Lavoro e adulti

Lavoro e adulti

 

 

 

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Lavoro e adulti

 

Adultità e lavoro

 

Di solito si parla di etnocentrismo delle culture, nel senso che ogni cultura vede il mondo in una determinata prospettiva che fa della propria visone l’unica visione. Ma esiste anche un etnocentrismo delle età per cui molti fenomeni possono essere visti in maniera diversa a seconda dell’età di chi guarda. Ogni età ha la sua irriducibile prospettiva anche per quanto riguarda il lavoro. Se l’adolescente ha dei sogni e il giovane dei progetti, anche se oggi sia gli uni che gli altri devono fare i conti con la società dei consumi e del lavoro flessibile, l’ingresso nel mondo del lavoro e l’impegno in una professione segnano il passaggio del giovane nell’età adulta. “Essere adulti significa lavorare: la serietà della vita comincia quando uno deve mettersi a lavorare”1.   
Abbiamo detto che l’adolescenza e la giovinezza iniziano nella biologia e terminano nella storia e nella cultura, nel senso che le diverse società stabiliscono quando questa stagione della vita sia finita. Generalmente la fine della giovinezza coincide con una serie di scelte legate alla vita privata e sociale come il matrimonio e l’ingresso nel mondo del lavoro. Scelte che un tempo era obbligate, sottoposte al destino di una società più stratificata e immobile mentre oggi sono sottoposte al “destino della scelta” in un mondo incerto che rifiuta le scelte irreversibili.
Eppure anche l’etimo delle parole segnala una specie di irreversibilità, una soglia in cui si passa per sempre, abbandonando un passato. L’adolescente, dal latino adolescens, che sta crescendo è divenuto, un adultus, colui che è cresciuto, un giovane adulto. La fine della giovinezza coincide con il diventare adulti ma mai come oggi il diventare adulti senza diventare maturi appare come un rischio collettivo. L’adultità appare come un valore anche educativo ma oggi più di ieri mostra una sua ambiguità ed è esposto a discussione.    

