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1. Che cos’è il lavoro antropologico
In che cosa consiste il lavoro dell’antropologo e come lo si può rappresentare? Possiamo rispondere dicendo che l’antropologo ha in primo luogo un campo di ricerca che sceglie per ragioni sia scientifiche sia personali e nel quale soggiorna per un certo numero di mesi o anni. Sul campo egli fa l’apprendistato di una cultura e di un modo di pensare, interagisce con delle donne e degli uomini, fa delle scoperte, sperimenta errori, raccoglie dati, elabora le prime sintesi, formula delle ipotesi. A conclusione del lavoro sul campo, torna a casa con diversi “oggetti”, disponibili per essere pensati e trattati mediante concetti, termini tecnici e modelli teorici, nel quadro di un testo monografico. Insomma, al tempo del campo segue il tempo della scrittura. La finalità del lavoro dell’antropologo è, infatti, offrire un testo elaborato, attraverso il quale comunicare a un lettore potenziale – generalmente un collega, ma non solo – la propria visione dell’esperienza dei membri della società presso la quale ha soggiornato.
Quanto detto rappresenta una schematizzazione del lavoro dell’antropologo, lavoro che in verità è assai più complesso. Anzitutto va respinta l’idea che vi sia una realtà – il campo – che esiste indipendentemente dal lavoro antropologico e che preesiste ad esso. Il campo non è un’entità già data che attende d’essere scoperta ed esplorata dal solitario e intrepido antropologo. L’immagine dell’antropologo che giunge sul posto, armato del suo solo sguardo, per raccogliere dei dati, suscettibili di essere trattati poi teoricamente, appartiene a una visione ingenua del lavoro sul campo, che si fonda su una duplice illusione.
La prima illusione è credere che l’esteriorità dell’oggetto implichi di per sé l’oggettività. Questa concezione dimentica che la postulata differenza dell’oggetto dal soggetto che l’osserva non è una qualità intrinseca dell’oggetto, un’essenza, ma il prodotto di una storia differenziale che li costituisce entrambi – soggetto e oggetto – come differenti. La seconda illusione è credere nella simultaneità fra l’oggetto da vedere e l’atto di vedere, il che equivale ad assimilare la presenza dell’antropologo sul campo al presente dell’oggetto etnografico. Tale confusione, che annulla ogni distanza storica, è il risultato dell’idea oggettivistica secondo la quale l’oggetto dell’antropologo sarebbe un dato pronto da essere osservato e il discorso dell’antropologo sarebbe identificabile con il linguaggio dell’osservatore neutro.
Ma, se il rapporto con il campo non è un rapporto tecnico neutro, ancor meno è un rapporto di fusione simpatetica con l’oggetto di studio: l’antropologo non deve confondersi con l’altro al punto da diventare egli stesso l’altro. Se procede in tal modo, se parla lo stesso linguaggio dell’indigeno, non è più in una situazione dialogica, non ha la possibilità di tradurre nel proprio codice e ancor meno di riferirci la sua esperienza.
Insomma, la conoscenza antropologica è un lavoro di mediazione con la distanza e la differenza, lavoro che comincia già sul campo. In altri termini, il campo si definisce subito ed essenzialmente come un lavoro simbolico di costruzione di senso, nel quadro di un’interazione discorsiva, di una negoziazione di punti di vista fra l’antropologo e i suoi informatori.
M. Kilani, L’invenzione dell’altro, Dedalo, Bari 1997, 51-52
2. Etnografia e antropologia di C. Geertz
Se volete capire che cosa sia una scienza, non dovete considerare anzitutto le sue teorie e le sue scoperte (e comunque non quello che ne dicono i suoi apologeti): dovete guardare cosa fanno quelli che la praticano, gli specialisti.
Nell’antropologia, o per lo meno nell’antropologia sociale, gli specialisti fanno dell’etnografia. È solo comprendendo che cosa è l’etnografia, o più precisamente che cosa sia fare etnografia, che si può cominciare ad afferrare in che cosa consista l’analisi antropologica come forma di conoscenza. Occorre dire subito che non si tratta di una questione di metodo. Dal punto di vista dei manuali fare etnografia significa intrattenere rapporti, scegliere degli informatori, trascrivere testi, ricostruire genealogie, definire “campi”, tenere un diario e così via. Ma non sono queste cose, tecniche e procedure stabilite, che definiscono l’impresa: ciò che la definisce è l’attività intellettuale in cui consiste: un elaborato avventurarsi, per usare il termine di Gilbert Ryle, in una “thick description” .
