Garanzie dei diritti del lavoratore

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Garanzie dei diritti del lavoratore

LE GARANZIE DEI DIRITTI DEL LAVORATORE
1.Tipologia e ratio. Inderogabilità e indisponibilità.
In considerazione della posizione di debolezza nella quale si trova il lavoratore subordinato, il legislatore ha approntato una speciale disciplina protettiva. L’ordinamento interviene nei confronti dell’autonomia privata delle parti, precludendo che la loro autonomia regolamentare o contrattuale possa contraddire la disciplina legislativa inderogabilmente posta e impedendo che l’autonomia dispositiva del lavoratore si eserciti in modo auto-lesivo, cioè a dire in una prospettiva di abdicazione o dismissione di diritti.
Per un verso infatti la legislazione impone un trattamento minimo inderogabile e conforma quindi l’assetto iniziale degli interessi implicati nel rapporto di lavoro (operando così nella fase genetica del rapporto); per altro verso poi essa impone limiti al potere del lavoratore di disporre successivamente alla costituzione del rapporto, di tali diritti.
In conformità alle cennate finalità protettive del lavoratore subordinato, la quasi totalità delle discipline legislative del rapporto di lavoro è dunque inderogabile da parte dell’autonomia privata (individuale e collettiva) o almeno è inderogabile in peius (sicché è derogabile solo in senso migliorativo per il lavoratore).
Ogni modifica convenzionale che alteri in peius il trattamento legislativo garantito al lavoratore è non soltanto radicalmente nulla ex art. 1418, ma è per lo più sostituita di diritto dalla disciplina legale.
Neanche con l’espresso consenso del lavoratore potrebbe insomma essere convenuto un trattamento deteriore rispetto a quello legale in tema, ad esempio, di orario di lavoro, ferie, esercizio del potere disciplinare, poiché in qualunque momento lo stesso lavoratore potrebbe richiedere il ripristino del regolamento legale.
L’apposizione di tali vincoli rigorosi alla determinazione iniziale del regolamento del rapporto non può che riverberarsi (pena la loro sostanziale inutilità) sull’intero svolgimento del rapporto, incidendo così anche su eventuali negozi di dismissione posti in essere successivamente dal lavoratore.
Viene pertanto preclusa non soltanto qualsivoglia difforme regolamentazione iniziale del rapporto, ma anche ogni sua successiva modificazione realizzata tramite negozi dispositivi.
Da qui l’indisponibilità dei diritti derivanti da norma inderogabile, confermata dall’esistenza di una disciplina specifica che prevede la invalidità delle rinunce e transazioni del lavoratore aventi ad oggetto tali diritti.
La rinunzia è un atto unilaterale tendente alla dismissione di un diritto soggettivo da parte del titolare, mentre la transazione è il contratto col quale le parti, facendosi reciproche concessioni (entrambe rinunciano ad un proprio diritto), pongono fine ad una lite esistente o prevengono una lite eventuale.
2. La disciplina delle rinunzie e delle transazioni. 
L’art. 2113 si occupa espressamente delle rinunce e transazioni del lavoratore che incidano su diritti derivanti da norme inderogabili di legge o di contratto collettivo, comminando per esse la sanzione dell’invalidità. Tale invalidità consiste tuttavia in una annullabilità, dal momento che essa può essere fatta valere solo dal lavoratore e solo entro un termine di decadenza (6 mesi dalla cessazione del rapporto o dal negozio se successivo).
L’art. 2113 dunque, disponendo l’annullabilità (e non la nullità) dei negozi dismissori ivi indicati, delinea una alterazione del modello generale prefigurato dall’art. 1418. questa attenuazione si giustifica con il richiamo all’esigenza di certezza dei rapporti giuridici e alla necessita di non lasciare il datore troppo a lungo esposto a ripensamenti e rivendicazioni del lavoratore.
La disciplina dell’art. 2113 concerne comunque solo i diritti già maturati, cioè già entrati nel patrimonio del lavoratore (es. retribuzioni pregresse), mentre una rinuncia preventiva del lavoratore a diritti futuri (compensi o ferie dei mesi a venire) è da ritenersi radicalmente nulla, ai sensi dell’art. 1418.