L’adulto in una società di eterni adolescenti

L’immaturità appare come cifra di un’epoca, di un intero secolo. Il sistema di produzione ha cancellato in pochi anni un secolare legame che, dalla bottega medievale, aveva unito padri e figli in un rapporto di naturale e istintiva trasmissione di sapere. Non che tale rapporto fosse sempre idilliaco, tutt’altro. Semplicemente a esso non è stato sostituito nulla. La progettualità paziente che lega i mesi e gli anni ad una storia di vita, che fa di una vita una storia coerente, oggi appare sempre più difficile in una società post-tradizionale e che ha fatto dell’abitudine  a cambiare abitudine una delle sue regole. In una società in cui l’alternativa al diventare adulti è l’iperprotezione subita, la puerile regressione o il cinico e opportunistico disincanto, la maturità connessa all’adultità appare problematica.
Oggi, bambini e adolescenti, giovani e adulti, uomini ed donne, si trovano a dover fronteggiare la discontinuità del nostro presente, la frattura tra il presente e il futuro, l’accelerazione del tempo storico che si somma e si intreccia alla discontinuità generazionale. La nostra convinzione è che il rapporto intergenerazionale, il rapporto tra coetanei e contemporanei, sia di tipo dialettico, non può in altre parole accadere qualche cambiamento ai giovani senza che non accada anche agli adulti. L’incertezza e il disorientamento di questi ultimi si collega dialetticamente con la disinvoltura incerta e iperattiva dei giovani. E questo dentro una discontinuità storica.
Di tale discontinuità fa parte il fatto che si è passati da una società senza padri ad una società senza adulti, ad una società di eterni adolescenti2.  La società degli eterni adolescenti è una società orizzontale (e di questo ci siamo occupati in un lavoro precedente) che rifiuta ogni verticalità adulta e finisce per condannare, come era prevedibile, i giovani ad un miscuglio di invidia fraterna e di aggressività, di primitivismo e di voglia di non crescere, di ricerca non la maturità ma del facile successo. L’invidia prende il posto dell’ammirazione e così l’ammirazione, che è il vero antidoto dell’invidia, “tende oggi ad essere un sentimento fuori moda che non sembra il caso di  manifestare”3.
La piattezza nega questa evidenza: senza padri e senza maestri, non si è più liberi ma più soli, senza un senso di gratitudine verso energie molto più grandi della nostra non ci sono nuovi significati. Ci manca la capacità di immaginare un potere verso il quale provare gratitudine. Non è possibile creare nuovi significati semplicemente a partire dalla rabbia, la rabbia postmoderna, così come – e lo abbiamo già visto – non è possibile sottrarsi alle passioni tristi semplicemente rifiutando il principio di autorità. Anche perché sul posto di lavoro come in ogni altro luogo non è che il potere sia scomparso, tutt’altro. “nell’ambiente superficiale creato dal lavoro di gruppo è presente il potere, ma non l’autorità”4.   
La società degli eterni adolescenti dà valore ad uno stato semi-adulto, in cui la repressione, la disciplina e il sistema indoeuropeo, islamico e giudaico di controllo degli impulsi sono gettati a mare. I genitori regrediscono, diventando più simili ai bambini,  e i bambini sono costretti dall'abbandono a diventare adulti troppo presto, senza mai riuscirci completamente. Così, osserva Bly, nessuno si preoccupa di crescere, nuotiamo tutti in un acquario di semiadulti. Dove prima regnava la repressione ora regna la fantasia. Gli adulti regrediscono all’adolescenza e gli adolescenti perdono il desiderio di diventare adulti. Una società di tal fatta demanda alla tecnologia  e al consumo la soluzione di ogni problema. L’abbiamo già visto, l’industria della pubblicità è assolutamente contraria a mettere fine all’infantilismo; i talk show incoraggiano una massiccia regressione a uno stato capace di cogliere solo la lettera delle cose; una tecnica scadente diventa segno di onestà espressiva. Un miscuglio di invidia e aggressività è il portato dì una società senza  padri. Il super-Io ha cambiato le pretese: non un alto livello di competenza ma il successo.
L’adultità come dato e come valore è messa in crisi anche dalla flessibilità richiesta dai cambiamenti sul posto di lavoro. L’adulto è sinonimo di esperienza e, come osserva Sennett, quando in un gruppo di lavoro qualcuno dice “l’esperienza mi ha insegnato, le persone smettono semplicemente di ascoltare”. Il mondo del lavoro flessibile attuale apprezza la giovinezza perché la flessibilità sta alla gioventù come la rigidità alla vecchia ma corre anche il rischio di comprimere la vita lavorativa, “il periodo produttivo della vita viene compresso a meno della metà dell’arco vitale”. La vita adulta è quindi compressa dall’espansione, tutta ambigua, della giovinezza.  Nelle testimonianze riportate da Sennett si ricava che in molti luoghi di lavoro molto fluidi e veloci, dopo i trent’anni “sei morto” e molti datori di lavoro pensano che “passati i cinquanta le persone siano bruciate”. L’esperienza che rappresentava un valore non vale più?
La modernità ha rappresentato un attacco formidabile alla tradizione, all’abitudine e all’esempio, ovvero al passato e, come abbiamo già osservato al principio di autorità. Questo ha creato come una frattura anche sul piano educativo perché l’educazione tradizionale si è sempre basata sulla tradizione, sull’idea che i classici fossero degli immutabili, dei contemporanei anche del futuro, che la pedagogia mimetica basata sull’esemplarità da ammirare ed imitare, fosse capace anche di costruire routine contro le quali la modernità si ribella, che l’esperienze accumulata fornisse anche un autorità riconosciuta. Come abbiamo infatti già osservato, adultità e autorità sono collegate. L’autorità dell’adulto è legata alla sua esperienza. Con l’età moderna inizia un processo di frattura sempre più grande tra esperienza ed aspettativa, tra passato e futuro, tra speranza e ricordo. Ci rifacciamo qui alla geniale ed legante analisi di uno storico delle idee come R. Koselleck5.. Egli afferma che “non c’è aspettativa senza esperienza, né esperienza senza aspettativa”. Anche le esperienze si trasformano, nuove esperienze e nuove delusioni retroagiscono sulle esperienze passate, l’esperienza non può essere accumulata senza l’effetto retroattivo dell’aspettativa. Anche l’aspettativa non può esistere senza esperienza. Le esperienze consentono prognosi e le orientano. L’esperienza è un passato presente, osserva Koselleck, i cui eventi sono stati conglobati e possono essere ricordati. Sia l’esperienza razionale che quella inconscia sono inglobati. Nella propria esperienza è sempre contenuta e conservata anche un’esperienza altrui, mediata da generazioni o istituzioni, conoscenza di esperienze altrui; ha elaborato accadimenti passati, li può rievocare, è satura di realtà.
Anche l’aspettativa è analoga, è personale e interpersonale, si compie nell’oggi, è futuro presentificato, tende a ciò che non si è ancora esperito, è speranza e paura, desiderio e volontà, preoccupazione ma anche analisi razionale. Il passato e il futuro non coincidono mai, un’aspettativa non può mai essere completamente derivata dall’esperienza. Nella vita  e nella storia si verifica sempre di più e di meno di ciò che è contenuto nei dati preliminari, è l’eterogenesi dei fini, è la tensione tra lo spazio di esperienza e l’orizzonte di aspettativa.
Nell’età moderna – conclude Koselleck - la differenza tra esperienza e aspettativa aumenta progressivamente. Le aspettative si allontanano dalla esperienze fatte finora. Il peso del futuro aumenta, ci sono tempi sempre più brevi per raccogliere esperienze. La novità, il cambiamento più l’incertezza scardinano le esperienze. Tutta l’esperienza del passato  non è in grado di far fronte all’orizzonte delle aspettative che è completamente nuovo. Ci troviamo oggi a dover  padroneggiare le esperienze che non potevano più essere derivate da quelle precedenti e a formulare aspettative che non si potevano nemmeno concepire. “L’età moderna ha potuto concepirsi come un tempo nuovo, solo quando le aspettative hanno cominciato ad allontanarsi progressivamente da tutte le esperienze precedenti” Quanto più scarso il contenuto di esperienza, tanto maggiore è l’aspettativa.Ma l’aspettativa ieri significava fede nel progresso, oggi, nell’epoca tardomoderna la fiducia nel futuro è spesso sostituita dal concepire il futuro come minaccia.  E’ possibile accogliere esperienze solo perché esse sono ripetibili, ma quando esse appaiono sempre più irripetibili si crea una frattura e il ruolo dell’adulto con le sue esperienze si riduce o, meglio, l’esperienza appare sempre utile ma la distanza interiore aumenta sul suo ruolo educativo.
La tensione sempre implicita nell’educazione e nel ruolo che gli adulti hanno in essa è tra le funzioni di riproduzione, perpetuazione, conservazione (quando l’età adulta si protegge dal presente e dal futuro), e le funzioni di innovazione, trasformazione, creazione di altre prospettive di vita, convivenza e sopravvivenza. L’adulto deve svolgere la contraddittoria funzione di trasmissione e conservazione del passato, del proprio orizzonte di esperienza, ma anche di preparazione al futuro.
Questa la nuova condizione socioantropologica dell’adulto. Ma chi è l’adulto?

