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Premessa
Operare in contesti sociali è da sempre una peculiarità del volontariato, che oggi più di ieri si ritrova a fare i conti con cambiamenti e domande esterne che richiedono nuove competenze e affidabilità.
Un volontariato che si definisca “moderno” non può continuare ad operare sulla base di uno spontaneismo sterile, senza sapere se il proprio lavoro sarà efficace o meno, investendo male le risorse disponibili – spesso poche – o non avendo chiari gli obiettivi da raggiungere.
“Man mano che l’azione volontaria si sviluppa e riesce a trasformare la motivazione all’impegno dei partecipanti in azioni socialmente utili, nasce anche l’esigenza di coniugare le motivazioni, cioè la fedeltà ai valori fondanti, con la capacità di conseguire risultati di qualità, cioè di sviluppare azioni efficienti ed efficaci a favore degli utenti. Questi obiettivi non possono essere raggiunti senza un’adeguata organizzazione che, partendo dalla definizione della mission definisca la struttura più idonea e le risorse necessarie per conseguire il fine da raggiungere, programmando ambiti operativi, responsabilità e criteri di verifica dei risultati conseguiti”. (Come si fa… a organizzare le risorse umane, ed. Fivol, pag.1)
Uno dei problemi che le organizzazioni di volontariato si trovano ad affrontare ogni giorno è quello della gestione del lavoro di persone che arrivano per strade e motivi differenti all'impegno nel volontariato e che devono giungere a condividere un percorso, un’idea, un modo di lavorare. Saper gestire quelle che vengono definite le "risorse umane" è un compito che non può essere delegato alla spontaneità dei singoli, e può essere efficacemente appreso.
In alcune organizzazioni, inoltre, convivono spesso operatori professionali, dipendenti e collaboratori, insieme ai volontari. Una presenza così variegata all’interno di realtà del non profit non può venire relegata alle “capacità” naturali delle persone, tanto più nell’ottica della realizzazione di servizi costanti sul territorio.
Diventa necessario acquisire delle competenze specifiche per migliorare dal punto di vista organizzativo e gestionale le risorse dell’associazione di volontariato, in vista dell’obiettivo primario e prioritario: offrire risposte e servizi efficaci ed efficienti.
Il Cesvol (Centro Servizi Volontariato di Perugia) ha fatto propria l’esigenza delle organizzazioni di volontariato di colmare queste criticità gestionali per tradurle in un’opportunità formativa di ampio respiro in grado di tracciare le linee principali e di fornire le competenze di base per le problematiche gestionali del personale, volontario e non, delle associazioni di volontariato.
Gli obiettivi, prefigurati dalla Fondazione Italiana per il Volontariato (FIVOL) e dal Cesvol di Perugia per la realizzazione di questo corso sulla gestione delle risorse umane nel non profit, sono frutto dell’analisi dei bisogni formativi delle associazioni locali e dell’esperienza pluriennale della Fivol nella formazione al volontariato in tutto il territorio italiano.
Il corso ha focalizzato l’attenzione su quattro obiettivi principali:
La FIVol ha cercato inoltre di proporre un prodotto che rispettasse più di tutto le esigenze dei partecipanti al corso e rispondesse alle loro domande, calibrando il proprio intervento sul “cliente” del corso di formazione, assumendo l’ottica di offrire un prodotto di qualità, che tenesse come punto fermo innanzitutto le richieste e le domande mosse dal cliente e la sua soddisfazione.
Una volta esplicitati gli obiettivi che si intendevano raggiungere con il corso, possiamo dare come obiettivo principale di questa dispensa quello di proporre una filosofia di fondo che possa essere condivisa anche all’interno delle organizzazioni, soprattutto dal “vertice” gestionale, e che tende a dare alla gestione delle organizzazioni non profit uno statuto proprio, uno schema di riferimento diverso da quello della cultura industriale proprio delle aziende: il mercato ed i suoi valori commercialistici impiantati sulle logiche di efficacia ed efficienza.
Attraverso questo lavoro, chiamato non a caso “Appunti sulla Gestione delle risorse umane nel non profit”, in quanto inizio di un “viaggio” non esaustivo e completo, vorremmo mettere in evidenza anche come il compito primario delle realtà sociali (Terzo settore) e in particolare quelle di servizio (sanità, servizi sociali, solidarietà, mutuo soccorso, convivenza, giustizia, ecc.) non sia, come per le imprese, quello del ritorno economico dei propri investimenti. «Il loro “successo” consiste solo in parte, secondaria e strumentale, nel bilancio economico, mentre si misura direttamente sui servizi/benefici prodotti per le persone e le comunità» (Ruvolo G., 2001, pag. 143), e sulla cultura solidaristica e progettuale che si riesce a sviluppare.
A partire da questo concetto principale, crediamo che il percorso da affrontare nella gestione delle risorse umane in un contesto non profit sia legato ad un’attenzione continua alle esigenze e alle domande della comunità e degli individui che ne fanno parte, ma anche alle esigenze delle persone che fanno parte delle stesse organizzazioni di volontariato, poiché è dall’integrazione dei due aspetti (esterno e interno dell’organizzazione) che si traggono la maggior parte dei benefici e che è possibile pensare ad una vera e propria funzione di gestione dell’organizzazione.
Questa dispensa parte dai materiali, rivisti ed ampliati, presentati nel corso di formazione “Gestire le risorse umane nel non profit”, tenutosi a Città di Castello dal 26 settembre al 4 ottobre 2001. La dispensa è stata curata da Paola Atzei e da Marco Guidi.
1.1 Valori e risorse umane nella gestione interna di un’organizzazione
Parlare della gestione delle risorse nel volontariato ha acquisito un significato preponderante, in quanto le rinnovate esigenze del Terzo Settore e dei suoi servizi spingono continuamente le organizzazioni di volontariato verso nuove sfide e nuovi giochi strategici. Ciò accade non solo per il continuo sviluppo di nuove tecnologie e per l’andamento dell’economia globale, che a più riprese investe anche il Terzo Settore, ma anche per quella che viene oggi a più voci definita come la “perdita dei valori relativi alla convivenza civile”, per le sempre più precise richieste da parte degli utenti, che si mostrano più consapevoli dei loro bisogni.
Le nuove caratteristiche del lavoro nel Terzo Settore spingono le organizzazioni verso un cambiamento delle “regole del gioco” finora utilizzate e inducono delle vere e proprie crisi organizzative anche e soprattutto in quelle associazioni che si basano su vecchi modelli comportamentali e previsionali non più funzionali al raggiungimento degli obiettivi originari che si vanno appunto ridefinendo.