Le considerazioni di Ryle sulla Thick description sono contenute nei suoi due saggi (ristampati nel secondo volume dei Collected Papers) che vertono sulla questione generale di quello che, come dice lui, sta facendo Le Penseur: Pensare e riflettere e Il pensare pensieri. Considerate, dice, due ragazzi che contraggono rapidamente la palpebra dell’occhio destro. Per uno, questo è un tic involontario; per l’altro, un segnale di intesa a un amico. I due movimenti sono identici come tali: un’osservazione di tipo meramente “fotografico”, “fenomenico”, non è sufficiente per distinguere un tic da un ammiccamento, e neanche per valutare se entrambi o uno dei due siano tic o ammiccamenti. Tuttavia la differenza tra un tic e un ammiccamento, per quanto non fotografabile, è grande, come sa chiunque è abbastanza sfortunato da aver scambiato l’uno per l’altro. Chi ammicca sta comunicando, e in un modo molto preciso e particolare: a) deliberatamente, b) con qualcuno in particolare, c) per trasmettere un particolare messaggio, d) secondo un codice socialmente stabilito ed e) senza che il resto dei presenti lo sappia. Come fa notare Ryle, non è che chi ammicca ha fatto due cose, contratto le palpebre e ammiccato, mentre chi ha un tic ne ha fatto solo una, ha contratto le palpebre. Contrarre le palpebre apposta quando esiste un codice pubblico in cui farlo equivale a un segnale di intesa, è ammiccare. Vi è tutto questo: un briciolo di comportamento, un granello di cultura e – voilà – un gesto.
Questo tuttavia è solo il principio. Supponete, continua, che ci sia un terzo ragazzo che “per divertire maliziosamente i suoi amici” faccia la parodia della strizzata d’occhio del primo ragazzo perché dilettantesca, goffa, banale e così via. Naturalmente lo fa nell’identico modo in cui il secondo ragazzo ha ammiccato e il primo ha avuto un tic involontario, contraendo cioè la palpebra destra: soltanto che questo ragazzo non sta né ammiccando né strizzando l’occhio involontariamente; sta parodiando il tentativo di qualcun altro, ridicolo a parer suo, di ammiccare. Anche qui esiste un codice stabilito socialmente (“ammiccherà” in modo laborioso, fin troppo apertamente, forse aggiungendo una smorfia: i soliti artifici del clown) ed esiste anche un messaggio. Solo che in questo caso non si tratta di intesa, ma di ridicolo. Se gli altri credono che stia effettivamente ammiccando, tutto il suo progetto fallisce completamente, benché con risultati un po’ diversi, come se pensassero che ha uno spasmo involontario. Si può andare oltre: incerto sulle sue abilità mimiche, l’aspirante comico può far pratica a casa davanti allo specchio, nel qual caso non ha un tic, non ammicca, non prende in giro, ma fa le prove; benché, per quello che registrerebbe una macchina fotografia, un comportamentista radicale o uno che crede nelle proposizioni protocollari , stia solo contraendo rapidamente la palpebra destra come tutti gli altri. Dal punto di vista logico, se non pratico, sono possibili complicazioni senza fine.
[…] Ma l’importante è che tra quella che Ryle chiama thin description di ciò che il personaggio (parodista, ammiccatore, ragazzo con il tic…) sta facendo (“contrarre rapidamente la palpebra destra”) e la thick description (“sta facendo la parodia di un amico che finge un ammiccamento per ingannare un innocente e fargli credere che ci sia un complotto”) risiede l’oggetto dell’etnografia: una gerarchia stratificata di strutture significative nei cui termini sono prodotti, percepiti e interpretati tic, ammiccamenti, falsi ammiccamenti, parodie, prove di parodie e senza le quali di fatto non esisterebbero (neppure tic nudi e crudi che come categoria culturale sono tanto non-ammiccamenti quanto gli ammiccamenti sono non-tic).