L’adulto, da dato a compito

Fino a poco tempo addietro l’adulto era un dato biografico e sociale molto preciso. Si diventava adulti quando si diventava maggiorenni, responsabili, si facevano scelte legate al lavoro e alla costruzione di una famiglia, si era passati attraverso certi riti di iniziazione come il servizio militare per i giovani maschi, il debutto in società o il fidanzamento ufficiale per le giovani donne. Ma l’adultità oltre ad essere un dato era anche un valore. All’adulto si chiedeva l’ingresso definitivo nell’età della ragione, si chiedeva responsabilità, ma gli si attribuiva un certo prestigio. Il “non sei più un ragazzo” non era solo un rimprovero o una constatazione ma anche una rivendicazione. Certo è bene segnalare subito l’ambiguità dell’adultità tesa tra realtà anagrafica e morale “ si tratta di una realtà: si diventa adulti comunque, con il passare degli anni; si tratta però anche di un ideale, che tutti dovrebbero raggiungere, ma che alcuni non raggiungono per niente e che nessuno forse raggiunge completamente: adulti per ragione, non per la coscienza o per il cuore “6.
Vediamo velocemente le tappe di questo cambiamento. Nelle società antiche l’adultità era un dato e un valore, quello della maturità. Il bambino e il l’adolescente non avevano valore perché immaturi, l’uomo senza aggettivi era l’adulto, come avrebbero detto  i latini il vir bonus dicendi peritus. Per Aristotele, riprendendo l’analogia tra il microcosmo umano e il macroscomo naturale, ovvero il rapporto alle quattro stagioni,  rappresenta l’estate. In un altro testo Aristotele considera la maturità dell’adulto come il punto di equilibrio tra l’adolescenza e la vecchiaia. I giovani vivono nell’attesa; dotati di un surplus di vita, hanno desideri violenti e collere imprevedibili; amano vincere, ma senza tener conto della realtà; ingenui e arditi, vedono in grande, perché non  sono ancora stati vinti dalla necessitò; eccessivamente idealisti e generosi, hanno il torto di credere di saper tutto. I vecchi sono, al contrario pessimisti, avari, paurosi, calcolatori; i fallimenti e le delusioni hanno dato loro una visione tentennante, per loro l’utile conta più del bello; tengono tanto più alla vita quanto meno ne hanno. Mentre l’adulto ha un carattere intermedio, evita gli eccessi dell’uno e dell’altro : né ardito né pauroso, ma nel giusto mezzo; né fiducioso né diffidente, ma capace di giudicare secondo realtà; non impegnato a vivere né solo secondo nobiltà né solo secondo utilità, ma secondo l’una e l’altra; non prodigo né avaro, ma secondo la giusta convenienza; temperanti con coraggio e coraggiosi con temperanza. “così – conclude Aristotele – l’uomo maturo possiede riunite tette le qualità che i giovani e i vecchi hanno separatamente”7.  L’equilibrio, la stabilità, la sicurezza, la solidità, l’adattamento, l’unità della persona, il senso del reale; essere adulti vuol dire gioire di una forza che nasce dall’equilibrio che c’è in chi non è più dominato dalle illusioni ma non ancora vinto dalle delusioni. La maturità (seguiamo qui e ancora dopo l’interpretazione che ne dà O. Reboul) è ciò che legittima il potere, capace di governare se stesso e quindi anche gli altri, l’adulto è il capo. La maturità e l’adultità non sono solo il portato dell’età sono una conquista e frutto di una formazione personali.
Nell’età dei Lumi, la maturità classica con la sua derivazione fisiologica e naturalistica viene soppiantata dalla concezione giuridica ed etica della “maggiore età”, essere maggiorenni esercitare la propria responsabilità, essere capaci di pensare con la propria ragione e di scegliere autonomamente, in un parola vuol dire essere liberi, essersi liberati dai pregiudizi e dalle tutele. La maggiore non è né uno stadio né una data, è un valore e un ideale al quale ci si avvicina indefinitamente senza raggiungerlo, come lo è quello della conoscenza. Se la maturità classica era un traguardo raggiungibile e stabile quello dell’adultità moderna è un processo infinito: non si finisce mai di diventare adulti. Il coraggio e l’intelligenza sono il fondamento dell’autonomia che caratterizza l’adulto.
Con l’avvento delle scienze umane l’adultità diventa oggetto di analisi della sociologia, dell’antropologia, della psicologia e della pedagogia o andragogia. Pochi come Freud annodato importanza all’argomento. L’infanzia è l’unica regolatrice della vita psichica adulta e soltanto il riconciliarsi con essa può appagare le istanze di guarigione. L’adulto deve liberarsi senza poterlo mai fare fino in fondi della dipendenza infantile L’intrinseco dualismo della realtà psichica (infanzia-adultità), i conflitti e le varie vittorie di una dimensione sull’altra costituiscono il nucleo centrale della psicoanalisi. Come osserva D. Demetrio, con la psicoanalisi si metteva fine alla concezione rigidamente stadiale della genesi dell’identità: la psiche adulta viene ricostruita nel suo essere dramma recitato da più attori e forze antagoniste. Rintraccia l'origine del conflitto insito nell'uomo nella lotta tra l'istinto di vita originario e l'istinto di morte. Ma se non è possibile liberarsi dall’infanzia allora anche l’adultità è impossibile? No, secondo Freud l’adulto è colui che trova un equilibrio, sempre instabile e costantemente riconquistato, tra il principio di realtà e quello di piacere, tra le pulsioni dell’Es e gli interdetti del Super-io, conquistando una maturità adulta raggiungibile ma sempre minacciata. Freud pone l’adulto come colui che raggiunge la capacità di affrontare da solo il mondo “l’ananke è la realtà senza nome di chi ha rinunciato al padre e ha accettato di essere solo al mondo; è un universo senza volto che un Io adulto è capace di affrontare“8. La ragione, la scienza che tolgono di mezzo il sogno di onnipotenza e di immortalità. La maturità è solitudine: rinunciare al padre, accettare di essere solo al mondo con la propria ragione. L’adultità è un valore anche se sono pochi quelli capaci di raggiungerla. 
L’adulto è per Freud colui che è capace di amare e lavorare9, di provare piacere senza sensi di colpa e mostrarsi socialmente utile. “Il lavoro e l’amore sono entrambi governati dal perseguimento del medesimo scopo; un piacere più duraturo, realistico e social,mente responsabile”. La scarsità materiale fa del lavoro una necessità e fa del rinvio della soddisfazione il criterio di sviluppo della civiltà. L’adulto con la sua capacità dispiegata di lavorare raggiunge iul massimo grado di padronanza intenzionale e organizzata del mondo e con l’amore, il massimo di attaccamenti affettivi reciprocamente gratificanti nei confronti di altri individui.  Amare bene – commenta Demetrio10 - significa  anche mostrare di avere raggiunto un livello adeguato di genitalità socializzabile nel matrimonio e nella maternità-paternità. Genitalità e operosità significano indipendenza, fine della dipendenza infantile. L’adulto-adulto è quello che accetta il dispiacere inflitto  dalle perdite e riesce a trasferire, senza sensi di colpa, su altri oggetti libidici le proprie istanze evolutive.