Se facciamo riferimento alle associazioni di volontariato, oggetto di nostro primario interesse, diventa di centrale importanza considerare lo sviluppo e il mantenimento di una competenza organizzativa all’interno di questi sistemi. Una competenza che possiamo intendere come: “la capacità di sviluppare delle categorie di lettura che permettano, in un ambiente in continuo mutamento, di cogliere e tradurre in un linguaggio più familiare gli eventi più complessi ed estranei alla routine del sistema” (Montesarchio et al., 2001, pag. 80).
Per superare le nuove sfide proposte da una società in continuo mutamento, infatti, occorre sempre più essere capaci di fronteggiare in modo veloce e flessibile gli accadimenti. È per questo motivo che da più parti viene riconosciuta la centralità che la gestione delle risorse umane assumono anche nelle organizzazioni del Terzo Settore e nelle associazioni di volontariato.
Al centro dello sviluppo e del successo di un’organizzazione di volontariato si colloca, in maniera sempre più preponderante, quell’insieme di competenze –cosiddette trasversali- che includono tra le altre:
Immaginiamoci, infatti la “fortuna” che può fare un’organizzazione capace di leggere in maniera coerente e realistica le richieste ed i bisogni del proprio territorio e di pensare a progettare delle attività e dei servizi specifici per questi, magari utilizzando dei bandi pubblici che consentano di utilizzare i fondi appositamente destinati per certe misure di intervento!
1.2 Il percorso delle persone che entrano nell’organizzazione
Il percorso che una persona che si avvicina ad un’organizzazione deve fare va da una fase di reclutamento/selezione, ad una fase di accoglienza per finire con una fase di socializzazione. Vediamo nel dettaglio questi passaggi.
L’accesso all’organizzazione (o “l’entrata nell’organizzazione”)
Dal momento in cui un volontario o una persona entra in un’organizzazione si ha l’incontro fra una domanda e un’offerta.
Nel mondo profit questo primo momento di conoscenza si sviluppa come una valutazione (o assessment),spesso effettuata mediante la selezione del personale, da un esperto della selezione. Potremmo rimarcare quanto sia importante nel mondo lavorativo fare un’accurata selezione del personale e quanto possano divenire rilevanti le risorse umane per le stesse aziende, in quanto le persone che vengono scelte per lavorare nell’azienda sono a pieno titolo delle risorse per lo sviluppo dell’azienda stessa, e l’azienda tende ad investire sulla persona per i propri scopi a medio e lungo termine.
Crediamo che anche nel mondo non profit possa esserci un’attenzione specifica al momento dell’incontro iniziale con le persone che entrano in contatto con le organizzazioni. E se anche nel mondo non profit non ha spesso senso parlare di una vera e propria selezione del personale, rimane tuttavia importante un momento di valutazione delle competenze e delle aspettative che il nuovo volontario e/o lavoratore ha. E’ altresì importante che fin dalle prime fasi di conoscenza emergano i valori rispetto ai quali viene fatta una scelta e sui quali si basa l’organizzazione. L’incontro iniziale –tra la persona e l’ente- nel volontariato ha una carica valoriale molto forte, non solo attitudinale, che lo caratterizza rispetto ad altre situazioni.
Diversamente da quanto potremmo immaginare, il momento iniziale della valutazione delle persone somiglia, più che ad un singolo incontro, ad un percorso ampio e complesso che coinvolge appieno sia l’organizzazione che l’aspirante lavoratore/volontario.
Proprio per questo è sempre utile insistere nel porre attenzione in questa prima fase di incontro e conoscenza, proprio per far sì che sia la persona che l’organizzazione possano sviluppare un rapporto ancorato su relazioni ben chiare e definite.
Una volta che le persone sono entrate a far parte delle organizzazioni si ha un periodo (che varia in lunghezza a seconda di variabili, come la personalità della persona, dell’ampiezza dell’organizzazione, del servizio offerto, del territorio in cui si è inseriti, ecc.) in cui la vera e propria conoscenza fra i vari “vecchi” ed i “nuovi” membri dell’organizzazione si estende in un periodo di socializzazione.
In questo periodo è sempre importante che la persona si senta seguita, affiancata e possa sperimentare un senso di appartenenza, poiché questo farà da cemento e permetterà di sviluppare delle relazioni di lunga durata.
Coinvolgere fin dall’inizio, in modo partecipativo ed accogliente, la persona nel nuovo contesto, significa:
Sottolineiamo questi punti, perché in questa fase di socializzazione spesso le persone si possono trovare confrontati con emozione estreme quali il sentirsi di far parte di un’isola felice, oppure il sentirsi completamente esclusi dagli altri. Questi estremi sono spesso indici della cultura espressa dall’organizzazione (iper-accogliente ma anche indifferenziata, nel primo caso, tendente all’esclusione, ma anche al riconoscimento delle differenze e del nuovo venuto, nel secondo caso) e se possibile andrebbero raccolti e mediati in maniera positiva dai responsabili dell’organizzazione.
I ruoli
Oltre che sulle emozioni delle persone che ne fanno parte, ogni sistema organizzativo si costruisce in base ad una divisione di ruoli e funzioni più o meno rigidi. Anche le organizzazioni di volontariato, naturalmente si strutturano a partire dalla suddivisione e dal decentramento delle funzioni tra le persone e tra gruppi di persone diversi.
Alcuni aspetti caratteristici dei ruoli sono sempre riconoscibili in ogni organizzazione. Ogni ruolo, come insegna la psicologia sociale, si distingue, infatti, in base a:
A partire dalla differenziazione delineata, risulta evidente che nel definire un ruolo non si può prescindere dall’individuare quali siano le conoscenze relative a quel ruolo, quale il saper fare competente, quale l’atteggiamento più utile da tenere, e questo diventa sempre uno dei compiti di chi ricopre il ruolo gestionale di un’organizzazione.
Allo stesso tempo, attraverso questi tre elementi (ruoli, compiti e funzioni) è possibile fare una fotografia della propria organizzazione e riuscire a sintetizzare in uno schema utile e semplice tutto il personale facente parte della struttura organizzativa. Vediamo nella figura qui di seguito una possibile chiave di lettura:
Avendo a nostra disposizione uno schema di riferimento si può agire efficacemente e velocemente su eventuali problemi o aspetti critici che si sono venuti a creare nella propria organizzazione, come si può, se necessario, provare a ristrutturare, riorganizzare e rimotivare i ruoli e le funzioni delle persone.
L’organo di gestione dell’organizzazione, in questo senso, non può non tener di conto dei propri compiti principali di coordinamento delle persone. Sono da annoverare in questi compiti le azioni di:
1.3 elementi costitutivi degli organismi non profit
Il volontariato si trova spesso a dover fare i conti con delle dinamiche che sono specifiche del proprio funzionamento. Un esempio su tutti è la suddivisione del personale in volontario e stipendiato. Questo elemento è tipico delle organizzazioni non profit e non ha un corrispettivo nel mondo aziendale (a meno di non voler considerare tirocini e stage alla stregua del lavoro volontario, senza tuttavia tenere di conto della durata molto ristretta nel tempo di questi tipi di occupazione, degli obiettivi fortemente diversi e del loro significato di formazione per un lavoro).
