soluzione.
Confronto tra decisioni programmate e non programmate
La principale differenza tra queste due tipologie di decisioni riguarda la ripetitività o meno della decisione. Inoltre, mentre le decisioni programmate coinvolgono principalmente i manager di medio o basso livello, le decisioni non programmate sono di pertinenza dei top manager.
Un altro aspetto di grande importanza è che nella realtà è difficile individuare problemi che siano completamente programmabili o non programmabili. Molti problemi richiedono decisioni che sono in parte programmate e in parte non programmate o, meglio, talvolta decisioni non programmate traggono vantaggio dalle procedure, regole e politiche proprie delle decisioni programmate. Nel Riquadro III. 4.Si pongono a confronto i caratteri peculiari di tali due tipologie di decisioni.
Riquadro III.4. |
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Elementi |
Decisioni programmate |
Decisioni non programmate |
Tipologia del problema |
Strutturato |
Non strutturato |
Nell’adozione delle decisioni i manager si possono trovare nelle seguenti tre condizioni: di certezza, di rischio, di incertezza (Riquadro III.5.).
Condizioni di certezza
La condizione ideale per assumere le decisioni è quella di poter operare in condizioni di certezza: è questa una situazione nella quale un manager può assumere decisioni accurate in quanto il risultato di ogni alternativa è conosciuto. Ad esempio, il tasso di interesse che una banca pratica per una specifica operazione è noto e la decisione si basa su un elemento di certezza. Non è questa, di norma, la condizione nella quale vengono adottate la gran parte delle decisioni nelle imprese.
Riquadro III.5.
Condizioni di rischio
Una situazione decisamente più comune è l’assunzione di decisioni in condizioni di rischio. È una condizione nella quale il decisore è in grado di stimare la probabilità di certe variabili. In condizioni di rischio i manager dispongono di dati storici derivanti da precedenti esperienze o informazioni secondarie che gli permettono di stimare la probabilità di differenti alternative.
Condizioni di incertezza
Cosa accade se si adotta una decisione e non si è certi dei risultati né possono essere realizzate ragionevoli stime di probabilità? È questa la condizione di incertezza. I manager devono affrontare il processo decisionale in condizioni di incertezza. In queste situazioni la scelta delle alternative è influenzata da un limitato numero di informazioni disponibili e dall’orientamento psicologico del decisore. Un manager ottimista seguirà la scelta maximax (massimizzando il massimo rendimento possibile), un pessimista seguirà la scelta maximin (massimizzando il minimo rendimento possibile), e un manager che desidera minimizzare la sua massima insoddisfazione opterà per una scelta minimax.
Stile lineare e non-lineare
Le modalità con le quali i manager affrontano il processo decisionale, sono in parte influenzate dallo stile che adottano nel manifestare le proprie opinioni. Lo stile di pensiero riflette due aspetti: 1) la fonte dalla quale attingere le informazioni (dati esterni e fatti o risorse interne, come i sentimenti e le intuizioni) e 2) come queste informazioni vengono trattate (stile lineare – razionale, logico, analitico; stile non-lineare – intuitivo, creativo, sagace).
In sintesi gli stili che emergono sono due: lo stile lineare è caratterizzato da una preferenza personale per l’utilizzazione di risorse esterne e per il trattamento di dati e fatti attraverso un modello di pensiero razionale logico per guidare le decisioni e le azioni; lo stile non lineare, che è caratterizzato dalla preferenza per le fonti interne di informazione (sentimenti e intuito) e il trattamento di informazioni con conoscenze interne e intuizioni per guidare l’assunzione delle decisioni e delle azioni conseguenti.
Errori e distorsioni decisionali
I manager nell’assunzione delle decisioni, non utilizzano solo il loro specifico stile, ma possono avvalersi di “regole empiriche approssimative” o euristiche per semplificare il loro processo di decisione. Le euristiche possono essere utili perché aiutano a dare un senso a informazioni complesse, incerte e ambigue. Anche se i manager possono avvalersi di tali regole empiriche, non significa che queste regoli siano affidabili. Il motivo è da riscontrare nel fatto che esse possono condurre a errori e interferenze nel trattamento e valutazione delle informazioni. Nel Riquadro III.6. si ha un’indicazione di alcuni errori o interferenze (o distorsioni) fra i più comuni.
Riquadro III.6.