C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, 41-44
3. Il concetto di cultura di C. Geertz
La nascita di un concetto scientifico di cultura corrispose, o almeno fu collegata, al rovesciamento della concezione della natura umana dominante nell’illuminismo – una concezione che con i suoi pregi e difetti era chiara e semplice – e alla sostituzione di una concezione non solo più complicata, ma molto meno chiara. Il tentativo di chiarirla, di ricostruire una descrizione comprensibile di che cosa è l’uomo, è stato da allora il fondamento del pensiero scientifico sulla cultura. Dopo aver cercato la complessità, e dopo averla trovata su una scala più vasta di quanto avessero mai immaginato, gli antropologi restarono irretiti in un tortuoso sforzo per darle un ordine. E non se ne intravede ancora la fine. La concezione illuministica della cultura sosteneva del resto che egli era tutt’uno con la natura e ne condivideva un’uniformità generale di composizione, scoperta dalla scienza naturale sotto l’impulso di Bacone e la guida di Newton. Si tratta, in breve, di una natura umana regolarmente organizzata, completamente immutabile e meravigliosamente semplice come l’universo di Newton. Forse alcune sue leggi sono diverse ma esistono delle leggi; forse qualcosa della sua immutabilità è oscurata dalle complicazioni della moda locale, ma è immutabile.
[…]
Lo scenario (in tempi e luoghi diversi) è alterato, gli attori cambiano le vesti e l’aspetto, ma i loro moti interiori sorgono dagli stessi desideri e passioni umane, e producono i loro effetti nelle vicissitudini dei regni e dei popoli .
Questa opinione non si può certo disprezzare, né si può dire che sia scomparsa dal pensiero antropologico contemporaneo, nonostante i miei facili riferimenti a un “rovesciamento” di un momento fa. L’idea che gli uomini siano uomini, qualunque sia il loro aspetto e il loro ambiente, non è stata sostituita da “altri costumi altri animali”.
[…]
Il guaio con questo tipo di concezione […] è che l’immagine di una natura umana costante, indipendente da tempo, luogo e circostanze, dagli studi e dalle professioni, dalle mode passeggere e dalle opinioni temporanee, è forse un’illusione, e che ciò che l’uomo è può intrecciarsi talmente con il luogo in cui si trova, con la sua identità locale e con le sue credenze da diventare inseparabile. È proprio la considerazione di una tale possibilità che portò alla nascita del concetto di cultura e al declino della concezione uniforme. L’antropologia moderna, indipendentemente da quali altre cose affermi – e pare che abbia affermato quasi tutto in diverse occasioni – è salda nella convinzione che uomini non modificati dalle usanze di luoghi particolari non esistono, non sono mai esistiti e, cosa assai importante, non potrebbero esistere per la natura stessa del caso. Non esiste, né può esistere un retroscena dove si possa andare a gettare un’occhiata agli attori di Mascou come “persone vere”, che si aggirano con i loro abiti di strada, estraniati dalla loro professione, mentre esibiscono con franchezza priva di artifici i loro spontanei desideri e le loro sincere passioni. Possono cambiare la parte, lo stile di recitazione, anche il dramma in cui recitano, ma – come osservò Shakespeare stesso – stanno sempre recitando.
[…]
Consideriamo la trance balinese. I Balinesi cadono in stati di estrema dissociazione in cui compiono tutti i generi di attività spettacolari – staccare la testa a polli vivi con un morso, colpirsi con pugnali, contorcersi selvaggiamente, parlare lingue strane, compiere prodigi di equilibrismo, mimare il rapporto sessuale, mangiare gli escrementi e così via – più facilmente e più in fretta di quanto la maggior parte di noi non si addormenti. Gli stati di trance sono una parte fondamentale di ogni persona. A volte vi possono cadere 50 o 60 persone, una dopo l’altra (“come una fila di petardi che scoppiano”, a detta di un osservatore) venendone fuori dopo cinque minuti o magari parecchie ore, totalmente inconsapevoli di quello che hanno fatto e convinti, nonostante l’amnesia, di aver avuto l’esperienza più straordinaria e profondamente soddisfacente che un uomo possa avere. Che si impara sulla natura umana da questo genere di cose e da mille altre ugualmente particolari che gli antropologi descrivono? Che i Balinesi sono creature di tipo speciale? Marziani dei mari del Sud? Che sono proprio come noi alla base, ma con delle usanze particolari, ancorché incidentali, che noi per caso non abbiamo assimilato? Che sono dotati per nascita o spinti per istinto in certe direzioni piuttosto che in altre? O che la natura umana non esiste e gli uomini sono puramente e semplicemente come li fa la cultura?