La dimensione del corrispettivo economico entro le organizzazioni di volontariato spesse volte crea, per quanto si tenda a negare questo aspetto, delle disparità motivazionali, ma soprattutto delle differenze di appartenenza fra le persone, delle quali l’organizzazione non può che risentire.
Da questo punto di vista, più che esserci un’efficace soluzione valida per molte occasioni, riteniamo che sia sempre importante poter aprire uno spazio di riflessione nel momento in cui ci si viene a trovare di fronte ad un conflitto in tal senso.
Se ci immaginiamo, infatti, che per operare nel mondo del non profit ci si fregia spesso di pratiche che assumono come dimensione principale dell’efficacia del proprio operato il modello cooperativo nel lavoro di gruppo, che identificano nella leadership distribuita e nella presa di decisioni democratica e non autoritaria delle componenti valoriali forti, possiamo renderci subito conto che la questione della retribuzione può rappresentare un forte elemento di “differenza” dal punto di vista motivazionale, relazionale ed emotivo.
1.4 FASI DI SVILUPPO DELLE ORGANIZZAZIONI NON PROFIT
L’arrivo di nuove persone, oltre a corrispondere ad un momento importante per il futuro volontario nell’organizzazione, corrisponde sempre, anche se non sempre in modo chiaro, ad un qualche progetto di sviluppo dell’organizzazione.
Non essendo il volontario retribuito, si potrebbe pensare che un’organizzazione possa accogliere quante più persone possibile. Purtroppo, le organizzazioni devono sempre tenere di conto di una serie di problemi. Primo fra tutti è le variabili dimensioni e ampiezze degli spazi entro ai quali le persone eventualmente andrebbero accolte, ma anche la dimensione organizzativa (un numero molto grande di persone implica prendere molte decisioni e fare delle azioni talvolta molto dispendiose non solo dal punto di vista economico) e quella funzionale.
Ma è soprattutto al livello della cultura organizzativa stessa, che va sempre fatto un pensiero su che tipo di organizzazione si vuole gestire. Non sempre, infatti, “grande è bello”. Grande può anche voler dire “complicato”, “problematico”, talvolta “ingestibile”. Detto ciò, possiamo aggiungere che non siamo neanche fautori del “piccolo è meglio”.
La questione non si risolve a tavolino, questo sarà già chiaro a tutti, ma una guida per attraversare questo bosco può essere costituita da un’attenta riflessione sull’ideale numero di persone che sono necessarie per fare certi servizi: è ovvio che oltre ad un certo numero vi sarà un esubero di persone.
Il punto è che avere nuovi volontari non sempre significa solo qualche persona in più, e nell’ottica di gestione di un’organizzazione si deve sempre fare attenzione a quelli che sono i limiti funzionali e organizzativi di un organismo. Per fare un certo tipo di servizio non si deve necessariamente essere in decine di persone, così come avere quaranta giocatori, per una squadra di calcio, significa tenerne ventinove in panchina, con tutti i disagi ed i malumori del caso.
Ammesso, comunque, che si cerchino nuovi volontari è sempre bene fare attenzione che la nostra esigenza non sia soltanto legata a voler aumentare il numero dei componenti della famiglia. Senza neanche essere profeti si può affermare che si andrebbe incontro ad una veloce insoddisfazione fra le persone.
La questione dello sviluppo appare quindi uno degli elementi centrali dell’approccio alla gestione delle organizzazioni, ma costituisce anche una delle fasi più delicate nel ciclo di vita di un’organizzazione. In questa fase si scontrano spesso idee diverse sulle direzioni da intraprendere: questo è normale, dal momento che tutti noi sappiamo che le cose possono essere sempre fatte in vari modi differenti.
Gli obiettivi del management (o della gestione) per le organizzazioni non profit si possono considerare, fondamentalmente, come la messa in atto di una serie di azioni che cerchino di mantenere la chiarezza dei fini e degli obiettivi nel tempo, ma che possano anche modularsi a seconda delle esigenze sui mutamenti del contesto organizzativo interno e del contesto sociale esterno. In sintesi il management deve:
Pur non essendoci delle modalità fisse e prestabilite (che è come dire “esiste un solo modo migliore per crescere, tutti gli altri sono sbagliati!”) abbiamo pensato di proporre una serie di tappe che rimangono fondamentali, al di là delle differenze storiche, organizzative, di finalità, culturali e del contesto in cui l’organizzazione si trova.
Percorso di sviluppo di una organizzazione di volontariato
I fase: L’idea di solidarietà
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ALCUNI PROBLEMI che possono emergere in questa fase:
II fase: la struttura di base
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ALCUNI PROBLEMI che possono emergere in questa fase:
III fase: sviluppo “filantropico-umanitario” dell’associazione
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ALCUNI PROBLEMI che possono emergere in questa fase:
IV fase: scontro sulla gestione interna e I nuovi non sono contenti
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ALCUNI PROBLEMI che possono emergere in questa fase:
generati da una mancata programmazione in itinere,
V fase: evoluzioni allo stato di crisi
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ALCUNI PROBLEMI che possono emergere in questa fase:
SCHEDA
Qui di seguito si è cercato di sintetizzare in una tabella quali sono le aree di interesse principali nelle organizzazioni non profit per colui che svolge la funzione di gestione. Queste sono le aree delle quali il management dovrà tenere di conto nel corso del suo impegno gestionale: l’organizzazione e la gestione del personale, la gestione economica, il mantenimento delle relazioni esterne, la gestione delle richieste degli utenti e come ultimo, ma non meno importante aspetto, la ricerca di finanziamenti.
LE AREE DI GESTIONE DELLE “ONP” 1. ORGANIZZAZIONE E GESTIONE DEL PERSONALE
2. GESTIONE ECONOMICA E CONTROLLO DI GESTIONE
3. RELAZIONI ESTERNE E GESTIONE DELLE RICHIESTE DEGLI UTENTI
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2 - Organizzazione non profit e individuo:
mission, obiettivi e strategie di intervento
2.1 Elementi caratteristici di una organizzazione di volontariato
Nelle organizzazioni non profit, al pari di altri organismi sociali, l’aggregazione fra gli individui e l’organizzazione viene mantenuta salda da una serie di dispositivi funzionali al raggiungimento di scopi precisi che con l’organizzazione ci si prefigge.