La superfiducia si verifica quando il decisore pensa di sapere più di quanto non sia necessario o ha una visone positiva irrealistica. La distorsione indicata come gratificazione immediata descrive un decisore che tende ad ottenere immediate ricompense e ad evitare costi immediati. Per questi decisori, la scelta decisionale che determina veloci risultati è più attrattiva rispetto a quella che determina risultati dilazionati nel tempo. Quando i decisori organizzano e interpretano selettivamente eventi basati su una percezione distorta, stanno utilizzando la percezione selettiva. Questo influenza l’informazione alla quale prestano attenzione, il problema che hanno identificato e le alternative che sviluppano. I decisori che trovano informazioni che confermano le loro scelte passate e che contraddicono precedenti valutazioni esibiscono una conferma di distorsioni. L’elemento disponibilità costituisce un’interferenza in quanto i decisori tendono a ricordare eventi che sono recenti e vividi nella loro memoria. Questo fatto distorce la loro abilità di richiamare gli eventi in modo oggettivo e i risultati e con stime probabilistiche. Quando i decisori valutano la probabilità di un evento basato su come esso è legato ad altri eventi o insieme di eventi, si è in presenza di una distorsione di rappresentazione. Le interferenze indicate come sbadataggine, si verificano quando il decisore tenta di creare significati al di fuori di eventi casuali. Tale comportamento si pone in essere quando i decisori hanno difficoltà ad interagire con il cambiamento. Con l’errore dei costi sommersi i decisori dimenticano che le scelte attuali non possono correggere il passato. Non si possono correggere perdite di tempo realizzate nel passato, perdite di denaro o impegni nel realizzare scelte senza pensare alle conseguenze future.
Nel Riquadro III.7., viene presentata una sintesi degli elementi che “entrano in gioco” nella realizzazione del processo decisionale.
Riquadro III.7.
III.2. Strategie
2.1. Il contenuto e l’ampiezza del concetto di strategia
Nonostante negli studi economico aziendali e di management si parli esplicitamente di strategia da una quarantina d’anni, tale concetto non trova ancora condivisione nè un’interpretazione univoca, sia perché il termine strategia rappresenta comunemente l’espressione del particolare angolo visuale con cui le varie scuole di pensiero analizzano il problema, sia perché il significato attribuito a tale concetto è stato fortemente influenzato dall’evoluzione delle condizioni ambientali.
Con riferimento ai diversi significati attribuiti al termine strategia tale varietà di riferimenti è già rinvenibile nei primi contributi teorici in materia, sviluppatosi nei primi anni sessanta: Strategy and Structure di Alfred Chandler ; Corporate Strategy di Igor Ansoff e il libro di testo dell’Harvard Business School Business Policy: Text and Cases scritto da Christensen C.R., Andrews K.R., Bower J.L., Hamermesh G., Porter M.E. nel 1965 . Nel suo lavoro il Chandler distingue la struttura dalla strategia, intendendo per strategia:
Andrews accetta l’idea di strategia di Chandler ma la integra considerando, in modo congiunto, altri due concetti: la nozione di “competenza distintiva” nel significato attribuitogli da Selznick , e la nozione di ambiente imprevedibile. In questa prospettiva, il concetto di competenza distintiva viene utilizzato col significato di attività che un’organizzazione è in grado di attuare in modo migliore dei concorrenti. Per Andrews, quindi, la competenza distintiva non è individuabile in una specifica condizione o elemento dell’impresa quanto, piuttosto, nella sua capacità di coordinare i fattori interni con i fattori esterni. Tale concetto viene considerato da Andrews congiuntamente con quello di ambiente. Nella concezione di tale Autore, infatti, l’ambiente, con i suoi continui cambiamenti, fornisce una serie di opportunità e di minacce per l’impresa che, basandosi sui propri punti di forza e di debolezza, adatta la sua strategia al fine di evitare le minacce e sfruttare le opportunità
In altri termini, l’analisi interna dei punti di forza e di debolezza conduce alla identificazione delle competenze distintive dell’impresa, mentre l’analisi dell’ambiente esterno (opportunità e minacce) guida all’identificazione dei fattori potenziali di successo. Queste due fasi – analisi interna e analisi esterna – sono alla base del concetto di formulazione della strategia, concetto, quest’ultimo, che rimane analiticamente e praticamente distinto dal concetto di implementazione (a tale analisi è dedicato il punto 2.3.).
Ansoff, diversamente da Andrews e Chandler, sviluppa il suo concetto di strategia cercando di “allontanarsi” dalla rigidità tipica della pianificazione basata sull’estrapolazione di trend passati, in quanto secondo lui la strategia costituisce un “filo comune” che lega cinque scelte fondamentali.