C. Geertz, Interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna 1987, 75Testi 4
4. La cultura come rete di significati di U. Hannerz
L’homo sapiens è la creatura che produce senso. Lo fa attraverso l’esperienza, l’interpretazione, la contemplazione e l’immaginazione, e non può vivere senza queste attività. L’importanza della produzione di senso per la vita umana è riflessa in un campo concettuale affollato: idee, significato, informazione, saggezza, capacità di comprendere, intelligenza, consapevolezza, capacità di apprendere, fantasia, opinione, conoscenza, credenze, mito, tradizione...
A questo gruppo di parole ne appartiene ancora un’altra, cara agli antropologi: cultura. In passato il termine è stato inteso in un’accezione più vasta, ma recentemente è inteso soprattutto come una questione di significato. Studiare la cultura significa studiare le idee, le esperienze e i sentimenti, e insieme le forme esteriori che questi aspetti interiori assumono quando diventano pubblici, a portata dei sensi e dunque realmente sociali. Per cultura gli antropologi intendono dunque i significati che le persone creano, e che a loro volta creano le persone come membri di una società. La cultura è in questo senso collettiva. Dal mio punto di vista la cultura ha due tipi di loci, e il processo culturale avviene grazie alle loro continue interrelazioni. Da un lato, essa risiede in una serie di forme significanti pubbliche che solitamente possono essere viste o ascoltate, o meno frequentemente conosciute attraverso il tatto, l’olfatto o il gusto, o attraverso una combinazione di sensi. D’altro canto, queste forme esplicite (overt forms) assumono significato solo in quanto le menti umane contengono gli strumenti per interpretarle. Il flusso culturale consiste dunque nelle esternazioni di significati che gli individui producono attraverso adattamenti di forme generali, e nelle interpretazioni che gli individui forniscono di tali manifestazioni. Forse l’immagine del flusso è un po’ ingannevole, perché suggerisce un semplice trasferimento, piuttosto che gli infiniti e problematici processi di trasformazione che intervengono tra loci interni ed esterni. Nonostante ciò trovo utile la metafora del flusso – se non altro perché coglie uno dei paradossi della cultura. Quando osserviamo un fiume da lontano questo appare come una linea blu che attraversa il paesaggio; qualcosa che possiede una suggestiva immobilità. Ma allo stesso tempo, “non ci si bagna due volte nello stesso fiume”, perché questo scorre in continuazione, e soltanto in tal modo mantiene la sua continuità nel tempo. Così accade per la cultura: anche quando se ne percepisce la struttura, questa è interamente dipendente da un processo continuo.
U. Hannerz, La complessità culturale, Il Mulino, Bologna 1998, 5-7
5. L’etnocentrismo di I. Signorini
L’altro
Nel corso del mio primo soggiorno tra i Nahua della Sierra de Puebla in Messico, venni a conoscenza, con imbarazzo e anche con qualche preoccupazione per le eventuali conseguenze che il fatto avrebbe potuto produrre, di avere polarizzato sulla mia persona un timore collettivo, dando forma alla fantasia orrifica che lo accompagnava. Si era infatti sparsa la voce, fortunatamente non da tutti raccolta e spentasi poi nel tempo, che io fossi quel sinistro personaggio concepito dalla mitologia nahua moderna, che al volante di un Volkswagen giallo ruba bambini per tagliar loro la testa. Ahimé, per quanto arrancante e segnato dal tempo, era proprio questo il tipo di vettura che possedevo, ma ciò non sarebbe di per sé bastato ad accusarmi. Era la mia figura diversa, straniera, dalla misteriosa attività, a consentire l’assimilazione. I Nahua non stavano facendo altro che dar corpo all’atteggiamento mentale che porta a proiettare sulla straniero i propri timori, il senso di ansietà che si accompagna a livello inconscio al processo di costruzione della propria identità collettiva e al sistema di valori che la sottendono, caricando in positivo il senso di autostima di cui ogni uomo necessita per reggere alle tensioni e alle competizioni del vivere sociale.
Ogni ego esiste solo in contrapposizione a un altro che lo sostanzia e lo giustifica. Indicare nello straniero, nella sua palese incomprensibile differenza, la fonte di pericolo dell’ordine costituito significa dichiarare automaticamente buono e salvifico l’ordine proprio, degno di rispetto e di obbedienza propiziatori di una felice superiore costruzione individuale.