Trattandosi di annullabilità, l’invalidità di rinunce e transazioni può essere fatta valere solo entro un breve termine di decadenza (6 mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro o dalla data della rinunzia o della transazione se successive all’estinzione del rapporto). Inoltre all’impugnazione del negozio è legittimato solo il lavoratore. Sicché se questi omette di impugnare tempestivamente la rinunzia o la transazione, tale omissione provoca l’effetto di sanare il negozio.
L’impugnazione può essere effettuata con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, da cui emerga la volontà del lavoratore di invalidare l’atto di disposizione. Se invece, nel termine prescritto, viene instaurato il giudizio, è sufficiente che il lavoratore chieda il riconoscimento dei diritti rinunziati o transatti.
Successivi interventi legislativi hanno esteso l’ambito applicativo dell’art. 2113; sia sotto il profilo soggettivo (estendendone l’applicazione anche ai lavoratori parasubordinati), sia sotto il profilo oggettivo, estendendone l’applicazione anche ai negozi dismissori aventi ad oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili di contratti collettivi (confermando così, seppur indirettamente, l’efficacia normativa dei contratti collettivi).
Una questione a se stante è costituita dalle c.d. quietanze a saldo, ossia da quelle dichiarazioni, spesso sottoscritte dal lavoratore alla cessazione del rapporto, nelle quali il dipendente afferma di avere ricevuto il pagamento di ogni spettanza e, dunque, di non avere più nulla a pretendere. Ebbene tali dichiarazioni non hanno in linea di principio alcun valore negoziale o dismissorio, bensì un contenuto meramente ricognitivo, al quale è estranea ogni volontà abdicativa. Pertanto le quietanze a saldo esulano dall’ambito di applicazione dell’art. 2113.
Con esse il lavoratore esprime la propria convinzione di non avere nulla altro a pretendere, ma non la volontà di rinunziare a diritti spettanti. Pertanto, se successivamente tale convinzione dovesse rivelarsi erronea, egli ben potrà rivendicare i propri diritti, anche oltre il termine di 6 mesi (poiché, essendo tale dichiarazione priva di ogni efficacia negoziale, il lavoratore potrà promuovere, nell’ordinario termine di prescrizione, senza ossia il vincolo del termine di decadenza previsto dall’art. 2113, l’azione per i crediti derivanti dal rapporto di lavoro).
La situazione naturalmente cambia laddove nella formulazione della quietanza si rinvengano dichiarazioni abdicative o transattive (“rinunzio” o “transigo”); infatti nel caso in cui dalla dichiarazione emerga un intento abdicativi o transattivo, anche la quietanza rientrerà nell’ambito di applicazione dell’art. 2113.
Sono infine sottratte all’ambito di applicazione dell’art. 2113 le rinunzie e le transazioni occorse nell’ambito di conciliazioni intervenute in sede giudiziaria, oppure avvenute davanti alle Commissioni costituite presso l’Ufficio provinciale del lavoro, oppure stipulate in sede sindacale. Tali conciliazioni sono dunque valide e inoppugnabili. La ragione di tale deroga va ricercata nella presunzione che, attraverso il filtro rappresentato dall’intervento del giudice, delle commissioni di conciliazione o del sindacato, la rinunzia o la transazione vengano epurate dalle conseguenze negative riconducibili allo stato di soggezione del lavoratore.
3.La prescrizione dei diritti del lavoratore.
Tutele particolari dei crediti del lavoratore si rinvengono anche in relazione a vicende di carattere non negoziale però suscettibili di provocare l’estinzione dei diritti: la prescrizione e la decadenza. Con riguardo alla prescrizione occorre ricordare che i crediti retributivi di carattere periodico (retribuzione mensile, quindicinale, settimanale, mensilità aggiuntive, premi di rendimento) sono assoggettati alla prescrizione estintiva quinquennale prevista dall’art. 2948. Ed anche la prescrizione per le indennità connesse alla cessazione del rapporto è di 5 anni.
La prescrizione estintiva ordinaria decennale assume nel diritto del lavoro una rilevanza del tutto residuale, trovando applicazione solo nei confronti di alcuni diritti del prestatore (come il diritto alla qualifica).
I crediti retributivi del lavoratore sono inoltre sottoposti ad una concorrente prescrizione, denominata prescrizione presuntiva in ragione del fatto che essi, salvo prova contraria, si presumono pagati ove sia trascorso un certo lasso di tempo dall’epoca in cui sono sorti. Tale prescrizione è annuale per il diritto del lavoratore alle retribuzioni mensili, mentre è triennale per le retribuzioni corrisposte a periodi superiori ad un mese.