Le cinque scelte indicate da Ansoff
Sulla base di tale idea, la strategia è definita da Ansoff «come ‘operatore’ designato a trasformare l’impresa dal posizionamento attuale a quello definito dagli obiettivi, subordinatamente ai vincoli costituiti dalle capacità e dal potenziale».
Dalle definizioni riportate appare evidente che mentre nell’impostazione teorica di Chandler e di Andrews vi è una visione “ampia” di strategia, in quanto le loro definizioni partono dal presupposto che tale concetto sia comprensivo degli obiettivi e delle azioni, nel modello ipotizzato da Ansoff, per contro, si ha una concezione di strategia in senso “stretto”, cioè non comprensiva dei fini e degli obiettivi, ma basata essenzialmente sulle principali risorse che l’impresa impiegherà per raggiungerli.
Le prime teorizzazioni scientifiche in tema di strategia hanno chiaramente influenzato la letteratura successiva. Con particolare riferimento agli autori italiani va evidenziato che gli studiosi che si sono ispirati all’impostazione scientifica di I. Ansoff, ritengono che il concetto di strategia possa prescindere dai fini dell’impresa, in quanto secondo questa interpretazione, i fini e gli obiettivi costituiscono un presupposto, un dato per la definizione della strategia, ovvero per la individuazione delle risorse e delle politiche necessarie al loro raggiungimento. L’impresa, per i sostenitori di tale impostazione, deve prima di tutto dotarsi di un sistema di fini e di obiettivi raggiungibili sia distintamente, sia nel loro complesso, mentre solo in un secondo momento deve predisporre la strategia che ne consenta la realizzazione .
Vicino a questa impostazione è, almeno in parte, lo studioso italiano Giuseppe Usai che, dopo aver precisato che «in termini astratti la soluzione del problema organizzativo è la conseguenza della fissazione di un complesso di “mete” che vengono attribuite all’organizzazione e ai suoi soggetti umani» , definisce la strategia come «complesso di scelte fondamentali inerenti ognuno dei macroproblemi originati dal perseguimento della missione”.
Origine del concetto di strategia: militare e greca
Abilità del condottiero
nel fare la guerra
Più esattamente, in analogia alle scelte di pertinenza del Generale che posiziona il suo esercito nel campo di battaglia, l’organizzazione deve prendere posizione rispetto alla definizione delle varie problematiche da affrontare tra le quali le seguenti sono le principali:
L’insieme delle scelte relative a queste problematiche principali e ad altre che esistono in relazione ai caratteri di specificità di categoria e di individualità dell’organizzazione, definisce la strategia prescelta ed equivalgono metaforicamente all’individuazione della determinazione di una specifica “posizione” che l’organizzazione considerata assume nell’ambiente.
Al contrario altri studiosi, più vicini agli studi di Chandler e di Andrews, ritengono che il termine strategia debba essere inteso in un’accezione ben più ampia, comprensiva anche dei fini dell’impresa . Secondo tale interpretazione la strategia, nel definire l’identità complessiva dell’impresa, deve necessariamente comprendere il fine dell’impresa cui l’attività aziendale è indirizzata perché “la strategia di un’impresa ci appare come il modello di ricerca del successo imprenditoriale che l’impresa di fatto ha adottato o che intende adottare, dove “il successo imprenditoriale” non è definito a priori, ma è parte integrante del modello al cui interno trova definizione” .
In generale si può affermare che in Italia la tendenza dominante, almeno in una prima fase, è stata quella di assimilare il concetto di strategia ad un piano, ossia a un sistema articolato di decisioni che consentiva di far fronte ad una specifica situazione o ad un ben determinato contesto ambientale.
Un aspetto, questo appena evidenziato, che emerge con forza nei contributi di Pasquale Saraceno, in particolare, nella sua opera il Governo delle aziende , l’Autore, mette in risalto che adottare una strategia significa assumere una molteplicità di decisioni che hanno come effetto non atti d’esecuzione, ma una catena di ulteriori decisioni.
Il filone di studi che ha preso avvio dalla Scuola di Pasquale Saraceno può essere ancora oggi considerato attuale, nonostante si siano sviluppate altre prospettive d’analisi del concetto di strategia. Del resto, sono ancora molti gli autori che con il termine strategia fanno riferimento alle decisioni che, sulla base delle finalità generali dell’organizzazione, si propongono di acquisire un nuovo e migliore posizionamento della stessa nell’ambiente.
Soltanto all’inizio dei primi anni Ottanta inizia a prendere forma in Italia un’altra corrente di pensiero, secondo la quale la strategia non può essere considerata solo come un sistema di decisioni, ma anche come un insieme di azioni teso al conseguimento di specifiche finalità, indipendentemente dal fatto che il modello sia o meno deliberato e intenzionale.