Non sono evidentemente i Nahua soli ad assumere verso l’“altro” un atteggiamento di questo tipo. In un suo bel saggio, Pitt-Rivers (1977) ricorda come Ulisse, da straniero,, abbia avuto bisogno di essere nascosto da una nube per poter penetrare impune nella reggia del re dei Feaci e parlare col sovrano; e di come subito, al momento della riapparizione, si sia messo in salvo abbracciando le ginocchia della regina e poi sedendosi sulle ceneri del focolare, dichiarando con questo gesto di porsi nella sfera soggetta della femminilità, annullante la propria minacciosa estraneità maschile .
L’etnocentrismo – tale è il termine usato per definire questo tipo di atteggiamento – è caratteristico di ogni gruppo umano, e non è legato a una maggiore o minore complessità di una società rispetto a un’altra. Alcune società ne sono maggiormente contagiate, altre meno. L’isolamento tende certamente a esasperarlo, ma non necessariamente deve trattarsi di isolamento geografico: la nostra società occidentale, moderna, potenzialmente la più aperta e cosmopolita, è riuscita in più momenti a esasperarlo fino agli abietti limiti del nazismo, per un isolamento che non è certo quello spaziale (che anzi lo spazio è forse l’elemento maggiormente dominato dalla sua cultura), ma effetto invece di un’estraniazione indotta da sazietà materiale e da faustiano orgoglio delle proprie conquiste intellettuali.
La differenza in quanto tale fa dunque scattare la reazione etnocentrica: la segnano sospetto, ridicolo, disprezzo, orrore. Come direbbe Mary Douglas (1973), rappresenta il disordine, cioè ciò che l’ordine, al fine di costituirsi, ha tagliato fuori, ha eliminato, riposto nell’impuro, nell’esecrabile. Delle diversità si potrebbe pensare che venissero colte solo quelle aventi rilevanza nel quadro dei grandi problemi esistenziali ed etici, e che indifferenza e bonomia fossero invece la norma quando in questione entrassero aspetti non essenziali oppure chiaramente marginali e innocenti. Ma non è affatto così; anzi, è il contrario. I piccoli elementi di contrasto sono spesso i più visibili, quelli che più direttamente espongono la diversità, toccando la sfera del gusto e della quotidianità. Ecco che il cibo, per esempio, viene a risultare uno dei settori privilegiati dell’atteggiamento etnocentrico. Ogni modo culinario differente, ogni cibo non contemplato dall’ordine chiuso delle proprie regole alimentari scatena riso o repulsione e “segna” i suoi fruitori con un marchio che ne suggella l’inferiorità culturale e, di rimbalzo, l’inferiorità della loro condizione umana.
[…]
Natura imperfetta, cultura imperfetta, dunque, e questo gioco di passaggi dalla natura alla cultura e viceversa trova ampi e continuamente rinnovati spazi.
Su questa che potremmo dire un’inclinazione dell’animo culturalmente forgiata, la riflessione etnologica ha fissato la propria attenzione, elaborando a difesa la nozione di “relativismo culturale”, nutrita da una sempre più estesa e al contempo approfondita conoscenza delle culture altre. Una nozione che si fonda sulla giusta idea che ogni cultura dovrebbe essere compresa e vagliata assumendo quali parametri solo quelli in essa vigenti e non i propri. Ma da idea guida capace di contrarrestare le distorsioni conoscitive provocate dall’etnocentrismo, di evitare in qualche modo gli effetti di ciò che Marx indicava comete mistificazioni della mente e della coscienza nei confronti di se stesse, il relativismo culturale ha finito per divenire, in certe correnti di pensiero antropologico – nel culturalismo americano in particolare – e per molti giovani, giustamente ma anche ingenuamente schierati in difesa dell’alterità, un dogma; e come ogni dogma, per essere messo in pratica in modo del tutto acritico, nel rifiuto incondizionato e assoluto di giudizi di valore su culture diverse, in base al presupposto dell’eguaglianza di tutte le culture e quindi della validità di qualunque costume, atteggiamento, istituzione da esse elaborati […].
Non essere etnocentrici non significa ovviamente “diventare” l’Altro: abbiamo tutto il diritto di seguire il cammino indicatoci dalla cultura in cui siamo nati (come d’altra parte anche di distanziarcene se ci garba), e anche di non amare certi modelli diversi; ma ciò che di essi non ci è consentito, è l’ignoranza, madre intellettuale e morale della stupidità, della prevaricazione, del razzismo […].