Nel caso decorra tale termine prescrizionale non si verifica l’estinzione del credito ma si riscontra solamente una presunzione legale del suo soddisfacimento, presunzione che può essere vinta attraverso la confessione giudiziale del datore o tramite il giuramento decisorio.
Il codice civile non contiene indicazioni specifiche riguardo alla decorrenza della prescrizione estintiva (quinquennale) dei crediti derivanti dal rapporto di lavoro subordinato, sicché, prima dell’intervento della Corte Costituzionale, si faceva riferimento alla regola generale secondo la quale la prescrizione inizia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere (il che equivaleva a sancire la decorrenza della prescrizione in pendenza del rapporto di lavoro). Ciò finché la sentenza n. 63 del 10 giugno del 1966 della Corte Costituzionale non dichiarò l’illegittimità di tale regola generale (risultante dall’art. 2948 in tema di prescrizione) limitatamente alla parte in cui consente che la prescrizione del diritto alla retribuzione inizi a decorrere durante la pendenza del rapporto, stabilendo così che tale decorrenza dovesse avere inizio a partire dalla cessazione del rapporto (allorquando il lavoratore è libero da quello stato di soggezione psicologica presente durante il rapporto di lavoro, che può indurlo ad evitare di rivendicare diritti non soddisfatti).
Successivamente poi la Corte è più volte ritornata sul tema temperando la declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 2948 e limitando l’operatività della regola della decorrenza differita della prescrizione, sotto un duplice profilo:
-da un lato ha limitato il differimento del decorso della prescrizione alla cessazione del rapporto solo ai diritti del lavoratore aventi natura retributiva.
-dall’altro lato ha circoscritto l’applicazione della regola del decorso della prescrizione a partire dalla cessazione del rapporto a quei rapporto che siano privi del requisito della stabilità del posto di lavoro (sicché per i rapporti di lavoro “stabili” i crediti di lavoro si estinguono anche durante il rapporto di lavoro).
Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto un'importante sentenza della Cassazione ha affermato che l'applicazione della L. 20 maggio 1970, n. 300 (art. 18) esclude quel timore del licenziamento capace di indurre il lavoratore a non esercitare i propri diritti in costanza del rapporto di lavoro, cosicché in questo caso, non potendosi ipotizzare una coazione psicologica a rinunziare implicitamente al diritto retributivo, non si delinea alcuna violazione del principio costituzionale di irrinunziabilità e riprende vigore la regola generale in base alla quale la prescrizione inizia a decorrere dal momento in cui il diritto è sorto e quindi anche durante il rapporto di lavoro.
Per i rapporti di lavoro stabili, dunque, i crediti di lavoro, si prescrivono anche durante il rapporto di lavoro e gli art.  2948 e 2955 e 2956 tornano ad operare nella loro formulazione originaria antecedente la sent. n. 63/1966 della Corte Costituzionale. Occorre infine ricordare che la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'art 2, 1° comma del R.D.L. 19 gennaio 1939, n. 295, che prevedeva la prescrizione biennale del diritto agli stipendi ed assegni agli impiegati dello Stato, crediti questi che- a seguito della declaratoria d'incostituzionalità sopra citata- si prescrivono nel termine quinquennale di cui all'art 2948, n.4 c.c.
4.La decadenza.
Oltre che per prescrizione, i diritti del lavoratore possono estinguersi per decadenza. Ma mentre la prescrizione costituisce una regola generale alla quale è assoggettato ogni diritto (ad eccezione di quelli imprescrittibili o indisponibili), la decadenza trova applicazione soltanto per tassativa previsione della legge o dell’autonomia negoziale.
La decadenza legale (ossia la predeterminazione legislativa di un termine entro il quale deve essere perentoriamente esercitato un diritto) trova una limitata diffusione nella disciplina del rapporto di lavoro subordinato. Le due ipotesi più rilevanti sono quelle della impugnazione del licenziamento e dell’impugnazione delle rinunzie e transazioni (peraltro entrambe queste ipotesi presentano la peculiarità che la decorrenza del termine di decadenza inizia quando il rapporto di lavoro è ormai cessato).