L’esperienza dell’austerità e quella della maturità sono legate. L’adultità rimanda al limite accettato e imposto (ne abbiamo parlato in viaggio verso l’altro). L'idea di limite è un'idea sacra che rimanda al sacro come luogo della scoperta e dell'apertura. Il limite della ragione coincide con la presenza del mistero. Aver secolarizzato completamente la cultura vuol dire aver neutralizzato l'idea di limite. La conseguenza evidente è la manipolabilità illimitata, l'idea che tutto si può fare e sviluppare. L'approccio ecologico ci ricorda il limite, il feedback negativo che ogni sistema incontra nell'ambiente. Il limite è l'altro nome della misura e della saggezza. Cultura del limite quindi e bisogno di autolimitazione. Ma, l'idea di autolimitazione ripugna alla mentalità moderna. Quest'ultima è nata infatti proprio dall'impulso a trascendere i limiti, cioè l'impulso a trasformare la realtà oggettiva, e dall'impegno costante a perfezionare le possibilità di azione. La necessità di cambiare e la capacità di modificare rappresentano le spinte più potenti della mentalità moderna. Trasformare la realtà ed elevare le potenzialità di intervento sono il contrario dell'accettazione del limite e dell'autoimposizione. Qui i fili della nostra analisi si riannodano. L’età moderna con l’idea di progresso illimitato e di emancipazione demolisce l’adultità e l’autorità fino a farne un disvalore.
Anche in una rapida sintesi come la nostra non si può non fare riferimento all’affermarsi della cultura giovanile e antiautoritaria degli anni ’60. Seguiamo ancora Reboul. Rifiutare l'autorità non significa solo rifiutare gli adulti ma rifiutare di essere adulto, squalificare in se stessi la serietà dell'essere maturo. Uno dei sinonimi dell’autorità è ilo padre. Nella rivolta giovanile degli anni ’60 si pensa di risolvere la questione edipica, il rapporto conflittuale con i padri una volta per tutte. Ma questa è un’illusione pericolosa che ha generato conseguenze indesiderate. Ogni generazione deve tornare a confrontarsi con l’autorità dei padri per poter crescere e guai se questo non accade. Chi ha bisogno di essere educato ha bisogno di autorità. Ma fine dell'educazione è di imparare a farne a meno. E questo passare dall'imposizione all'autoimposizione, anche questo vuol dire essere adulti.
Ma negli anni ’60 – osserva ancora Reboul - si rifiuta la serietà, non solo quella falsa ma ogni serietà. La completezza, non quella che richiede lo sforzo infinito (l'uomo vero è incompiuto). La conseguenza è l'adolescenza eterna, la rivoluzione permanente, l'educazione permanente. La conseguenza è l’infantilismo che coincide con l’esplosione della società dei consumi cui si è già fatto riferimento e il cerchio si chiude.
L’infanzia è un valore e così la giovinezza, ma l’infantilismo e il giovanilismo sono delle patologie. Il giovanilismo consiste nel blandire i giovani lasciandoli in una condizione di impotenza, nel non esigere standard elevati, nel non chiedere troppo soprattutto a se stessi. Se ieri il culto delle giovinezza è servito a sfruttare la generosa propensione all’eroismo dei giovani e il loro slancio verso il futuro, oggi, con la scusa dell’essere in ascolto, si lasciano i giovani schiacciati nel presente, un presente senza futuro. Giovanilismo infatti vuol dire culto quasi religioso del presente e nel presente del suo consumo.
Con pochi adulti che rimangono visibili come modelli, cancellati dall'invidia e dall'ingratitudine, i giovani sono consegnati ad altri modelli. Il risultato non è l’emancipazione ma l’essere abbandonati al mercato e al consumo, non è la fine dell’autorità ma l’infantilismo e l’immaturità cronica. L'adulto non rifiuta l'infanzia ma l'infantile che è irresponsabile, egocentrico. L'infantilismo non è la sopravvivenza del bambino nell'adulto ma il rimanerne prigionieri.  Ha scritto qualcuno che "una vita riuscita è un sogno di adolescente realizzato in età matura". Questo non significa che per realizzare una buona vita bisogna rifiutarsi di crescere. L’infanzia  è l'ingenuità sapiente che rende capaci di sopportare le prove più dure, la fiducia  e l'abbandono che reca l'amore, l'innocenza incantatrice che crea.  Scopo dell'educazione non è sconfiggere l'infanzia ma evitare l'infantilismo, ovvero il carattere di un adulto dall'umore adolescenziale. Il vero adulto vive e cambia, questi cambiamenti nascono anche dal suo passato, non lo negano. L'adulto è tale solo se è capace dio autoeducarsi. Scopo dell'educazione non è quello di rendere inutile l'educazione, ma l'educatore, perché nell'età adulta quello che si sceglie lo si sceglie da sé. Ha scritto qualcuno che "una vita riuscita è un sogno di adolescente realizzato in età matura". Infatti la curiosità adolescenziale, la disponibilità all'apprendimento  vanno conservate anche in età adulta ma non il giovanilismo, ovvero il carattere di un adulto dall'umore adolescenziale.
Si è già accennato al rapporto tra adolescenza e cambiamento, tra giovinezza e modernità. Ma se ieri i cambiamenti erano lenti e locali, oggi diventano rapidi e globali: il cambiamento e la novità, la novità e l’incertezza, questa è l’età moderna. Qualcuno l’ha definita anche l’epoca della tachiestraneità al mondo11: l’epoca moderna ha creduto nel progresso inteso come autoelevazione e autocompimento dell’umanità a partire dal 1750 (epoca spartiacque secondo il già citato R. Koselleck). L’umanità viene vista come tesa a lasciare infaticabilmente dietro di sé la propria infanzia e si è impegnata a diventare costantemente più adulta. Gli uomini di oggi dovrebbero essere gli uomini più adulti della storia, quella moderna dovrebbe essere l’epoca dello stato adulto compiuto. Gli uomini moderni pur essendo i più giovani sono i più adulti perché il passare dei secoli garantisce un accumulo di conoscenza. A fianco di queste utopie del progresso nascono anche le visoni apocalittiche del progresso (con Rousseau, nello stesso periodo). Lo schema della maturazione non viene negato ma viene cambiato di segno. Non è la storia di un acquisto ma di una perdita, di una decadenza, perché si è abbandonata l’infanzia, è l’età spaventosa dell’ipertrofia dell’essere adulto che ha perduto la dimensione infantile dell’uomo. Il bambino è l’uomo autentico, diventare adulti è il peccato originale. Oggi, in realtà non si diventa più adulti. Secondo Marquard, i rapidi cambiamenti fanno sì che il mondo diventi sempre più ignoto, nuovo, estraneo e imprevedibile, riducendo gli adulti alla condizione di bambini. Ciò porta all’invecchiamento accelerato dell’esperienza, all’affermazione del sentito dire, all’espansione della scuola, alla voga del fittizio e della finzione, al crescente essere disposti all’illusione. L’adulto non solo non deve invecchiare, ma è costretto ad imparare.
Anche soltanto da questa veloce analisi è possibile vedere che se in passato l’adultità era un dato oggi è diventato un compito difficile se non impossibile da raggiungere. Se i sinonimi di adultità sono stati, da sempre, la stabilità, la sicurezza, la solidità, l’equilibrio, in un mondo in perenne cambiamento, in cui si ha l’abitudine di cambiare abitudine, un mondo insicuro, liquido e instabile l’adultità appare come irraggiungibile e in alcuni casi persino indesiderabile.