Mentre per quanto riguarda il mondo aziendale la missione di un’organizzazione si può ritenere scontata (e consiste grandi linee nel massimizzare il profitto in funzione del lavoro prestato), per le organizzazioni non profit questa missione non è affatto scontata e va sempre delineato l’ambito in cui ed il modo con il quale si intende operare e raggiungere dei risultati attraverso il proprio operato.
Per capire questo ci avvarremo di concetti come: valori, mission, vision, obiettivi, statuto, strategie e progetti.
Valori
I valori costituiscono i principi guida per dirigere l’azione. Essi si riferiscono al modo in cui un’organizzazione intende perseguire i propri scopi.
Facendo una classificazione dei valori si possono individuare dei:
I valori esplicitati confluiscono nella mission.
Mission
La mission può essere identificata con:
La mission viene tradotta in un documento, che diviene lo statuto dell’organizzazione.
Statuto
Mission e statuto sono, da questo punto di vista, strettamente correlati.
L’importanza della mission e dello statuto risiede nel fatto che questi costituiscono agli occhi del mondo le finalità che un’organizzazione si è voluta dare per portare avanti il proprio operato.
La missione e lo statuto dell’organizzazione dovrebbero quanto più possibile essere resi manifesti e comunicabili, in modo che tutti coloro che volessero prendere parte all’associazione o intendessero entrare in contatto con essa avrebbero chiari quali sono i valori, le norme, le deleghe, i divieti e gli obblighi che nell’organizzazione si sono voluti esprimere, in maniera da poterne condividere o rifiutare i vari aspetti.
Vision
La vision di un’organizzazione costituisce tutto quanto l’organizzazione intende realizzare nel medio-lungo periodo.
La necessità di costituire una vision, per la propria organizzazione:
La mission e la vision sono possibili solo con il chiaro mantenimento degli intenti che coloro che partecipano all’organizzazione (o un gruppo dirigente, come il comitato esecutivo o il consiglio direttivo) hanno esplicitato e che continuano a mantenere operativamente con il loro operato. Mentre entrambe costituiscono delle finalità piuttosto generali, queste linee-guida vanno di volta in volta tradotte in obiettivi specifici.
Obiettivi
Si possono definire con obiettivi quegli esiti che a lungo termine vengono desiderati come frutto di azioni dell’organizzazione. In questo senso ogni azione dell’organizzazione deve essere tesa al raggiungimento degli obiettivi, costruendosi a tal fine delle specifiche strategie.
Strategie di azione
Le strategie sono concettualizzabili come quei metodi più funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi, coi quali si conservi la maggiore efficacia ed efficienza possibile.
Le strategie sono inevitabilmente legate tra loro e si costituiscono in un più generale progetto che le riunisce.
Progetto strategico
Il progetto di un’organizzazione definisce quelle attività (o azioni) che l’organizzazione intende perseguire (o compiere) per mettere in pratica i propri fini. Il progetto rappresenta lo strumento finalizzato a guidare l’assunzione e la presa di decisioni riguardanti temi importanti dell’organizzazione. Il progetto:
3 - ELEMENTI DI gESTIONE DI GRUPPI DI LAVORO
3.1 Importanza dei gruppi sulla vita dell’individuo
La vita dell’uomo è intrinsecamente legata alla presenza di persone vicine; noi siamo costantemente in rapporto con altri individui, altri gruppi, con istituzioni, ecc. Questo rapporto viene continuamente regolato e ci permette costantemente di avere delle informazioni sul nostro comportamento, sulle nostre azioni e sulla previsione delle nostre azioni future. Coloro che si occupano o che intendono occuparsi della gestione delle risorse umane entro i contesti organizzati non possono esimersi dal conoscere in maniera approfondita alcune delle caratteristiche fondamentali del comportamento delle persone nei gruppi e delle funzioni che i gruppi svolgono per le persone.
Una delle prime e più importanti funzioni svolte dai gruppi è quella del sentirsi partecipi di un sistema di appartenenza. Questa funzione fondamentale, per l’uomo e anche per gli animali, permette di preservarci dallo sperimentare un opprimente e angosciante senso di solitudine, sia di modulare il nostro rapporto con gli altri che, se appartenenti al nostro stesso sistema o al nostro gruppo, vengono emotivamente sentiti come amici, come vicini, come affettuosi.
Esistono almeno due grandi tipologie con le quali si possono classificare i gruppi di appartenenza:
Come possiamo vedere, tra i gruppi di appartenenza esiste una distinzione fra la vicinanza ed il grado di influenza che questi hanno sugli individui. Tra i gruppi primari si annoverano anche i gruppi di lavoro, che costituiscono dei gruppi entro i quali le persone si riconoscono, si identificano e si sentono di partecipare affettivamente.
I gruppi svolgono alcune funzioni significative nella vita delle persone; tra queste si possono includere delle funzioni:
3.2 L’organizzazione del lavoro
Le organizzazioni, in senso lato, sono definibili come dei gruppi di persone che si sono riuniti per raggiungere degli obiettivi in maniera il più possibile funzionale. Stare dentro ad un’organizzazione significa stare dentro ad un gruppo di dimensioni medio-grandi (che cioè conta dalle 10 fino anche a 500 o anche 1000 persone). In quanto espressione di un gruppo, anche le organizzazioni ubbidiscono a (o meglio presentano) delle dinamiche specifiche che possono essere sintetizzate per comprenderne il funzionamento. Il lavorare in un gruppo, infatti, ha bisogno di motivi ed obiettivi precisi.
Partiamo dalla distinzione fra:
Lavorare in gruppo
Il livello di differenziazione e di complessità che è stato raggiunto nel corso dei secoli dal lavoro, non permette quasi mai che delle operazioni possano essere svolte da singoli individui. Di solito, quindi, il risultato di un lavoro è ottenuto attraverso la sommatoria del lavoro di più persone, che unendo i propri sforzi riescono a raggiungere degli scopi specifici.
Il lavorare in gruppo, quindi, può essere grosso modo sintetizzato come: quel tipo di lavoro che utilizza come strumento, o meglio come strategia, l’abbattimento dei costi e degli sforzi individuali mediante la partecipazione di varie persone alla creazione di un prodotto finale.
Il lavorare in gruppo, più che un modello di lavoro, quindi, è una necessità sorta dal continuo aumento del livello di complessità e di organizzazione dei prodotti e dei servizi risultati dal lavoro delle persone. Questo concetto sta quindi alla base di qualsiasi idea di lavoro organizzato.
Tuttavia, ciò che crediamo manchi, nel concetto di lavoro in gruppo nei contesti organizzativi, è la possibilità di sviluppare una mentalità di condivisione con gli altri mediante il confronto continuo e la presa di decisioni comuni.
Spieghiamo meglio questo punto. Lavorare in gruppo significa mettersi insieme per fare qualcosa; ma questo non ci dice niente (o poco) sul chi faccia cosa, su quanto faccia l’uno e quanto l’altro, su come farlo, ecc. Il risultato spesso è che se ci si mette insieme per fare delle cose, probabilmente più persone faranno la stessa cosa e nessuno un’altra.