Tra le definizioni proposte dagli studiosi italiani che si riconoscono in questa impostazione si può richiamare, per la sua efficacia espressiva, quella suggerita da Enzo Rullani secondo cui «la strategia (…) con o senza planning costituisce un percorso di problem solving in situazioni complesse. Ed è in questa funzione di razionalità complessa orientata alla soluzione di problemi che la strategia va distinta dalla semplice decisione» .
Un altro Autore italiano che sposta l’attenzione dalla semplice decisione alle azioni è Maurizio Rispoli, secondo il quale «Per strategia di base intendiamo le azioni di fondo dell’impresa necessarie per conseguire le finalità e gli obiettivi di lungo periodo, azioni che si traducono in specifici percorsi evolutivi, sintesi del processo dialettico fra l’impresa stessa e l’ambiente». L’Autore prosegue la sua analisi mettendo in risalto che «per percorso strategico» si deve invece intendere «il cammino evolutivo che un’impresa ha percorso nel tempo quale sintesi dinamica di un processo dialettico che si svolge storicamente fra piano strategico dell’impresa, da un lato, e modificazione delle condizioni dell’ambiente, dall’altro. Mentre le scelte di fondo relative alla individuazione degli elementi di una strategia di base avvengono, con l’impiego di procedure formali o informali, ex ante rispetto alla sua implementazione, il percorso strategico si individua e si definisce ex post mediante l’analisi delle condizioni che storicamente hanno determinato un certo tipo di evoluzione delle strutture interne dell’impresa e della struttura esterna, cioè dell’ambiente in cui esso opera» .
Altri autori, allontanandosi ulteriormente dal concetto di strategia come insieme di decisioni, affermano addirittura la coincidenza tra strategia e azione dell’impresa.
Un Autore italiano che segue questa impostazione è Sergio Sciarelli secondo il quale la strategia rappresenta «un comportamento imprenditoriale di tempo lungo finalizzato al raggiungimento di obiettivi primari della gestione. In altri termini, la strategia è il mezzo per conseguire traguardi di tempo non breve, definiti in funzione dell’evoluzione del rapporto tra l’impresa e l’ambiente nel quale opera». Secondo l’Autore, nel concetto di strategia tende ad assumere un ruolo predominante l’implementazione rispetto alla formulazione, per cui «la strategia più che essere un sistema di decisioni programmate per raggiungere determinati obiettivi aziendali, finisce per rappresentare un sistema di operazioni che danno vita a un processo di gestione aziendale» .
Nel presente scritto, aderendo alla prospettiva di quegli autori (Usai G., Valdani E., Guatri L., Vicari S.) che, facendo riferimento alla gerarchizzazione di tipo funzionale, non si limitano ad individuare gli elementi che possono assumere carattere strategico all’interno delle differenti funzioni gestionali, ma stabiliscono una gerarchia tra le stesse funzioni, si sceglie la seguente definizione di strategia :
Con la scelta di tale definizione si vuole porre in risalto la necessità di considerare la funzione di marketing come base per l’elaborazione della strategia, in quanto si parte dal presupposto che la principale preoccupazione dell’impresa deve essere rivolta alle probabili risposte del mercato alla strategia proposta. In altri termini, si ritiene che i problemi generali che l’impresa deve affrontare siano strettamente connessi ai principali quesiti a cui essa deve dare risposta (Riquadro III.8.) per definire in modo adeguato la propria strategia. Tali quesiti, nella letteratura del marketing, vengono così sintetizzati: a quali soggetti rivolgere la propria offerta di vendita; quali prodotti/servizi vendere; quali quantità di prodotto mettere in vendita; a che prezzo vendere; come vendere; attraverso quali canali di distribuzione vendere.
A chi vendere
Cosa vendere
Quanto vendere
A quale prezzo
Come vendere
Attraverso quali canali di distribuzione
Riquadro III.8.
2.2. L’evoluzione del concetto di strategia
L’evoluzione del significato attribuito al termine strategia d’impresa può essere interpretata, oltre che attraverso la diversa ampiezza dei contenuti ad essa attribuiti (come è stato evidenziato nel paragrafo precedente) anche tramite la considerazione del mutamento che si è verificato nel corso del tempo nelle relazioni intercorrenti tra l’impresa e l’ambiente di riferimento. Si vuole, in altri termini, affermare che il passaggio da un ambiente complicato e quindi facilmente prevedibile, ad un ambiente sempre più complesso ha portato, in parallelo, all’evolversi del concetto e dell’importanza della strategia e dell’analisi strategica. Mentre in un ambiente complicato un piano formalizzato e ben definito rappresentava lo strumento adeguato a garantire la predefinizione degli obiettivi e delle azioni, in un ambiente complesso tale strumento non risulta più appropriato per via della velocità dei mutamenti e delle difficoltà connesse con la loro previsione.