L’adultità come valore e come ideale

 

L’adultità è un valore. Ma chi è l’adulto, che cosa si mostra o si cela dentro a questo ideale. Vediamo qualche definizione utilizzando gli autori che ci hanno accompagnato nel viaggio attraverso le altre stagioni della vita. Per Erikson l’adulto è colui che ha bisogno che qualcuno abbia bisogno di lui. Il suo compito fondamentale nel ciclo della vita è la generatività che lotta contro la stagnazione e la preoccupazione esclusiva per sé. L’adulto è impegnato nella procreatività, nella produttività e nella creatività, e quindi nella capacità di generare nuovi individui, nuovi prodotti, nuove idee. Ed ecco perché il lavoro è un impegno esistenziale tipico dell’adulto. L’energia di base che dovrebbe dominare la vita adulta è quella che Erikson chiama la cura, ovvero l’impegno costante nel tempo di prendersi cura delle persone, dei prodotti e delle idee che ci siamo impegnanti di curare. “Poiché la regola morale più semplice è di non fare agli altri quello che non  vuoi sia fatto  a te stesso, la regola etica dell’età adulta è di fare agli altri quello che aiuterà loro e anche te a crescere”. E in questo legame di responsabilità con i più giovani e con più anziani, l’adulto svolge anche la funzione di “anello di congiunzione tra il ciclo vitale dell’individuo e quello delle generazioni”12. Come si è già detto però, l’idea di ciclo della vita rimanda ad uno scenario in cui l’adulto ma soprattutto l’adultità non è un portato dell’età, un conseguenza più o meno dell’esistenza che catapulta le persone nella dimensione adulta della vita. Per gli uomini e le donne delle società moderne e contemporanee anche l’adulto è un momento del ciclo della vita che va conquistato e, soprattutto, non significa, contraddicendo l’etimo, che o giochi sono fatti, che l’uomo è “cresciuto” che è divenuto ma anche l’adulto deve affrontare conflitti e deve divenire, deve superare crisi, assolvere compiti ed accedere ad altre stagioni dell’esistenza e questo sempre più in maniera solistica, senza cioè essere accompagnato da processi sociali stabilizzati.
Per un altro autore, R. Bly, che possiamo prendere a emblema di quello che è l’adultità per la psicoanalisi, un adulto è una persona in grado di prendersi cura del gruppo più ampio a cui appartiene;  una persona non governata da desideri pre-edipici come il desiderio di piacere, la gratificazione ed eccitazione immediati; una persona capace di organizzare le emozioni e gli avvenimenti casuali della sua vita in una storia. Abnegazione e capacità di rinuncia sono le qualità adulte, il mettere la propria vita al servizio di qualcosa che la supera e la trascende.
Nell’adultità c’è l’idea di responsabilità individuale ma c’è anche un elemento di solitudine. Come è stato osservato l’adultità è più solitudine che universalità (Marquard), è più capacità di sopportare il peso di questa solitudine che conquista di una sicurezza superiore. La maturità dell’adulto consiste nella capacità di sopportare la solitudine e, al contempo, il bisogno di dedicarsi ad un compito che trascende il proprio io. L’adulto prende coscienza di cosa significa, dice Guardini, “saper stare in piedi da solo”13. Deve pensare da sé e diventare responsabile della verità. L’adulto è colui che è costretto a diventare genitore dei suoi stessi genitori, deve cioè occuparsi di coloro che si sono occupati di lui, che l’hanno allevato e protetto. (L’allungamento della vita fa coincidere l’esperienza della morte delle persone care proprio con l’età adulta). Ora è come sospinto in prima linea. Quando perde un genitore o un maestro si sente solo, sente che deve affrontare in pieno  e da solo il vento della vita.
Nella solitudine e nella responsabilità l’uomo adulto scopre però anche le energie che non gli fanno temere nessun compito, niente sembra troppo gravoso, ecco perché può dispiegarsi compiutamente nel lavoro. Guardini mostra molti lati luminosi di questa età della vita ma anche molti e problematici aspetti oscuri. La vocazione, la chiamata interiore che ha scoperto nell’adolescenza lo spinge alla coerenza ma la vita adulta lo tenta con il compromesso. Lo slancio giovanile ha affrontato la realtà e ne stato spesso deluso, ma se ha resistiti questo lo porta alla formazione del carattere, cioè alla stabilità interiore della persona, che non è rigidità ma è connessione delle facoltà attive del pensiero. Dopo aver privilegiato i principi ci si rivolge ai fatti, si passa dall’aut-aut alle sfumature e si scende a patti con il possibile ma cercando sempre di “salvaguardare l’incondizionato in mezzo alle realtà contingenti”. Una nuova severità lo anima ed è fatta dall’unione di verità, fedeltà e coraggio, di risolutezza d’animo e aderenza alla realtà. Si sviluppano così i valori dell’età adulta, la coscienziosità nell’adempiere agli impegni assunti, l’attenersi alla parola data, la fedeltà nei confronti di chi ci dà fiducia, l’onore come senso infallibile di ciò che è giusto e di ciò che è ingiusto, di ciò che è nobile e di ciò che è volgare. L’adulto scopre poi il senso della durata, scopre ciò che nel tempo ha affinità con l’eterno. Scopre ciò che vuol dire istituire, difendere, creare una tradizione. Ha abbandonato la immediatezza degli impulsi, ha conquistato una certa stabilità interiore. Nel pieno vigore delle sue forze e nella consapevolezza, l’adulto sa – e qui echeggiano in Guardini i motivi classici, aristotelici dell’adultità e del valore come mesòtes, punto di equilibrio nella tensione avvertita degli opposti – qual è la sintesi tra idee assolutizzate e complessità. E qui sembra coincidere con quanto sostiene Ortega che “uomo di esperienza significa uomo maturo. E uomo maturo è chi già ha visto il rovescio delle cose”14. Lo slancio della gioventù si attenua e tuttavia si fa , al contempo, più profondo e più risoluto, si accolla oneri, esige molto dal proprio lavoro, dedica energie senza risparmio alla propria opera.
Ma, nonostante questo equilibrio, la vita non si arresta e, come abbiamo già notato, Guardini come Erikson, vede all’interno di ogni stadio dell’esistenza una crisi, una sfida che aspetta l’essere umano. Quella che attende l’adulto Guardini la chiama la crisi del limite. Si fa strada il senso del limite delle proprie, l’esperienza della stanchezza. La vita conserva ancora il carattere della novità, di ciò che non è stato ancora sperimentato ma svaniscono le illusioni. L’eccitazione provocata da un nuovo incontro o da una nuova impresa si smorza. I fattori dell’ovvietà e dell’uniformità si impongono nella sfera del sentimento. La routine si avverte dappertutto. Fa capolino la nausea. Lo sguardo si fa più acuto ma il cuore nutre meno fiducia. Diventa sempre più evidente che le promesse non saranno mantenute, che quanto si riceve non pareggia gli sforzi profusi. E’ presente l’intensità e la forza delle esperienze vissute. Tutto questo prepara una crisi. Se prevalgono il disincanto e la disillusione l’uomo diventerà scettico e sprezzante, inizierà a giocare; si staccherà dalla famiglia; intraprenderà iniziative azzardate oppure azioni politiche: e tutto questo per uscire dalla monotonia e, probabilmente, con esito fallimentare. Oppure riaffermerà la vita che viene dalla serietà e dalla fedeltà, quella dell’uomo lucidamente consapevole della realtà.
C’è in questa interpretazione che Guadini dà della realtà adulta forse un eccessivo accento di quella dimensione dell’anima umana che Jung chiamerebbe Senex. Ma anche in Guardini c’è la ricerca, in questa nuova stagione della vita, di un nuovo equilibrio. Se la crisi viene superata positivamente c’è l'affermazione dell’uomo che lucidamente è consapevole della realtà, l’uomo che vede e accetta ciò che si chiama limite. Svolge il lavoro con la stessa correttezza di prima, nonostante tutti i fallimenti, perché è nel suo lavoro che sta il senso del dovere. Ricomincia sempre daccapo i suoi tentativi di dare ordine e di aiutare, perché è conscio che le azioni umane, in apparenza vane, danno origine a impulsi, che dispiegandosi autonomamente, conservano l’esistenza umana, peraltro così profondamente minacciata. “Questo atteggiamento esige molta disciplina e molta rinuncia: un coraggio che non ha tanto il carattere dell’audacia, quanto quello della risolutezza…Proprio perché non hanno più l’illusione del grande successo e delle brillanti vittorie, essi sono capaci di compiere opere che hanno valore e durano nel tempo”15. Riesce a cogliere il carattere dell’inusuale, senza permettere al lavoro e agli impegni gravosi di opacizzare il pensiero, e alle parole di far palpitare il cuore. Riconosce l’assoluto nelle trame delle realtà contingenti. E’ questo l’uomo superiore capace di dare garanzie e di compiere opere che avranno autentica durata, capace cioè di staccarsi dal successo effimero, capace di evitare di diventare un “fallito di successo”.
C’è però un altro limite. Secondo Guardini l’età adulta tende più di tutte a dimenticare la morte. In questa fase l’uomo è talmente occupato dalle esigenze immediate, è talmente sicuro della sua forza e della sua autonomia, da riuscire a rimuovere più facilmente la consapevolezza della morte. Il senso della fine si fa strada attraverso l’esperienza del limite, che è però trasformato nella risolutezza che rende la vita densa, seria e preziosa.   