In altre parole, nel concetto di lavorare in gruppo ci sono sempre delle finalità, ma mai degli obiettivi; ci si comunicano le mete che si vorrebbero raggiungere, ma non si stabilisce un modo funzionale che si vorrebbe seguire per raggiungerle.
Il lavoro di gruppo
Il lavoro di gruppo è la condizione fondamentale perché un lavoro possa essere organizzato in varie parti tra loro interagenti, possa essere realizzato in differenti modalità, permetta la differenziazione dei ruoli delle persone, preveda la distribuzione dei compiti e delle funzioni, ecc.
Se nel lavoro in gruppo si importano fondamentalmente le modalità del lavoro che si fa da soli ad una modalità sovra-individuale, è solo con il lavoro di gruppo che si riesce a passare da un modello individuale ad un modello contestuale (o organizzato) di lavoro.
Nel lavoro di gruppo le varie parti del lavoro vengono pensate e messe in azione mediante una pensiero che riesce ad integrare delle funzioni a delle persone e mette in gioco la valutazione e la condivisione continua del lavoro fatto o previsto. Il lavoro di gruppo, quindi, prevede una funzione di pensiero sulle azioni messe in atto per raggiungere gli obiettivi.
Il gruppo di lavoro
Con gruppo di lavoro possiamo definire quel gruppo di persone entro il quale si persegue, oltre al raggiungimento degli obiettivi pratici, l’obiettivo della costruzione e del mantenimento di una rete di relazioni funzionali ai componenti del gruppo stesso per lavorare in maniera armonica.
Come sappiamo, infatti, le motivazioni delle persone negli ambienti di lavoro e di volontariato sono legate alle relazioni con gli altri, dai quali traggono spinte, emozioni, affetti, amicizie, ecc.
Il gruppo di lavoro costituisce quel nesso fondamentale attraverso il quale si ha una naturale crescita del senso di appartenenza, del sentimento del “noi” o del gruppo. Il gruppo di lavoro, costituisce uno strumento col quale si possono dare risposte organizzative veloci e adeguate nei contesti lavorativi.
Lavoro in gruppo |
Lavoro di gruppo |
Gruppo di lavoro |
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3.3 Aree di competenze nella gestione di gruppi di lavoro
Per poter gestire in maniera competente i gruppi di lavoro si fa riferimento:
Si possono individuare anche altre componenti rilevanti con le quali definire i fattori più importanti del lavoro di gruppo:
La guida del gruppo
Va da sé che perché un gruppo possa funzionare è necessario che vi sia una suddivisione di ruolo fra i costituenti di un gruppo o di un’organizzazione. In questo senso è anche chiaro che il ruolo di colui che indirizza, dirige o definisce le azioni da compiere è uno dei ruoli più importanti nel gruppo. Colui che svolge questo ruolo viene definito leader. Per meglio capire che cosa significhi essere leader, quali siano le sue caratteristiche, per parlare della leadership autoritaria e distribuita e per mettere in evidenza questo ruolo nelle organizzazioni, presentiamo qui di seguito i pregi e i difetti delle varie tipologie di leadership.
Gruppi più e meno efficaci nel volontariato
Proponiamo adesso una griglia di lettura efficace e sintetica per poter cogliere appieno le differenze fra i gruppi di persone che si strutturano nel volontariato (e nel terzo settore). Con questa griglia si propongono degli elementi principali come la definizione degli obiettivi, la comunicazione, la partecipazione, l’informazione, l’influenza, il potere, le decisioni, la gestione dei conflitti, ecc.
Gruppo più efficace |
Gruppo meno efficace |
Gli obiettivi sono chiarificati e modificati in modo che possa essere raggiunta la convergenza o la sovrapposizione migliore possibile tra scopi individuali e scopi del gruppo. Gli scopi sono strutturati in modo che possano essere raggiunti attraverso la collaborazione dei membri del gruppo. |
I membri accettano scopi imposti e gli scopi sono strutturati in modo che il loro conseguimento entri in una modalità individualistica e competitiva |
La comunicazione è in “due direzioni”; è enfatizzata l’espressione aperta e accurata sia delle idee che delle sensazioni o emozioni che vengono provate e vissute |
La comunicazione è prevalentemente unidirezionale, vengono privilegiate le idee, i concetti e i problemi, mentre le sensazioni o le emozioni vengono soppresse, trascurate o ignorate. |
Partecipazione e leadership vengono distribuite fra tutti i membri del gruppo; si presta molta attenzione alla realizzazione degli obiettivi, allo stato psicologico interno dei soggetti, al cambiamento e all’evolversi dei membri e delle situazioni |
La leadership è delegata e fondata sull’autorità e sul potere. La partecipazione dei membri è disuguale, con un dominio dei membri con più alta autorità. È soprattutto sottolineato il raggiungimento degli obiettivi. |
Abilità e informazione determinano influenza e potere; vengono stabiliti contratti per assicurarsi che obiettivi individuali e bisogni siano raggiunti: il potere è equamente distribuito e condiviso |
La posizione determina l’influenza e il potere: il potere è concentrato nella posizione dell’autorità e l’obbedienza all’autorità è la regola. |
Le procedure decisionali si adattano alla situazione; metodi diversi sono utilizzati a seconda dei momenti- Per decisioni importanti si cerca il consenso. Il coinvolgimento e le discussioni di gruppo sono altamente favorite e incoraggiate |
Le decisioni sono sempre prese da chi è più alto in autorità. La discussione in gruppo è poca e il coinvolgimento dei membri minimo. |
Controversie e conflitti sono visti come un elemento positivo per il coinvolgimento dei membri, la qualità e l’originalità delle decisioni e il mantenimento del gruppo in un buon livello di lavoro e impegno. |
La controversia e il conflitto sono ignorati, negati, evitati o soppressi |
I comportamenti interpersonali e quelli intergruppo sono sottolineati. La coesione è migliorata e sviluppata attraverso alti livelli di inclusione, riconoscimenti, accettazione e .fiducia. L’individualità è apertamente riconosciuta |
Si enfatizza ciò che si fa e si riesce a realizzare. La coesione è trascurata o ignorata. I membri sono controllati da una pressione alla conformità e dalla forza. Si promuove un comportamento rigidamente uniforme. |
La capacità di affrontare e risolvere i problemi è alta. |
La capacità di affrontare e risolvere i problemi è bassa. |
I membri valutano l’efficacia del gruppo e decidono come migliorare il suo funzionamento. Il raggiungimento degli scopi, le perseveranza interna e lo sviluppo sono tutti ritenuti importanti. |
La persona responsabile o più alta in autorità valuta l'efficacia del gruppo e decide come il conseguimento deve essere conseguito e migliorato. Lo stato interno e lo sviluppo dei membri sono il più possibile ignorati; la stabilità è invece ricercata, sostenuta e affermata. |
Efficacia interpersonale, realizzazione personale e innovazione sono incoraggiati |
Persone che eseguono ordini o che desiderano ricevere ordini, stabilità e strutture sono ricercate e incoraggiate. |
4 - LEADERSHIP, CONFLITTI INTERPERSONALI E
PROCESSO DECISIONALE
4.1 La leadership
Uno dei ruoli maggiormente studiati dagli esperti delle scienze organizzative e sociali è quello del leader. La parola leader deriva dalla lingua inglese e significa letteralmente “comandante”, “capo”, “guida” (dall’inglese “to lead”: condurre, guidare, ed anche convincere, persuadere) ed ha a che fare con l’atteggiamento fortemente propositivo ed assertivo che una persona svolge all’interno di un gruppo e/o di un’organizzazione. Il leader è colui che più o meno consapevolmente funge da catalizzatore delle “energie” e da promotore delle idee del gruppo o dell’organizzazione. Egli svolge funzioni di forte creatività e innovazione: fa molte domande, porta avanti questioni anche da solo, si espone e si mette in gioco in prima persona, senza tuttavia rimanere isolato, anzi, cercando di coinvolgere le altre persone nelle attività che sta portando avanti.