In rapporto all’evoluzione delle condizioni dell’ambiente e all’adozione simultanea di un diverso approccio all’analisi strategica possono essere adottati diversi indirizzi di studio, i cui estremi sono rappresentati da un approccio di tipo razionale e da un altro di tipo contingente-adattivo. I due approcci citati sono, in realtà, «modelli interpretativi per i quali l’elemento discriminante può essere individuato, sostanzialmente, nel diverso grado di formalizzazione delle decisioni strategiche e nella diversa valenza spaziale e temporale delle stesse» .
In base all’approccio razionale l’organizzazione ha degli obiettivi chiaramente definiti che essa cerca di raggiungere attraverso una pianificazione diretta e sequenziale. L’ambiente, secondo questo modello, è intelligibile, relativamente prevedibile, composto principalmente da concorrenti e in cui l’organizzazione, pur essendo separata dallo stesso, cerca di imporre i suoi obiettivi.
L’approccio di tipo contingente-adattivo, per contro, si basa sul presupposto che le decisioni nelle organizzazioni siano caratterizzate sia da una limitata e parziale comprensione degli obiettivi, sia da una modesta conoscenza dei mezzi necessari per il conseguimento degli obiettivi prefissati. Tale situazione è determinata dal fatto che il contesto nel quale le organizzazioni si trovano ad operare è caratterizzato da notevole incertezza e ambiguità, situazione questa che impedisce ai decisori di impresa di scegliere un unico modello teorico di riferimento, ma che li conduce, piuttosto, a riferirsi ad approcci teorici diversi in relazione alla necessità di adattarsi attivamente alle diverse contingenze ambientali.
L’approccio di tipo razionale trova larga applicazione nei primi contributi teorici in tema di pianificazione strategica, mentre tende a scemare ed a lasciare spazio all’approccio contingente-adattivo negli studi più recenti.
Le prime applicazioni dell’approccio razionale sono riscontrabili intorno agli anni Cinquanta e Sessanta con lo sviluppo della pianificazione a lungo termine (long range planning). Tale periodo di tempo è contraddistinto essenzialmente da circostanze che conferiscono all’ambiente caratteristiche di relativa stabilità e che danno vita a dinamiche evolutive lente e prevedibili: sono anni caratterizzati dallo sviluppo dei mercati di massa, da un’adeguata disponibilità di materie; da un incremento contenuto delle innovazioni di prodotto e di processo.
Un filone di studi che si differenzia da quelli riferibili alla pianificazione strategica (soprattutto per il fatto che non si concentra sul processo di formazione della strategia, ma sui contenuti della strategia competitiva, come la differenziazione, la diversificazione ecc.) è quello rientrante nel quadro teorico della Struttura-Condotta-Performance sviluppato inizialmente dal Porter sulla base dei lavori di Mason e Bain nel campo dell’economia industriale.
In tale quadro di riferimento il processo di formazione della strategia è un processo razionale ed esplicito, nel quale l’analisi delle caratteristiche ambientali assume un ruolo decisivo, così come la struttura del settore, che determina il comportamento e la performance economica delle imprese che in esso operano.
In particolare, il principale rappresentante di questa prospettiva teorica – Michael Porter – afferma che per spiegare il successo di un’impresa occorre considerare in modo interrelato tre elementi fondamentali: le circostanze ambientali, il comportamento dell'impresa e i risultati di mercato (Riquadro III.9.).
Sulla base di questo schema, l’Autore afferma che l’origine del vantaggio competitivo non va ricercata esclusivamente all’interno dell'impresa, ma soprattutto nell'ambiente locale nel quale l'impresa è collocata, in quanto è l'ambiente che determina come le imprese sono configurate, quali risorse possano essere assemblate in modo unico, e quali impegni possano essere assunti con successo.
A livello più ampio, secondo il Porter, il successo dell'impresa è funzione di due fattori: l'attrattività del settore industriale in cui l'impresa compete e la posizione assunta dall’impresa stessa all’interno del settore.