La crisi di individuazione e l’impronta dello stile personale nel lavoro

 

Come abbiamo visto, si è passati storicamente e socialmente dall’essere adulti al diventare adulti. L’adultità è un valore, un compito da assolvere e una finalità da perseguire ma gli anni adulti sono diventati socialmente problematici  in tempi recenti. Anche l’adulto cambia, è costretto dall’esterno e dall’interno a cambiare, evolve, rinasce. E’ un valore ma qualcosa gli accade. Concessione eccessiva allo spirito del tempo? Non credo sia solo questo. E’ che nell’età adulta avviene una crisi altrettanto profonda anche se apparentemente meno evidente di quelle che avvengono in età precedenti. Il primo ad evidenziare in maniera significativa questa crisi ed anche per questo è considerato il fondatore dello studio dello sviluppo adulto è stato Jung. Egli si distacca dal suo maestro Freud anche e soprattutto su questo aspetto: lo sviluppo non si ferma al termine della giovinezza ma continua anche nell’età adulta. Anzi, proprio a partire dai quarantenni egli parla di una crisi di individuazione nella mezza età che accade ad uomini e donne giunte nel mezzo della loro vita, nel meriggio dell’esistenza. Nella fase di mezzo si nota una sorta di rigenerazione personale definita individuazione. Ogni episodio di ristrutturazione  della propria personalità costituisce una tappa dell'individuazione che si realizza uscendo dallo stato di indifferenziazione originaria in cui si trova il non adulto. Mentre il bambino sta nella condizione dell'indifferenziato dell'inconscio, l’adulto è impegnato nel processo di differenziazione ed affronta la possibilità e il rischio di una differenziazione dal destino collettivo, tra coercizione e liberazione. La maturità si dimostra nel momento in cui si ha il coraggio di sostenere in prima persona le proprie idee.
L’adulto affronta una fase della vita che, vista dall’esterno sembra garantire la stabilità e la sicurezza ma vista dall’interno mostra invece tensioni, lacerazioni e nuove forme di conflitto polare. Nell’Io individuale dell’adulto c’è l’archetipo del puer aeterneus16. Come accade per gli altri archetipi della concezione junghiana, essi sono origine, impronta indelebile, una realtà tra lo psichico e il somatico, che ha radici nell'istinto e quindi nella sfera organica, ma presenta una dimensione immaginifica e spirituale. L’archetipo è una categoria a priori della conoscenza  che ordina gli elementi psichici in immagini interiori di derivazione istintuale che appartengono alla specie umana in quanto inconscio collettivo. Rappresentazioni primordiali dell'esistenza umana, diventano patrimonio comune dell'umanità, veicolo universale di comunicazione. L’archetipo del puer rappresenta l’immagine prototipica dell’immaturità, la parte infantile dell'uomo che continua a vivere  nell'adulto come presenza creativa, come voce desiderante, come forza rigeneratrice; esso spinge all’inquietudine, al vagabondaggio, all’esplorazione e alla ricerca; è la componente eternamente giovanile di ogni psiche umana, eternamente girovaga ed eternamente piena di desiderio. Il Puer può continuare  a vivere nell’adulto non in quanto elemento frenante, disturbante e regressivo, perché alimentatore di esperienze ludiche e creative, ma in quanto simbolo delle possibilità date all’uomo adulto di rinascere e di vivere non una, ma più pubertà nel corso della vita.
Ma, a fianco di questa, c’è anche il Senex, emblema di tutto ciò che gli uomini definiscono responsabile, laborioso, stabile, come il tempo, il lavoro, l’ordine, i limiti, il sopravvivere, l’esistere. Nell’adulto queste due dimensioni coesistono fronteggiandosi, talvolta l’una prevale sull’altra ma l’una ha bisogno dell’altra. L’adultità è sede elettiva di questo conflitto eterno, e soltanto la sua equilibrazione è sintomo di maturità e indicatore del successo del processo di individuazione. L’età adulta si mostra tale attraverso il cambiamento, attraverso un processo volto a spezzare le opposizioni tra i contrari, né puer e né senex, allo scopo di costruire così uno stato di coscienza più ampio ed elevato. E allora invece della stabilità di colui che è cresciuto, anche l’adulto conosce una condizione di perenne cambiamento.
Così Jung lo descrive nel testo già citato dedicato agli stadi dell’esistenza. L’adultità è l’età del dubbio perché vede per le esigenze della vita, spezzarsi brutalmente i sogni dell’infanzia. L’adulto appartiene alla fase dualista in cui un secondo Io tende a togliere la direzione al primo Io dell'infanzia, e questo nella lotta tra la dimensione puer e quella senex.
“I grandi problemi della vita non sono mai risolti definitivamente. Se essi talvolta lo sembrano , è sempre a nostro danno”17, osserva Jung, indicando che l’adulto deve affrontare altre sfide in cui echeggiano quelle precedenti ma in cui c’è anche qualcosa di nuovo. E’ la crisi della mezza età che si prepara tra i trentacinque ei quarant’anni con una lenta modificazione del carattere e che porterà più avanti ad una profonda modificazione dell’anima umana. Nell’adulto si fa avanti la certezza che non è possibile vivere la sera della vita, la seconda metà della vita seguendo lo stesso programma del mattino, anzi, per Jung, quello che nella prima parte della vita ha avuto grande importanza ora sembra averne molto meno fino al punto che “la verità del mattino costituisce l’errore della sera”. L’uomo sente che le strategie che gli sono servite per affermarsi nella prima metà dell’esistenza non possono più essere applicate nella seconda metà. Nella piena giovinezza i compiti sono