Gli studi sulla leadership (ovvero sulla funzione svolta dal leader) hanno condotto a modi diversi di intendere il ruolo di leader all’interno dei gruppi. Uno di questi è quello di considerare il leader come una persona naturalmente dotata di un grande carisma e di talento innato (la leadership carismatica). Altri studi tendono a ridimensionare questa impostazione “naturalistica”, secondo la quale alcune persone sarebbero da considerarsi più dotate di altre alle attitudini di comando, e tendono a sottolineare, invece, come a seconda del contesto di un’organizzazione o dentro a un gruppo venga ad assumere la funzione di leadership colui che in un momento specifico può essere considerato più competente e più adatto a rivestire quel ruolo (la leadership situazionale).
In base a questa impostazione non esiste una leadership “buona per tutte le occasioni”, ma una leadership che acquista significato in alcune situazioni particolari. Di conseguenza non esiste un leader valido per ogni fase della vita dell’organizzazione, ma un leader che può svolgere un buon lavoro in un determinato momento storico e in una situazione particolare.
Vi sono altre ricerche, inoltre, che evidenziano nella funzione di leadership la caratteristica principale del sapere organizzare un gruppo e di guidarlo al raggiungimento di un obiettivo ed alla realizzazione di certi compiti. Leader sarebbe, quindi, colui che è più competente nel finalizzare le proprie attività e anche quelle degli altri al raggiungimento degli obiettivi (la leadership organizzativa). In un’organizzazione il leader, però, non svolge soltanto un’attività organizzativa.
Nella nostra esperienza quotidiana abbiamo costantemente esempi di come all’interno dei gruppi sociali e nelle organizzazioni vi siano delle persone che più che ricoprire il ruolo di organizzatore fungono da collante per il gruppo stesso. La leadership esercitata da queste persone non è di tipo operativo, ma di tipo affettivo e emozionale. Il leader emozionale è allora la figura di riferimento del gruppo e/o dell’organizzazione capace di far crescere e mantenere la coesione sociale interna, funzionale al bisogno di appartenenza degli individui di un’organizzazione.
Alcuni autori che hanno studiato la questione da un vertice psicologico e organizzativo cercando di mettere insieme queste qualità per cercare di definire in maniera più organica la leadership, tendono a definirla non tanto come una qualità, ma come un processo del quale individuano i fattori dinamici caratteristici del processo di leadership. A questo proposito Posner e Kouzes (Spatafora, 1999) individuano cinque pratiche comuni che il leader può mettere in atto:
Attraverso la definizione di questi autori il concetto di leadership è uscito dalle secche costituite dal pensiero tradizionale, secondo la quale la leadership sarebbe un’attitudine di comando (leadership autoritaria), e si sposta verso il terreno della condivisione, secondo il quale il leader sarebbe soprattutto un facilitatore della presa di decisioni (leadership distribuita).
4.2 IL ProcessO decisionalE
A vario titolo, parlando dei ruoli che le persone assumono nelle organizzazioni, e soffermandoci sul ruolo del leader, si è parlato dei processi decisionali. Come si sarà intuito, nella nostra proposta è insito un modello di presa di decisioni non basato su procedimenti autoritari, né conflittuali, ma che sia, anzi, il più possibile condiviso e collaborativo.
Prendere decisioni in gruppo
Alcune tipiche modalità con le quali si possono prendere delle decisioni in un gruppo sono:
La decisione per consenso
Questo metodo nella nostra proposta è sicuramente il più coinvolgente di tutti, poiché richiede che tutti siano d’accordo sulla soluzione da seguire. È immediatamente evidente, tuttavia, che la decisione per consenso richiede più tempo, dal momento che tutti possono esprimersi, che nessuno deve rimanere in silenzio, e soprattutto che quelli che erano stati di parere diverso debbono avere la chiara sensazione di essere stati compresi.
L’evidenza dell’accordo raggiunto si ha quando ciascuno è in grado di illustrare correttamente la decisione presa. Decidere attraverso il consenso richiede, più di tutte le altre modalità, saper procedere secondo un lavoro di gruppo cooperativo.
Per raggiungere il consenso occorre
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Proponiamo qui di seguito alcuni atteggiamenti che permettono di prendere decisioni a partire dal consenso (da Johnson, Johnson e Smith, 1991).
I 6 atteggiamenti che permettono di decidere con il consenso di tutti:
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Lavorare o portare a termine delle azioni con gli altri è uno dei compiti ineludibili da parte di chi fa parte di contesti associativi (come le organizzazioni di volontariato). Sebbene sembri scontato, lo stare insieme ha bisogno di alcune competenze nel farlo.
Non sempre sono sufficienti le motivazioni altruistiche, per stare con gli altri, poiché almeno un’altra competenza entra in gioco quando nella relazione si sviluppa una crisi: riflettere sulle dimensioni conflittuali.
I conflitti troppo spesso vengono trattati come se fossero delle qualità che una persona ha, o come delle motivazioni a carico di una persona.
Le motivazioni individuali, tuttavia, non possono esaurire il campo di spiegazioni che si dispiegano sotto ad un conflitto.
Il fallimento in una situazione relazionale generalmente porta ad una situazione in cui si sente un malessere o un disagio.Spesso queste emozioni, come già detto, tendono ad essere spiegate come fatti naturali o caratteriali (“le cose non riescono perché è impossibile lavorare con te…”; “col tuo carattere rovini sempre tutto…”).