Decisamente più ricorrenti sono le ipotesi di decadenza convenzionale contenute nei contratti collettivi nazionali ed aziendali, la cui legittimità va valutata alla stregua del disposto dell’art. 2965, che sancisce la nullità del patto col quale si stabiliscono termini di decadenza tali da rendere eccessivamente difficile ad una delle parti l’esercizio del diritto. La giurisprudenza tende ad ancorare la congruità del termine di decadenza all’art. 2113; onde per cui sono considerati illegittimi i termini di decadenza inferiori a quello previsto dall’art. 2113 (6 mesi).
È appena il caso di ricordare la differenza tra prescrizione e decadenza. La prescrizione è una modalità di estinzione di un diritto causata dal trascorrere del tempo e dall’inerzia del titolare. La decadenza invece nella perdita della possibilità di esercitare un diritto causata dal mancato compimento di un certo atto o attività entro un termine. Nella decadenza (a differenza di quanto accade nella prescrizione) non si ha riguardo alla condizione soggettiva del soggetto, ma solo al fatto obiettivo del decorrere del tempo (e alla circostanza che il soggetto compia o meno una determinata attività entro il termine previsto ), ed infatti nella decadenza non sono previsti gli istituti dell’interruzione e della sospensione.
5.Altre garanzie del credito retributivo:a) i privilegi; b) impignorabilità, insequestrabilità, incedibilità.
a)I privilegi.
Accanto al peculiare sistema protettivo qui descritto che delinea un'articolata serie di garanzie afferenti l'effettiva soddisfazione dei crediti, soprattutto retributivi, del lavoratore dipendente. Una disciplina particolare è prevista per i privilegi. Il privilegio è una causa legittima di prelazione accordata dalla legge in considerazione della natura del credito: il titolare di questo potrà essere soddisfatto con precedenza rispetto ad altri crediti (c.d. Chirografi). Il diritto del lavoro registra privilegi speciali (che si esercitano cioè su alcuni beni determinati in ragione della connessione esistente tra il credito e tali beni). Più rilevanti e incisivi sono i privilegi generali, che si esercitano su tutti i beni mobili del debitore, nel senso di una soddisfazione prioritaria sul ricavato della vendita di tali beni in sede di esecuzione forzata. Secondo l'art. 2751 bis un privilegio generale assiste la retribuzione, le indennità dovute a causa della cessazione del rapporto, il risarcimento del danno per omissione contributiva e per licenziamento illegittimo. La l. n. 297/1982 ha modificato la graduatoria dei crediti relativi al TFR e all'indennità sostitutiva del preavviso rispetto a tutti gli altri crediti  privilegiati e posponendoli soltanto rispetto ai crediti ipotecari.
b)Impignorabilità, insequestrabilità, incedibilità.
La protezione del credito retributivo si estende anche nei confronti dei terzi (creditori del lavoratore) che potrebbero aggredire il patrimonio del prestatore al fine di veder soddisfatto il proprio interesse. L'esigenza di evitare che il credito retributivo possa concorrere a costituire la garanzia patrimoniale generale (art. 2740 c.c.) nasce dalla funzione che la Costituzione stessa (art. 36) assegna alla retribuzione, quale mezzo di sostentamento del prestatore e della sua famiglia.
In questa prospettiva l'art. 545 c.c, prevede che le somme dovute a titolo di stipendio e le altre indennità possano essere pignorate solo nella misura stabilita dal giudice se il pignoramento concerne crediti alimentari, mentre non potrà essere superata la misura di 1/5 se si procede per crediti di natura diversa.
Per il sequestro e la compensazione sono ammessi gli stessi limite consentiti per il pignoramento.
Una più accentuata tutela del credito retributivo era contemplata nel D.P.R. 5 gennaio 1950, n.180 per i dipendenti pubblici, a favore dei quali veniva sancita la piena incedibilità, insequestrabilità, impignorabilità degli stipendi, assegni, pensioni ed indennità. Uniche eccezioni al principio erano il sequestro ed il pignoramento, fino alla concorrenza di 1/3, per cause di alimenti e, fino alla concorrenza di 1/5, per debiti tributari del lavoratore nonché per debiti derivanti dal rapporto di impiego, con una differenza di status tra impiegati pubblici e privati.