quelli naturali di guadagnare denaro senza tregua, conquistare ancora la propria vita, estenderla oltre ogni limite, sviluppo dell’individuo, consolidarsi e propagarsi nel mondo esterno e nella cura della prole. Il guadagnare denaro, la riuscita nella vita professionale, la premurosa educazione della prole, il lavoro, la famiglia sono la pura natura del mattino. Espansione della vita finalizzata all’utilità e all’attività. Ma, dopo aver costruito fuori, la professione, la carriera, la famiglia, i figli, la casa, una posizione, l’uomo nel senso del maschio ma anche la donna, avverte la necessità di costruire dentro. La crisi presenta il paradossale affermarsi di lati femminili nell’animo degli uomini e maschili nella donna. Quando si oltrepassa il mezzogiorno della vita, osserva Jung, anche i caratteri fisici mutano. “L’uomo spende il suo grande patrimonio di sostanza maschile e non gli resta che la piccola quantità di sostanza femminile, che utilizza ora. La donna, inversamente, fa entrare in attività, ora, la sua parte di mascolinità inutilizzata”. E’ a questo punto che, non a caso, si addensano le catastrofi coniugali e, osserva Jung, si avverte la mancanza di una vera  e propria scuola di vita che prepari il quarantenne ad affrontare questa critica stagione della vita.
Anche se è vero come ci ricorda Jung che “pochi sono gli artisti della vita”, che “l’arte di vivere è la più nobile e la più rara di tutte” e che ancora meno numerosi sono coloro che possono dire di aver vuotato “in bellezza tutto il contenuto della coppa”, è dato ad ognuno rispondere a questa ennesima sfida in maniera positiva. In questa tensione anche il ruolo del lavoro cambia, esso si approfondisce e si personalizza perché la crisi di individuazione è una forma di personalizzazione e di singolarizzazione. Ognuno cerca di diventare quello che è e in quello che fa cerca di portare il suo stile personale.
Certo, l’ambiente intercetta gli stadi dell’esistenza e questo vale anche per l’adulto e per la crisi di individuazione. La carriera personale si svolge sempre in relazione alle scadenze imposte dall’ambiente circostante, ma non unicamente in base a tali imposizioni. Ad esempio, per certi ruoli professionali piuttosto qualificati i contorni vitali permettono un’ascesa e una formazione continua fin quasi al limite dell’età pensionabile mentre in quelli meno qualificati si nota una stabilità e per certi versi una stagnazione per tutto il periodo dell’età adulta. Ma gli studiosi hanno parlato di un corso della vita adulta come un ciclo che per la sua lunghezza si articola in più momenti e nel quale il lavoro occupa un ruolo decisivo. Secondo D. Levinson18, l’età adulta non è e non ha una singola fase, come l'adolescenza, non ha un carattere unificatore, quanto piuttosto una sequenza di stadi di carattere evolutivo, una sequenza temporalizzata fatta di stabilità e cambiamento. Nella lunga età adulta, oggi più lunga di ieri, che è lunga quasi i cinquant’anni successivi all’adolescenza la personalità cambia ma questo cambiamento è legato anche alla storia professionale, ai ruoli familiari e matrimoniali. Levinson unisce la prospettiva biologica, per cui lo sviluppo è dato dal dispiegarsi di un programma interno, con la prospettiva sociologica che dà importanza ad eventi esterni; l’esteriore e l’interiore, il tempo sociale  e quello biologico, la psicologia e la sociologia, lo sviluppo inteso come un dispiegamento dall'interno e la socializzazione intesa come un modellamento dall'esterno vengono impiegati e ciò rende interessante la sua teoria per il nostro tema. Più carriere si succedono nella vita adulta: quella professionale, quella familiare e queste carriere viaggiano a velocità diverse per i diversi individui. Come vedremo anche nel capitolo dedicato al rapporto tra famiglia e lavoro la carriera matrimonio-famiglia e quella relativa alla professione viaggiano a velocità diverse. La prima, ad esempio prevede una serie di stadi socialmente costanti , come il corteggiamento, il matrimonio senza figli, la famiglia con i figli a casa, il nido vuoto, la condizione di nonni e oltre. Quella del lavoro è scandita invece dalla tabella di marcia della formazione, e dei vari livelli di avanzamento previsti  in una professione. 
Dall’analisi di Levinson risulta che la sequenza della vita adulta consiste in una serie alternata  di periodi di costruzione della struttura  e periodi di modificazione di essa. Anche quando una persona riesce a creare una struttura stabile la vita non è tranquilla. Il periodo di costruzione di una struttura dura sei o sette anni. I periodi di transizione durano circa cinque anni. Gran parte della nostra vita è costituita  da separazioni e nuovi inizi, uscite ed entrate, partenze e arrivi. Una transizione è un processo di cambiamento da una struttura ad un'altra e, come le stagioni, ognuna è necessaria.  