Signorini, I modi della cultura, La Nuova Italia, Roma 1992,11-13
6. La diversità culturale di C. Geertz
Il sorgere entro il corpo di una società, all’interno dei confini di un “noi”, di dolorose questioni morali, centrate sulla diversità culturale, ovvero “il futuro dell’etnocentrismo”, può forse essere reso più vivido con un esempio: non un artificioso esempio fantascientifico sull’acqua negli antimondi o sulle persone le cui memorie si scambiano tra loro mentre esse sono addormentate, esempi di cui i filosofi a mio parere si sono recentemente fin troppo innamorati, ma piuttosto un esempio reale, o quantomeno un esempio presentatomi come reale dall’antropologo che me lo raccontò: il caso dell’indiano alcolizzato e della macchina del rene artificiale.
Il caso è semplice, per quanto sia aggrovigliata la sua soluzione. Alcuni anni fa, negli Stati Uniti sudoccidentali, l’estrema scarsità di attrezzature per la dialisi, dovuta al loro alto costo, portò abbastanza naturalmente alla creazione di una lista di attesa per la fruizione di tale trattamento da parte di pazienti bisognosi di dialisi nell’ambito di un programma medico governativo diretto, anche qui abbastanza naturalmente, da giovani medici idealisti provenienti da importanti scuole mediche, in larga parte nordorientali. Perché il trattamento sia efficace, almeno nell’arco di un lungo periodo di tempo, è necessario che i pazienti osservino una rigida disciplina riguardo alla dieta e ad altre cose. Trattandosi di un pubblico servizio, governato da codici contro la discriminazione e comunque, come ho detto, moralmente motivato, la lista di attesa non privilegiava la possibilità di pagare dei pazienti, ma semplicemente la gravità del loro bisogno e l’ordine di presentazione delle domande, una politica, questa, che portò, secondo le usuali svolte impreviste della logica pratica, al problema dell’indiano alcolizzato.
L’indiano, dopo aver ottenuto l’accesso al raro macchinario, si rifiutò, con grande costernazione dei medici, di smettere di bere o anche solo di moderare un consumo di alcolici che aveva del prodigioso. La sua posizione, secondo un principio simile a quello di Flannery O’Connor che ho prima menzionato, ovvero rimanere se stesso qualunque cosa gli altri potessero volere fare di lui, era questa: io sono in realtà proprio un indiano alcolizzato, lo sono stato per un bel po’ di tempo, e intendo continuare a esserlo per tutto il tempo in cui potete mantenermi in vita collegandomi a questa vostra dannata macchina. I medici, i cui valori erano alquanto differenti, ritenevano che l’indiano impedisse l’accesso alla macchina di altri pazienti in lista di attesa, in difficoltà non meno disperate, che avrebbero potuto, così come essi vedevano la cosa, fare migliore uso dei suoi benefici: per esempio, un tipo di paziente giovane, di classe media, poniamo, alquanto simile a loro, destinato al college e, chissà, alla scuola medica. Poiché l’indiano aveva già iniziato la dialisi nel momento in cui il problema si manifestò, essi non potevano risolversi a interrompere tale trattamento (né, suppongo, sarebbe stato loro permesso di farlo); nondimeno essi erano profondamente turbati – almeno tanto turbati quanto l’indiano, abbastanza disciplinato da arrivare puntuale a tutti i suoi appuntamenti, era risoluto – e sicuramente avrebbero escogitato qualche motivo, in apparenza medico, per toglierlo dalla sua posizione nella lista di attesa se solo si fossero accorti in tempo di ciò che stava avvenendo. Invece egli continuò la dialisi, ed essi continuarono a essere turbati per parecchi anni finché, fiero, come me lo immagino, e grato (anche se non ai medici) di avere avuto una vita piuttosto lunga in cui poter bere, senza doversi scusare, egli morì.