Pensare i fallimenti come se fossero qualcosa di naturale, significa intenderli sostanzialmente come immodificabili, in quanto appartenenti alle persone, piuttosto che costituire il risultato di una relazione fra più persone.
Crediamo che possa esistere un approccio migliore rispetto ai conflitti: quello di sentirsi tutti, in prima persona, agenti di conflitto e di emozioni nei gruppi e nelle organizzazioni. Nessuno, in altre parole, ha sempre la colpa totale di una certa situazione; così come nessuno non ne ha mai.
Un utile insegnamento in questa direzione potrà essere quello di cercare di sforzarsi di pensare i conflitti come delle dinamiche tipiche della relazione e degli scambi sociali. Lo scontro è, infatti, una tra le tante altre categorie di relazione fra le persone. E l’aggressività (con il suo processo più estremo nella violenza) come una solamente delle modalità di espressione del conflitto.
La difficoltà che si incontra più spesso nella gestione dei conflitti è quella di capire quale sia la differenza tra il messaggio che una persona invia e la persona stessa. In altre parole, il primo sforzo utile potrebbe essere quello di distinguere fra il contenuto discutibile di un messaggio e chi lo esprime.
La comprensione e la risoluzione del conflitto può attraverso tre passi o fasi principali:
E’ utile che La risoluzione del conflitto venga considerata, essenzialmente, come l’aspetto finale del conflitto. Un conflitto è, infatti, una configurazione relazionale e comportamentale che tende ad una risoluzione. Una situazione di disequilibrio che tende ad un riequilibrio “naturale”. Per rendere efficace e gestibile il conflitto il primo impegno è quello di comprenderne il significato nascosto e simbolico. Il conflitto, secondo questa lettura, è una manifestazione che sta per qualcosa d’altro e di nascosto. Il conflitto (in quanto scontro, crisi e fallimento di un precedente equilibrio relazionale) è ciò che rende evidente qualcosa che non va.
Un punto importante, quindi, è quello di non negare il conflitto. Non negarlo significa, prevalentemente, parlarne ed esplicitarlo. In questo modo si può fare emergere il suo significato simbolico che è nascosto sotto la sua più superficiale copertura.
Il secondo punto importante, come abbiamo visto, è elaborarlo. Ma il valore aggiunto dell’elaborazione consiste nel poter elaborare con tutte le parti in causa del conflitto. In questo modo la risoluzione porta ad un aperto confronto fra punti di vista contrapposti.
Elaborare insieme è un processo di condivisione simbolica nient’affatto facile. Significa riflettere contemporaneamente su se stessi, sull’altro e su ciò che non va nella relazione. Ogni processo di elaborazione che non tenga conto di queste tre componenti nega o esclude una delle parti in gioco nel conflitto (noi, l’altro e la relazione).
Rimanere aperti, da questo punto di vista, significa connotare l'altro come un estraneo che ancora possiamo imparare a conoscere. Connotarlo immediatamente come nemico significa attribuirgli sin da subito tutte le caratteristiche negative del conflitto e negare la parte simbolica che mette in discussione anche noi con l’altro.
Come ulteriore fase verso la risoluzione del conflitto, possiamo esplicitare quella della gestione della crisi. Gestire è altro da risolvere, già lo abbiamo detto. Gestire significa attribuire dei significati a dei segni (quelli appunto del conflitto). Significa imparare dei codici di lettura della realtà che ci circonda. Nella nostra ipotesi, gestire significa implicarsi nella relazione con l’altro e insieme a lui stabilire delle strategie di svolgimento.
Una risoluzione che tenga conto di una sola delle parti non è una risoluzione competente.
Proviamo a delineare nello specifico quali modalità possono costituire l’esito di un conflitto.
Modalità con le quali si affronta il conflitto
Dominio
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Compromesso
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Fuga
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Accomodamento
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Integrazione
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In questa dispensa si è cercato di veicolare l’idea che l’orientamento più utile da utilizzare nell’ambito non profit sia proprio quello dello stile cooperativo, con il quale le persone possono avere la libertà di partecipare in maniera più piena e profonda alle attività della propria organizzazione. A sua volta, crediamo che coerentemente con uno stile di gestione collaborativo, la modalità più utile per affrontare il conflitto è la modalità dell’integrazione, che appare come la modalità più matura per cercare delle strategie di soluzione efficaci e condivise con le persone con le quali condividiamo il contesto di vita.
Il volontariato e il terzo settore, lo abbiamo già detto, non ricercano il profitto come obiettivo di fondo nella propria missione, tuttavia è sempre importante che il volontariato sappia individuare delle risorse nel proprio territorio (anche risorse di tipo economico), mediante le quali poter portare a compimento le proprie idee.
Ma per poter convincere gli altri dell’utilità e della bontà delle proprie finalità il volontariato ha bisogno di elaborare dei progetti che abbiano il duplice scopo di rendere espliciti i passi che si vogliono compiere per raggiungere determinati obiettivi e rendere evidente anche agli altri i passaggi che si vogliono compiere. Quest’ultimo punto è particolarmente importante quando l’organizzazione, mediante un progetto, cerca di ricevere dei contributi (economici) da altre agenzie (ad esempio le istituzioni locali).
Ma oltre ad essere ancora uno dei metodi considerato fra i migliori per ottenere dei finanziamenti, il lavoro per progetti assume delle caratteristiche specifiche per il settore del volontariato, infatti attraverso di esso:
Tuttavia il lavoro per progetti è un utile strumento “di pensiero” che tutta l’organizzazione e in particolare per coloro che ricoprono la funzione di gestione delle risorse interne all’associazione possono ampiamente beneficiarne e farne un buon utilizzo. Ad esempio preparare dei progetti prima di compiere delle azioni specifiche potrebbe risultare molto significativo per:
Scheda di sintesi.