Dunque la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità della disposizione che non prevede la pignorabilità e la sequestrabilità, fino alla concorrenza di 1/5 per ogni credito vantato nei confronti del personale, degli stipendi e retribuzioni corrisposti dallo Stato o da altri enti diversi dallo Stato nonché dalle aziende e dalla imprese indicate dall'art. 1 del medesimo D.P.R.
6.La tutela giurisdizionale dei diritti del lavoratore privato e pubblico.
La garanzia sostanziale dei diritti del lavoratore viene integrata e sorretta dalla previsione di speciali forme processuali che mirano ad ottenere una più immediata ed efficace tutela. La disciplina processuale risulta speciale rispetto a quella del processo civile ordinario, perché occorre tener conto: a)della particolarità degli interessi anche collettivi in gioco e dei relativi conflitti; b)della particolare deteriorabilità dei diritti del lavoratore subordinato, la cui tutela se condizionata agli ordinari tempi del processo civile sarebbe per ciò stesso definitivamente pregiudicata; c)della necessità di neutralizzare sul piano processuale la peculiare situazione di debolezza “relativa” del prestatore di lavoro, mediante una tutela “differenziata” in grado di ripristinare anche sulla ribalta processuale l'uguaglianza sostanziale.
La svolta riformatrice fu realizzata con la vigente L. 11 agosto 1973, n. 533, la quale ha dilatato il tradizionale campo di applicazione del processo del lavoro ai rapporti di impiego con enti pubblici economici e con enti pubblici se non devoluti dalla legge ad altro giudice, ed ora, dopo la privatizzazione, ai rapporti con le pubbliche amministrazioni, salvo eccezioni (rapporti di mezzadria, agrari, di agenzia, di rappresentanza commerciale).
L'originaria competenza del Pretore in funzione di giudice del lavoro è stata trasferita al tribunale in composizione monocratica ad opera del D.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51. L'appello avverso le sentenze del tribunale è proposto innanzi alla Corte d'appello le cui sentenze possono essere impugnate in Cassazione nei limiti dei principi generali.
La domanda giudiziale del lavoratore va proposta con ricorso completo e analitico, così come la memoria di costituzione in giudizio del datore di lavoro, onde favorire una rapida fissazione dei termini della controversia ed un suo rapido svolgimento. Vanno indicati i mezzi di prova ed i documenti che si offrono in comunicazione e che vanno depositati in cancelleria.
Il sistema di preclusioni e di decadenze istituite dagli artt. 414 e 416 c.p.c., nel perseguire il fondamentale obbiettivo della celerità, esclude, a grandi linee, la possibilità di integrazione (oltre che di modifica) delle difese e tende ad imporre  un'effettiva lealtà processuale, evitando manovre dilatorie e riserve mentali o strategiche. Alla prima udienza si procede all'interrogatorio libero delle parti. In conformità al principio dell'immediatezza nella stessa udienza, dovrebbero essere ammessi ed assunti i mezzi di prova. Ma tale principio viene quasi sempre disatteso, provvedendo il giudice a fissare altra o più udienze per l'istruttoria. Espletata quest'ultima, il giudice, su richiesta delle parti, può concedere un termine non superiore ai 10 giorni per il deposito di note difensive, fissando udienza di discussione.
Sempre allo scopo di rafforzare la tutela giurisdizionale dei diritti del lavoratore, sono stati ampliati i poteri istruttori del giudice. In particolare è prevista la possibilità di disporre d'ufficio ed in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova; il potere di interrogare liberamente sui fatti della causa quelle persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell'art 246 c.p.c, o alle quali sia vietato deporre a norma dell'art 247 c.p.c.; la possibilità di disporre l'accesso sui luoghi di lavoro e di richiedere informazioni ed osservazioni alle associazioni sindacati indicate dalle parti.
Nell'udienza di discussione il giudice pronuncia la sentenza. La sentenza che condanna al pagamento di somme per crediti di lavoro deve condannare altresì il datore a pagare gli interessi legali e a risarcire il maggiore danno subito dal lavoratore per la diminuzione di valore dei suoi crediti, causata dal ritardo nel pagamento.
La sentenza del Tribunale che pronunzia condanna in favore del lavoratore per crediti di lavoro è esecutiva senza necessità di apposita domanda. L'esecutorietà ha carattere automatico. Il giudice quindi non può rifiutarla neppure per i particolari motivi che ne avrebbero giustificato il diniego nei giudizi civili ordinari. La L. n. 353/1990 ha garantito la provvisoria esecutività della sentenza anche in favore del datore.