Lo scopo di questa favoletta in tempo reale non è mostrare quanto possano essere insensibili i medici (essi non erano insensibili e avevano le loro ragioni) o quanto gli indiani siano diventati degli sbandati (egli non era alla deriva, sapendo esattamente dove era); né suggerire che avrebbero dovuto prevalere o i valori dei medici (cioè, più o meno, i nostri), quelli degli indiani (cioè, più o meno, non i nostri), o qualche criterio di giudizio al di sopra delle parti, attinto dalla filosofia o dall’antropologia ed emesso da uno degli erculei giudici di Ronald Dworkin. Il caso era davvero difficile e finì male, ma dal mio punto di vista più etnocentrismo, più relativismo o più neutralità non avrebbero migliorato le cose (anche se forse una maggiore immaginazione lo poteva fare). Lo scopo della favola – non sono sicuro che essa abbia propriamente una morale – è mostrare che questo genere di fatti, e non la remota tribù ripiegata su se stessa in una coerente differenza (gli azande o gli ik che affascinano i filosofi quasi quanto le fantasie della fantascienza, forse perché essi possono essere trasformati in marziani sublunari e considerati di conseguenza), meglio rappresenta, anche se melodrammaticamente, la forma generale che oggi assume il conflitto di valori che sorge dalla diversità culturale.
Gli antagonisti in questo caso, se tali erano, non rappresentavano totalità sociali richiuse in se stesse che si incontravano accidentalmente lungo i margini delle loro credenze. Gli indiani che tengono a bada il destino con l’alcol fanno parte dell’America contemporanea quanto i medici che lo correggono con le loro macchine; volendo vedere come, almeno nel caso degli indiani (presumo che nel caso dei medici si sappia) si può leggere lo sconvolgente romanzo di James Welch, Winter in the Blood, dove gli effetti di contrasto risaltano piuttosto singolarmente. Se vi fu un fallimento, e, per essere giusti, a distanza è difficile dire precisamente quanto ve ne fu, fu un fallimento nella disponibilità a capire, da entrambe le parti, che cosa significava trovarsi dall’altra parte e quindi che cosa significava essere dalla propria.
C. Geertz, Antropologia e filosofia, Il Mulino, Bologna 2001, 97-99
7. Ralph Linton - Il processo di diffusione della cultura
Il cittadino americano medio (…) si sveglia la mattina in un letto costruito secondo un modello che ebbe origine nel Vicino Oriente ma che venne poi modificato nel Nord Europa prima di essere importato in America. Egli scosta le lenzuola e le coperte che possono essere di cotone, pianta originaria dell’India; o di lino, pianta originaria del Vicino Oriente; o di lana di pecora, animale originariamente addomesticato nel Vicino Oriente; o di seta, il cui uso fu scoperto in Cina. Tutti questi materiali sono stati filati e tessuti secondo procedimenti inventati nel Vicino Oriente. Si infila i mocassini, inventati dagli Indiani delle boscose contrade dell’est, e va nel bagno, i cui accessori sono un misto di invenzioni europee e americane, di data recente. Si leva il pigiama, indumento inventato in India, e si lava con il sapone, inventato dalle antiche popolazioni galliche. Poi si fa la barba, rito masochistico che sembra derivato dai Sumeri o dagli antichi Egizi. Prima di andare a fare colazione, guarda fuori dalla finestra, fatta con il vetro inventato in Egitto e, se piove, si mette le soprascarpe fatte di gomma scoperta dagli Indiani dell’America centrale e prende un ombrello, inventato nell’Asia sud-orientale. Andando a fare colazione si ferma a comperare un giornale, pagando con delle monete che sono un’antica invenzione della Lidia. Al ristorante viene a contatto con tutta una serie di elementi presi da altre culture: il suo piatto è fatto di un tipo di terraglia inventato in Cina; il suo coltello è d’acciaio, lega fatta per la prima volta nell’India del Sud; la sua forchetta ha origini medievali italiane; il cucchiaio è derivato dall’originale romano.
Quando il nostro amico ha finito di mangiare si appoggia alla spalliera della sedia e fuma, secondo un’abitudine degli Indiani d’America.
Mentre fuma legge le notizie del giorno, stampate in un carattere inventato dagli antichi Semiti, su di un materiale inventato in Cina e secondo un procedimento inventato in Germania. Mentre legge i resoconti dei problemi che s’aggirano all’estero, se è un buon cittadino conservatore, con un linguaggio indo-europeo, ringrazierà una divinità ebraica, di averlo fatto al cento per cento americano.