L’autore prosegue la sua analisi mettendo in risalto che ogni settore industriale ha una struttura di base, ossia un insieme di caratteristiche economiche e tecniche fondamentali da cui hanno origine le forze competitive. Il responsabile della strategia, per riuscire a far fronte all’ambiente del proprio settore, o ad influenzarlo a favore della propria impresa, deve conoscere perfettamente la dinamica delle varie forze competitive e, in particolare, i fattori che generano la tensione competitiva. Il Porter, per la comprensione della struttura del settore, individua cinque fattori competitivi fondamentali: la minaccia di nuovi entranti; il potere contrattuale dei fornitori; il potere contrattuale degli acquirenti; la concorrenza dei prodotti sostitutivi e l’intensità della concorrenza fra imprese.
Il dominio della pianificazione di lungo periodo vacilla comunque solo con la crisi del 1973 e con l’affermarsi dell’idea che l’incertezza dell’ambiente sia l’unica cosa certa. In altri termini, si acquisisce la consapevolezza che in un contesto caratterizzato da incertezza non basta più estrapolare dal passato le basi per le decisioni sul futuro, ma bisogna cercare soluzioni alternative.
Riquadro III.9.
In particolare, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, in seguito alle mutate caratteristiche del contesto ambientale verso gradi crescenti di complessità, matura tra i soggetti umani preposti al governo dell’impresa la consapevolezza dei limiti della pianificazione strategica a lungo termine per via della minore prevedibilità dei cambiamenti, situazione questa che porta i soggetti organizzativi alla definizione di un nuovo approccio decisionale, basato sulla “pianificazione strategica” (strategic planning). Si tratta di un’impostazione che rinuncia al controllo analitico delle componenti dello scenario esterno, per passare all’analisi e alla valutazione delle sole variabili d’ambiente ritenute critiche ai fini dell’individuazione delle minacce ambientale e della creazione di nuove opportunità.
L’adozione della gestione strategica ha portato inoltre ad una concezione più flessibile della pianificazione strategica, in quanto in tale approccio le decisioni da intraprendere non sono più prestabilite e preordinate attraverso la definizione di un piano, ma vengono definite man mano che si evolve il contesto ambientale, in modo da adattarle in funzione delle specifiche esigenze che si manifestano. «I fattori di successo divengono: la reattività, cioè la capacità di rapido sviluppo di strategie per adattarsi in tempo reale alla discontinuità ambientale; la condivisione del progetto, che non deve risultare imposto; la maggiore interazione tra il livello corporate ed i vari business» . In tale periodo storico, la strategia inizia ad essere concepita come un processo non del tutto intenzionale. L’incertezza ambientale, i ripetuti tentativi ed errori e l’apprendimento sono alla base di studi quali quelli di James Brian Quinn con l’incrementalismo logico e di Henry Mintzberg con il concetto di strategia emergente. Essi considerano il processo di formazione della strategia come qualcosa di non intenzionale e non del tutto previsto o prevedibile.
Durante la fine degli anni Ottanta e ai primi anni Novanta, emergono le difficoltà degli approcci precedenti di rispondere ai livelli crescenti di complessità ambientale, si suggerisce quindi un ulteriore revisione del concetto di strategia. Da un lato, si propone il superamento dell’opinione secondo la quale le fonti del vantaggio sono da ricercare esclusivamente nelle caratteristiche del contesto ambientale o settoriale, dall’altro lato, si cerca di accreditare l’idea che sia invece necessario guardare anche all’interno dell’impresa. In particolare, lo sviluppo degli studi sulle risorse d’impresa, sulle capacità, sulle competenze organizzative ha portato a considerare le risorse e le competenze interne le principali fonti del vantaggio competitivo.
In questo punto pare opportuno presentare lo sviluppo che può assumere la cosiddetta “pianificazione strategica”(Riquadro III.10.). Quando un’organizzazione si avvia a sviluppare la propria strategia, i senior manager si muovono nell’ambito del processo di management strategico, un processo che si può ricondurre a nove fasi che implica la programmazione, l’implementazione e la valutazione della strategia. Nell’ambito di tale processo, la programmazione strategica si sviluppa nell’ambito delle prime sette fasi, ma va sottolineato che anche la migliore programmazione può essere errata se il management fallisce nell’implementazione o nelle valutazione dei risultati.
Riquadro III.10.
Identificare missione,
obiettivi e strategie dell’impresa
Analizzare le risorse dell’impresa
Analizzare l’ambiente
Identificare opportunità e minacce
Riesaminare missione e obiettivi della impresa
Identificare forze e debolezze
Formulare la strategia
Implementare la strategia
Valutare i risultati
Come sviluppare lo strategic management process
Il primo step che ogni organizzazione deve attuare nell’approccio al management strategico () è quello di identificare la mission, gli obiettivi e le strategie. Ogni organizzazione ha la sua missione che definisce i suoi obiettivi. Definendo la mission dell’organizzazione, il management si pone nella prospettiva di identificare più attentamente i prodotti e/o i servizi che intende realizzare. Tale determinazione è importante sia per le imprese che per le organizzazioni not-for-profit (ospedali, scuole e università, ecc.).