Il sistema di tutela giurisdizionale dei diritti dei dipendenti dello Stato e degli enti pubblici è rimasto per lungo tempo permeato dai principi tradizionali del diritto amministrativo e solo negli ultimi anni si è avviato una sostanziale equiparazione con il sistema di tutela processuale dei lavoratori privati. L'effettiva equiparazione si è realizzata con la privatizzazione del rapporto di pubblico impiego operata dal D.lgs. n. 29/1993. Ai sensi dell'art. 63 del D.lgs. n. 165/2001, sono ora devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro non privatizzati e di quelle in materie di procedure concorsuali. Il passaggio di giurisdizione è stato definitivamente realizzato nel 1998 (con il D.lgs. n. 80), che ha sancito la soggezione alla giurisdizione ordinaria delle controversie attinenti al periodo successivo al 30 giugno 1998; mentre quelle sorte nel periodo precedente restano alla giurisdizione amministrativa.
7.La conciliazione e l'arbitrato.
L'esigenza di riduzione del contenzioso giudiziario ha condotto il legislatore a valorizzare gli strumenti della conciliazione e dell'arbitrato.
La conciliazione può essere sia giudiziale che stragiudiziale: nel primo caso essa avviene nel corso del processo su iniziativa del giudice, il quale è tenuto a tentarla fin dall'inizio del giudizio. Qualora venga raggiunta, il relativo verbale ha efficacia di titolo esecutivo. Nel secondo caso, essa avviene o in sede amministrativa, di fronte ad apposite commissioni costituite presso le Direzioni provinciali del lavoro, o in sede sindacali, secondo le procedure e davanti agli organismi previsti dai contratti collettivi. Il D.lgs. n. 80 del 1998 ha reso obbligatorio il tentativo di conciliazione nei confronti di tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro, configurandolo quale condizione di procedibilità della domanda.
L'arbitrato è un istituto che prevede il deferimento ad un terzo del potere di decidere come comporre una controversia. Il terzo non è un giudice. L'arbitrato può essere rituale (art 808), cioè idoneo a conseguire effetti equivalenti alla giurisdizione, o irrituale (D.lgs n. 80/1998), in quanto richiesto all'arbitro sotto forma di un semplice accertamento di natura convenzionale, e quindi idoneo a conseguire effetti puramente negoziali.
L'arbitrato rituale si svolge secondo regole processuali prefissate, e conduce all'emanazione di un atto (lodo)che acquista valore di sentenza mediante un decreto di omologazione del giudice. Per le controversie di lavoro, la legge stabilisce che possono essere decise da arbitri a)solo se ciò sia consentito da contratti e accordi collettivi; b)purché l'arbitrato sia facoltativo, ovvero sia sempre garantita la facoltà per le parti di adire il giudice; c)a condizione che il giudizio avvenga secondo diritto (non secondo equità).
Se si aggiunge che il lodo può essere impugnato, oltre che per violazione di regole di diritto, anche per violazione o falsa applicazione di contratti collettivi, diventa inevitabile la conclusione che l'atteggiamento legislativo nei confronti dell'arbitrato, è a dir poco, di cautela.
L'arbitrato irrituale si presenta invece regolato su base legale solo di recente. La disciplina è innovativa sotto un duplice profilo. Da un lato, si configura come il tramite per una sorta di ritualizzazione dell'arbitrato irrituale, nel senso che predispone le modalità con cui i contratti collettivi dovranno regolamentare le procedure arbitrali. Dall'altro lato, tale disciplina abroga il 2°e 3° comma dell'art 5, L. n. 533 del 1973 e li sostituisce con la previsione di cui all'art. 412Ter , secondo cui “sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale decide in un unico grado il Tribunale, in funzione di giudice del lavoro. Ciò ha il significato di limitare la possibilità di impugnazione del lodo irrituale alle sole ragioni previste dalle parti. Con ciò il lodo potrebbe finalmente acquistare una certa stabilità. Per l'arbitrato irrituale continuano inoltre a valere le limitazioni già viste per l'arbitrato rituale.

 

Fonte: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com/2014/02/il-rapporto-di-lavoro-subordinato.doc

Sito web da visitare: https://associazioneetabetagamma.files.wordpress.com

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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