8. La sozzura gettata sul volto dell’umanità
Oggi che Isole Polinesiane, soffocate dal cemento armato, sono trasformate in portaerei pesantemente ancorate al fondo dei Mari del Sud, che l’intera Asia prende l’aspetto di una zona malaticcia e le bidonvilles rodono l’Africa […] come potrà la pretesa evasione dei viaggi riuscire ad altro che a manifestarci le forme più infelici della nostra esistenza storica? […]. Ciò che per prima cosa ci mostrate, o viaggi, è la nostra sozzura gettata sul volto dell’umanità. Capisco allora la passione, la follia, l’inganno dei racconti di viaggio. Essi danno l’illusione di cose che non esistono più e che dovrebbero esistere ancora per farci sfuggire alla desolante certezza che 20.000 anni di storia sono andati perduti. Non c’è più nulla da fare: la civiltà non è più quel fragile fiore che, per svilupparsi a fatica, occorreva preservare in angoli riparati di terreni ricchi di specie selvatiche, indubbiamente minacciose per il loro rigoglio, ma che permettevano anche di variare e di rinvigorire le sementi. L’umanità si cristallizza nella monocoltura, si prepara a produrre la civiltà in massa, come la barbabietola. La sua mensa non offrirà ormai più che questa vivanda (Lévi-Strauss, Tristi tropici, 1960, p. 36).
8. Sozzume o fertilizzante?
Il «sozzume» che un Occidente espansivo, secondo il disilluso viaggiatore di Tristi Tropici, ha gettato in volto alle società del mondo appare come materia prima, fertilizzante per nuovi ordini di differenza. (…). E’ anche sozzume. I contatti culturali moderni non hanno bisogno di essere romanticizzati, cancellando la violenza dell’impero e delle pertinenti forme di dominazione neocoloniale. La storia caraibica (…) è una storia di degradazione, mimetismo, violenza e possibilità bloccate. (…) [però] è anche ribelle, sincretica e creativa. Tale sorta di ambivalenza mantiene i futuri locali del pianeta incerti e aperti.
In tutto il mondo le popolazioni indigene hanno dovuto fare i conti con le forze del «progresso» e dell’unificazione «nazionale». I risultati sono stati sia distruttivi, sia inventivi. Molte tradizioni, lingue, cosmologie e valori sono andati perduti, in certi casi letteralmente assassinati; molto, però, è stato in pari tempo inventato e fatto rivivere in contesti complessi, contraddittori.
(Clifford, I frutti puri impazziscono, Bollati Boringhieri, 1993)
9. La monocultura
(…) le malinconiche premonizioni levistraussiane sulla “monocultura”, […] sapevano più di romanticismo occidentale che di acume etnografico.
Quando dei turisti americani o tedeschi a Bangkok o a Lagos vedranno un film indiano e lo discuteranno esattamente negli stessi termini, o proveranno esattamente le stesse reazioni di coloro che hanno intorno, allora la monocultura sarà arrivata.
Ma è probabile che la monocultura affliggerà soltanto quelli che sono disposti a scambiare una patina di superficie per la totalità della cultura in generale: gli Archi d’Oro di McDonald’s piuttosto che le tensioni politiche che essi provocano e mascherano; l’universalismo delle politiche ambientali piuttosto che le argomentazioni delle vittime locali del cosiddetto sviluppo; i “valori della famiglia” anziché la disordinata complessità delle vite reali e delle loro infinite trasformazioni.
C’è da sperare che perfino quanti da poco sono arrivati al potere possano apprezzare e rispettare queste complessità. Ma ascolteranno le intime voci rivelate dagli etnografi, che rivelano un mondo di desideri e di speranze?”
(M. Herzfeld, Antropologia, 2006, Seid)
Espressione che non ha un esatto equivalente in italiano. Thick significa “denso”, “spesso”, ma anche, nella particolare accezione di Geertz, “complesso”, “stratificato”.
Cioè un positivista logico (N.d.C.).
A. O. Lovejoy, L’albero della conoscenza. Saggi di storia delle idee, Il Mulino, Bologna 1982.
Nel settimo canto dell’Odissea, in cui quell’episodio è narrato, si dice: “Perché gli stranieri non li tollerano molto costoro, e non accolgono con amicizia chi viene da un altro paese”(32-3); “Introno ai ginocchi di Arete gettò Odisseo le braccia” (142); “Disse così e si sedette sul focolare, nella cenere, vicino al fuoco” (153-4).
Fonte: http://www.formazione.unimib.it/DATA/Insegnamenti/8_1755/materiale/testi%20per%20esercitazione12-13.doc
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