Una volta che la mission è stata definita, l’impresa può cominciare a guardare al suo esterno per assicurarsi che la sua strategia sia adeguata alle caratteristiche dell’ambiente. Il management di ogni organizzazione ha necessità di analizzare il suo ambiente (fase ). Ciò significa che ogni organizzazione deve acquisire informazioni sui propri concorrenti, sui problemi dei consumatori da soddisfare, le caratteristiche del “mondo del lavoro” di quello specifico contesto.
Per mezzo dell’analisi dell’ambiente i manager acquisiscono le informazioni che li pongono nella condizione di formulare una strategia in sintonia con le caratteristiche dell’ambiente nel quale operano o intendono operare. La fase due si conclude quando il management ha una corretta conoscenza degli elementi dell’ambiente ed è consapevole dei più significativi trend che possono influire sulle proprie attività. La citata consapevolezza può essere facilitata dalle attività di environmental scanning (letteralmente scansione dell’ambiente), completate da quelle di competitive intelligence.
Alcuni esempi di Mission |
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Our mission is to provide efficient and effective solutions for the IT needs of our clients. “Work is Worship” is our principle |
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Our Roadmap starts with our mission, which is enduring. It declares our purpose as a company and serves as the standard against which we weigh our actions and decisions.
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To create a better everyday life for the many |
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Grazie al nostro entusiasmo, al nostro lavoro in team e ai nostri valori, vogliamo deliziare tutti coloro che, nel mondo, amano la qualità della vita, attraverso il migliore caffè che la natura possa offrire, esaltato dalle migliori tecnologie nonché dall'emozione e dal coinvolgimento intellettuale che nascono dalla ricerca del bello in tutto quello che facciamo. |
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Costruire auto belle nello stile, brillanti nei motori, accessibili e capaci di garantire una migliore qualità della vita di ogni giorno. |
Avvalersi dell’environmental scanning significa porsi nella condizione di non subire gli eventi, ma di anticiparli con una interpretazione accurata dei cambiamenti che si sviluppano nell’ambiente.
Una delle aree dell’environmental scanning che si è sviluppata più velocemente è quella della competitive intelligence. Si tratta di un’attività che consente di comprendere chi sono i concorrenti dell’impresa, che cosa fanno e quali delle loro strategie influiscono sull’attività dell’impresa.
Non si tratta di “spionaggio industriale” ma di avere attenzione alla grande quantità di informazioni che sono disponibili ma che vanno accuratamente individuate e analizzate. Più specificamente, la pubblicità, i materiali promozionali, i comunicati stampa, i rapporti annuali, informazioni su Internet e altre, sono fonti di informazioni facilmente accessibili. Ovviamente, è necessario acquisirle e analizzarle con professionalità, magari appoggiandosi a imprese specializzate che svolgono tali servizi.
Analisi dell’ambiente esterno e interno
Dopo aver analizzato e acquisito informazioni dall’ambiente, il management ha necessità di valutarne le opportunità e le minacce (). In termini semplicistici, le opportunità sono fattori esterni positivi e le minacce sono fattori esterni negativi. È da tenere presente, comunque, che uno stesso aspetto dell’ambiente può costituire opportunità per una organizzazione e minaccia per un’altra anche se operante nello stesso settore: ciò dipende dalle differenti risorse di ciascuna di esse o dai differenti obiettivi.
A questo punto dell’analisi è necessario rivolgere l’attenzione alle risorse interne dell’organizzazione. Quali abilità devono possedere i dipendenti dell’impresa? Quale è il cash flow dell’impresa? Ha avuto successo nello sviluppo di nuovi e innovativi prodotti? Come i consumatori percepiscono l’immagine dell’impresa e la qualità dei suoi prodotti o servizi? Si tratta di quesiti che devono indurre il management a riconoscere che ogni organizzazione, indipendentemente dalla sua dimensione e dalla sua posizione nel mercato, è limitata dalle risorse e competenze di cui dispone.
Le risorse interne di cui un’impresa dispone o le attività che svolge efficacemente sono i suoi punti di forza () (strategici), mentre le attività nelle quali manifesta carenze, sono i suoi punti di debolezza (
).