L'età adulta non è da considerarsi come statica, né come un flusso disordinato di eventi, bensì come una sequenza che si evolve in accordo con i propri peculiari principi di sviluppo. La prima età adulta  (dai17-20 fino ai 45) è l’era in cui “siamo maggiormente presi di mira dalle nostre stesse passioni e ambizioni all’interno, e dalle domande della famiglia, della comunità e della società all’esterno. In condizioni ragionevolmente favorevoli, tanto le ricompense quanto i costi della vita sono smisurati”. A questa segue la media età adulta (40-65 anni) nella quale pur con minori forze ed energie la vita è ancora energica e soddisfacente e porta uomini e donne che si trovano in questa fascia di età ad essere la generazione dominante nella società e quella maggiormente responsabile della formazione delle nuove generazioni che presto entreranno nell’età adulta. Più capaci di compassione, più riflessivi e giudiziosi, meno dominati dai conflitti interni e dalle domande esterne, più autenticamente amanti di sé e degli altri”, questi sono alcuni tratti di questa età. Ad essa segue la tarda età adulta (60-65 anni) che chiude il ciclo e apre alla vecchiaia. Il passaggio da un’età all’altra è punteggiato anche per Levinson come per tutti gli altri autori che abbiamo utilizzato da un particolare periodo di transizione e di cambiamento. Ad esempio, sulla soglia dei quarant’anni l’uomo si rende conto che non può più essere un giovane promettente; è ora di raggiungere gli obiettivi prestabiliti e di andare a occupare una posizione più autorevole nel mondo in cui è appena entrato”.
Nel relativo periodo di transizione tre appaiono a Levinson i compiti principali: rivalutare la propria vita, consapevole della propria mortalità, l’uomo vuole impiegare il tempo da vivere in maniera giudiziosa. Intorno ai 45 anni un individuo attraversa un momento di pausa e riflessione in cui si interroga su cosa sia stata la sua vita. Si scoprono i presagi della mortalità, si diventa genitori dei propri genitori, si perde parte dell'attrazione fisica e parte della giocosità e della fiducia nei propri sogni. Ci si chiede quali siano stati i talenti e se siano stati impiegati bene o sprecati. Il secondo compito è quello di integrare le grandi polarità: giovane/vecchio, distruzione/creazione, maschile/femminile, attaccamento/separazione. Giovane/vecchio: “nella parte centrale della vita l’uomo si sente giovane sotto molti aspetti ma ha anche la sensazione di essere vecchio…Restando troppo attaccato alla giovinezza dei suoi vent’anni, non troverà un posto suo nella media età adulta. Rinunciando del tutto alla gioventù, diventerà arido e rigido”. Distruzione/creazione:”nella media età adulta l’uomo può arrivare a sapere , meglio che in ogni altro periodo precedente della sua vita, che le potenti forze della distruttività e della creatività coesistono nell’animo umano e possono essere integrate in molti modi, benché mai interamente”. Alla fine dei quarant’anni l’uomo sa che si conosce il proprio segreto solo a prezzo della propria innocenza. Egli riflette sulla distruzione e si rende conto di aver compiuto gesti irrimediabilmente nocivi nei confronti di altri ma, allo stesso tempo, ha un forte desiderio di diventare più creativo e amorevole, di creare qualcosa che duri e che sia di giovamento anche alle future generazioni. Attaccamento/perdita: “deve integrare il proprio forte bisogno di attaccamento agli altri con l’antiteco ma altrettanto bisogno di separatezza”. Infine prima dei cinquant’anni si è impegnati a modificare la propria strutturale vitale.      Poi a cinquant’anni i nodi possono venire al pettine e la transizione successiva appare più agevole e priva di drammi.
Come insegna la psicoanalisi, forse più per l’uomo che per la donna, la crescita può essere intesa come separazione. Il compito di una transizione che promuova lo sviluppo  è di por fine a un'epoca della vita; accettare le perdite che questa fine comporta; rivedere e valutare il passato; decidere quali aspetti del passato conservare e quali rifiutare; e prendere in considerazione i desideri e le possibilità per il futuro. L'adulto è colui che è in grado di stabilire l'adeguatezza della propria struttura vitale nei rapporti con il mondo, è capace di valutarne la funzionalità e, se necessario, cambiarla.
L’età adulta appare come una stagione che vale la pena di vivere con intensità e grazia. L’adultità, pur con tutti i suoi sogni irrealizzati ma manche con la sua forza, appare come qualcosa di desiderabile anche per i giovani, qualcosa che valga la pena diventare. Un’adultità pienamente vissuta può confortare la ricerca della vocazione adolescenziale, così come può rassicurare i giovani nella loro ricerca di un posto nel mondo.
Essere in azione, lavorare può rappresentare per l’adulto la pienezza dell’esperienza di flusso (flow)19: il piacere e la concentrazione che si ricava da alti livelli di sfida e alti livelli di abilità. Un uomo concentrato nel suo lavoro per il quale sente una forte spinta interiore ritrova quella grazia concentrata senza sforzo che è tipica del lavoro infantile, del gioco-lavoro. L’esperienza del lasciarsi trascinare dalla corrente, quella sensazione olistica di agire con un totale coinvolgimento, che possiede le caratteristiche gratificanti e creative del gioco e del lavoro messi insieme, è un’esperienza possibile per l’adulto, un’esperienza alla portata della sua saggezza.  Nel lavoro allora la vita non è perduta ma realizzata, in ogni azione, in ogni gesto riecheggiano allora il bambino lavoratore che siamo stati e l’adolescente in cerca di una vocazione. Nell’attività lavorativa dell’adulto si può trasportare il proprio irripetibile stile, e ognuno ha il suo, piccolo o grande che sia. Allora il lavoro può possedere l’impronta dello stile personale, ovvero di quell’irriducibile contrassegno della propria individualità che consiste nel portare quello che si è in quello che si fa. E quello dello stile personale è forse una delle finalità fondamentali dell’educare con il lavoro.  

Tratto da R. Regni, Educare con il lavoro. La vita activa oltre il produttivismo e il consumismo, Armando, Roma, 2006, pp. 135-150

 

Fonte: http://www.lumsa.it/sites/default/files/Adultit%C3%A0%20e%20lavoro.doc

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