PER LA PECULIARITA’ ED EVOLUZIONE DEL VOLONTARIATO
Per anticipare il pensiero all’azione in modo sistematico
Per la necessità di passare dallo spontaneismo alla progettualità
Per rimuovere cause del disagio
Per pensare ed agire a lungo termine e non solo sull’emergenza
Per operare con creatività e innovatività
PER L’ORGANIZZAZIONE E LA GESTIONE INTERNE ALL’ASSOCIAZIONE
Per agire in modo efficace e non dispersivo
(darsi metodo di lavoro)
Per distribuire, in base a criteri chiari e condivisi, le responsabilità
ed i compiti fra i vari membri dell’associazione
(razionalizzazione risorse)
Per sviluppare un’interdipendenza positiva tra le motivazioni del
personale, le motivazioni dell’organizzazione, gli obiettivi, le azioni ed
i bisogni o richieste esterne all’organizzazione
(relazione positiva interno/esterno),
Per creare identità e appartenenze tra operatori su interventi chiari
(sviluppo dell’appartenenza)
(aumento della visibilità e miglioramento della propria immagine
nel territorio)
Per essere riconosciuti, individuati dalle istituzioni, servizi e popolazione
(diventare punto di riferimento)
Per essere affidabili mostrando chiarezza di intenti e di azione
(affidabilità)
Per proporre sinergie su obiettivi e interventi
(lavoro di rete)
Per avere una solidità economica per operare a lungo termine
(costruire partnership di lungo termine)
PER LA PECULIARITA’ ED EVOLUZIONE DEL VOLONTARIATO
5.2 Le competenze progettuali per lo sviluppo dell'associazione e del lavoro sul territorio
L'esigenza di lavorare per progetti sorge in modo fisiologico, all’interno di un organismo del Terzo settore, quando l’organizzazione cresce e si sviluppa, oppure evolve verso un differente modo di agire rispetto al passato, per cui necessita di nuovi modi per organizzare i propri compiti o anche tutti i servizi prestati in generale.
La modalità di lavoro per progetti sorge in seguito ad una riflessione sul proprio modo di utilizzare le risorse, che spesso non è adeguata rispetto all’impegno profuso. Si sono ad esempio verificati degli sprechi di risorse (economiche ma anche di investimento delle persone dell’organizzazione) a fronte di scarsi risultati. In questo modo, l’eventuale crisi di un’organizzazione fa crescere la sensazione che non è soltanto importante pensare in termini di usare le risorse che si riescono a raggiungere, ma di gestirle.
In questo modo si riesce a non disperdere il proprio impegno, col risultato di non ottenere una concreta soluzione o obiettivi precisi. Per questo motivo, a fronte di una volontà di cambiamento diventano evidenti le tensioni contrarie che tendono a riprodurre in maniera immutabile sempre le stesse azioni entro l’organizzazione e il rischio di diventare completamente autoreferenziali in quello che si propone all’esterno aumenta in maniera smisurata.
Sorge così l'esigenza di canalizzare ed indirizzare la creatività, di organizzare le idee e le relazioni interpersonali di lavoro senza paura di sacrificarle, di cominciare a pensare che il cambiamento è, se non necessario, quantomeno una soluzione possibile.
I passi da compiere in questa direzione sono proprio quelli che rappresentano le fasi nella progettazione di un percorso:
Ma alla base di questi passi (necessari ma non sufficienti) rimane sempre e comunque quella che si può definire come competenza di fondo della progettazione, la mentalità progettuale
La mentalità progettuale può essere concettualizzata come un approccio, una filosofia, un andare verso, un metodo di lavoro. Di fatto, però, consiste in una competenza di base sulla quale si poggiano realisticamente tutte le competenze successive, poiché la stessa mentalità progettuale costituisce anche la spinta motivazionale che dice alle persone: ce la possiamo fare.
Questa dimensione (o filosofia di fondo) per il volontariato è fondamentale, perché garantisce e consolida l'identità del volontariato stesso e l’arricchisce di prospettive e potenzialità che non vanno disperse ma rafforzate.
In questo modo, il volontariato riuscirà nel tempo a far crescere e sviluppare delle aspettative sul territorio, che spingeranno le organizzazioni verso un altro modo di lavorare: quello di limitare le risposte di emergenza, andando nella direzione della costruzione di offerte che costituiscano delle risposte più adeguate ed efficaci alle richieste/domande del territorio e che assicurano soluzioni durevoli nel tempo e globali (cioè che abbraccino più problemi).
La capacità e la metodologia progettuale perdono il loro valore e senso se non vengono inserite all'interno del percorso evolutivo e progettuale del volontariato, come logica coerente e susseguente ai principi e caratteristiche basilari del volontariato.
Capacità progettuale e metodologia progettuale significano innanzitutto:
Gli elementi di forza e gli elementi critici
di una organizzazione
Sono necessarie alcune condizioni di fondo per lavorare non solo con i progetti, ma per lavorare in modo efficace ed efficiente.
Una fra le più importanti è quella di valutare le condizioni attuali dell’organizzazione che ruotano intorno a
…in modo da descrivere e analizzare in modo sistematico e continuativo:
Bibliografia
Borgogni Laura (1996), Valutazione e motivazione delle risorse umane nelle organizzazioni, Franco Angeli, Milano
Borzaga Carlo, a cura di (2000) Capitale umano e qualità del lavoro nei servizi sociali, Ed. FiVol, Roma
Busnelli Francesca, Giuliani Silvia (1998) Come si fa… a organizzare le risorse umane, Ed. FiVol, Roma
Carli Renzo, Paniccia Rosa Maria (1998), Psicologia della formazione, Il Mulino, Bologna.
Cerri Matteo, (2000) Il risk management al servizio del non profit, Ed. EGEA, Milano
De Vito Piscicelli (1991), La gestione delle risorse umane, Pàtron, Bologna.
Fondazione Italiana per il Volontariato, Paola Atzei a cura di (2002) La progettazione degli interventi sociali, Quaderni del Volontariato del Cesvol di Perugia
Frisanco Renato, Ranci Costanzo a cura di (1999), Le dimensioni della solidarietà, Ed. FiVol, Roma
Grumo Marco (2001), Introduzione al management delle aziende non profit, Etas, Milano
D.W. Johnson & F.P. Johnson, K.A. Smith. (1991), Active Learning: Cooperation in the College Classroom. Edina, MN: Interaction Book Company.
Lenzi Fabio a cura di (1998), Dissotterrare i talenti… Analisi e proposte per il management non profit, Scuola di management/Confederazione nazionale delle Misericordie d’Italia, Firenze
Montesarchio G., Margherita G.V., Guidi M. e Vannucci R. (2001), L’offerta della ristorazione romana nell’Anno Santo 2000, in Montesarchio Gianni (a cura di), PREtesti di colloquio BIS, Scione, Roma
Montironi Marina, Coppari Matteo (1997), Capitale umano e imprese e servizi, Il Sole 24 Ore Libri, Milano
Ruvolo Giuseppe (2001), Aziendalizzazione della polis e coscienze comunitarie nell’azienda, in Di Maria Franco, (a cura di), Psicologia della convivenza, Franco Angeli, Milano
Schein Edgar (1999), La consulenza di processo, Raffaello Cortina Editore, Milano
Spaltro Enzo (1998), La scienza dell’abbondanza, Psicologia del lavoro, Bologna
Bibliografia Internet
Spatafora Mario (1999), Leadership: mito, tradizione e realtà, Centro Studi Orientamento, www.cestor.it
Fonte: http://www.pgcesvol.net/data/quaderni/2004-06-18risorse_umane.doc
Sito web da visitare: http://www.pgcesvol.net/
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