Analisi SWOT
La combinazione degli aspetti dell’ambiente esterno (fasi e ) e di quelle interne (fasi e
) viene indicata come analisi SWOT poiché mette insieme i punti di forza (Strengths) con i punti di debolezza (Weaknesses), le opportunità (Opportunities) e le minacce (Threats).
La SWOT analisi è particolarmente utile per l’identificazione della nicchia strategica che l’impresa può sfruttare.
Completata la SWOT analisi l’impresa è in grado di riesaminare la missione e gli obiettivi (fase ), cioè il management è in grado di se la missione e gli obiettivi sono realistici, se è necessario modificarli. Nel caso in cui nessuna modifica risulta necessaria, il management può avviare la formulazione delle strategie.
Quali strategie?
La formulazione delle strategie (fase ) è una fase che richiede molta attenzione in quanto si tratta di sviluppare e valutare alternative e selezionare quelle che risultano maggiormente compatibili con tutti i livelli e permettono all’impresa di utilizzare efficientemente ed efficacemente le risorse interne , nonché di avvalersi delle opportunità presenti nell’ambiente. Le più frequentemente utilizzate e note strategie sono quelle di: sviluppo, stabilità, ridimensionamento e combinazione di strategie.
Ansoff I., Corporate Strategy, op. cit., p. 205.
Cfr. Christensen C.R., Andrews K.R., Bower J.L., Hamermesh G., Porter M.E., Business Policy: Text and Cases, V ed., Irwin, Homewood, 1982.
Cfr. Selznick P., Leadership in Administration: A Sociologicallinterpretationa, Harper & Row, New York, 1957.
Cfr. Mazzola P., Strategia, in G. Brunetti, E. Santesso (a cura di), Materiale didattico per il corso di strategia e politica aziendale, Estratto dall’Enciclopedia dell’Impresa, volume terzo, UTET, Torino, 1999.
L’autore con il termine “mete” fa simultaneo riferimento alla missione, alle strategie, agli obiettivi e ai risultati che ci si può realisticamente attendere da ciascuno e da tutti i soggetti umani costituenti l’organizzazione. Usai G., Le organizzazioni nella complessità. Lineamenti di Teoria dell’organizzazione, Cedam, Padova, 2002, p. 187.
Cfr. Depperu D., Il processo di formazione delle strategie competitive. Un modello per le imprese monobusiness, Egea, Milano, 2001.
Coda V., L’orientamento strategico dell’impresa, UTET, Torino, 1988, p. 24.
Saraceno P., Il governo delle aziende, Libreria universitaria editrice, Venezia, 1972
Di Bernardo B., Rullani E., Transizione tecnologica e strategie evolutive, Cedam, Padova, 1985, p. 162.
Rispoli M., L’impresa industriale. Economia e management, il Mulino, Bologna, 1984, pp. 677-679.
Sciarelli S., Economia e gestione dell’impresa, op. cit., p. 259.
Cfr. Usai G., L’efficienza nelle organizzazioni, op. cit.
Siano A., Strategie d’impresa. L’analisi dell’ambiente competitivo di concezione moderna, Cedam, Padova, 1995, p. 5.
Cfr. Porter M.E., Competitive Strategy: Techniques for Analyzing Industries and Competitors, the Free Press, New York, 1980, sempre dello stesso autore, Porter M.E., The Contribution of Industrial Organization to Strategic Management, in Academy of Management Review, vol. 6, 1981.
Cfr. Mason E.S., Price and Production Policies of Large-Scale Enterprises, in American Economic Review, vol. 29, March, 1939.
Cfr. Bain J.S., Barriers to New Competition, Cambridge, MA: Harvard University Press, 1956.
Ferrara G., Pianificazione strategica, in Le parole dell’impresa, (a cura di) Lorenzo Caselli, FrancoAngeli, Milano, 1995.
Quinn B.J., Strategies for Change: Logical Incrementalism, Irwin, Homewood, 1980.
La strategia emergente può essere considerata come quella parte di strategia che “emerge” ma che non era stata esplicitamente prevista. Il Mintzberg precisa, infatti, che nella realtà delle organizzazioni le strategie sono di solito la risultante di una combinazione di strategie deliberate ed emergenti, in particolare, egli ritiene che, di norma, le linee guida siano deliberate mentre i dettagli siano lasciati emergere al loro interno. Cfr. Mintzberg H., Patterns in Strategy Formation, Management Science, vol. 24., 1978, pp. 934-948.
Fonte: http://econoca.unica.it/public/downloaddocenti/DISPENSA%20PARTE%20III.docx
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